Autore Donatella Di Cesare
Titolo Sulla vocazione politica della filosofia
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2018, Temi 281 , pag. 180, cop.fle., dim. 11,5x19,5x1,7 cm , Isbn 978-88-339-2953-8
LettoreCristina Lupo, 2019
Classe filosofia












 

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Indice


    Sulla vocazione politica della filosofia

 11 L'immanenza satura del globo
 16 Eraclito, la veglia e il comunismo originario
 22 Narcosi di luce. Sulla notte del capitale
 27 Chiamata alla pòlis
 30 Stupirsi - una passione inquieta

 35 Tra cieli e abissi
 42 L'atopia di Socrate
 49 Una morte politica
 60 Platone - quando la filosofia si esiliò nella città
 63 Quei migranti del pensiero

 70 «Che cos'è la filosofia?»
 76 Domande radicali
 81 Il fuori-luogo della metafisica
 87 Dissidio e critica
 93 I1 Novecento. Cesure e traumi

 97 Dopo Heidegger
103 Contro negoziatori e filosofi normativi
110 Ancilla democratiae. Un mesto rientro
115 Poetica della chiarezza
118 Potenti profezie del salto. Mare e Kierkegaard

130 L'estasi dell'esistenza
134 Per una exofllia
136 Filosofia del risveglio
143 Angeli sconfitti e stracciaioli
145 Poscritto anarchico


155 Note
167 Bibliografia
177 Indice dei nomi


 

 

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Pagina 11

L'immanenza satura del globo


Non c'è più un fuori. Appare così lo stadio ultimo della globalizzazione. Fino all'età moderna gli abitanti dell'astro terrestre meditavano sul cosmo ammirati, stupiti, sgomenti, volgendo gli occhi al cielo aperto. Quella volta smisurata era tuttavia un riparo, perché li proteggeva dall'esteriorità assoluta, a cui si sentivano esposti. Quando il pianeta fu però esplorato in lungo e in largo, circumnavigato, occupato, connesso, rappresentato, si squarciò il cielo cosmico e si aprì su di loro l'abisso. Lo sguardo si perse nel gelido fuori. La sfida era senza precedenti. L'invenzione del globo fu la storia di «un'alienazione spaziopolitica». L'esterno esercitava una forza magnetica, attraeva e respingeva insieme, era l'alterità da ridurre, dominare, controllare. Non mancarono, anche in quell'epoca, modelli filosofici. Alla sfera cosmico-speculativa, che a lungo aveva ispirato congetture, intuizioni, idee, subentrò la rivoluzione copernicana, grazie alla quale, mentre cadevano, uno dopo l'altro, anche i limiti estremi, con enfasi veniva proclamato l'antropocentrismo. L'astro errante seguì per secoli questo corso, tra complicati movimenti rotanti e oscillatori, senza poter sfuggire al suo destino.

All'alba del terzo millennio la globalizzazione può dirsi compiuta. E si rivela l'esito di un ininterrotto monologo condotto dalla forza propulsiva del mondo, forza maggiore, impossibile da arrestare, quasi fosse un principio di ragione. Ogni istanza critica si rivelerebbe allora superflua. Si analizza la situazione globale. Ma nulla di più. Per la prima volta la filosofia sembrerebbe messa sotto scacco dall'assioma dell'attualità.

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Pagina 14

Non è un mistero che i discorsi sulla «fine del mondo» vengano presi sul serio. A suggerirli sono anzitutto le scienze empiriche: climatologia, geofisica, oceanografia, biochimica, ecologia. La virata dell'umanità verso la catastrofe appare imminente. Il futuro prossimo, imprevedibile perché completamente altro, è consegnato agli scenari di una fiction o alle visioni messianiche. L'urlo prometeico minaccia di soffocare in un rantolo apocalittico. Almeno questo è chiaro: il mondo del tardocapitalismo è quello del collasso ecologico planetario. La fusione tra tecnoeconomia e biosfera è sotto gli occhi di tutti. Si chiama Antropocene l'età della terra in cui gli umani osservano, quasi impotenti, gli esiti devastanti e mortiferi di questa fusione asimmetrica, in cui la natura è stata erosa fino a scomparire. Ma la violenza dell'intromissione non sarebbe stata possibile senza l'implacabile e incandescente sovranità del capitale. Eppure, per l'immaginario contemporaneo, sembra più facile figurarsi la fine del mondo, piuttosto che rappresentarsi la fine del capitalismo. Sta qui l'enorme divario tra la conoscenza scientifica e l'impotenza politica. A tal punto il capitalismo ha occupato tutto l'orizzonte del pensabile. E lo ha fatto assorbendo ogni focolaio di resistenza immaginativa, cancellando ogni esteriorità anteriore o posteriore alla sua storia: prima ci sarebbe solo una buia arcaicità, dopo solo le tenebre dell'apocalisse.

Per l'umanità chiusa nell'immanenza satura, dentro quel globo senza finestre del capitalismo in stato avanzato, dove di umano resta ben poco, è pur sempre concepibile il transumanismo, l'ultimo sogno tecno-gnostico d'immortalità - che si attui con l'ibernazione criogenica o con un trasferimento dell'identità in un software - sogno vagheggiato da una specie che d'un tratto potrebbe scomparire. Che almeno sopravviva il postumano!

All'interno tutto sarebbe possibile - fuori, invece, nulla. Occorrerebbe allora chiedersi che cosa vuol dire «possibile» e che cosa «impossibile», se nel contesto tecno-scientifico, anche più avveniristico, non c'è limite che tenga, mentre in quello politico ogni prospettiva di mutamento è preclusa a priori dal «no» del mercato. Si può diventare immortali, ma non si può uscire dal capitalismo.

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Pagina 24

Si chiama 24/7 ed è il concetto di tempo piegato a produzione e consumo senza limiti, imposto dal sistema di mercato. Indica il non-stop di un'operatività incessante che si protrae ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Solo per un voluto, beffardo equivoco, si richiama alla settimana. A ben guardare il 24/7 rinnega ogni ritmo, cancella ogni scansione. Se il globo punta a essere sempre operativo, perché l'esistenza umana non dovrebbe adeguarsi?

Sarebbe sbagliato confondere il 24/7 con il desolato corso omogeneo della modernità, criticato da Lukács, Benjamin e altri, agli esordi del Novecento. Perché quel tempo era ancora scandito dall'agenda del progresso, legato all'illusione della crescita. Il 24/7 è il tempo senza divenire della post-storia, il giorno permanente, l'abbaglio ultimo del capitalismo. Tale esito era, in fondo, nei piani. Già con la prima illuminazione elettrica della città, che garantiva sicurezza e prospettava successo. L'alta intensità del bagliore che si diffonde sul supermarket dell'universo sembra adempiere quella promessa iniziale. La lotta contro l'oscurità, contro il buio, le ombre, i fantasmi, il mistero, l'ignoto, è il risultato parossistico di un Illuminismo pervicace e prolungato che ha dischiuso un nuovo cielo: quello del disastro. Sull'etimologia ha insistito Blanchot. È la volta senza astri, senza punti di orientamento. Perché le stelle, se anche ci fossero, non sarebbero più visibili, occultate dalla luce artificiale che non si spegne mai. Sotto quel cielo vuoto opera alacremente, senza sosta, il centro commerciale planetario che consente una varietà infinita di offerte.

Nessun ostacolo pare limitare il 24/7, se non la fragilità umana. Il capitalismo elimina ogni differenza: tra sacro e profano, meccanico e organico. Marx aveva compreso quel tentativo violento di abbattere le barriere naturali. Il 24/7 abolisce il confine tra luce e buio, giorno e notte, attività e riposo. Il sonno sembra allora un vero e proprio affronto all'operosità incessante imposta dal mercato, una resistenza indebita all'adeguamento richiesto dalle reti informatiche. Nel pianeta che ha accelerato il battito, proiettandosi esultante verso il non-stop, l'esistenza non dovrebbe essere un'eccezione.

Che cos'è dunque il sonno, questo «fuori» dal mondo, questo oscuro ritrarsi dell'esserci, in cui il mondo stesso si sottrae, scompare per un po', fa una pausa? No, la lunga notte del capitale, illuminata a giorno, non può permettere nessuna pausa, nessuna assenza. Tanto più che l'acosmia, quella provvisoria fuga del mondo, è insieme un'illecita fuga dal mondo, una pericolosa interruzione, un'anomia della singola esistenza che, anche solo dormendo, si oppone tacitamente alla legge del non-stop planetario.

Inammissibile accreditare il sonno come un bisogno naturale - vorrebbe dire accettare quell'enorme quantità di tempo perso, ore e ore smarrite in un vuoto irrecuperabile, da cui non si ricava alcun profitto. Se già tutti gli altri bisogni umani - fame, sete, impulso sessuale, per non parlare di amore e amicizia - sono stati rivisti e proposti in versioni mercificate, dovrà infine toccare anche al sonno, ultima frontiera della finitezza umana. Apertamente in contrasto con l'universo 24/7, il sonno appare tanto più scandaloso, non solo perché è traccia di un'epoca quasi premoderna, che avrebbe dovuto essere già superata, ma perché è il vincolo del corpo all'alternanza di luce e buio che scandiscono attività e riposo. È questa alternanza che il capitalismo vuole cancellare o, almeno, neutralizzare.

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Pagina 29

[...] Pensare estranea, rende stranieri.

Si percorre qui un cammino che, seguendo le due traiettorie dell'esistenza e della politica, è scandito da tre parole greche: atopia, ucronia, anarchia. Se, nel loro stretto legame, preservano l'alfa privativo, la tensione interna della filosofia, con la loro sinergia mettono allo scoperto l'impulso critico, lasciano trapelare la sua carica esplosiva promessa nell'oltre.

Così, toccando un tema su cui pesa un divieto, un verdetto quasi inappellabile, si richiama la filosofia alla sua vocazione politica. E la si intende in un rinvio reciproco, per cui la filosofia non solo è ispirata dalla pólis, ma aspira alla pólis. Vocazione politica, dunque, perché è nella pólis la sua inclinazione. Perciò la filosofia è sollecitata a un rientro, senza mai dimenticare di essere, tanto più nella città, fuori-luogo e contro-tempo. Dopo una lunga assenza, in cui ha perso voce, è convocata, invitata a trarre alla luce la comunità, a ridestarla. Non si dà comunità senza la veglia della filosofia.

[...]

Chi non filosofa, senza dubbio vive, ma sminuita è la sua esistenza, compromessa la sua partecipazione alla politica.

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Pagina 31

[...] Filosofare è anzitutto guardarsi intorno con stupore, interrogarsi con meraviglia. Più che un agire, è un patire. È dunque un páthos, una passione che afferra, a cui non è possibile sottrarsi. Chi filosofa è ineluttabilmente preso da stupore. E vale il reciproco: chi non prova stupore, non può filosofare.

[...]

Non sarebbe, però, questa, almeno in parte, la direzione seguita anche da chi indaga la natura? L'obiezione sembra più che motivata. Quel che Aristotele descrive è il procedere dello scienziato che, una volta ottenuta la conoscenza, si libera della meraviglia. Ma se così fosse, raggiunta quella meta, la filosofia terminerebbe. La pensa così chi vede nella filosofia tutt'al più un doppione della scienza. Un doppione, peraltro, sempre più inutile, man mano che la scienza compie progressi. Anche lo scienziato, in fondo, si stupisce di fronte a quell'ignoto in cui si imbatte. Ma non è la passione a prenderlo, quanto piuttosto ciò che richiama la sua curiosità, che ancora non conosce e che si appresta a guardare, sondare, esaminare. I greci chiamano theoría la contemplazione delle cose che accompagna lo stupore.

Filosofo e scienziato sembrerebbero avanzare di pari passo, accomunati dallo stupore e dalla teoria. Entrambi inciampano in qualcosa che li colpisce e che cercano quindi di osservare. Ma l'affinità si ferma qui. Ciò che è sorprendente rappresenta per lo scienziato un problema che può essere risolto con metodo, sulla base dei risultati già acquisiti, in vista di una più estesa conoscenza dell'oggetto, delle sue qualità, della sua sostanza.

Anche per il filosofo lo stupore è connesso alla theoría. Chi si sorprende aguzza la vista. È dunque lo stupore che rende le cose visibili. Il filosofo, che non fa certo a meno dei sensi, spalanca gli occhi. Ma la filosofia esige che gli occhi, una volta aperti, poi si chiudano, per consentire quel singolare vedere che è il pensare. Chi filosofa chiude gli occhi arretrando, per raccogliersi, per non farsi distrarre.

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Pagina 75

La filosofia non va e non viene, non finisce. Kant parla di «attitudine naturale» dell'essere umano. Tutti filosofano - magari inconsapevolmente. E già i bambini si interrogano sul futuro, sulla morte, sulla felicità. La filosofia non è una disciplina (sebbene sia stata in parte istituzionalizzata), non è un sapere specialistico, né un mestiere, né un'occupazione. Vaga qui e là, anche sulla pubblica piazza, in forme diverse, travestimenti molteplici; a volte sembra filosofia, e non lo è, altre volte non sembra, e invece lo è - i filosofi la riconoscono. Si potrebbe dire semplicemente che «filosofia è filosofare». Solo alcuni hanno il particolare destino di risvegliare gli altri alla filosofia che, però, lungi dall'essere privilegio di pochi, è un esistenziale. Nel senso che tocca al fondo l'esistenza. Scrive Heidegger: «il filosofare stesso è piuttosto un fondamentale modo d'essere dell'esserci. È la filosofia che, per lo più segretamente, fa sì che l'esserci divenga per la prima volta ciò che può essere». Così intimamente umana, così ineluttabilmente mortale, la filosofia si mantiene, come suggerisce il nome - questo amore per..., questa nostalgia di... - nell'orizzonte della finitezza. Gli dèi - si sa - non filosofano.




Domande radicali


Ciò che contraddistingue la filosofia è la domanda. Proprio perché non ha un oggetto, né un metodo né un fine determinati, è nell'interrogare il suo fuggevole e paradossale ubi consistam. Un interrogare che indica già sempre la linea di fuga oltre ogni possibile risposta.

Non ci sono fenomeni, leggi di natura, costumi sociali, che si sottraggano alla domanda inesorabile e ostinata della filosofia. Non c'è cosa che la eluda - neppure il nulla. «Perché esiste qualcosa e non piuttosto il nulla?». È questa, formulata da Leibniz, la domanda esemplare della filosofia. Ciò che per gli altri è ovvio, lampante, scontato, perde agli occhi del filosofo l'aura di solenne e certa gravità che lo metterebbe al riparo dalla domanda. Tutto è esposto all'interrogare; nulla può essere indiscutibilmente imposto, ma neppure presupposto.

Sta qui, peraltro, la differenza significativa rispetto alla scienza.

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Pagina 81

Il fuori-luogo della metafisica


Ogni disciplina ha un dominio dei cui confini è gelosa, nel quale regna sovrana. Questo vale anche per le discipline umanistiche, sebbene siano sempre più svilite, scalzate dalle scienze neurobiologiche, manipolate dalla simulazione cognitiva, ridotte al calcolo. E la filosofia?

La sua atopia, quel fuori-luogo che la abita, sin dall'inizio la consegna a un territorio paradossale, dove ogni velleità sovrana deve essere deposta. La filosofia non è situabile, né istituzionalizzabile. La condizione atopica è un ossimoro che rivela l'incondizionato della filosofia.

Questo territorio paradossale, fuori-luogo e non assegnabile, riceve un nome rispondente: metafisica. Si tratta, alla fin fine, di un non-nome per una scienza che non può essere localizzata, circoscritta, identificata, che si sottrae a ogni classificazione, forse, più che una scienza senza-nome, persino una non-scienza.

La storia è nota. Quando Andronico di Rodi, in quel I secolo preoccupato di salvare e promuovere ciò che restava della tradizione greca, tenta con la sua perizia filologica di mettere ordine nel corpus delle opere aristoteliche, si trova in grande difficoltà di fronte ai quattordici libri che costituiscono l'opera principale e vengono dopo quelli di fisica. Li chiama perciò tà metà tà phusiká, letteralmente «ciò che [al neutro plurale] fa seguito alla fisica». Ma la preposizione greca metà ha un doppio senso: significa sia dopo sia oltre. L'etichetta editoriale, fortuita e forse provvisoria, finisce per designare la filosofia proprio nel suo carattere atopico. Perciò secondo Kant, se è stato un incidente, non può essere ritenuto del tutto casuale. Come a dire che l'etichetta ha una sua motivazione. Dal canto suo Heidegger scorge all'origine del termine un fondamentale imbarazzo filosofico: quello di Andronico che, nella tripartizione ellenistica della filosofia in logica, fisica, etica, non riesce a trovare il luogo per lo studio degli enti, cioè la filosofia prima.

Il titolo racchiude in sé una questione di fondo destinata a far discutere per secoli: cioè se oltre il mondo fisico non si celi un mondo più vero di quello reale, ridotto all'apparenza. La questione non riguarda tanto il valore del «dopo», quanto quello dell'«oltre». Basta dare infatti un'occhiata a quei libri, per capire che ciò di cui parla la Metafisica, se viene dopo la fisica, o di altre discipline, nell'iter della conoscenza umana, viene tuttavia prima di diritto, perché riguarda l'essere stesso. Le controversie ruotano piuttosto intorno all'«oltre». Che cosa vorrà mai dire un mondo oltre il mondo? Un retromondo? Un mondo nascosto? Non sarà una terra di nessuno, un paese dei sogni, un regno tra le nuvole, frequentato da avventurieri, abitato da visionari?

La diffidenza è antica; sorge insieme alla filosofia. Perché metafisico è sin dall'inizio l'atteggiamento di chi non si accontenta di ciò che esiste, di chi pensa che il mondo fisico non sia tutto, ed è perciò spinto ad andare al di là. La filosofia scaturisce dall'insoddistazione per ciò che si offre immediatamente ai sensi, per il semplice dato. Sin dall'inizio la filosofia è, quindi, metafisica.

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Pagina 84

Il discredito che colpisce la metafisica investe anche la filosofia.

[...]

L'offensiva viene dai territori della «fisica», che vuole imporsi come unico ambito positivo dello scibile, e l'attacco si fa più duro man mano che le barriere vengono rinsaldate grazie ai progressi delle singole discipline e al successo del metodo sperimentale. All'al di là della verità si sostituisce la verità del di qua.

[...]

La fuga della filosofia dal «sogno metafisico», quasi inarrestabile dopo la morte di Hegel, si spiega con quel discredito, quella sistematica delegittimazione che, giunta all'apice nel secolo scorso, fa della metafisica un'inutile e oscura astrazione.

[...]

Diverso è l'atteggiamento di Heidegger che, nella sua critica alla metafisica, pur annunciandone a sua volta la fine, solleva la questione nel modo più radicale. Concepita come scienza degli enti, la metafisica ha perduto il rinvio all'essere, la fonte, la scaturigine, da cui ogni ente proviene. L'essere è stato ridotto a ente, per quanto magari ente sommo. L'oblio dell'essere è inscritto nella metafisica. Gli effetti, esistenziali e politici, sono devastanti. Perché ciascuno rischia di vivere disperso tra gli enti, preda di un sonno ontico. Questo vale tanto più nella modernità, dove la metafisica ha assunto il volto tetro e metallico della tecnica, quell'ingranaggio che non promette scampo. A ben guardare Heidegger lancia un allarme. E lo fa non solo attribuendo un'enorme importanza alla metafisica, ma indicando anche il punto decisivo nell'oltre del rinvio. È in fondo l'erosione dell'oltre che ha determinato l'oblio dell'essere.

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Pagina 87

Dissidio e critica


La domanda «che cos'è la filosofia?», oltre ad avere i limiti già ricordati, darebbe luogo a una grande varietà di risposte. È difficile che ciò avvenga per la fisica, la chimica, la medicina, ma in fondo anche per la storia. Nel regno del sapere ciascuna di queste materie ha un posto determinato, pur nel caso di possibili oscillazioni.

Se invece si chiedesse a una filosofa o a un filosofo di chiarire e spiegare che cos'è la filosofia, l'esito sarebbe incerto. Ciascuno fornirà la propria versione. Richiamarsi alle autorità riconosciute, da Platone a Husserl, non diminuirebbe l'incertezza. Anzi, non farebbe che aumentare la confusione. È una scienza? Alcuni dicono di sì, e aggiungono che sarebbe perfino una scienza esatta, mentre altri la considerano piuttosto una sintesi delle scienze, o forse, meglio, una disciplina ausiliaria. Sul fronte opposto si leverebbero le voci di chi nega recisamente: lungi dall'essere una scienza, la filosofia è affine all'arte, contigua alla letteratura. Per gli irriducibili, e non sono pochi, è intimamente connessa con la poesia.

Il diverbio esploderebbe anche sul metodo. Ai partigiani dell'esperienza replicherebbero gli amici dell'intuizione, ai logici gli ermeneutici. Senza poi toccare il nervo scoperto dello stile personale: il filosofo ha un tono neutro, perché parla di «fatti oggettivi», oppure ha un'impronta individuale, dato che il suo pensiero è inscindibile dalla vita? La discussione finirebbe per investire anche i contenuti. Neppure qui c'è intesa. La filosofia si occupa di leggi eterne e universali, oppure di proposizioni formali? È una «creazione di concetti», come sostengono Deleuze e Guattari, o invece li smaschera riconducendoli a un «mobile esercito di metafore», come suggeriva acutamente Nietzsche?

Proprio perché non esiste accordo neppure sui principi della disciplina, che non sono davvero «principi», così come, a ben guardare, non si tratta di una «disciplina», la contesa tra i filosofi, non arginata da un ambito delimitato, è dura, implacabile. Gli esponenti di scuole e indirizzi diversi non si riconoscono reciprocamente. Si può arrivare al completo rifiuto. Il che non vuol dire tacciare di falsità le tesi altrui, bensì escluderle addirittura dai confini della filosofia. Per un analitico americano è fuor di dubbio che un decostruzionista europeo potrebbe tutt'al più insegnare letteratura comparata. Se non mancano coloro che, spinti da intenti irenici, mirano a conciliare teorie lontane, superando dialetticamente gli opposti, forse anche con il fine non troppo recondito di integrarli nella propria teoria, numerosi sono, soprattutto negli ultimi decenni, gli atteggiamenti più rigidi. L'esclusione avviene già prima di ogni confronto. Ecco perché, oggi più che mai, non si deve dare per scontato il significato di «filosofia».

I dissidi interni si ripresentano all'esterno, solo amplificati ed esasperati in modo esponenziale. Bisogna ammetterlo: i rapporti dei filosofi con la comunità in cui vivono non sono buoni. Dai tempi del processo a Socrate la tensione non è mai venuta meno. Come potrebbe essere altrimenti? Non si capisce quale dovrebbe essere la loro utilità, il contributo offerto al bene comune. Alla fin fine si rinuncerebbe volentieri a quelle chiacchiere fumose, dove si afferma tutto e il contrario di tutto, a quei vaniloqui soporiferi e molesti che, nel migliore dei casi, lasciano a mani vuote e con un gran mal di testa. Meglio sarebbe, allora, leggere un buon romanzo. L'alternativa è l'intervento dello scienziato che, oltre a godere di prestigio e autorità, ha l'inconfutabile merito di risolvere, o collaborare a risolvere, un problema concreto, preciso, che nasce da un bisogno dell'umanità. Anche là dove si fosse dedicato a indagini apparentemente inutili, o andasse sondando temi oscuri, la sua vita, votata alla scienza, ne fa un eroe del progresso e lo circonda di un'aura di venerabilità.

Ben diversamente stanno le cose per la filosofia, che non può vantare nessun successo, né rivendicare scoperte. D'altronde non è previsto un premio Nobel. Henri Bergson, Bertrand Russell e Jean-Paul Sartre hanno ricevuto quello per la letteratura, rispettivamente nel 1927, nel 1950 e nel 1964; più di recente, nel 1998, Amartya Sen ha avuto il Nobel per l'economia. I risultati riconosciuti a Descartes o a Leibniz rientrano nella matematica, quelli conseguiti da Hume nella psicologia, e ancora quelli di Ernst Mach nella fisica. Non sono state le loro idee filosofiche a ottenere premi e riconoscimenti.

Il punto è che i filosofi non sono chiamati nella comunità a risolvere i problemi - se non per un malinteso. Infatti non sanno indicare una soluzione e, anzi, sono loro a sollevare domande, una dopo l'altra, a porre problemi, anche li dove non sembrerebbero essercene agli occhi degli altri. Si potrebbe immaginare un ruolo più sgradevole e ingrato? Chi filosofa tenta forse di ostentare una certa indifferenza verso il giudizio della comunità. Ma si deve concedere: colpito da più fronti, all'interno e all'esterno, potrebbe finire per esasperarsi. La sua estraneità al mondo si acuisce; già marginale, si autoemargina. E così vive nascosto, per preservare non tanto la libertà, quanto la radicalità del suo pensiero. Dal villaggio di Voorburg, dove Spinoza riuscì a concentrarsi sull' Etica, alle fumose stanze londinesi, dove Marx scrisse il Capitale, dal rifugio di Todtnauberg, dove Heidegger terminò Essere e tempo, allo chalet sul fiordo norvegese, dove Wittgenstein trovò un po' di tranquillità, i grandi capolavori della filosofia sono venuti alla luce nella solitudine, lontano dall' agorá, ma in un latente e strenuo dissidio.

Più volte, nel passato, la tensione dissimulata si è infine conclusa in una persecuzione aperta. Come dimenticare le fiamme in cui Giordano Bruno è stato arso vivo a Campo de' Fiori il 17 febbraio 1600? Di nuovo una scena drammatica e luttuosa che, richiamando la morte di Socrate, ripropone in epoca moderna, persino in forma più crudele e spietata, l'attrito insuperabile tra il filosofo e la comunità. È vero che non pochi scienziati, a causa delle loro teorie, troppo avanzate per i tempi, sono entrati in conflitto con il proprio mondo e hanno finito per essere vittime di soprusi e vessazioni. Emblematico è il caso di Galilei, che viene sempre citato accanto a quello di Bruno. Gli esiti diversi, da un canto l'abiura, dall'altro il rogo, attestano - come ha osservato Jaspers - due tipi di verità. Galilei non ha dovuto mettere a repentaglio la propria vita per una verità scientifica, universalmente valida, fatta di rigore ed esattezza, che si sarebbe affermata anche senza il suo personale coinvolgimento. Al contrario, per la verità filosofica, assoluta nella sua unicità, Bruno ha dovuto accettare la morte. Se inoltre si considera attentamente la vicenda di Galilei, emerge con chiarezza che a costituire la pietra dello scandalo non fu la sua teoria eliocentrica, che era anzi libero di sostenere pubblicamente, se solo l'avesse inserita, come chiedevano i gesuiti, entro il tradizionale contesto teologico-filosofico. Non è un caso che l'eliocentrismo avesse trovato adepti già secoli prima persino nei ranghi ecclesiastici. Quel che aveva attirato su Galilei lo sdegno dei persecutori non erano le sue teorie scientifiche, bensì le concezioni filosofiche in cui erano inquadrate. Tutto ciò è oggi ancor più evidente. Le teorie scientifiche si impongono autonomamente. Se anche dovessero incorrere nella censura di un paese poco tollerante, sarebbero ammesse altrove, riconosciute, acclamate. Lo scienziato può essere dissidente - ma non per motivi scientifici, bensì politici, religiosi, filosofici. Il dissidio tra lo scienziato e la comunità è occasionale e, in definitiva, solo apparente.

Al contrario, il dissidio tra il filosofo e la comunità è radicale e irrevocabile. La filosofia non ha mai perduto, nonostante tutto, la sua dirompenza originaria, il suo potenziale critico. La resistenza che oppone alla realtà scaturisce dalla sua stessa atopia che rende ogni arché, ogni principio, fondamentalmente an-archico. Dalla forma di vita ai concetti scientifici, dai modi di agire alle abitudini diffuse: nulla si sottrae al suo sguardo vigile, che passa al vaglio non solo la tradizione, ma anche ciò che è divenuto talmente ovvio, da sembrare naturale, immutabile, eterno. Nella sfera dell'esistenza, come in quella della politica, la filosofia punta l'indice contro l'ovvietà.

Certo, anche la scienza, con le sue invenzioni e le sue ricadute tecniche, ha scosso vecchie consuetudini trasformando in modo drastico, e forse irreversibile, la vita umana. Ma la razionalizzazione scientifica ha contribuito a consolidare antiche illusioni, o addirittura a forgiarne nuove, mentre la tecnica, introducendo procedure di semplificazione, ha finito per condannare le capacità intellettuali alla regressione, se non alla scomparsa. Questo paradossale rovesciamento vieta di prendere avventatamente per progresso ogni prestazione della scienza. L'insita limitatezza del suo orizzonte, quel razionalismo del particolare che può dare adito alla più insensata distruttività, mostra più che mai l'esigenza di un pensiero che, come quello della filosofia, non si assoggetta all'utile, non si subordina a uno scopo, ma guarda sempre oltre.

Criticare non vuol dire, come alcuni intendono, né cavillare, né biasimare. Piuttosto è quell'impegno teorico e pratico che non accetta nulla senza riflettere. Scomoda, controversa, sprovvista di criteri univoci e sfornita di prove stringenti, la filosofia non ha mai smesso di aspirare a cogliere i nessi, scorgere i legami tra ciò che appare singolo e separato. In fondo è questa la richiesta avanzata da Platone quando sostiene che dovrebbero essere i filosofi a governare la pólis, cioè coloro che sono capaci di combinare capacità diverse, di unire conoscenze altrimenti disparate, rivedendo ogni volta il sapere nell'orizzonte più ampio.




Il Novecento. Cesure e traumi


Il Novecento rappresenta uno degli apici della filosofia nei suoi oltre duemila e cinquecento anni di storia. A caratterizzarlo è una radicalità senza precedenti, che si esprime nella critica acuta, talvolta esasperata, della ragione e nel tentativo di decostruire la tradizione occidentale.

[...]

Ma la questione aperta riguarda il modo di interpretare un secolo che, proprio per la continuità, suscita ancora passioni e non permette la dovuta distanza, il «sangue freddo» con cui, come suggerisce Hegel, bisognerebbe considerare la storia. Così, in quel groviglio inestricabile, appare già difficile individuare in un singolo evento, in un carattere o in un tema, l'immagine dell'epoca. I candidati non mancano: la rivoluzione russa, l'atomica, la teoria della relatività, l'atterraggio sulla luna, la rivoluzione sessuale. Neppure l'iperbole oscura della Shoah, lo sterminio degli ebrei d'Europa, ancora non indagato nella sua profondità concettuale, potrebbe far pienamente luce sul dramma globale del Novecento.

Ecco perché nel suo recente libro Che cosa è successo nel XX secolo? Sloterdijk rifiuta tutte le etichette che si sono imposte con una certa fortuna: dall'«età dei totalitarismi», che offrirebbe solo un quadro parziale ed esemplificato, al «secolo breve», formula mediante cui si vorrebbe far coincidere tutto il Novecento con la storia dell'esperimento sovietico, che va dal 1917 al 1990. Come se la «grande guerra civile mondiale», tra comunismo e fascismo, potesse esaurire il significato di un secolo tanto complesso. Liberarsi dai vecchi schemi per trovare un varco in quell'autodistruzione: questo è il suo suggerimento. Il rischio, soprattutto per gli europei, sarebbe quello di lasciarsi alle spalle un «secolo perduto» che, con i suoi conflitti e le sue atrocità, appare una desolata discarica di violenza e un arsenale di miti a cui qualcuno sarebbe sempre incline ad attingere.

Il Novecento appare agli occhi di Sloterdijk non solo l'esito della modernità, ma anche l'avanzata della «grande politica», segnata dall'estremismo. Avrebbe allora ragione Eric Hobsbawm il cui libro, nella edizione originale inglese, si intitola «L'età degli estremi». Ma per Sloterdijk non si tratta solo di questo. E per il Novecento parla perciò di «apocalisse del reale». La formula, solo in apparenza enigmatica, rinvia alla «passione del reale» con cui Alain Badiou , nel suo saggio Il secolo, ha definito la tensione di quell'epoca. Le due interpretazioni sono opposte, speculari.

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Pagina 108

Sebbene al suo interno abbiano prevalso le correnti analitiche più ortodosse, la filosofia normativa si è affermata in ampi settori: dall'etica (nei suoi diversi rami, bioetica, etica applicata ecc.) alla teoria della giustizia, al dibattito sui diritti. Ne compendia modalità, contenuti, intenti, il liberalismo politico, nella versione paradigmatica offerta da Rawls , che si avvale di esperimenti mentali. Ogni questione viene depoliticizzata, mentre prevale un approccio tutto interno, morale o moralistico. Qui si presuppone quel che dovrebbe essere invece tema di riflessione critica. Anziché interrogarsi sull'asimmetria, si prendono le mosse da una simmetria ideale tra gli individui liberi e uguali. Come se ogni problema economico, politico, sociale, dallo sfruttamento alla violenza, dalla corruzione alla miseria, fosse sempre e solo dovuto a una mancanza di libertà. Questo egualitarismo suona tanto più stridente in un mondo che smentisce continuamente l'ideale dell'indipendenza, la giustizia distributiva, la libertà individuale.

All'origine della filosofia normativa hanno contribuito motivi diversi, di cui due sono quelli più determinanti; da un canto l'insuccesso della filosofia analitica che, pur in una posizione accademica di dominio, non è riuscita a comunicare con il grande pubblico, refrattario alle sue astruse formule; dall'altro la memoria dei traumi novecenteschi, che ha segnato il pensiero recente. Mai più, dunque, radicalità. Piuttosto negoziazione, mediazione, democratizzazione. Il paradosso di questa filosofia è che, pur mostrandosi con un aspetto bonario, familiare, alla mano, ha un'eco ridotta. Può conquistare un certo successo solo se assecondata dal potere.

Come mai? Non è difficile rispondere.

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Pagina 110

«Ancilla democratiae». Un mesto rientro


Se si dovesse sintetizzare quel che è avvenuto nel passaggio tra i due millenni, dove la continuità ha prevalso, si potrebbe dire che la filosofia è rientrata mestamente nella città, con molta cenere sul capo, soprattutto pronta, dopo il crollo del Muro di Berlino e la conclusione del totalitarismo, a collaborare con la politica per sostenere la democrazia e incoraggiare il pluralismo. Nata dalla penna di Arendt all'epoca del maccartismo, la discutibile tesi dei «due totalitarismi» è diventata rapidamente un blocco concettuale: oltre a impedire un'approfondita riflessione sia sulle peculiarità dello stalinismo, sia sul progetto politico del nazismo, ha offerto un alibi per non pensare. L'etichetta «totalitarismo» segna il limite oltre il quale non è lecito avventurarsi, innalza il cartello di divieto che scredita in anticipo ogni alternativa e rappresenta un monito perenne.

La filosofia, memore del suo recente passato, può muoversi, e si muove, solo al di qua della linea, nel dominio della democrazia. Qui ha un mandato cautamente negativo, quello di esercitare qualche critica, nutrire un po' di dubbi, denunciare lievi soprusi e irrimediabili sofferenze, insieme a un incarico dichiaratamente positivo, quello di impegnarsi nella difesa della democrazia, fragile, corruttibile, difficile da conquistare e impossibile da raggiungere definitivamente. Questa nuova condizione della filosofia, promossa ad ancilla democratiae, trova la sua esplicitazione più parossistica nel saggio di Richard Rorty La priorità della democrazia sulla filosofia.

Le domande che si potrebbero sollevare sono molte.

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Pagina 134

Per una exofilia


L'annuncio che il fuori è perduto, smarrito, inaccessibile, giunge già molto presto, con Zarathustra. Poiché finalmente è caduto il velo che nascondeva il retromondo, l'aldilà, tutto è vuoto, tutto è uguale e desolato. Un lungo cammino separa questo annuncio dalla preoccupata constatazione di Sloterdijk per un «globo asferico», non più opposto a un'esteriorità. E in questo lasso di tempo innumerevoli sono le voci di sociologi, psicoanalisti, antropologi, storici, letterati, massmediologi, che hanno segnalato con allarme quell'incessante confondersi di «dentro» e «fuori». Se il privato è intimamente permeato dal pubblico, a sua volta lo spazio pubblico non è che il vuoto della pubblicità. Nulla a che fare con la pólis.

Piuttosto in quello spazio semionirico, inquietato da ombre allucinatorie, attraversato da immagini fantasmatiche, dove tutto sembra possibile, e nulla lo è, una nuda esistenza sopravvive giorno per giorno, guardinga e ripiegata su di sé. Il suo esistere è piuttosto uno sconsolato in-sistere, che grava sul proprio centro, non trovando più il varco per la propria eccentricità.

L'altro è già stato espulso, respinto, bandito. Non ne sono rimaste tracce. Domina incontrastata l'equivalenza che non trova difese immunitarie e, lontana dall'antico ideale dell'uguaglianza, è il prodotto dell'anima monetaria, dello scambio universale, del calcolo perpetuo. Grazie a questa violenza onnipervasiva la repressione si muta in depressione. Per il sé che vive nello spazio informe dell'ipercomunicazione e dell'iperconsumo, dove la lontananza è abolita dalla vicinanza, e la vicinanza intessuta di lontananza, il nemico non è che una figura immaginaria per cui si può avere tutt'al più nostalgia. Fornirebbe rapidamente un'identità. Dove regna l'equivalente, prevale l'indifferenza. L'altro ha perso da tempo l'aura dello straniero ed è soltanto l'immigrato, il rifugiato, il «clandestino», verso i quali si indirizza l'angoscia per la propria esistenza in un immaginario exofobico dove non c'è paura reale, bensì fobia per l'esterno. L'altro è solo un peso, che poi a ben guardare non è che il peso della propria esistenza ridotta a insistenza sul sé. Qui i calcoli non hanno funzionato: non si è previsto che la negazione dell'altro sarebbe stata anche autonegazione. Così, nella zona del benessere, circondata dai sobborghi dello sconforto, dalle periferie della miseria, dai teatri di guerra, dagli sterminati campi di internamento per gli indesiderati, si è messa in moto una spirale di autodistruttività. In questa zona dell'indifferenza post-immunitaria, della voracità bulimica, della pienezza di sé, non può esserci ospitalità. Perché l'ospitalità è interruzione del sé.

Chiuso nell'alveo dei flussi, prigioniero della rete digitale, questo sé, che fatica a essere se stesso, non è il vecchio individualista della modernità, ma un io che, smarrita l'eccentricità, è sprofondato narcisisticamente al proprio interno. Potrebbe salvarlo da questo naufragio solo l'altro, a cui, però, chiude la porta. In quell'asettica camera di risonanza abita al sicuro da ogni estraneità, indenne da ogni inquietante spaesatezza. Ma è in quell'ordine digitale che, stordito e frastornato dall'informazione, è diventato cieco e sordo. Mentre è venuta meno l'immaginazione, il pensiero, che è sempre pensiero dell'oltre e dell'altro, si è ridotto a calcolo ripetuto. Qui non ci sono eventi che interrompano questa routine perversa e insopportabile, e se anche ci fossero, non sarebbero avvertiti. Così come non verrebbe udita la voce dell'amico.

Dove manca l'estasi dell'esistenza, dove svanisce l'eccentricità, è sbarrato il passaggio che porta fuori, ostruita la via verso l'altro, interdetta la coesistenza, quella veglia comune che fonda e salvaguarda la città. Senza philía nessuna pólis. Lo sapevano bene già Platone e Aristotele. Ecco allora il compito della filosofia, che ha il suo unico ubi consistam nel phileîn: quello di restituire lo stupore, provocare lo sconcerto, suscitare estraneità, infondere la passione per l'altro.

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Pagina 142

Non occorre invenzione, ma inventiva. E, certo, anche arrangiamento. Benjamin ne offre una prova straordinaria nei suoi Denkbilder, «immagini di pensiero», miniature composte da elementi accuratamente raccolti e giustapposti, montaggi in cui trovano nuova vita frammenti dimenticati, rappresentazioni caleidoscopiche della metropoli, dei suoi trionfi e delle sue rovine. Il filosofo è un collezionista. Scuote il kitsch, chiama alla raccolta. Le sue azioni, i suoi gesti sono politici. La collezione, questo «opposto dell'utilità», è eminentemente filosofica. Così il collezionista scioglie l'oggetto dai vincoli che lo legavano al cerchio magico in cui era irrigidito per introdurlo in un nuovo ordine storico. Tutto quel che è stato pensato, ricordato, diventa scrigno e cornice della sua memoria pratica.

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Pagina 145

Tanti sono i modi in cui Benjamin con cautela parla della rivoluzione - freno d'emergenza, interruzione, salto - dato che lo sguardo si spinge verso la fine. Outsider anche nella sinistra, Benjamin non era lontano dalla «fronda anarchica». Così va ricordato questo suo passo: «l'etica applicata alla storia è la teoria della rivoluzione, applicata allo Stato è la teoria dell'anarchia».

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