Copertina
Autore Cesare de Seta
Titolo Il mito dell'Italia
Sottotitoloe altri miti
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2005 , pag. 110, ill., cop.fle., dim. 150x230x12 mm , Isbn 978-88-7750-955-0
LettoreLuca Vita, 2005
Classe viaggi , storia moderna d'Italia , paesi: Italia , paesi: Cina , paesi: Egitto , paesi: Finlandia
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Indice


 VII Introduzione
  3  Capitolo primo   - Il mito dell'Italia
 55  Capitolo secondo - Cina
 77  Capitolo terzo   - Egitto
 99  Capitolo quarto  - Norvegia
103  Capitolo quinto  - Svezia
107  Capitolo sesto   - Finlandia


 

 

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Pagina VII

Introduzione



Il mito dell'Italia in età moderna nasce e prospera nella prima metà del Cinquecento, contemporaneamente al suo declino politico: quando le guerre per la conquista della penisola vedono sullo scenario internazionale le maggiori potenze del mondo - Francia e Spagna - contendersi a colpi di archibugio il territorio della penisola diviso in Stati e staterelli l'un contro l'altro armati e disponibili a tutto pur di prevalere sull'altro. Ma fu proprio attorno a quegli anni di lotte cruenti, con Francesco I e Carlo V in campo, che l'Italia tornò ad essere il centro dell'Europa, il baricentro della civiltà occidentale. Non che si fosse mai del tutto appannata la fortuna della civiltà italiana, ma è a partire del XVI secolo che essa assume nuove forme e si configura secondo modelli inediti o in gran parte rinnovati. Proprio nel momento delle sue massime sventure politiche l'Italia ed il suo genio viene assunto a metafora e epitome dell'intelligenza, della creatività scientifica, filosofica e artistica, ma anche del buon vivere e dell'eleganza. In queste pagine provo a raccontare questa storia con quel poco di esperienza che ho – in taluni ambiti - della cultura europea. Essa attinse a piene mani a quel cantiere senza confronti e a quel serto di tesori che è l'Italia alle soglie dell'età moderna.

[...]

Secondo quando si legge in un rapporto del World Tourism Organization (WTO), un ente dell'ONU, i flussi turistici mondiali nel 2004 sono in crescita del 5 per cento, mentre in Italia sono in declino gli arrivi dall'estero e l'Italia rischia di essere scalzata dal quarto posto – dopo Francia, Stati Uniti e Spagna – a vantaggio della Cina. Le ragioni di questo declino italiano sono molteplici e alcuni sotto gli occhi di tutti: sta di fatto che gli operatori del settore sono concordi nel denunciare il declassamento mondiale dell'Italia. Eppure le nostre potenzialità sono eccezionali ed hanno una tradizione che nessun paese al mondo può vantare. Agli esordi dell'età moderna il tourist veniva in Italia perché da questa culla della civiltà non poteva prescindere, perché a questa fonte sentiva l'imprescindibile necessità di abbeverarsi. Era l'Italia la meta predestinata del Grand Tour.

La crisi del turismo è solo un sintomo, ma un sintomo inquietante che denuncia l'oblio di questa miniera d'oro che è il nostro paese sul quale piomba come uno sparviero l'ennesimo condono edilizio e una normativa in palese contrasto con l'art. 9 della Costituzione. Si fa cassa, per distruggere ricchezza e bellezza. La crisi — a mio avviso - non è solo crisi di settore, è crisi della coscienza e dell'identità di noi stessi: di qui il rinvigorito interesse storiografico al Mito dell'Italia nell'Europa moderna. Il tema mi sembra politicamente – sottolineo politicamente – importante. Perché mai ci dovremmo indignare per l'ennesimo abuso edilizio sulle coste e sui monti, per l'ennesimo incendio, per l'ennesima ruberia del patrimonio storico-artistico, per l'ennesimo affronto ai centri storici se si è persa memoria di questa identità? Che ragione abbiamo di indignarci se nell'insegnamento nella scuola dell'obbligo si negano i principi elementari per capire la nostra civiltà artistica? Se nell'istruzione superiore il sapere si annacqua fino ridurre i nodi essenziali di questo sapere a vano Bignami?


Al primo saggio di cui ho appena detto seguono due racconti di viaggio che non hanno alcuna intenzione storiografica o specialistica, ma vogliono essere un lieve tentativo di risalire alle sorgenti di due grandi civiltà del nostro mondo: l'Egitto e la Cina con una breve «coda» dedicata ai paesi nordici. Paesi nei quali ho viaggiato in più di un'occasione negli ultimi decenni, civiltà che hanno lasciato un segno profondo nella mia esperienza e nei miei sentimenti: sull'abbrivio di talune corrispondenze scritte a caldo per il «Corriere della Sera» ho provato a mettere in ordine le mie idee su queste civiltà e a raccontarle con umilissimo animo di viandante del XXI secolo.

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Pagina 3

Capitolo primo
Il mito dell'Italia



Quella che si indica come civiltà del Rinascimento ha, nel senso etimologico, l'idea e il mito di una rinascita a una nuova vita, a una nuova arte, a un nuovo concetto dello Stato e a un nuovo sentimento delle relazioni umane, dei rapporti economici e sociali. Pertanto il legame ideale con il mondo antico greco-romano è solo un segmento di questo vasto movimento, che principia nella prima metà del XV secolo e si conclude con la fine del XVI secolo: senza entrare qui in una discussione nella quale la periodizzazione rimane un irrisolto problema storiografico, conviene subito dire che un concetto assolutamente simmetrico è quello della scoperta – e conseguentemente del viaggio come esperienza concreta – motivata eminentemente dal nuovo spirito laico inaugurato dal pionieristico Liber civitatis di Filippo Villani, dall' Italia illustrata di Flavio Biondo, dagli scritti di letterati quali Leonardo Bruni e di un pittore, architetto e scrittore come Leon Battista Alberti. Questa tradizione avrà il suo riscontro nell'opera di Erasmo da Rotterdam, modello esemplare di un nuovo tipo di intellettuale, assunto a principe degli umanisti d'Europa quando era ancora in vita. Costoro tra i primi si pongono alle spalle lo spirito millenaristico che domina tutto il mondo medievale, ma senza recidere le radici con questa tradizione religiosa.

D'altronde il pendolo continuità-discontinuità tra Medioevo e Rinascimento rimane gagliardamente vivo nella storiografa contemporanea. La rinnovata affermazione dell'uomo comporta un nuovo modo di vedere l'universo che lo circonda e, da questo punto di vista, il viaggio deve considerarsi la finestra aperta sul mondo dalla quale il viaggiatore impara a guardare con i suoi occhi e non attraverso il filtro della fede religiosa. Ed i suoi occhi sono, in effetti, rinati ad un nuovo modo di vedere e di percepire il reale: la rivoluzionaria scoperta della prospettiva, nei primi decenni del Quattrocento a Firenze, è la lente attraverso cui l'uomo nuovo del Rinascimento percepisce il mondo che lo circonda. Per tale motivo deliberatamente privilegerò una scansione cronologica che principia da questa scoperta per la ragione appena enunciata, anche se è ben noto che insigni studiosi di arte, letteratura e filosofia preferiscono partire dal 1350.

Il viaggiatore che nella seconda metà del secolo XV s'avvia a scoprire l'Italia è già parte di questo nuovo sapere: nato nelle città-Stato del Bel Paese che sono culla di una nuova civiltà e fonte di questo nuovo modo di vedere. Il «Paese reale» – che ho provato a definire in altra sede – nasce da queste coordinate essenziali: un sentimento laico che si avvale della prospettiva, intesa come sistema interpretativo e di misura del mondo sensibile. Darò prova concreta di questo dato di fatto volgendo la mia attenzione ad artisti e letterati che assunsero l'Italia come meta essenziale della loro formazione e riconobbero nella «dolce prospettiva» il nuovo sistema di rappresentazione, che si risolse, in effetti, in una nuova concezione del mondo.


Le guerre per la conquista dell'Italia

Ma prima d'intraprendere questa via è indispensabile dar conto del fatto che le vicende propriamente politiche, nel senso dell'organizzazione statuale dell'Europa moderna, ebbero – a partire dalla fine del Quattrocento e nei primi decenni del Cinquecento – una straordinaria rilevanza nell'assetto geo-politico della penisola ed un improvviso colpo d'accelerazione nel senso del cambiamento, dopo decenni di pacifica stasi. Un concorso di circostanze s'addensò sul cielo d'Italia, fece maturare una tempesta che sconvolse per alcuni decenni la vita sociale e civile delle maggiori entità politiche di cui era composta la penisola. «L'essenziale della svolta che si verificò – ha scritto Alberto Tenenti – consistette nel passaggio da un tipo di relazioni internazionali relativamente statico e compartimentato ad un tipo più dinamico ed interdipendente». Sono quei decenni che i manuali da sempre indicano come «le guerre d'Italia», ma Fernand Braudel notò icasticamente: «Noi le chiamiamo guerre d'Italia, e furono guerre per l'Italia, per la conquista e il dominio della penisola». Gli antichi equilibri si reggevano sul principio che nessuno Stato o città-Stato dovesse divenire troppo potente da minacciare la libertà e la sicurezza dell'altro. Questo instabile equilibrio entra in crisi per l'irrompere sulla scena della storia d'Italia delle grandi potenze europee: non che esse fossero state estranee alle vicende della penisola (per citare il caso più vistoso basti ricordare che gli Angioini e gli Aragonesi a Napoli erano espressione di Francia e Spagna), ma certamente il loro dominio aveva assunto un carattere «nazionale», legando intimamente queste dinastie alla storia della «nazione» napoletana. A partire dalla fine del Quattrocento una serie di circostanze, per molti versi fortuite, rimescola – con la violenza della guerra – questo sistema sostanzialmente statico e dà inizio ad un serrato confronto tra gli Stati italiani che, alleandosi ora con l'una ora con l'altra potenza straniera, guerreggiano tra loro senza che vi sia alcun sentimento di solidarietà per difendersi dalla sempre più invadente politica di potenza straniera. Anzi ritenendo di potersi avvalere dell'alleanza di imperiali, francesi e spagnoli a loro piacimento, e a danno dei loro più diretti avversari interni. Tuttavia la straordinaria abbondanza di avvenimenti fortuiti, di coincidenze, di morti improvvise, di ambizioni che covavano sotto la cenere non sono tali da allontanare il sospetto che un cumulo così imponente di disavventure politiche e di errori diplomatici sia qualcosa di diverso dalla fatalità.

La discesa di Carlo VIII in Italia nel 1494 è il segnale che il duello franco-spagnolo è ormai iniziato e la posta in gioco sono i deboli e divisi Stati italiani: il primo teatro di questo scontro fu il Regno di Napoli, il più grande della penisola ed il primo a capitolare in mano ad una potenza straniera. Fu la assai lenta campagna del sovrano francese la scintilla da cui si propagò un incendio di vaste proporzioni che investì il Ducato milanese, la Firenze medicea, lo Stato pontificio di papa Giulio II e la Repubblica di Venezia. Le guerre d'Italia si inasprirono con il lungo conflitto tra Francesco I e Carlo V. La tenzone si concluse quando l'imperatore d'Asburgo sconfisse e fece prigioniero il sovrano francese nella battaglia di Pavia del 1525; l'esito di tale disfatta fu la rinuncia da parte della Francia ai domini di Milano e di Napoli sancita dal trattato di Madrid. Ma il momento più altamente drammatico di questo trentennio di guerre fu il Sacco di Roma del 6 maggio 1527, quando il conestabile Carlo di Borbone, con i suoi dodicimila lanzichenecchi imperiali, violò il Caput mundi: l'effetto del sacco fu enorme nell'immaginario collettivo e scosse profondamente la coscienza civile del tempo come nessun altro episodio di questo pluridecennale conflitto che sancì il trionfo ispano-asburgico. Quando Carlo V nel 1530 fu incoronato a Bologna imperatore e re d'Italia — una solenne cerimonia che fu essa stessa «una formidabile dimostrazione di potere imperiale» – alla presenza di tutti i rappresentanti degli Stati italiani a suggellare una pace auspicata ma umiliante, gli antichi equilibri sono del tutto sconvolti. Il Regno di Napoli e il Ducato di Milano sono saldamente in mano dell'imperatore, così come Genova e Firenze hanno deposto le armi ai piedi del vincitore: rimase indenne la Serenissima che, abbandonato l'antico alleato francese, trattò un'alleanza con lo strapotere di Carlo V e l'intesa le consentì di difendersi dalla pressione ottomana. Dopo alterne vicende papa Clemente VII il 29 giugno del 1529 firmava con l'imperatore il trattato di Barcellona riconoscendo a Carlo la sovranità su Napoli e ricevendone in cambio il territorio da Ravenna a Modena.


La disfatta politica dell'Italia e la nascita del suo mito

Trent'anni cruciali per i destini della storia d'Italia che tuttavia ebbero un effetto allo stesso tempo traumatico e galvanizzante, perché mai come in questi decenni l'immagine dell'Italia ebbe un'eccezionale capacità di persuasione ed esercitò uno straordinario fascino nell'animo dei vincitori. Si può utilizzare a tal riguardo il celebre motto di Orazio che, a proposito dello stupore suscitato nei romani quando ebbero conquistato l'Acropoli di Atene, scrisse: «Graecia capta ferum victorem cepit» (Epistulae, II, 1, 156). Si può ben dire che sullo stesso terreno della disfatta politica prende corpo e matura quel mito dell'Italia che dilagherà con moto centripeto per ogni dove in Europa. Questo per un dominante motivo: l'Italia è attraversata non da dotti umanisti laici o chierici, da artisti o filosofi che fossero – come da un secolo e più già avveniva – ma da uomini d'arme, diplomatici, rappresentanti della nobiltà, da funzionari ed economi appartenenti al ceto piccolo e medio borghese, da magazzinieri, cocchieri, cuochi, stallieri appartenenti al popolo minuto. Essi erano parte integrante degli eserciti al seguito delle truppe, con le quali viaggiavano teatranti, prostitute, mercanti e faccendieri di ogni risma. Costoro erano ben lontani dall'avere coltivato le bonae litterae, vale a dire gli studia humanitatis – dominio esclusivo ed appannaggio di una assai ristretta comunità di «savants» che scriveva in latino — ma pure valicando le Alpi e attraversando l'Appennino, guerreggiando nella pianura padana, negli assedi alle porte di Milano o di Firenze, penetrando con la forza delle armi in Roma o a Napoli tutti costoro avevano scoperto il Bel Paese. Rientrando in patria contribuirono a costruire e a diffondere il mito dell'Italia parlando con i loro figli e le loro spose, bevendo e ubriacandosi con gli amici in osterie e taverne, schiamazzando con i compagni d'arme nelle caserme, narrando ai dignitari e ai notabili delle loro città di quel che avevano visto e di quel che avevano scoperto. Nel mondo moderno i miti hanno la forma di una piramide: la punta è quella costruita dai dotti e dagli artisti, dai filosofi e dagli scienziati ma la base è fatta da una massa eterogenea che per larga parte non sa scrivere e non sa leggere, ma parla e comunica con i propri simili, magari ingigantendo e condendo con fantasticherie immaginose quel che aveva visto: ed è questa oral history a costruire i miti collettivi che poi si consolidano e si formalizzano nelle culture dei loro rispettivi Paesi. A loro si deve, o anche a loro si deve, la nascita del mito dell'Italia nell'Europa dell'evo moderno che è anch'esso effetto di un rinascimento di un mito ben più antico e stratificato nei secoli. Un mito quello dell'Italia che prospera proprio nel momento in cui, con la scoperta delle Americhe e di un nuovo mondo, spuntano i primi germogli di nuovi miti. Purtroppo con la documentazione di cui si dispone non è agevole dar prova di quanto affermato, la storia si occupa solo di chi scrive e legge, disegna, dipinge e costruisce: lascia cioè di sé una traccia nel tempo e nello spazio che possiamo interpretare alla luce di durevoli testimonianze. Ma è la guerra stessa – con il suo effetto centripeto di dispersione – ad accelerare l'internazionalizzazione della cultura italiana, e uso questa parola nell'accezione più ampia possibile comprendendo in essa ogni prodotto dell'intelletto e delle arti: tenendo in ogni buon conto che «non si sbaglia dicendo che la condizione degli artefices restava modesta e priva di particolare dignità. Sono dei produttori di oggetti utili». Questi utensili formano un insieme in cui figura anche la Saliera cesellata da Benvenuto Cellini per il re di Francia, ma soprattutto le cassapanche dipinte e istoriate per i corredi, gli arredi domestici, gli oggetti d'uso comune per la casa, gli attrezzi adoperati dagli artigiani nelle botteghe cittadine e quelli in uso nelle campagne per i lavori agricoli. Gli strumenti di misurazione, il sapere connesso all'arte della tessitura o dell'editoria, le competenze di tecnici, capomastri, architetti, ingegneri militari formano una cultura materiale che conferisce all'Italia, nel corso di tutto il Quattrocento e per buona parte del Cinquecento, quel sottofondo che è solida base di quel primato che le nazioni europee riconoscono alle arti e alla manifatture italiane nel corso di due secoli.

L'Italia fin dal Medioevo era stata meta di pellegrini sulla rotta dei Mirabilia urbis Romae, essi avevano aperto la strada a mercanti e uomini di affari che avevano i loro magazzini nei porti di Genova e di Venezia, di Napoli e di Messina; i loro banchi erano aperti a Milano, a Firenze, a Bologna, a Siena e in molte altre delle cento città d'Italia. Sul finire del Quattrocento si va formando una geografia di luoghi privilegiati a seconda degli interessi che ciascuna viandante preferisce, siano essi commerciali e finanziari o più propriamente culturali.

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Pagina 37

Le fortune del «Cortegiano», del «Principe» e del trattato di architettura di Sebastiano Serlio

Molte opere letterarie, scientifiche e filosofiche, innumerevoli tele dipinte e architetture contribuirono a diffondere il nome dell'Italia nell'Europa del XVI secolo e a farne solo l'elenco si resterebbe senza fiato. Di una sola opera letteraria dirò brevemente: sia perché davvero costituisce un eccezionale caso, sia perché si dispone di un'indagine analitica molto accurata e persuasiva. Mi riferisco al Cortegiano di Baldassarre Castiglione: Peter Burke, in uno studio recente e provvidenziale ai nostri fini, ha ricostruito le fortune di quest'opera e della sua recezione, offrendocene allo stesso tempo un'interpretazione. Su questo ultimo aspetto, che esula da queste note, un contributo decisivo l'ha offerto Walter Barberis che ha curato una bella edizione del testo, alla cui introduzione direttamente rimando. Quello che qui ci interessa è la diffusione dell'opera nel corso del Cinquecento non solo in Italia, ma soprattutto all'estero. Il testo fu pubblicato nel 1528 a Venezia in prima edizione in-folio per i tipi di Aldo Manuzio, esito di un intenso lavoro che si era protratto per circa dodici anni dal 1513 al 1524: e se la diffusione in Italia fu rapidissima e larga, grazie anche alle edizioni più agevoli e di pratico formato che seguirono altrettanto lo fu all'estero. Come mostra un'appendice del saggio di Peter Burke: «nei novantadue anni tra il 1528 e il 1619, furono pubblicate circa 60 edizioni in lingue diverse dall'italiano». In ogni caso, molti stranieri lessero il Cortegiano «in originale, in un'epoca in cui il prestigio della cultura italiana rendeva la conoscenza della lingua fortemente auspicabile, se non assolutamente necessaria per chiunque avesse pretese di educazione raffinata». La lista dei lettori eminenti è davvero impressionante e fa invidia a qualunque scrittore di ogni tempo: il libro uscito – non dimentichiamolo – nell'anno che precede il Sacco di Roma, ebbe tra i suoi ammiratori Carlo V che definì l'autore «uno de los mejores caballeros del mundo»; certamente ne fu lettore Michel de Montaigne che espressamente lo cita negli Essais ed una delle traduzioni in francese si deve a Jacques Colin. Sir Thomas Hoby lo tradusse in inglese nel 1561, ma prima ancora di questa traduzione già Thomas Cromwell lo leggeva in italiano, come William Thomas autore di una celebre History of Italy e Henry Howard. Tra gli spagnoli spicca su tutti un lettore come Miguel de Cervantes che allude al testo nel Don Quijote e nella Galatea, non che Garcilaso de la Vega e un numero cospicuo di diplomatici e umanisti. In tedesco il volume apparve una prima volta nel 1565 e una seconda traduzione fu edita nel 1593 dedicata ad uno dei Fugger della ricca famiglia di banchieri di Augusta. «Al di fuori di Italia, Spagna, Francia il Cortegiano fu probabilmente più conosciuto nelle versioni latine, una conferma del fatto che a quel tempo il latino era la lingua della repubblica internazionale delle lettere, non solo tra gli studiosi ma tra gli uomini colti più in generale».

Naturalmente l'eccezionale fortuna del Cortegiano non fu isolata: buoni comprimari possono considerarsi Il Principe di Machiavelli, l' Orlando Furioso dell'Ariosto, la Storia d'Italia del Guicciardini, ma è certamente una selezione manchevole di nomi e titoli. La reputazione del segretario fiorentino fu assai controversa: il Gentillett nel Contre-Machiavel (1576) riassume precocemente tutti i motivi di ostilità verso di lui. Era considerato un ateo, una sorta di anti-dio, un Satana, un angelo delle tenebre sia dal cardinale Pole che dall'umanista Roger Asham. «Machiavelli – scrisse Mario Praz in un insuperato saggetto – fu la spavalda e candidamente dichiarata testa d'assalto di tutta una corrente umanistica che batteva in breccia quell'annoso e venerando edificio. Machiavelli ignorava Dio nel gioco politico, peggio, degradava la religione a strumento di governo, e poneva al centro delle sue considerazioni la natura dell'uomo. Dall'aula dello Stato toglieva il crocefisso e collocava in sua vece la figura vitruvrana dell'uomo a braccia e gambe distese inscritto in un quadrato e in un circolo». Ma l'identificazione del machiavellismo con l'ateismo e la pratica dell'assassinio come strumento di lotta politica ebbe anche i suoi autorevoli contradditori: primo fra questi Francis Bacon il quale in Advancement of Learning scrisse. «Noi dobbiamo esser grati a Machiavelli e agli scrittori come lui, che scrivono ciò che gli uomini fanno e non ciò che dovrebbero fare». Il filosofo ebbe i suoi seguaci che ne lessero con partecipazione, rispetto ed intelligenza le opere come essenziali alla formazione di uno stato moderno in cui la politica diviene un'area autonoma rispetto all'etica. Questi testi di valore letterario o storico-politico – il machiavellismo inaugurò un assai fecondo filone storiografico in Inghilterra – ebbero largo seguito nell'opera di Henry Wright (1616) e di molti altri autori nel corso del Seicento.

In un ambito disciplinare completamente diverso il trattato di architettura di Sebastiano Serlio, che ebbe la straordinaria occasione di divenire architetto del re di Francia. Tuttavia soltanto negli ultimi decenni la figura di questo geniale promotore dell'architettura manierista è uscita dall'ombra: da Anthony Blunt a André Chastel, i maggiori storici dell'arte in Francia hanno messo a fuoco la rilevanza del suo apporto all'architettura di questo Paese che s'avvalse largamente dell'opera di artisti italiani come Leonardo, Rosso Fiorentino, Primaticcio e lo stesso Vignola entrambi bolognesi, questi ultimi, come il nostro.

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Capitolo secondo
Cina



La muraglia e il paesaggio

La Polaroid è riuscita a conquistare qualche metro quadro dei seimila chilometri della Muraglia cinese e vi ha sistemato un suo piccolo box. La muraglia viene giudicata, dalla prospettiva di questa plurimillenaria civiltà, una delle sette meraviglie del mondo. Ciò nonostante essa non è inserita – né potrebbe esserlo – nell'elenco del mondo antico mediterraneo, ma è parte di un'altra lista di memorabilia. Questo elenco delle sette meraviglie del mondo è tale che il numero è destinato a rimanere elastico a mano a mano che ci si sposta da una civiltà all'altra. Comunque sgomenta che a partire dal VII secolo dopo Cristo sia stata costruita un'opera immane, con periodi in cui l'attività fu continua e frenetica ed altri durante i quali le soste si prolungarono anche per molti decenni. Per definire la muraglia cinese si è a corto di aggettivi, per raccontarne le vicende ci si dovrebbe calare nella dimensione, sconfinata, del tempo proprio di questa civiltà. Ne ho percorso poco più di qualche chilometro e non oso sfidare un tale colosso: nei tratti più prossimi a Pechino – la quale dista circa quaranta chilometri – essa appare in tutta la sua smagliante possanza: porte colossali, torri, percorsi, mura merlate. L'altezza media è di sette-otto metri, la larghezza di cinque metri. Ogni torre ha un piano terreno con un'aula coperta dove si riparavano e rifocillavano le vedette: due scale di collegamento disposte ai margini della torre conducono alla maschia terrazza di avvistamento illegiadrita da una splendida balaustra di pietra. Nella assai parziale escursione di questo tratto la parte «originale» più antica risale agli esordi della dinastia Ming, vale a dire al XIV secolo. Vi sono segmenti del tutto ricostruiti: lo denuncia l'aspetto fresco di cava della bella pietra nera (quasi una pietra lavica come il nostro piperno dell'area vesuviana) e la lucentezza dei mattoni che hanno ancora la fragranza della fornace. Unici pezzi standardizzati con i quali s'è costruita pezzo dopo pezzo la colossale opera. In effetti qui fanno fatica a distinguere tra ricostruzione e restauro: essendo la muraglia uguale a sé stessa – costruita nei secoli sempre allo stesso modo e con i medesimi materiali – è difficile servirsi del concetto di «originale» che contraddistingue, ed è alla base, della metodica stessa del moderno restauro. La politica di restauro, ma è improprio chiamarla tale, prevede in Cina la ricostruzione perpetua del manufatto, realizzata con uno spirito che non ha nulla a che vedere con le intenzioni (in qualche misura interpretative) con le quali operarono Viollet-le-Duc o Camillo Boito. Replicando pezzo dopo pezzo, sulla linea del «com'era e dov'era», pietra su pietra le mura sono rimaste identiche a se stesse nel corso dei secoli; la stessa metodica vale per i templi o i palazzi che sono costruiti sempre con gli stessi elementi (mattoni, travi di legno, coppi di ceramica per le coperture, guarnizioni decorate in pietra). Non è questa la sede per discuterne, ma la commissione scientifica cui sono parte dovrà continuare a riflettere sulle diverse prospettive con cui si guarda a questo ordine di argomenti anche in futuro.

La muraglia, dicevo, sgomenta perché s'inerpica per picchi di montagna quasi si trattasse di un sogno e di un segno, tracciato sulla corrugata superficie di questo sconfinato paese, dalla mano di un Demiurgo onnipotente e invisibile. Si vedono tratti che s'impennano quasi a quarantacinque gradi, per salire lungo i quali immagino sia indispensabile disporre di corde a cui aggrapparsi e che comunque richiedono un impegno più simile all'ascesa in montagna che al camminare. Il rapporto che istituisce con il paesaggio un tale monumento è tipico di questa civiltà che ha conosciuto la geomanzia, una antica scienza del tutto analoga all'agopuntura. La terra è un essere vivente con i suoi flussi e le sue tensioni, i suoi movimenti e i suoi fremiti. La geomanzia si poneva lo scopo di conoscere queste leggi in modo che l'architettura le rispettasse e fosse in sintonia con esse. La terra è attraversata dalle correnti dello yang e dello yin, e ciascuna ha una sua configurazione: tra picchi scoscesi e dolci colline, che simboleggiano sul terreno queste forze, bisogna trovare la giusta disposizione dell'architettura in modo che essa sia in sintonia con queste correnti, non le turbi e non si opponga ad esse. Di qui il carattere frammentario del paesaggio cinese incui, tra giardini, cascate, specchi d'acqua sorgono padiglioni, chioschi o torri: con una leggerezza che può apparire casuale, ma casuale non è.

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A Xi'an abbiamo percorso con un collega francese ed uno inglese una strada a cul-de-sac, per intero illuminata da una fila di lampadine pendenti al centro; ai lati una serie di banchi e di bottegucce dove si cucina e si frigge di tutto. Frittelle, carne bollita, trippa, zucchero filato, croccanti, focacce annegate nel miele, salsicce, anatre e polli laccati, verdure, interiora: i recipienti sono delle fogge più diverse. Padelle enormi, nelle quali scoppietta un olio giallastro, scolini di analoghe dimensioni dove vengono fatte saltare frittelle che perdono così parte del loro unto. Il puzzo di fritto sale alla gola. Accanto lunghe matasse di pasta vengono lavorate con una destrezza rituale: scene che mi hanno ricordato i famosi circhi ed i loro giocolieri che sono un vanto millenario della Cina. Una donna ha accanto, su di un banco di marmo, una spirale di pasta, perfettamente circolare. Come e chi abbia composto quel tumulo bianco non so. Era già lì quando la donna s'è messa all'opera. (Un tumulo — e non sembri una forzatura — simile a quelli che si vedono attorno a Maoling area di tumuli sotto i quali sono stati sepolti imperatori e famigli con meravigliosi corredi ed ogni altra comodità ultramondana.) La donna ha preso con una mano il bandolo che era alla base del tumulo e ha iniziato a disfare la matassa: la spirale si riduceva a vista d'occhio e con un gesto incrociato delle due mani, sull'altro lato del banco, si veniva a formare un monticello a forma di 8 o comunque come un nodo. La miracolosa tessitura sortiva da gesti che venivano compiuti come fossero i più semplici e naturali di questo mondo: la donna, infatti, parlava con i compagni di banco o con i curiosi che stavano a guardarla. Poco più avanti un giovane magrissimo che poteva contare sui venticinque anni o poco più era disposto sul fronte della sua bottega, volto verso la strada: manipolava un serpente di pasta bianchissima ed elastica come una gomma da masticare. L'avvolgeva, lo stirava, prendendone i capi li faceva ruotare in modo che formassero una treccia: con una docilità incredibile il serpente volava in aria, veniva fatto passare attorno al capo e disteso tra le braccia come fosse un attrezzo da ginnastica. Questo incredibile gioco era un vero numero da circo e sarebbe bastato sostituire la pasta con dei nastri colorati per avere una esibizione in piena regola. Il giovane in effetti, sia per la posizione che aveva assunto nei confronti della platea — intanto s'era accolta una piccola folla lì davanti — sia per l'intensità dello sguardo e la tensione che in esso si leggeva, si esibiva: sapeva, cioè, di fare una cosa di non comune destrezza, per riuscire nella quale è indispensabile avere qualche millennio di esercizio alle spalle. Il rapidissimo movimento delle braccia e delle mani era accompagnato da un sommesso ma determinato scuotersi di tutto il corpo, proprio come in una danza rituale. L'eleganza, la misura di ogni gesto erano propri della danza, ne avevano il ritmo e si percepiva la melodia implicita in quel corpo.

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Pagina 67

Le scoperte archeologiche in Cina come in Italia nel Settecento

Ho avuto la sensazione, girando per queste aree e comprensori, dove si scoprono ad ogni piè sospinto cose di una bellezza abbagliante – spesso vengono fuori in circostanze del tutto occasionali – che qualcosa di simile doveva essere l'Italia nel corso del Settecento quando, nel fondo del principe d'Elboeuf vennero alla luce i primi reperti di una città sepolta e iniziò quella sorta di gara alla ricerca del tesoro sommerso che portò alla scoperta di Ercolano.

[...]

Questo spaesamento e disorientamento è assai acuto quando ci si trova, quasi all'improvviso, dinanzi alle fosse 1/2/3. Tumulo funerario del primo imperatore della Cina Qui Shi Huang, nella regione settentrionale dello Shaanxi nel distretto di Lintong: il complesso si estende per oltre ventimila metri quadrati, il tumulo si leva per 75 metri ed è circondato da due cortine murarie a base quadrata; una dimensione del tutto insolita, ma proporzionata alla eccezionale rilevanza del defunto. La tomba è l'esito spettacolare della concezione dualistica dell'anima a cui era pervenuta la religione cinese al tempo di Qui: ogni essere possiede due anime, una immortale (hun) che dopo la morte torna in cielo, ed una mortale, con una sua corporeità (po) che rimane sulla terra, alla quale bisogna dare tutti quegli onori e quegli agi che essa merita a seconda del suo status sociale. A questa seconda anima corporea attende una burocrazia che si dispone con opere che preservino le spoglie del defunto. Qui Shi Huang e il suo successore Wu della dinastia Han — mi dice uno specialista che ci accompagna — dedicarono grandi energie per comunicare con gli Immortali, ai quali agognavano di associarsi dopo la loro morte terrena. Questa concezione ultraterrena è molto complessa e non esente da contraddizioni, ma si diffonderà a macchia d'olio dagli imperatori a tutte le classi sociali. Al di fuori della seconda cinta esterna di questo immenso mausoleo nel 1974 è stato rinvenuto casualmente – proprio come avvenne per la scoperta di Ercolano — un esercito in armi. In esso figurano venti carri da battaglia in legno, un migliaio di guerrieri, ufficiali, soldati, cavalieri e cavalli in terracotta di grandezza naturale, con i loro corredi di armi in bronzo che si contano in circa diecimila pezzi. Quantunque solo una parte di questa area è stata scavata e messa alla luce, considerata la sistemazione dell'armata nelle fosse, si calcola che ci siano almeno un centinaio di carri da battaglia, seicento cavalli e settemila guerrieri. L'area scavata è dunque un tassello di un ben più ampio territorio che con saggezza e prudenza (saggezza e prudenza che la nostra commissione di studio ha molto apprezzato) non è stata intaccata. Confesso che nella fossa 1 ho avuto un brivido nel sentirmi dire che la tomba risale al 260-210 avanti Cristo. È vero che sono stati i cinesi a inventare la bussola, la carta, i caratteri a stampa ma qui si è dinanzi a qualcosa d'impressionante. Neppure i faraoni hanno concepito un disegno di tale vastità e ambizione: i tesori che ci svelano necropoli e piramidi lungo il Nilo ci appaiono stupefacenti, ma hanno una loro dimensione remota, la fissità ambigua della statuaria egizia pregna di mistero; al contrario l'esercito che dispose a difesa della sua tomba Qui Shi Huang è di un realismo sconcertante, ogni guerriero, cavaliere o fante ha una sua identità fisiognomica: le parti del corpo sono eseguite a stampo con un'argilla grigia e ruvida, poi assemblata con le parti più fini del corpo. Le teste sono modellate con in rilievo ogni dettaglio, dai capelli, alle barbe, alla forma degli occhi, dagli abiti alla muscolatura in vista, all'armatura. Nasi, orecchi e giunti delle armature sono stampati a matrice e incollati. Tutte le parti in vista sono modellate con un'argilla di impasto più sottile e poi la statua viene cotta e dipinta. Nell'attiguo museo ci sono dei gruppi di guerrieri, arcieri, alabardieri a cui sono state rese le tinte; verde, blu, giallo, bianco matto e lucido, il marrone, il nero e varie tonalità di rosso. Francamente preferisco quelli in terracotta, ma se vedessi le metope del Partenone o la statuaria antica dipinta avrei certamente la stessa reazione. La monumentalità è accentuata dalla disposizione di queste file di armati i quali sono stati modellati per esser visti in gruppo e non a tutto tondo, secondo la sequenza che l'ignoto progettista aveva previsto. I tratti fisiognomici, molto marcati e distinti, rivelano l'identità multirazziale di questa civiltà.

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