Copertina
Autore Vinciane Despret
Titolo Quando il lupo vivrà con l'agnello
SottotitoloSguardo umano e comportamenti animali
Edizioneeleuthera, Milano, 2004, , pag. 232, cop.fle., dim. 125x189x14 mm , Isbn 978-88-85060-90-6
OriginaleQuand le loup habitera avec l'agneau [2002]
TraduttoreGrazia Regoli
LettoreElisabetta Cavalli, 2004
Classe etologia , ecologia
PrimaPagina


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Indice


   I. Trasformazioni                                    7
  II. Il primate all'origine della nostra storia       27
 III. Scimmie e selvaggi in un mondo anarchico         47
  IV. Come fidarsi delle profezie?                     63
   V. Successi e riuscite                              81
  VI. Le abitudini dei ricercatori e dei loro animali 105
 VII. Divenire donna                                  135
VIII. L'enigma del corvo                              169
  IX. Di che cosa parlano i pappagalli                193
   X. Far entrare gli animali in politica             205


      Bibliografia                                    223

 

 

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Pagina 7

I
TRASFORMAZIONI



A Jules- Vincent Lemaire

Nei sobborghi di Brasov, in Romania, ai margini della foresta, gli orsi hanno preso l'abitudine di mescolarsi alla popolazione locale durante le loro incursioni per rubacchiare intorno ai bidoni delle immondizie. A poco a poco, questo spettacolo è diventato una vera attrazione per gli abitanti e i turisti. I ricercatori del Carpathian Large Carnivore Project hanno organizzato un'inchiesta nella zona per chiedere agli abitanti se desideravano essere liberati da quei visitatori relativamente imprevedibili. Le risposte sono state in maggioranza negative. Nel corso degli ultimi tre o quattro anni, alcuni scienziati di quella stessa organizzazione si sono dedicati all'osservazione di questo nuovo tipo di coabitazione. Essi hanno notato che il numero di orsi e di persone presenti è in crescita; al contrario, le distanze, che ora oscillano mediamente fra i dieci e i due metri, vanno diminuendo: gli orsi fuggono sempre meno davanti agli uomini, mentre questi ultimi si avvicinano sempre di più per nutrirli, carezzarli o, quando diventano troppo invadenti, per scacciarli.

Secondo l'etologo Gilles Le Pape, i lupi recentemente comparsi nelle Alpi francesi non hanno tardato a modificare le loro abitudini: hanno perfettamente integrato il loro status di specie protetta e manifestano un'audacia che non gli si conosceva. In pieno giorno vanno ad assalire le pecore delle greggi che non sono protette dai cani, in barba ai pastori impotenti e sbalorditi.

In Arabia Saudita, i babbuini sono diventati i nuovi eroi di una versione rimaneggiata del racconto Riccioli d'oro e i tre orsi, tanto che il protagonista principale della storia questa volta è un primate non umano, e che sono gli umani a cadere vittime dell'ospite clandestino. Divenuti autentici esperti in effrazione, i babbuini entrano negli appartamenti, individuano il frigorifero e si danno alle gioie del mangiare a scrocco.

Come hanno potuto i pappagalli kea della Nuova Zelanda, localmente celebri per la loro intelligenza, curiosità, senso dello spettacolo e gusto per gli scherzi e le situazioni buffe, diventare, in qualche decennio, da un lato importuni terroristi urbani e dall'altro perversi assassini, sulla cui testa è infatti stata messa rapidamente una taglia? Prima che le cose si guastassero, i kea erano apprezzati per le loro innumerevoli birichinate: sono stati descritti come uccelli sempre intenti a giocare, a far finta di litigare, talvolta perfino con degli oggetti come se si trattasse di un compagno. Non solo, sono capaci di far rotolare le pietre, di fare capriole e ballare insieme saltellando uno di fronte all'altro. A partire da un certo momento, le descrizioni cambiano: i kea sono diventati dei veri flagelli. Sono forse le nostre rappresentazioni, o meglio quelle dei neozelandesi, a essersi trasformate in modo analogo, ma opposto, a quanto occorso a proposito delle scimmie, che apparivano brutte e ripugnanti nel secolo scorso mentre, nel corso di questi ultimi decenni, hanno acquisito una tale capacità di commuoverci? Ovviamente, prendere in considerazione questa possibilità non ha nulla di assurdo. Ma considerare solo questa confermerebbe piuttosto un nostro atteggiamento mentale nel confronti degli animali: noi cambiamo, loro cambiano soltanto attraverso le nostre rappresentazioni. A noi la storia movimentata, a loro la storia lunga e fredda dell'evoluzione; a noi la cultura e le sue molteplici trasformazioni, a loro gli invarianti e la stabilità dell'istinto: se cambiano, lo fanno in genere con la modalità della transizione da una specie all'altra, poiché la prima scompare a vantaggio della specie discendente. La storia dell'animale è sempre una storia passata.

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Pagina 11

Altri animali hanno conosciuto una trasformazione spettacolare. Pensiamo per esempio al delfino, animale un tempo declassato, che alla fine del XX secolo diventa quello che Dominique Lestel chiama un «animale da compagnia collettivo», cioè un animale che sviluppa una molteplicità di legami molto stretti con l'umano, ma che non appartiene in proprio a nessun uomo. Certi luoghi d'incontro, come la spiaggia di Monkeymia in Australia, attirano migliaia di visitatori che vengono a vedere e a toccare i delfini. Peraltro, in questi ultimi anni, sono stati creati dei dispositivi in cui vengono reclutati delfini terapeuti per curare bambini autistici. Grazie a questi, i delfini acquisiscono nuove proprietà o nuove competenze, in particolare quella di rendere gli umani ancora più perplessi riguardo alle definizioni di ciò che chiamiamo l'arte di guarire.

Stimolate da psicologi e primatologi, le scimmie si sono messe a parlare utilizzando sia tastiere con simboli o computer sia un linguaggio dei segni. Entrando nella sfera del linguaggio, esse hanno probabilmente violato un duplice patto: quello che avevamo stabilito fra noi e che specificava che eravamo gli unici esseri dotati di linguaggio; e forse anche, benché questo sia meno probabile, quello che, secondo una vecchia leggenda africana, avrebbero concluso fra loro: non mostriamo mai agli uomini che sappiamo parlare, ci metterebbero al lavoro. Possiamo supporre che l'avvenire darà ragione ai loro timori.

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Pagina 22

Una forma di quella che Romanes chiama «influenza negativa dell'addomesticamento» è ancora oggi chiaramente individuabile in certi dispositivi behavioristi. In quei dispositivi di condizionamento, il cane è in genere sottoposto a un addestramento nel corso del quale deve imparare a reagire ad alcuni stimoli: una luce che si accende, un suono di campana, un disegno. Quando percepisce lo stimolo che gli si chiede di riconoscere o di distinguere, deve manifestare la reazione che il suo sperimentatore gli ha insegnato. Nei casi migliori sarà ricompensato con un po' di cibo, nei peggiori sarà punito da una scarica elettrica o da qualunque altra esperienza sgradevole. A forza di ripetere lo stimolo, lo sperimentatore ottiene ciò che cercava: il cane è condizionato, e adesso si comporta come un giocattolo meccanico a molla. Anche qui, il termine «invenzione» nel senso di produzione di esistenza permette di descrivere ciò che è accaduto al cane in questo tipo di dispositivo. Osservando la maniera in cui il cane viene sottoposto a dei vincoli che non gli lasciano nessuna possibilità, i sociologi Arnold Arluke e Clinton Sanders hanno fatto propria la conclusione inappellabile di Vicki Hearne:

Nella misura in cui i behavioristi fanno di tutto per negare ogni possibilità di accettare la capacità del cane di credere, di avere delle intenzioni, di significare, ecc., nessuna corrente di intenzioni, di significati o di credenze avrà la minima possibilità di prodursi. Il cane può cercare di rispondere al behaviorista; ma il behaviorista non risponderà alla risposta del cane... il cane del behaviorista non soltanto sembrerà stupido: sarà stupido.

In questo dispositivo depauperante, che si distingue per la mancanza di garbo dei suoi ricercatori, potremmo tuttavia trovare, per contrasto, degli indizi che ci permettano di proporre un'altra versione, complementare, dei cambiamenti che sono individuabili dappertutto. Che cosa succede in questo dispositivo? Certo, esso ha mutilato il cane, non ha fatto altro che produrre un'esistenza senza intelligenza. Ma attenzione: questa lobotomia a distanza è possibile solamente perché i ricercatori si sono anch'essi mutilati. In questa storia, non è solo il cane a essere stupido. I ricercatori lo sono quanto lui, non perché lo fossero prima (cosa di cui evidentemente non abbiamo certezza), ma perché si sono sottoposti a un dispositivo che non ha dato loro alcuna possibilità di essere né interessati né interessanti. Ascoltando le conclusioni di Hearne - «il behaviorista non risponderà alla risposta del cane» - potremmo anche formulare diversamente la nostra affermazione: i behavioristi non hanno lasciato al cane alcuna possibilità di dar loro una possibilità. Neppure una volta essi hanno autorizzato il cane a modificarli, a sorprenderli, a insegnar loro qualcosa, e a cambiare il loro modo di rivolgersi a lui. Non consiste appunto in questo il successo della McClintock con i suoi topi femmina, quando accenna all'improbabile possibilità di osservare il comportamento natatorio in una vasca da bagno? E anche nell'apprendere che se volete lasciare una possibilità al topo di raccontare una storia diversa, dovete lasciargli la possibilità di insegnarvi a modificare le vostre domande.

Quindi, l'affennazione dei primatologi e degli etologi, «loro sono cambiati, ma siamo cambiati anche noi», se vogliamo essere fedeli al modo in cui talvolta essi stessi descrivono il loro lavoro, può assumere una diversa traduzione: «Gli animali sono cambiati anche perché ci hanno cambiato».

Certamente, i modi in cui i cambiamenti si collegano, si articolano, si complicano suscitano spesso molta perplessità. Mio figlio me lo ricorda continuamente, poiché dall'età di dodici anni ha preso l'abitudine, con notevole senso strategico, di concludere i nostri conflitti con un lapidario: «Mamma! Mi rimproveri di comportanni come un adolescente. Ma ti ascolti quando parli? Ti rivolgi a me come a un adolescente. Come vuoi che possa comportarmi diversamente?».

Nelle abitudini che mi legano a mio figlio, questa perplessità può tradurre gli effetti attivi di quello che potremmo chiamare, ma in un senso particolare, un «malinteso». Ovviamente, dal punto di vista di mio figlio, tutto questo è solo un malinteso nel senso classico: «non capisci proprio niente»; il che del resto, questa volta dal mio punto di vista, sembra confermare che ho proprio a che fare con un adolescente. Ma questo malinteso può anche tradursi in una proposizione che trasforma: rivolgendomi a mio figlio come all'adolescente che sta diventando, realizzo il suo divenire.

Questo fenomeno del malinteso, nel suo particolare significato di proposta di attuazione, nelle pratiche degli etologi, dei naturalisti e del primatologi prende forme inventive, sorprendenti, e soprattutto appassionanti. Se ponete al vostro animale una domanda interessante, avrete una possibilità che esso diventi interessante. Resta da sapere che cosa sia una domanda interessante. Di conseguenza si arriva all'altro motivo che, fra tutte le nostre pratiche, mi fa preferire quelle che si rivolgono all'animale. I buoni risultati di queste pratiche, leggibili nelle trasformazioni che traducono nuovi modi di essere più interessanti, dimostrano che esse ci hanno progressivamente insegnato una cosa molto importante: non sappiamo quali sono le domande giuste da rivolgere agli animali. E non possiamo sperare che essi rispondano in modo interessante alle nostre domande se noi stessi non siamo in grado di sapere quali siano, dal loro punto di vista, le domande pertinenti. La psicologia umana si è raramente presa questa briga nei confronti di coloro che interroga.

Questi risultati positivi non si sono prodotti immediatamente. Ci sono voluti del tempo, molto lavoro, avvenimenti, storie, mezzi tecnici, dispositivi, reti di collaborazione fra colleghi, articoli, ricercatori sensibili, donne e femministe, tecnici, contesti politici particolari e, soprattutto, animali che li coinvolgevano in storie e abitudini diverse. Certi elementi pesano più di altri. La mia stessa analisi mi induce spesso a privilegiarne alcuni, perché sono più leggibili, meno impliciti; perché mi hanno sorpresa o mi hanno spronata a lavorare; oppure semplicemente perché hanno interessato maggiormente i ricercatori. Il ruolo dell'animale stesso dipenderà dai vincoli che gli sono imposti: qualora gli sia attribuita la capacità di essere attivo, di resistere, di prendere posizione, di sorprendere, potrò anch'io dargli un ruolo importante nella spiegazione delle trasformazioni. Come dice Gilles Le Pape per definire la particolarità delle pratiche etologiche, la mia analisi sarà quella «dei legami che associano la plasticità degli etologi a quella del comportamento animale». Quando i vincoli sono troppo pesanti, quando non c'è molto da dire - o quando non c'è nessuno ad ascoltarlo, come per il cane del dispositivo - il suo ruolo sarà più limitato. Sapere come gli animali ci abbiano trasformato perché noi li traformassimo sarà allora impossibile, oppure, in una versione più ottimista, prematuro. La mia analisi si rivolgerà quindi agli attori e ai vincoli più visibili, per cercare inoltre di comprendere come l'animale abbia potuto rimanere così silenzioso in questi brani di storia.

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Pagina 64

Ho sentito raccontare, continua Thompson, che una scimmia che si trovava di fronte a una tavola su cui troneggiava un piatto di noci ebbe l'idea di tirare la tovaglia per trascinarle verso di sé. Le prese e se ne andò in un angolo del giardino dove le schiacciò con delle pietre.

Un orang-utan, che aveva rubato un'arancia mentre il suo guardiano fingeva di dormire per spiarlo, ne nascose le bucce per cancellare le tracce del suo misfatto. Del resto, prosegue Thompson, Cuvier ha raccontato che una scimmia tenuta legata aveva osservato attentamente come il suo guardiano la legasse, seguendo ogni minima operazione in modo da potersi slegare durante l'assenza di questi - cosa che fece appena ne ebbe l'occasioné.

Anche se la loro capacità di organizzarsi socialmente è resa difficile dall'assenza di linguaggio, spiega Thompson, le scimmie mostrano comunque competenze sorprendenti. Il tenente Shipp, al quale un branco di babbuini aveva rubato dei vestiti lasciati in una baracca dell'accampamento, decise di organizzare una spedizione per recuperarli. Accompagnato da venti uomini, si recò all'entrata della caverna dove i babbuini avevano sistemato i loro rifugi. Possiamo ritrovare questa disavventura annotata nelle memorie del tenente:

Essi osservavano i miei movimenti e, dopo aver distaccato un gruppo di una quindicina per sorvegliare l'entrata, i rimanenti mantenevano le loro posizioni. Potevamo vederli raccogliere grosse pietre e altri proiettili. Il vecchio babbuino dal dorso argenteo, che spesso era venuto all'accampamento, stava impartendo gli ordini come se fosse un generale. Ci lanciammo all'attacco, quando, a un suo grido, fecero rotolare su di noi delle enormi pietre, e ci costrinsero ad abbandonare.

Secondo Thompson questa avventura non ha nulla di sorprendente: sappiamo che quando saccheggiano i nostri giardini, i babbuini lo fanno protetti da alcuni membri del branco che vigilano per evitare brutte sorprese ai loro simili. Il meno che si possa dire è che hanno un acuto senso della cooperazione.

Avete notato quanto le scimmie messe in scena da Thompson (e di cui abbiamo già incontrato qualche esemplare in Darwin o in Kropotkin), quelle scimmie furbe giustiziere, manipolatrici di utensili, guerriere e strateghe, bugiarde impenitenti o regine dell'evasione, ci assomiglino? La scelta delle storie che Thompson ci racconta non è affatto casuale: in primo luogo queste scimmie presentano competenze che per molto tempo abbiamo pensato fossero esclusivamente nostre. Non soltanto la loro intelligenza è stupefacente e il loro senso della cooperazione edificante, ma sembrano anche condividere le nostre stesse emozioni. Gli esempi abbondano: le scimmie possono conoscere la gioia e, quando si fa loro il solletico, non è raro vederle ridere. Certo, è più difficile cogliere questa emozione perché la loro faccia è meno espressiva della nostra. In genere, l'orang-utan «esegue le sue capriole con la gravità di un filosofo». Come noi, conoscono lo stupore: davanti al suo riflesso in uno specchio, una scimmia si meraviglia e cerca la figura che vi è rappresentata?

Thompson non si limita a presentare alcune scimmie dotate di qualità simili alle nostre, ma va a cercare i momenti in cui questa somiglianza si amplifica. Racconta che quando gli astronomi Condamine e Bouger furono inviati sulle montagne del Perù per effettuarvi certe misurazioni, accolsero alcune grandi scimmie nel laboratorio mentre facevano le loro osservazioni. La cosa sorprendente fu vedere come le scimmie imitassero gli astronomi, collocando segnali e correndo dal pendolo al tavolo come se andassero a scrivere delle annotazioni. Talvolta le videro persino puntare il telescopio verso il cielo, come se anche loro osservassero le stelle e i pianeti. In questo non c'è nulla di sorprendente, commenta Thompson, le scimmie sono particolarmente dotate per l'imitazione. Gli scimpanzé si sforzano di parlare facendo delle smorfie e aprendo le labbra per pronunciare una specie di «hu-hu». Imitano le espressioni del viso degli umani. Ma questo particolare talento imitativo è stato spesso la causa della loro rovina: una scimmia si è tagliata la gola cercando di radersi come il suo padrone, un'altra, per prepararsi il tè, si è fatta un'infusione con una foglia di tabacco ed è morta. Del resto, gli Indiani approfittano di queste loro capacità per catturarle: sotto lo sguardo attento dei primati sistemano dei catini d'acqua e si lavano il viso. Poi sostituiscono l'acqua con la pania e se ne vanno. Le scimmie, imitandoli, si appiccicano gli occhi e, così accecate, diventano facili prede.

Indubbiamente, questi ultimi esempi potrebbero essere considerati piuttosto infelici in quella che appariva come una celebrazione della loro intelligenza. Thompson non se ne cura: questi stupidi incidenti sono necessari alla strategia che sta elaborando. Non si tratta di realizzare una semplice dimostrazione di competenze. Chiede alla scimmia qualcosa di più: le chiede certamente di aiutarlo a costruire la prossimità - «come ci assomiglia!» ma contribuendovi nel modo più attivo possibile, dimostrando la propria volontà di comportarsi da umano. Thompson non fa altro che basare la sua strategia su una competenza tutta scimmiesca: quella, appunto, di poter «scimmiottare» con tanta facilità. Che cosa fa una scimmia che imita se non creare l'effetto di uno specchio, in cui l'osservatore può riconoscersi? In questa storia che mette insieme l'autore e i suoi testimoni, tutto accade come se ciascuno, da entrambe le parti, si sforzasse di massimizzare le somiglianze.

Se c'è costruzione di somiglianza da parte di ciascuno degli attori coinvolti, e se queste storie non possono non ricordarci quelle di una scimmietta eroica che salvò il suo guardiano o di un vecchio babbuino che strappò il suo compagno a una muta di cani, i personaggi evocati non sono tuttavia chiamati a testimoniare della nostra origine. Queste scimmie non sono utilizzate per un ruolo di totem, di antenato, o per dimostrare una qualunque teoria dell'evoluzione. Siamo ancora nella prima metà del XIX secolo, e questa storia non è stata ancora raccontata, né è stata loro imposta o sottoposta. Eppure, in un certo senso, la questione della somiglianza appartiene già alla cultura in cui si muove Thompson. La scimmia non ha aspettato Darwin per essere avvicinata all'uomo.

La teoria della grande catena della vita postula una certa continuità, voluta da Dio, fra tutti i regni. In questa prospettiva, i pensatori cercano somiglianze tra gli esseri separati da intervalli problematici, come quello che interrompe, per esempio, la continuità tra il regno animale e quello vegetale. La scimmia poteva, in questo senso, essere un buon candidato per definire l'intervallo tra l'uomo e l'animale. L'anatomia comparata mostra numerose somiglianze, confermate dal comportamento delle scimmie adottate.

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Pagina 138

Nella sua prefazione al libro di Shirley Strum Un viaggio nel mondo dei babbuini, lo specialista dei gorilla George Schaller osserva, non senza ironia, che gli studiosi si sforzano spesso di insegnare agli animali ciò per cui sono meno dotati: «Se valutassero le prestazioni mentali dei babbuini con una serie di quesiti di tipo sociale piuttosto che con pezzetti di plastica di forma e colore differenti, dovrebbero incominciare a porsi delle domande sul proprio quoziente di intelligenza». Bernd Heinrich è arrivato a conclusioni simili nel suo lavoro con i corvi e le cornacchie. Da tutti coloro che le conoscono, le cornacchie sono considerate uccelli di un'intelligenza particolare: utilizzano le automobili come schiaccianoci, lanciano oggetti sugli intrusi, e molte altre cose ancora. Quando sono state inserite dagli sperimentatori nei dispositivi usualmente destinati a testare le facoltà di apprendimento, voglio dire quelli behavioristi, i risultati sono stati disastrosi per l'immagine della cornacchia: in questo tipo di dispositivo, non si comporta meglio di un piccione o di un topo, il comune animale di laboratorio. Ci si aspettava di meglio da lei. Tuttavia, conclude laconicamente Heinrich: «Dati i test, probabilmente non avrei fatto meglio neanch'io». Il dispositivo non ha dato alcuna possibilità alla cornacchia, se non quella di mostrare che davvero la cosa non la interessava. Quest'ultimo punto, evidentemente, non fa parte della conclusione dei ricercatori. Quando un pappagallo resiste strenuamente alla domanda che gli è rivolta di parlare capendo quel che dice, i ricercatori concludono che il pappagallo è stupido, e che «parla come un pappagallo». Invece, come vedremo, se questo stesso ricercatore, o un altro, chiede al pappagallo in quali condizioni possa essere interessato a parlare, e come il fatto di parlare possa contare per lui, allora «parlare come un pappagallo» può assumere un significato del tutto inedito.

Il cambiamento delle pratiche è dimostrato in maniera esemplare dai babbuini di Shirley Strum. Quest'ultima li interrogherà sulle cose in cui essi sono più competenti. Adottando il loro punto di vista, chiederà loro che cosa li interessa: la sua domanda non sarà più «che cos'è un babbuino?», oppure «che cosa vuol dire organizzare il sociale?», ma «quali sono le domande che il babbuino si pone e pone agli altri per organizzare il sociale?», «quali sono le questioni pertinenti per un babbuino?». Il garbo nel «fare conoscenza» si subordina allora a una ricerca di «pertinenza». La ricerca della Strum si muove fin dal principio secondo gli stessi criteri delle studiose sue contemporanee: stavolta si tratterà di identificare tutti gli individui del gruppo, e non solo i maschi, al contrario di quello che avevano fatto Washburn, di cui è allieva, e De Vore. Alle femmine e ai maschi sarà quindi dedicato lo stesso tempo. Il suo predecessore sul campo, che lei indica con lo pseudonimo di Matt Williams, un altro allievo di Washburn, la guida nelle prime osservazioni. I babbuini sono pericolosi, le insegna, è meglio osservarli da lontano, se è possibile senza uscire dal veicolo. La loro società è violenta e aggressiva, i conflitti fra maschi dominanti sono frequenti.

Shirley Strum comincia allora le sue osservazioni dalla camionetta, a una distanza prudente. Non succede niente. Nessun conflitto, nessuna aggressione. Inoltre, per interessarsi a ciascun individuo e alle meno visibili femmine, bisogna almeno uscire dalla camionetta; meglio ancora avvicinarsi. Ma come fare? Come Lane Goodall ha imparato da David Greybeard le regole del saper vivere presso gli scimpanzé, la Strum si è trovata un alleato per imparare il garbo nel «fare conoscenza». E seguendo questo alleato, imparando da lui, la Strum ha potuto rendere familiare ai babbuini la sua presenza, farsi accettare dal branco e soprattutto incominciare a capire che cosa conta per un babbuino. Mentre la primatologa è occupata dai suoi primi tentativi di approccio appare, ai margini del branco, un maschio forestiero: Ray. Anche lui, chiaramente, cerca di integrarsi. Ed è lui a insegnarle una competenza tipica dei primati: utilizzare un terzo per costruire una relazione. Ray sceglie quella che sarà la sua alleata nel branco: la femmina Naomi. A partire da questo momento, e nei giorni e nelle settimane che seguono, manifesta la sua volontà di avvicinarsi a Naomi, le manda regolarmente dei segnali che promettono una toelettatura sociale e riduce, con molta gradualità, la distanza alla quale lei lo tollera. Ray si astiene visibilmente da ogni gesto brusco o da ogni tentativo di approccio attraverso la forza. Alla lunga, finisce per conquistare la confidenza di Naomi e per diventare progressivamente, con il suo aiuto, un membro del branco.

Osservandolo, la Strum decide di fare esattamente quello che lui le ha insegnato, ovvero che è meglio allearsi con una femmina. Questa conclusione pragmatica implica dunque una ridefinizione del ruolo delle femmine: queste devono sostenere un ruolo fondamentale nell'organizzazione della società, nella gestione delle relazioni e, per un forestiero, nel fatto di essere o non essere accettato. La fiducia e la riuscita di Ray determinano quindi la scelta della primatologa: anche lei si rivolgerà a Naomi per chiederle aiuto, e questa volta, chiedendosi che cosa organizza la società presso i babbuini, non bisognerà dimenticare le femmine. Per la parte pratica di questo programma, Shirley Strum modellerà il suo comportamento su quello di Ray, stando attenta, come spiega, «a rispettare tutte le regole del garbo»: nessun gesto brusco, evitare di guardare negli occhi, abbassare lo sguardo quando incrocia quello di un babbuino... Gradualmente, i babbuini le accordano la loro fiducia.

La questione della giusta distanza si porrà di nuovo. È senz'altro necessario essere visibile, ma è richiesta anche una certa forma di invisibilità. La Strum resiste agli inviti al gioco degli adolescenti e al suo desiderio di toccare i piccoli. Con Ray è un po' diverso: «Noi siamo legati da un'esperienza comune. Ci siamo introdotti nella banda nello stesso tempo, a forza di pazienza e di infinite precauzioni». Ma un giorno Ray fa qualcosa di sorprendente. Dopo aver subìto una serie di fallimenti con altri, comincia a scambiarsi minacce con due maschi. Si precipita allora sulla Strum, non per minacciarla, ma per sollecitare il suo appoggio nei confronti degli altri due: batte una mano sul terreno guardandola, fissa i due maschi e poi volge di nuovo lo sguardo verso di lei. Nonostante la sua voglia di aiutarlo, la studiosa decide che non può farlo. Non può essere, conclude, né un'amica né una nemica.

Le ragioni sono, ancora una volta, legate al «fare bene conoscenza», ma soprattutto all'impegno. Oltre al fatto che dobbiamo sforzarci di non modificare troppo il loro comportamento, spiega, dobbiamo valutare che cosa implica il fatto di impegnarci nelle relazioni con i babbuini e conoscere gli obblighi e i rischi di questo impegno. Impegnarci a diventare amici vuol dire anche impegnarci a tollerare l'aggressione. E per noi umani questo non è proprio possibile. Non si tratta solo di un egoismo salutare, come lo chiama Kummer alle prese con lo stesso problema, ma della coscienza della piena misura dell'impegno, dei rischi che vi sono legati, compresi i rischi del tradimento. Tuttavia, se queste richieste d'intervento si fanno sempre più numerose, i babbuini possono anche insegnarle come, con loro, si può garbatamente, ma con grande semplicità, liberarsene: bisogna voltare le spalle. Tuttavia, la questione della negoziazione della giusta distanza e del tipo d'impegno richiesto dall'incontro di poste in gioco molto eterogenee, come abbiamo già ricordato, non sarà mai del tutto conclusa: essa si porrà in modo del tutto diverso quando i conflitti opporranno i babbuini agli umani.

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Pagina 212

Gli animali sono cambiati, e ci hanno dato anche l'occasione di trasformare le nostre pratiche. Ci offrono quindi la possibilità di trasformarci, di ridefinire l'estensione della nostra collettività e delle maniere di presentarci in essa. Entrando in dispositivi che concretizzano il fatto che certe cose possono contare, in dispositivi che compiono dei processi di estensione della socializzazione, di «far volere» o di lavoro sulle abitudini, gli animali ci propongono, in modalità relativamente inedite, di comporre con loro ciò che Bruno Latour chiama un «mondo comune». Essi ci invitano, con e attraverso il lavoro dei loro scienziati, a sperimentare nuovi modi di composizione. Gli esperimenti, i campi di ricerca, i dispositivi hanno assunto la forma di proposte di sperimentazioni sempre più collettive: ecco allora modi di fare scienza che non possiamo più tollerare, perché è cambiato ciò cui siamo sensibili; perché si è modificato ciò che autorizziamo a diventare sensibile. Ecco allora nuove esigenze che definiscono la riuscita del «fare conoscenza» quando si tratta di esseri che nulla può rendere inifferenti a ciò che noi sottoponiamo loro. Ma ecco anche, dicono gli scienziati, nuove abitudini di cui vi chiediamo di tenere conto per connettere il mondo comune, ecco gli animali per i quali esigiamo una revisione dello statuto, ecco quelli che proponiamo come «persone» e per i quali esigiamo un sovrappiù di attenzione. «Eccoci candidati ad altri ruoli e ad altre relazioni», fanno dire ai loro portavoce questi animali.

Gli animali hanno sempre fatto parte della nostra storia e delle nostre storie; ora si tratta di cercare appassionatamente come fare storia con loro. In un modo o nell'altro, essi hanno sempre contato nelle nostre storie; ora si tratta di esplorare insieme come possiamo contare nelle loro. Si tratta di imparare insieme a loro dei modi inediti di entrare in politica. Si tratta di apprendere, per loro, come trasformarli per presentarli bene.

È una zootecnica francese quella che chiamerò a testimone di uno dei modi in cui può costituirsi quest'estensione del noi, in quanto il suo lavoro mi sembra dare un buon risultato: quello di mobilitare insieme umani e animali facendo convergere i loro interessi. Questa testimonianza mi pare tanto più esemplare in quanto riguarda i più dimenticati tra gli animali: quelli che alleviamo per mangiarli.

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