Copertina
Autore Paul de Sury
Titolo La cattedra insanguinata
EdizioneMarsilio, Venezia, 2008, Le maschere , pag. 256, cop.fle., dim. 13,5x20,3x2 cm , Isbn 978-88-317-9576-0
LettoreAngela Razzini, 2008
Classe gialli
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Pagina 9

1.



Quando moriamo, la vita ci dovrebbe sfilare in un lampo davanti agli occhi come una pellicola accelerata. La mente di Alfredo Martini si bloccò invece su un particolare: mai avrebbe posseduto una Porsche. La dolorosa verità apparve e svanì nei pochi istanti necessari alla droga per viaggiare dal braccio al cervello. Non che fosse un appassionato di automobili sportive. La Porsche era semplicemente il traguardo della sua prudente attività di piccolo spacciatore. Qualche volta, in passato, si era atteggiato a grande narcotrafficante, per fare il bullo con i suoi quattro amici sfigati, ma in cuor suo aveva sempre saputo di non avere la cattiveria necessaria per un "salto di qualità" nel mondo del crimine.

A quasi trent'anni continuava a percepire ogni mese la paghetta dal padre. Lo spaccio era la redditizia attività secondaria che la integrava. Al liceo, a Foggia, era stato osannato come un piccolo genio. Nessuno (men che meno lui) aveva capito che gli difettava la costanza per applicarsi a qualsiasi tipo di studio. Però possedeva un talento naturale per i numeri. Li maneggiava con l'abilità e la disinvoltura di un orango alle prese con una banana. Là dove i suoi coetanei cozzavano contro una barriera di simboli incomprensibili, lui vedeva un sentiero agevole, con la direzione indicata a chiare lettere da una selva di cartelli. La capacità innata di padroneggiare il linguaggio matematico aveva suggerito l'iscrizione alla Libera Università Lombarda – la Lul, come tutti la chiamavano – di Milano. Parenti e maestri avevano fatto a gara a cantargli le lodi di quel tempio del sapere economico. Si era fatto convincere senza difficoltà. Non ne poteva più di Foggia ed era attratto dall'idea di ripararsi dietro la reputazione di difficoltà della Lul. Con una nutrita serie di menzogne era riuscito a giustificare il fatto di essersi iscritto al sesto anno fuoricorso, avendo sostenuto solo un terzo degli esami necessari a laurearsi. Non aveva ingannato nessuno. I genitori erano coscienti della pochezza dei suoi risultati accademici, ma preferivano mantenerlo a Milano piuttosto che vederlo tornare a Foggia, a combinare guai.

Trascorreva le sue giornate spostandosi da un bar all'altro: tarda mattinata alla Lul, metà pomeriggio a città Studi, sera al Ticinese. Per metà giornata si nutriva di cappuccini e brioche, per l'altra di aperitivi e salatini. Ogni tanto rimediava una poveretta disposta a pagare in natura la dose. Stava per compiere trent'anni, ma continuava a circondarsi di studenti di ventuno, ventidue di cui apprezzava la compagnia perché, dall'alto di una superiore esperienza, poteva deriderne gli entusiasmi e i progetti. Tirava a campare sognando il colpo grosso, ma non era così stupido da tentare di fregare il suo fornitore, un criminale vero, che gli avrebbe fatto spaccare le gambe senza pensarci due volte.

Una settimana prima gli si era presentata l'opportunità di arraffare diecimila euro senza rischi o fatica... e questa, nel sistema dei valori di Alfredo Martini, era un'occasione d'oro, da cogliere al volo senza porsi troppe domande. L'informazione imbarazzante di cui era entrato in possesso valeva molto di più. I diecimila erano solo il primo assaggio, per verificare l'interesse dell'interlocutore, che aveva abboccato immediatamente. In seguito avrebbe dovuto sborsare ben altre somme, fantasticava Martini. La Porsche stava per diventare una realtà. Senza contare che il ricatto gli forniva l'occasione di una vendetta sognata da tempo.

Purtroppo aveva sottovalutato la disperazione del ricattato.

"La Porsche, la Porsche" pensò, mentre crepava come il più disgraziato dei tossici in un giardino spelacchiato, in mezzo agli escrementi dei cani, a poche centinaia di metri di distanza dall'edificio principale della Lul.

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2.



«Stimati colleghi, mi rincresce di avervi dovuti convocare con un preavviso così breve, ma ho ritenuto che la situazione sia giunta a un livello di gravità tale da rendere necessari provvedimenti eccezionali. Per questo motivo ho deciso di indire un consiglio di facoltà straordinario.»

Pronunciate con enfasi insolita, le parole del rettore turbarono il clima di distratta apatia che tendeva a regnare nei consigli di facoltà della Lul.

In un'adunanza normale, il rettore leggeva l'ordine del giorno e, vigendo il principio del silenzio-assenso, ne dava per approvato ogni punto. Entro un'ora, un'ora e mezza tutto si concludeva, in un'atmosfera di annoiato torpore. Qualche giovane professore di fresca nomina, abituato agli scontri roventi e interminabili delle università di provincia, dove qualsiasi inezia diventa il pretesto per disseppellire faide secolari, si stupiva di quello stile asettico improntato all'efficientismo. Anche il pivellino più idealista o presuntuoso si rendeva però ben presto conto di appartenere a un mero organo di ratifica. La conseguente frustrazione era lenita dai vantaggi dell'appartenere a un corpo accademico di tanto prestigio. Il centinaio e mezzo di componenti del consiglio di facoltà erano chiamati a dare una semplice approvazione formale alle decisioni prese in altre sedi dalla decina di persone che realmente governavano l'università. Quindi, o non partecipavano affatto – di rado i presenti superavano la metà degli aventi diritto –, o presenziavano stoicamente, con la quieta rassegnazione di chi, incastrato dalla moglie, è costretto a partecipare al pranzo di nozze del cugino Arturo.

La grande aula a emiciclo, dove ogni giorno si assembravano tre, quattrocento studenti del primo anno, per apprendere i rudimenti dell'economia politica o aziendale, veniva riservata una volta al mese alle adunanze del consiglio di facoltà. Il rettore, affiancato dai prorettori e dal segretario, sedeva in cattedra. Gli altri membri del consiglio si disponevano nei lunghi banchi ricoperti di formica azzurra, tornando temporaneamente nei posti occupati qualche decennio prima. La sensazione di essere regrediti a studenti era rinforzata dai graffiti pazientemente incisi sui banchi e le panche. Austeri docenti sessantenni erano assisi a fianco di rampanti professori trentenni in mezzo a un tripudio di dichiarazioni di fede calcistica e di inni ai genitali femminili. Alcuni coglievano questa occasione per sbrigare la corrispondenza, mentre altri scambiavano quattro chiacchiere con colleghi che incontravano solo in quell'aula. Qualcuno leggeva addirittura il giornale senza prendersi la briga di fingere più di tanto. Pochi prestavano attenzione alle parole degli oratori.

«Negli ultimi giorni la stampa e le televisioni hanno dedicato uno spazio incredibile alla morte del povero studente Martini e rispolverato la vicenda del compianto professor Bertazzoni» proseguì il rettore. «Qui, se non facciamo qualcosa presto, diventeremo lo zimbello della comunità accademica internazionale, altro che università leader.»

Uno dei membri più influenti del consiglio, il prorettore professor Riccardo Castellani, prese la parola.

«Caro Luigi, credo che nessuno qua dentro possa darti torto. Abbiamo investito tempo e risorse per diventare quello che siamo oggi e rischiamo di perdere tutto per colpa di un paio di tragici incidenti. Io non guardo mai la televisione» aggiunse con civetteria accademica, «ma mi raccontano che ci fanno addirittura il verso in uno spettacolo di varietà. È sconfortante constatare come il magistero di figure del calibro di De Benedictis o di Ferri Tedeschi sia ormai oggetto di cachinni e fescennini per una platea sghignazzante.»

«Sì, ma la polizia cosa fa? A che punto sono le indagini?» domandò con aria preoccupata uno dei professori più giovani. Nella foga della discussione era intervenuto senza chiedere la parola. Se ne era subito pentito: non aveva la minima idea di cosa fossero un cachinno o un fescennino.

«Le indagini sul caso Bertazzoni sono giunte a un punto morto» rispose il rettore, «e temo che anche quelle sul caso Martini andranno per le lunghe.»

«Se il colpevole non viene scoperto al più presto i giornali... la nostra reputazione...» biascicò a voce bassa e in tono vergognoso il giovane professore, che interveniva per la prima volta dopo cinque anni.

«Concordo in pieno col giovane collega di cui in questo momento mi sfugge il nome» intervenne il professor Giuseppe Gerarca-Vitelli, non perdendo l'occasione di rimettere al suo posto il malcapitato che lo aveva preceduto.

Nel consiglio cominciò a diffondersi un certo nervosismo. Gerarca-Vitelli ne era il decano, il membro di maggiore anzianità, e riusciva sia a terrorizzare i colleghi più giovani, sia a sconcertare i più attempati. Una chioma folta e perfettamente acconciata di capelli argentei sovrastava un viso austero da senatore romano che si innestava su un ampio torace sorretto da due spalle poderose, consentendogli di fare da seduto una figura invidiabile che purtroppo franava non appena si alzava in piedi. Il tronco imponente era retto a fatica da due gambette gracili e stortignaccole. Più dell'aspetto fisico era però la disposizione d'animo del professor Gerarca-Vitelli a inquietare i colleghi. Nessuno riusciva a capire a quale fazione appartenesse. Forse, non lo sapeva nemmeno lui. A volte si schierava apertamente a sostegno del rettore, a volte lo contrastava con accanimento, mosso più da ansia di protagonismo che da un disegno preciso. Alcuni suoi interventi, pronunciati con fiero cipiglio da capopopolo, erano entrati nella storia del consiglio, più per la mimica e l'energia con cui erano stati espressi che per il contenuto.

«La situazione è molto grave e noto con disappunto che i colleghi sono preoccupati da problemi più di immagine che di sostanza. Per fortuna tra noi c'è ancora chi pensa che la nostra missione sia insegnare e produrre ricerca, non mendicare una popolarità fugace presso un pubblico frivolo. Non dimentichiamoci che siamo chiamati a reggere la fiaccola del sapere nel buio dell'ignoranza» concluse Gerarca-Vitelli, dardeggiando occhiate di bragia a destra e a manca per sfidare il temerario che avesse osato contraddirlo.

«Ringrazio íl collega Gerarca-Vitelli per questa utile puntualizzazione» dichiarò ironicamente il rettore, tentando di frenare la inevitabile litania di banalità che si profilava all'orizzonte. In un consesso universitario, se qualcuno tocca tasti come la sacralità dell'insegnamento e della ricerca, ben pochi si rifiutano di dargli corda. Sarebbe come rifiutarsi di brindare alla patria e al reggimento a un raduno di reduci.

Il rettore era assorto nei propri pensieri. La situazione era grave e l'annuncio che si accingeva a fare avrebbe prodotto un clamore considerevole. Il consiglio di facoltà della Lul, normalmente così docile, lo avrebbe digerito con difficoltà.

Con solennità anche maggiore del consueto, il rettore prese la parola. Si aggiustò gli occhiali e consultò gli appunti. Voleva essere certo di pronunciare la sua dichiarazione negli esatti termini con cui l'aveva predisposta la sera prima.

«Stimatissimi colleghi, la vostra preoccupazione per le sorti della nostra amata università è condivisa anche dal consiglio di amministrazione che, nella seduta della settimana scorsa, ha assunto una decisione eccezionale.»

Il preambolo fece serpeggiare qualche brivido di curiosità e preoccupazione.

«Come ho già detto, le autorità di polizia non sono riuscite a fare alcun progresso significativo verso la soluzione del caso Bertazzoni. Questa non vuole essere una critica all'operato delle forze dell'ordine, ma la constatazione di un dato di fatto. Purtroppo, come notavano i colleghi, è la reputazione del nostro ateneo a soffrirne. Il consiglio di amministrazione ha dibattuto a lungo sul problema. È prevalso l'orientamento di assumere un ruolo più attivo per uscire da questa imbarazzante situazione. Si è quindi deciso di coinvolgere un esperto in qualità di consulente. La scelta è caduta su un nostro collega che ha dimostrato una certa abilità in situazioni del genere.»

Si levò subito un brusio in cui le disapprovazioni si mischiavano alle manifestazioni di curiosità e alle esclamazioni di stupore. Alzando la voce, per farsi sentire, il rettore sganciò una seconda bomba, dagli effetti più dirompenti della prima.

«Vi comunico che, per l'anno accademico in corso, è stata assunta la decisione di affidare per supplenza l'insegnamento di Teoria degli investimenti, lasciato vacante dalla tragica scomparsa del nostro amato collega Mario Bertazzoni, al professor Michelangelo Zanframundo. Nel frattempo saranno avviate le procedure di assegnazione della cattedra per trasferimento. Va da sé che il professor Zanframundo ci ha già assicurato la sua disponibilità. Credo sia doveroso rivolgere un sentito ringraziamento al professor Mantegna che, con grande senso del dovere, ha svolto il corso nell'anno accademico passato.»

L'ultima parte del discorso fu soffocata dal frastuono.

«Inaudito...»

«Inammissibile...»

«Mi oppongo nel modo più assoluto...»

Quattro, cinque membri del consiglio, uno più indignato dell'altro, tentarono di dare voce contemporaneamente alla loro contrarietà.

«Colleghi, colleghi» riprese con difficoltà il rettore, esibendo un'insolita risolutezza, «essendo questa una decisione del consiglio di amministrazione, non ritengo legittimo aprire un dibattito in merito né, tantomeno, sottoporla a votazione. Dichiaro sciolta l'adunanza.»

Per troncare anche fisicamente il dibattito, ripose le carte nella sua borsa. Superato con sforzo lo sbarramento dei colleghi, imboccò l'uscita. Privati della possibilità di esternare in consiglio il loro sdegno, i professori si divisero in capannelli, come alla vigilia di una sedizione.

In uno di questi assembramenti il professor Giuseppe Mantegna stentava a trattenersi.

Assistente da sempre di Bertazzoni, Mantegna aveva coperto per supplenza l'insegnamento del maestro nell'anno seguito alla sua morte e non aveva mai fatto mistero di mirare a insediarsi definitivamente sulla cattedra di Teoria degli investimenti. Di colpo scopriva che il suo corso gli era appena stato tolto.

«Non lascerò mai che quello pseudostudioso insozzi la cattedra del mio maestro. È un insulto! Mi rivolgerò al Tar, mi rivolgerò al Cnr, parlerò direttamente con il ministro dell'Università!»

«Guarda che ti conviene stare calmo» gli consigliò un collega. «Se Fendente ha parlato così, è perché ha già convinto il consiglio di amministrazione a dare a Zanframundo la supplenza e magari, un domani, anche la cattedra. Non ci possiamo fare più niente.»

«Cosa?» ribatté Mantegna, sfogando con l'interlocutore una rabbia che non avrebbe mai avuto il coraggio di indirizzare al rettore. «Zanframundo ha fatto carriera scopiazzando il lavoro di Bertazzoni. Vuoi che gli rubi anche la cattedra?»

«Su, Mantegna, non prendertela» intervenne un altro. «Vedrai che, quando Zanframundo si renderà conto del benvenuto che troverà qui, se ne scapperà un'altra volta all'estero.»

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Zanframundo stava scortando Forti nei corridoi della Lul. Era l'ora del cambio di aula e gli studenti affollavano i corridoi, costringendo i due a farsi largo a fatica. Forti era chiaramente a disagio mentre Zanframundo, forse grazie alla sua mole, sembrava nuotare nella calca con facilità.

Incrociarono un professore anziano che Zanframundo salutò con un cenno del capo.

«Lei vuole saperne di più sui misteri dell'università? Bene, eccone uno pressoché insondabile: il chiarissimo professor Roberto Camerlenghi in una delle sue due visite annuali all'università.»

«Sta scherzando?»

«Mai stato più serio. Camerlenghi da quarant'anni è incaricato di tenere un corso nel primo semestre e uno nel secondo. Compare in aula alla prima lezione e poi sparisce. Credo che non sia mai stato a un consiglio di facoltà o di dipartimento. Una volta l'hanno incastrato e costretto a partecipare a una seduta di laurea. È entrata la sua segretaria per portargli un messaggio e lui le ha chiesto quale fosse il titolo della sua tesi. La conosceva così poco che l'ha scambiata per una studentessa fuoricorso. Per poco non la laureava seduta stante.»

«Ma è un docente di ruolo della Lul?»

«Certamente, titolare di cattedra da tempo immemorabile.»

«E nessuno gli dice niente?»

«Ogni tanto gli mandano una lettera di biasimo. Lui se ne strafrega, tanto sa bene di essere assolutamente inamovibile, come tutti i professori universitari del resto. Lei ha mai fatto caso all'elenco che i giornali pubblicano tutti gli anni dei principali contribuenti della città?»

«Sì, mi è capitato di vederlo.»

«Bene, lo guardi meglio. Noterà che, oltre ai soliti stilisti e calciatori, nelle prime dieci posizioni compaiono spesso professori di questa università. Sono presidenti di banche o grandi industrie o famosi professionisti impegnatissimi a fare consulenze milionarie a enti pubblici e privati, e dunque difficilmente trovano il tempo di insegnare.»

«Mi sembra immorale, oltreché illegale.»

«Lei giudica con troppa severità. Io, personalmente, me ne frego. Se vogliono usare l'università per arricchirsi o conquistare il potere sono fatti loro. Il problema è un altro: le due o tre volte che mettono piede qui, pretendono di ficcare il naso in questioni di cui non capiscono niente. Vent'anni fa, prima di andarmene, ho avuto una discussione di due ore con il professor Camerlenghi. Non so come, sicuramente a causa di un equivoco, era capitato in una commissione che doveva discutere del modo migliore di verificare la preparazione degli studenti. Avevo proposto qualche modifica al regolamento degli esami. Mi ha fatto una tirata di un'ora sulla necessità di rispettare l'autonomia del docente e la libertà di insegnamento. Doveva vederlo. Pontificava come un tribuno sui valori della didattica. Mi sono limitato a fargli vedere una petizione, firmata da duecento studenti: protestavano perché da più di quattro anni non lo vedevano a una commissione di esami.»

«Sono tutti così?»

«No, per fortuna qui sono una minoranza; nelle altre università non so. Però i pochi rimasti sono ancora molto potenti. Ecco, guardi quest'altro, senza farsi notare.»

Avevano appena incrociato un altro professore, mingherlino e assorto nei suoi pensieri.

«Quello era il chiarissimo professor Rino Balducci, la massima autorità italiana e forse mondiale sull'equilibrio dinamico di Shostakovich.»

«Scusi l'ignoranza, ma cos'è?»

«Non ne ho la più pallida idea. È una costruzione complicatissima che pretende di determinare le condizioni di equilibrio economico generale. Formalmente elegantissima, ma del tutto inutile. Un po' come quelle tovaglie di pizzo che le nostre nonne ricamavano per anni e anni in attesa delle nozze. Una volta sposate, le chiudevano in un baule che non usciva più dalla soffitta. Anni di lavoro per produrre qualcosa che non si usava per paura di sciuparlo. Qualcuno sostiene che nemmeno Shostakovich alla fine ci credesse più... ma non era disposto a buttare via quello che gli era costato una vita di sforzi. Fatto sta che Balducci sta studiando quell'equilibrio da trent'anni. Ci ha scritto sopra quattro monografie da trecento pagine ciascuna. Ha visto come correva? Passa dieci, dodici ore al giorno rintanato nel suo ufficio a studiare gli scritti di Shostakovich e degli altri cinque al mondo che si interessano ancora di lui. Una volta ogni sette o otto anni sforna un nuovo mattone di cui venderà cinquanta copie. Fuori dal suo ufficio si sente male. Viene a tutte le riunioni ma non dice mai niente. Anela solo a ritornare alle sue carte. Però è uno studioso vero.»

Zanframundo si interruppe perché era stato afferrato senza troppi complimenti alle spalle.

«Rosita» disse, senza neanche girarsi, «se mi metti ancora le zampe addosso ti faccio arrestare dal qui presente dottor Forti che, guarda caso, è un commissario di polizia.»

«Non sapevo che ci fossero poliziotti così belli» rispose Rosita, infilandosi un dito in bocca, come una bambina prima di attaccare a cantare allo Zecchino d'Oro.

Forti arrossì, anche perché Rosita, come suo costume, gli si era avvicinata a un palmo dal naso. Emanava un profumo così intenso che al poliziotto stavano venendo le lacrime agli occhi. Purtroppo aveva le spalle contro il muro e non poteva fare passi indietro.

«Dottor Forti, le presento la dottoressa Rosita Bonetti, la valorosa responsabile per i rapporti con le imprese di questa gloriosa università.»

Zanframundo sembrava divertito dall'evidente imbarazzo del poliziotto.

«Dai, Rosita, lascialo stare che se lo violenti qui in pubblico gli studenti ti denunceranno per atti osceni.»

Ignorando Zanframundo, Rosita si rivolse a Forti.

«Non ascolti questo vecchio porco che non riesce a tenere le mani lontane dal culo di una signora raffinata e per bene come me. Scommetto che è qui per le indagini. Venga subito nel mio ufficio e mi racconti tutto.»

«Scusatemi, io ho una riunione e vi devo lasciare» si accomiatò Zanframundo. E aggiunse: «Commissario, approfitti della disponibilità della dottoressa Bonetti, conosce la Lul e chi la frequenta meglio di chiunque altro. Se ha bisogno di me, mi trova più tardi alla Turrita.»

Un po' intimorito dall'idea di essere confinato in uno spazio ristretto con quella donna straripante, Forti si lasciò scortare per i corridoi dell'università come uno scolaretto accompagnato dal preside.

«Allora mi racconti tutto dell'ultimo morto» lo aggredì subito Rosita, non appena chiusa la porta dell'ufficio.

Forti si accomodò il più lontano possibile e le riferì in sintesi la versione ufficiale, diffusa la sera precedente.

«Non mi sta dicendo niente di più di quello che ho letto sul giornale» commentò Rosita, delusa dalla laconicità del poliziotto. «È stato lo stesso che ha ammazzato Bertazzoni?»

«Allo stato attuale non abbiamo elementi per confermare o smentire un collegamento fra i due omicidi. Mi dica piuttosto se lei si è fatta qualche idea.»

Rosita non si fece pregare.

«Certo. È stato sicuramente lo stesso assassino. Io so chi è stato e perché lo ha fatto.»

«Davvero? Allora me lo dica.»

«Sul chi non sono ancora sicura al cento per cento e quindi non voglio parlare per adesso, ma sul perché non ho dubbi. Si tratta di crimini a sfondo sessuale.»

«Sessuale?»

«Il sesso c'entra sempre, specialmente in un posto come questo dove la gente pensa tutto il giorno ad accoppiarsi.»

«Potrebbe essere un po' più precisa?»

«Non ha visto come mi guardavano gli studenti in corridoio? Qui tutti, dal rettore all'ultimo commesso, per non parlare degli studenti, non pensano ad altro che a mettermi orizzontale. Non è facile essere una donna così desiderabile» sussurrò, avvicinandosi e facendo la boccuccia.

Forti provò a misurare mentalmente i passi che lo separavano dalla porta. Troppi.

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Approfittando della camminata nei corridoi, Forti rivolse a Zanframundo una serie di domande personali.

«Mi perdoni professore, ma lei perché ha scelto la carriera accademica?»

«È una bella domanda. Ho vinto una borsa di studio al liceo e ho deciso di usarla per andarmene dalla Toscana. Così scelsi la Lul, non perché mi interessasse l'economia ma per la sua fama di severità e di organizzazione. All'inizio non mi piacevano né gli studi, né Milano. Mi è andata bene perché c'era Max con me.»

«E lui perché si trasferì a Milano?»

«Come può immaginare, la vita per un ragazzo omosessuale non era troppo facile a San Gimignano negli anni sessanta. La gente lo guardava male e cominciavano a dargli addosso. Per fortuna i genitori di Max erano ristoratori abbastanza benestanti. Decisero di mandarlo qua con me nella speranza che in una grande metropoli potesse avere una vita più tranquilla che in una piccola città di provincia. Da un lato sbagliavano, perché Max non ha mai avuto problemi ad accettare la propria omosessualità e stava benissimo anche a San Gimignano, ma dall'altro hanno forse avuto ragione, perché non si è più mosso da qui.»

«Sì, ma non mi ha ancora detto perché lei ha scelto di restare all'università.»

«Caspita, ma allora è un interrogatorio vero e proprio. Non è facile risponderle. All'inizio le materie che si studiavano qui non mi piacevano per niente, poi piano piano cominciarono ad appassionarmi. Ma non avrei mai pensato di fare il docente universitario fino a quando non ho iniziato a frequentare il corso di Baldassarri. Mi affascinò la sua capacità di svelare i misteri della finanza a un gruppo di ventenni. Decisi che volevo diventare come lui. Per una casualità si liberò una borsa di studio proprio nella settimana in cui mi laureai. Baldassarri, credo confondendomi con un altro, me la propose, ed eccomi qua.»

«Con una parentesi di vent'anni negli Stati Uniti.»

«Sì, e oggi sono contento di essere stato costretto all'esilio. A Duluth ho lavorato con indiani, cinesi, svedesi. Il mondo universitario italiano adesso mi sembra terribilmente provinciale. Non sono un esterofilo a tutti i costi, ma non mi piace che i professori della mia generazione non si siano mai confrontati con la concorrenza internazionale. Hanno fatto tutta la loro carriera girando fra Milano, Roma e Napoli, ingabbiati dal meccanismo dei concorsi nazionali. Non hanno mai insegnato fuori dal paese e quasi mai pubblicato su riviste estere. Quando ho cominciato, credo che fossimo non più di quattro o cinque a conoscere l'inglese in modo decente alla Lul. Si figuri che un giorno, parlando con Ermete Zincone, un vero luminare delle nostre materie, gli comunicai il mio desiderio di chiamare un professore americano a tenere un corso presso la Lul. Lui mi guardò sorpreso e mi disse: "Giovanotto, lei crede veramente che esista al mondo qualcuno in grado di insegnare queste cose meglio di noi?" Era ovviamente un plurale alquanto majestatis. Adesso le cose sono molto cambiate e, per fortuna, i giovani vanno a frequentare dottorati negli Stati Uniti, insegnano in Gran Bretagna e pubblicano in Francia. E questa università va anche sul mercato internazionale, a reclutare professori stranieri, fuori dai giri italiani.

«Adesso ho capito» troncò Forti. «Mi è stato molto utile per cui voglio darle anch'io qualcosa in cambio. Sono convinto che Alfredo Martini sia stato ucciso dalla stessa persona che un anno fa ha ammazzato il professor Bertazzoni. Forse Martini ha scoperto qualcosa sull'omicida e l'ha usato per ricattarlo. Però ne ha sottovalutato la pericolosità e quello ha deciso di eliminare il problema in modo definitivo.»

«Commissario, scusi se glielo chiedo, lei ha le prove di questo collegamento?»

«Per adesso solo una serie di vanterie di Martini e la sensazione che nel mondo della droga lo avrebbero ammazzato in modo diverso. Poco, per convincere il mio capo; ma ci sto lavorando.»

«Senta dottor Forti, io credo che lei abbia ragione, però c'è un punto che non mi convince della sua ipotesi.»

«Quale sarebbe?»

«Se Martini ricattava l'assassino di Bertazzoni, perché quello ha aspettato un anno per ammazzarlo? O lo faceva subito o continuava a pagare. È strano che sia passato così tanto tempo fra le due morti.»

«Forse alla fine Martini era diventato troppo avido e aveva cominciato a esagerare con le richieste. Oppure aveva iniziato a ricattarlo di recente.»

«Il ricattatore ci ha messo un anno a decidere di agire?»

«Sono d'accordo con lei: sembra difficile... a meno che Martini non fosse entrato in possesso di informazioni compromettenti solo negli ultimi tempi.»

«Interessante. Comunque adesso la devo lasciare perché ho una lezione che mi aspetta.»

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Una squadra di avvocati stava tentando di spiegare a Stefano Canino che dopo la sua recente acquisizione della Proprietà Immobiliari Settentrionali spa, società quotata alla borsa valori di Milano, doveva fare i conti con gli obblighi di informativa imposti dagli organi di controllo. Era stata convocata un'assemblea straordinaria per deliberare un aumento di capitale della società. Canino non sembrava propenso a illustrare in dettaglio agli azionisti il motivo dell'operazione e la destinazione dei fondi raccolti.

«Carissimo dottor Canino» ripeté per la ventesima volta in mezz'ora il raffinato, ma un po' blasé, avvocato Severino Tagliaferro, senior partner dello studio Tagliaferro, Brusamolino e Scoffone. «La sua posizione è chiarissima e si figuri se noi, che siamo i suoi consulenti legali, non condividiamo pienamente le sue preoccupazioni. I latini amavano dire che de minimis non curat praetor, però lei deve rendersene conto: la legge societaria stabilisce con chiarezza che gli azionisti di minoranza hanno diritto di ricevere un'informativa completa e tempestiva. Ci pare che la sua recente decisione di procedere a un aumento di capitale di duecento milioni di euro per acquisire cinque nuove partecipazioni debba essere preceduta da una dettagliata descrizione delle caratteristiche delle aziende da acquisire e delle finalità dell'operazione...»

Canino stava perdendo la pazienza. Pagava a quella gente parcelle esorbitanti perché risolvessero i problemi e sembrava che facessero di tutto per complicarli. Al contrario di quanto accadeva di solito, la riunione aveva luogo presso il loro studio, che occupava un'intera palazzina nel centro di Milano. Abituato alla spartana sobrietà del suo quartier generale, Canino era irritato dal lusso che lo circondava. Aveva raggiunto la sala riunioni principale camminando per decine di metri in corridoi affrescati o ricoperti di boiserie; e ora, seduto su una sedia d'epoca a un tavolo che era costato, a lui o a un altro cliente, una piccola fortuna, doveva sorbire il tono cardinalizio di un uomo alto più di due metri, magro come un chiodo, che aveva il vezzo di vestirsi in modo studiatamente trasandato, quasi a voler sottolineare l'inutilità, per lui, di dotarsi di status symbol.

Mentre l'avvocato parlava, Canino rifletteva sulla differenza fra le loro vite.

A lui, figlio di un postino di Osnago, nessuno aveva mai regalato niente. La madre era scappata con un prestigiatore quando aveva tre anni, lasciandolo solo con un padre inacidito. Aveva frequentato le scuole del paese e l'istituto di ragioneria più vicino per un paio d'anni. A sedici anni si era ritirato per lavorare come fattorino in una ditta di trasporti. Sfottuto e deriso per la statura dai compagni di scuola prima e dai colleghi di lavoro poi, aveva profuso in tutto quello che faceva uno spirito di rivalsa. Le donne non le aveva mai nemmeno prese in considerazione, nella convinzione che il fisico lo avrebbe destinato solo a umiliazioni. La sua vita era cambiata a diciannove anni, quando il padre, morendo, gli aveva lasciato in eredità il modesto villino in cui vivevano. Una serie di permute spericolate con un paio di gonzi del paese avevano segnato il suo ingresso sul mercato immobiliare locale, di cui era diventato in poco tempo il maggiore protagonista. Con una mossa ancora più azzardata, aveva mollato tutto per affrontare la conquista della metropoli e del mercato nazionale. Adesso valeva svariate centinaia di milioni di euro in immobili e in debiti contratti per acquistarli.

L'altro, l'avvocato Tagliaferro, di cui Canino sapeva tutto (faceva condurre accurate indagini su collaboratori e consulenti), era figlio di un ambasciatore, di famiglia ricca e aristocratica. Aveva frequentato un liceo vicino a Ginevra, l'università a Oxford e la Law School a Yale. A trent'anni era entrato come partner in uno degli studi legali più prestigiosi della città. Era sposato con un'esangue principessa siciliana che gli aveva generato a fatica un erede. Scappava ogni venerdì mattina nella sua tenuta in campagna, dove allevava barboncini da concorso. Lavorava dal lunedì al giovedì, al solo scopo di evitare i rimbrotti dell'anziano padre, che non perdeva occasione per rinfacciargli di non avere fatto la carriera militare o quella diplomatica, com'era nelle tradizioni di famiglia.

Canino confrontò i suoi piedini calzati di eleganti ma dozzinali mocassini neri lucidati a specchio e allineati con cura sotto il tavolo con i due piedoni ricoperti da un paio di scarponcini di camoscio fatti a mano ma vezzosamente sporchi che il suo dirimpettaio aveva appoggiato sul piano di cristallo del tavolo di fronte a lui. Decise di essere stufo. Gettando nel panico la dozzina di junior partner in grisaglia e cotone a righe azzurre, Canino picchiò i pugnetti sul tavolo e interruppe maleducatamente l'avvocato che insisteva nella paternale sulla necessità di una corretta informativa agli azionisti di minoranza.

«Senta, io dei diritti di questi quattro straccioni che hanno investito qualche migliaio di euro nella Proprietà Immobiliari Settentrionali me ne sbatto i coglioni. Prima che arrivassi io il titolo è rimasto fermo a quindici euro per quasi dieci anni. Da quando sono entrato io nella società, sborsando cinquecento milioni di euro, il valore del titolo è raddoppiato. Quindi, io li sto facendo arricchire e loro mi facciano la cortesia di non rompere le balle!»

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