Autore Donatella Di Cesare
Titolo Tortura
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2016, I sampietrini 19 , pag. 218, cop.fle., dim. 11x17,8x1,9 cm , Isbn 978-88-339-2847-0
LettoreGiangiacomo Pisa, 2017
Classe storia criminale , politica , diritto , storia sociale












 

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Indice


        Tortura


 11     Prologo


 15  1. Politica della tortura

         1. Senza fine? Nel ventunesimo secolo, 15
         2. Tortura e potere, 19
         3. Lo sfondo oscuro del sacrificio.
            La tortura nel dispositivo del terrore, 25
         4. La tortura dopo l'abolizione della tortura, 30
         5. La fenice nera, 34
         6. Tortura e democrazia, 37
         7. Stato d'eccezione e tortura preventiva.
            Dopo l'11 settembre, 40
         8. Il dibattito sulla tortura, 47
         9. Il dilemma delle «mani sporche».
            Thomas Nagel e Michael Walzer, 50
        10. «Mandato di tortura». Alan Dershowitz, 57
        11. Il male minore è sempre un male, 63
        12. 24 hours chrono. Il torturatore gentiluomo, 65
        13. Una teologia politica della tortura, 68
        14. Perché non torturare il terrorista?
            La bomba a tempo, 72
        15. Quelle dannose storielle pseudofilosofiche, 81
        16. Illegittimità. Lo Stato che tortura, 83
        17. Naufragio dei diritti umani?, 87
        18. Dignità umana e tortura, 91


 97  2. Fenomenologia della tortura

         1. Definire la tortura? Note etimologiche, 97
         2. «Chi ha subito tortura non può più sentirsi
            a casa nel mondo». Améry, 101
         3. Tortura, genocidio, Shoah, 105
         4. Uccidere e torturare, 108
         5. Tra biopotere e potere sovrano, 112
         6. Anatomia del carnefice, 114
         7. Sade, la negazione dell'altro e
            il linguaggio della violenza, 116
         8. Da Torquemada a Scilingo. Quattro ritratti, 120
         9. Torturatori si diventa?, 130
        10. Pedro e il Capitano, 135
        11. Il segreto della vittima, 138
        12. Dire la tortura, 141
        13. Sul dolore e sulla sofferenza, 142
        14. Sopravvivere alla propria morte, 146


149  3. Amministrazione della tortura

         1. Giulio Regeni. Il corpo del torturato, 149
         2. Benjamin, o sull'istituzione ignominiosa, 154
         3. Il G8 di Genova, 157
         4. La tortura "bianca". Sul carcere di Stammheim, 162
         5. Scomparsi, desaparecidos. La morte negata, 166
         6. Il gulag globale della CIA, 172
         7. Guantánamo. Il campo del nuovo millennio, 176
         8. Abu Ghraib. Le foto della vergogna, 180
         9. Donne e violenze sessuali, 184
        10. Nelle mani del più forte, 188
        11. Tormenti e torture made in Italy, 192
        12. Perché è reato, 197


201     Epilogo

205     Riferimenti bibliografici


 

 

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Pagina 11

Prologo


Scrivere sulla tortura è una scelta problematica e delicata. Ancora fino a qualche anno fa la condanna, almeno a parole, sembrava unanime. Il che non ha impedito alla tortura di aggirare l'interdizione, di eludere quel divieto, condiviso al punto da assurgere quasi a principio categorico, cercando scampo clandestinamente dietro le quinte.

Ma l'unanimità è venuta meno. I nuovi adepti, un po' ovunque, sono usciti allo scoperto. Negli Stati Uniti hanno dato avvio a un dibattito. Non sarebbe auspicabile un'eccezione? Non tornerebbe forse utile un ricorso ponderato, limitato, magari addirittura legalizzato alla tortura? La "guerra al terrore" sembrerebbe richiederlo. Si moltiplicano gli sforzi per offrire legittimità a una pratica mai dismessa. I paladini inveterati, dittatori e autocrati, despoti e demagoghi, che hanno continuato a governare nei quattro angoli del mondo, si compiacciono dell'improvvisa crepa, gioiscono dell'insospettabile breccia aperta nella democrazia. Le opinioni pubbliche vacillano incerte e esitanti. Come se il rifiuto istintivo non bastasse più.

L'interdizione della tortura finisce per essere tacciata di utopismo vuoto, inadeguato all'ordine globale, che è invece dominato dalla minaccia del terrore. Si dovrebbe allora proteggere la democrazia autorizzando la tortura, cioè attingere al terrore per combattere il terrore. Ecco perché la questione della tortura è lo spartiacque che separa due letture alternative della storia attuale.

Accettare di discuterne il ruolo e lo statuto, i presupposti e gli esiti, non significa essere disposti ad accogliere in futuro un buon argomento per giustificarla. Il "no" fermo alla tortura viene prima di ogni discussione. Là dove si cominciasse a richiamare casi particolari, dove un filosofo morale almanaccasse su deroghe e restrizioni, la risposta non potrebbe essere che quella, concisa e categorica, della prassi politica: «Non si deve torturare».

Tuttavia il "no", che scaturisce anzitutto dall'indignazione, non basta a difendere la dignità umana offesa dalla tortura. La riflessione è indispensabile. In tal senso la tortura rappresenta, anzi, il paradigma della questione morale nell'età contemporanea, la cui forma cogente e paradossale è quella sintetizzata da Theodor W. Adorno: «non si deve torturare, non ci devono essere campi di concentramento, mentre tutto ciò continua in Asia e in Africa e viene soltanto rimosso, perché l'umanità civilizzatrice è come sempre inumana nei confronti di quelli che ha svergognatamente marchiato come incivili» (1970, p. 255). Da un canto l'impulso che oppone un "no" deciso, quando si viene a sapere che qualcuno è stato torturato, il senso di solidarietà con i corpi tormentati, la nuda paura fisica di chi si identifica con la vittima, dall'altro la ricerca di una riflessione teorica che non si limiti a razionalizzare quell'impulso, a tradurlo in un principio astratto.

Emerge qui una contraddizione che attraversa lo scenario attuale e chiarisce, almeno in parte, l'impotenza effettiva che ciascuno avverte. È la contraddizione fra il rifiuto spontaneo di dover tollerare ancora quell'orrore intollerabile e la coscienza che intuisce perché, malgrado tutto, l'orrore prosegua e non se ne veda la fine. Proprio la tortura porta alla luce il dilemma del singolo che si dibatte in questa morsa.

In tale scenario drammatico si deve allora riconoscere con franchezza che «nulla è cambiato», come suggerisce il refrain della poesia Torture di Wislawa Szymborska , quasi un breve trattato filosofico, dove la perspicuità dello sguardo non impedisce lo stupore incredulo, lo sbigottimento esasperato (2009, pp. 456-59). E se, di fronte al reiterarsi dell'orrore, il "no" mostra la sua inerme ostinazione, si deve tuttavia ricordare che siamo non solo quello che facciamo, ma anche quello che promettiamo di fare o di non fare.


Nulla è cambiato.
Il corpo prova dolore, deve mangiare e respirare e dormire,
ha la pelle sottile, e subito sotto - sangue,
ha una buona scorta di denti e di unghie,
le ossa fragili, le giunture stirabili.
Nelle torture, di tutto ciò si tiene conto.

Nulla è cambiato.
Il corpo trema, come tremava
Prima e dopo la fondazione di Roma,
nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo,
le torture c'erano, e ci sono, solo la terra è più piccola
e qualunque cosa accada, è come dietro la porta.

Nulla è cambiato.
C'è soltanto più gente,
alle vecchie colpe se ne sono aggiunte di nuove,
reali, fittizie, temporanee e inesistenti,
ma il grido con cui il corpo ne risponde
era, è e sarà un grido di innocenza,
secondo un registro e una scala eterni.

Nulla è cambiato.
Tranne forse i modi, le cerimonie, le danze.
Il gesto delle mani che proteggono il capo
è rimasto però lo stesso.
Il corpo si torce, si dimena e divincola,
fiaccato cade, raggomitola le ginocchia,
illividisce, si gonfia, sbava e sanguina.

Nulla è cambiato.
Tranne il corso dei fiumi,
la linea dei boschi, del litorale, di deserti e ghiacciai.
Tra questi paesaggi l'animula vaga,
sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana,
a se stessa estranea, inafferrabile,
ora certa, ora incerta della propria esistenza,
mentre il corpo c'è, e c'è, e c'è
e non trova riparo.

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1. Politica della tortura


                                  Il fine della persecuzione è la persecuzione,
                                  il fine della tortura è la tortura,
                                  il fine del potere è il potere.

                                                            GEORGE ORWELL, 1984



1. Senza fine? Nel ventunesimo secolo


La parola "tortura" sembrerebbe evocare scenari arcaici e remoti che affiorano dal passato tetro e crudele dell'umanità. Come se quel fenomeno estremo debba essere consegnato alla ricostruzione storica che contribuisce a respingerlo in una lontananza irreversibile e definitiva. Le storie della tortura, anche le più riuscite, sono un repertorio di efferatezze, un catalogo di orrori, un inventario di atrocità, che si disegnano sullo sfondo di una trama scheletrica e ripetitiva. Tra sadismo e perversione, questa sorta di folklore del male descrive procedure e tecniche escogitate dalla fantasia umana per infliggere dolore e tormento, indugia sulla nudità inerme della vittima e sulla maschera plumbea del carnefice, penetra nei meandri oscuri della cella dove viene estorta la confessione, entra subdolamente nella stanza dei supplizi, raffigura la lugubre festa punitiva. Gogna o ruota, morsa o fustigazione, forca o rogo: la scenografia della tortura è allestita sul palco dell'Inquisizione. Forse perché lì si scorge l'apice della storia. Il sipario, però, può calare. Al punto che orrore e ripugnanza lasciano il posto persino a quel sentimento del sublime che pervade chi contempla la distruzione del corpo altrui alla dovuta distanza.

La storia, infatti, dovrebbe concludersi con un immancabile happy end. Il progresso ha la meglio sulla barbarie e la tortura viene respinta nel passato premoderno della civiltà. Rassicurante si erge la figura di Cesare Beccaria che, con il suo trattato Dei delitti e delle pene, pubblicato nel 1764, condanna fermamente teoria e pratica della tortura. Gli fanno eco Pietro Verri e i grandi riformatori settecenteschi. Quasi ovunque abolita nelle terre d'Europa — nel 1740 in Prussia, nel 1770 in Sassonia, nel 1780 in Francia, nel 1786 nel Granducato di Toscana, nel 1789 nel Regno di Sicilia — la tortura resta, a partire dalla modernità dei Lumi, una presenza inquietante, la cui ombra si allunga sinistramente sulla civiltà. Le scene di tortura si ripetono, in forme differenti e mutevoli. Ma la tortura non si lascia ridurre a una fantasmagoria. Mostruosa, e tuttavia reale, interdice il lieto fine. Il capitolo sull'abolizione non può essere l'ultimo. Deroghe, eccezioni, anomalie si susseguono. Richiedono postille e aggiunte. La tortura pare dileguare tutt'al più per qualche decade. Presto, tuttavia, ricompare ai margini: nei conflitti e nelle guerre, ai confini dei moderni imperi, nelle colonie. Fa ritorno, in tutta la sua feroce potenza, nelle carceri delle dittature, nei lager dei regimi totalitari. Anche nella seconda metà dell'ultimo secolo prosegue, inarrestabile, la sua avanzata. Come dimenticare le atrocità commesse in Algeria e in Iran, nella Grecia dei colonnelli, nel Portogallo di Salazar? Per non parlare dell'uso massiccio della tortura nelle dittature latino-americane.

La narrazione del progresso viene pregiudicata dal susseguirsi di postille. La tortura non è un relitto dell'Inquisizione; non è confinabile alle periferie del tempo e dello spazio. Affiora prepotentemente dal passato e minaccia di avere un futuro. «Senza fine?», si chiede Edwar Peters nell'edizione ampliata del suo libro Torture, divenuto ormai un classico (1999, p. 176). Il suo interrogativo riprende quello di Piero Fiorelli, il più grande storico della tortura, che al termine della sua opera monumentale La tortura giudiziaria nel diritto comune, pubblicata nel 1953-1954, aveva inserito una sezione conclusiva intitolata «Senza una fine?». La domanda è una ammissione. La tortura deborda, eccede la storia.

Palese o nascosta, combattuta o tollerata, la tortura non ha mai conosciuto eclisse, al punto da presentarsi, pur nella sua variabilità attraverso i secoli, come un fenomeno ininterrotto, un'istituzione permanente, una costante della storia umana. Lo documentano i codici e le leggi; lo attesta la memoria collettiva. Non ha senso considerarla l'aberrazione di un diritto primitivo, l'anomalia di una giustizia ancora balbuziente, l'incidente di percorso di una ragione trionfante. Si può tentare di proiettarla nella brutalità oscena del passato per convincersi di vivere in un paradiso in divenire. Un'epoca lontana, un luogo distante, una ideologia screditata sono gli alibi di una visione rassicurante che non regge più.

La tortura ha eluso anatemi e censure, aggirato divieti e proibizioni. Non è stata soppressa, ma neppure superata. La tortura resiste pervicacemente anche nel passaggio dal supplizio alla pena. La nuova sobrietà punitiva, che ruota intorno all'economia del castigo, non basta a debellarla. La prigione non espelle la tortura, non la bandisce. Nel suo famoso saggio Sorvegliare e punire del 1975, dove nel ricostruire la genealogia della prigione delinea il superamento, ancora per certi versi ottimistico, dei supplizi nelle pene, anche Michel Foucault ammette che la tortura continua a ossessionare il sistema penale (cfr. 2014, pp. 43 e sgg.). Perché adeguandosi allo scarto dal corpo all'anima, diviene più sottile e eterea, ma non meno temibile.

La condanna della tortura ne favorisce paradossalmente la disseminazione clandestina anche nei paesi democratici. Per misurare l'ampiezza attuale del fenomeno basta leggere i dati forniti da Amnesty International - nel 2015 sono almeno 122 i paesi che hanno torturato - e seguire il flusso di notizie che giungono non solo dai teatri di guerra, dai campi profughi, dai sotterranei delle dittature, ma anche dai penitenziari, dalle carceri e da tutte le strutture di internamento dei paesi democratici. Ne viene fuori una mappa, ampia e spettrale, che spinge a parlare di globalizzazione della tortura. Più viene denunciata, più la tortura si nasconde e si dissimula in nuove forme. Abolita, riemerge; depennata, si manifesta ancora più virulenta. E si impone nell'attualità della politica, nel suo più urgente ordine del giorno.

Non si erano ancora spente le ceneri del World Trade Center, che la tortura diventò tema di dibattito pubblico. Nello scenario apocalittico di un attacco imminente, in cui i terroristi fossero pronti a usare armi di distruzione di massa, perché non si sarebbe dovuto ricorrere alla tortura, al fine di acquisire informazioni indispensabili, salvando molte vite umane? Nel war on terror, nella "guerra al terrore", la tolleranza verso la tortura è la prova più eclatante dell'immediata e profonda erosione dei diritti umani.

Il suo ingresso nel ventunesimo secolo non poteva essere più glorioso. La tortura si presenta come l'arma estrema dell' intelligence per arginare il conflitto globale intermittente. Lo stesso potere politico, che prima ne aveva proibito esteriormente l'impiego, facendone al tempo stesso uso, o meglio abuso, contro dissenso e sovversione, chiede di giustificare la tortura, di ammetterla, legalizzarla; pretendendo di agire su istanza del popolo, ne sollecita la piena autorizzazione. Ed ecco che, proprio quando viene fatta passare per espediente straordinario del controterrorismo, la tortura rivela, a ben guardare, il suo volto più intimo e oscuro: quello del terrore. Inscritta sin dall'inizio nella logica del dominio, di cui costituisce la pratica più violenta e stringente, la tortura appartiene alla politica dell'intimidazione, interna prima ancora che esterna. In tal senso esibisce l'onnipotenza della sovranità.




2. Tortura e potere


Si immagina di solito l'inferno come pena senza fine. Questo, e non altro, è la condanna eterna, che non conosce riscatto, né redenzione. La sentenza di morte si traduce in tortura, quel dolore che incombe e sovrasta nel corridoio del morire perpetuo.

La tortura è la parvenza perversa e spietata dell'eternità. Perciò evoca visioni infernali. Il castigo è perpetuo. Tuttavia la tortura non si dilata in un tempo eterno, ma si compie piuttosto in una ripetitività senza fine. È questo incessante senza-fine uno dei suoi tratti peculiari.

Non stupisce che il torturato aneli continuamente alla fine - fosse pure quella risolutiva della morte. Ciò che lo affligge è l'angoscia di un morire interminabile. Agli occhi del torturatore, per contro, la morte prematura della vittima è un incidente irritante, la sua perdita di coscienza un errore da evitare. Occorre che l'altro resti cosciente, in vita, almeno fintantoché si protrae la tortura. Sebbene si concluda molto spesso con la morte, la tortura non va, dunque, confusa con l'esecuzione. Non è una tecnica dell'uccidere. Con la morte dell'altro verrebbe meno ogni rapporto. Anche, e soprattutto, quello di potere. La morte libererebbe la vittima dalle mani del carnefice - misera e paradossale liberazione. Ecco perché la tortura non si appaga della morte altrui che, anzi, segna l'istante in cui, pur trionfando nella sua atrocità, quella pratica prolungata di violenza perde intempestivamente il suo oggetto. Non è l'annientamento il suo scopo ultimo. La tortura va oltre, facendo del morire una pena duratura, trasformando l'essere umano in una creatura morente.

Solo se la si considera in tal modo, come esercizio di violenza assoluta, si coglie la rilevanza politica della tortura. Qui emerge con chiarezza il suo nesso stretto con il potere. È anzitutto il potere di dominare l'altro, di sopraffarlo con il tormento, di sottometterlo con la sofferenza, di soggiogarlo con la vessazione. Senza limite - che non sia quello della morte da scongiurare. Fin nei recessi più reconditi del suo essere, il torturato deve percepire il dolore che gli viene inflitto, che assurge a insegna del potere, tremendo e incondizionato, del torturatore. Da un canto la vittima inerme, nell'onta della sua umiliazione, dall'altro il carnefice trionfante, nell'apoteosi della sua sovranità. Nulla è consentito alla vittima, tutto è possibile al carnefice.

Questi fa del torturato un corpo su cui trascrivere la pena. Lavora alla carne, luogo dei suoi esperimenti, materia della sua tecnica di distruzione. Il carnefice è un artigiano, che si atteggia a creatore, innalzandosi a signore del dolore. L'altro, deumanizzato, è ridotto alla mera, passiva corporeità. Anche quando la tortura tocca l'anima - il dolore psichico si confonde con quello fisico, questo con quello. Il corpo sofferente della vittima entra nell'ingranaggio allestito con attrezzi e meccanismi sempre nuovi, con strumentari da collaudare. La tortura non è la sede di un processo, ma il laboratorio dell'immaginazione distruttiva.

La violenza provoca il dolore, lo mette a nudo, lo rende visibile, udibile. Ferite, colpi, percosse soffocano la parola. Non c'è posto per i suoni articolati. Solo gemiti e urla. Mentre vorrebbe penetrare fin nell'intimo della vittima, nella sua più intangibile interiorità, per rovesciarla all'esterno e impossessarsene, quella violenza ne annienta il linguaggio, rendendo vana la sua stessa impresa. Può estrarne le viscere, quando è ancora in vita, come vuole un antico supplizio. Ma il torturato resta un corpo senza voce.

Ciò contraddice l'idea, che ha goduto a lungo di un vasto consenso, secondo cui il fine ultimo della tortura sarebbe la confessione della verità. Come se la pena fosse già di per sé giustificata, come se chi la subisce ne portasse, quasi, la colpa. Con questo capovolgimento morale, su cui è stata edificata una secolare finzione, si è preteso non solo di sgravare il carnefice delle sue responsabilità, ma anche di far passare la tortura per uno strumento della confessione.

Solo quando viene liberata dai vincoli fittizi della Verità, quando crolla l'alibi dell'interrogatorio, la tortura si rivela quel che sempre è stata ed è: la pratica violenta del potere. Non è, dunque, entro il codice della verità, bensì entro quello del potere che la tortura va considerata.

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14. Perché non torturare il terrorista?

La bomba a tempo


È stato preso un terrorista, sospettato di aver predisposto una bomba a orologeria in una delle tante scuole della città, dove in quel momento si trovano molti bambini. Impossibile tentare di far evacuare rapidamente le scuole. Sottoposto a immediato interrogatorio, compiuto con mezzi legali, l'uomo ha rifiutato di rispondere. Il tempo stringe. La bomba potrebbe esplodere da un momento all'altro. Sono a rischio decine, centinaia di vite umane. Non sarà opportuno estorcergli le informazioni preziose, usando una certa pressione, più psichica che fisica? Non sarà necessario, in questo caso, ricorrere a una tortura non letale?

La risposta immediata è «sì!». Chi potrebbe rispondere altrimenti? E in genere è questa la reazione di chi è chiamato a prendere posizione di fronte allo scenario della bomba a orologeria, del ticking bomb. Si può modificare la versione, aggiungere o togliere elementi, renderla iperbolicamente più drammatica, ventilando la possibilità che i presunti terroristi siano in procinto di scatenare un attacco batteriologico o siano addirittura in possesso di armi nucleari.

Diventa comunque impossibile opporre un netto «no». Così la tortura può essere considerata come arma legittima nell'età del terrore planetario. La richiesta di legalizzare la tortura, pur ammettendone l'immoralità, si basa proprio su questo caso, sullo scenario del ticking bomb. Da Baghdad a Madrid, da Londra a Sharm-el-Sheikh, da Beirut a Istanbul: non si contano le bombe che, purtroppo, sono state innescate e fatte esplodere negli spazi pubblici, massacrando vittime inermi.

Che lo scenario della bomba a tempo sia stato preso molto sul serio dai filosofi americani, non solo dai neo-con, ma anche dai liberal, non dovrebbe dunque sorprendere. Come ha osservato Bob Brecher nel suo libro dedicato a questo tema, «Dershowitz, in quel che viene chiamato il "nuovo realismo" sulla tortura, non è isolato» (2007, p. 6). A questo proposito basterà citare ciò che ha dichiarato Martha Nussbaum: «Non penso che una posizione moralmente sensibile negherebbe che possano esserci situazioni immaginabili in cui la tortura [di un singolo individuo] sia giustificata».

Con «posizione moralmente sensibile» si intende la condanna a priori della tortura. Il principio sembra andare in frantumi sotto i colpi della dura realtà. Non sarebbe questo, d'altronde, il destino di tutti i princìpi e di tutti gli a priori? Di fronte al fanatismo cieco del terrore, che minaccia vite innocenti, morale e diritto non sembrano reggere e dovrebbero essere rivisti. Il purismo etico delle anime belle è costretto a capitolare dinanzi ai fatti. A meno di non voler competere, quanto a fanatismo, con i terroristi. La condanna universale della tortura, inscritta nella cultura occidentale all'indomani della seconda guerra mondiale, ratificata dai trattati internazionali, non sarebbe più difendibile, né accettabile, nella pratica. Chi potrebbe mai mettere in dubbio l'esigenza del ricorso all'interrogatorio coercitivo, se ne va di tante vite? Occorrerà allora riconoscere che, in uno stato di necessità, come quello prospettato dallo scenario della bomba a orologeria, per il quale persino il codice penale di molti paesi democratici ammetterebbe una sospensione della legge, la tortura sarebbe inevitabile. Si tratterebbe, semmai, di controllarla e regolamentarla.

L'emergenza del terrore si impone con forza. L'eccezione fa testo. Il dilemma della bomba a orologeria rischia di far crollare l'edificio dei diritti umani, di incrinare i princìpi faticosamente conquistati nel corso di secoli, le idee che solo ieri sembravano irrinunciabili. A cominciare, ad esempio, dal presupposto della inviolabilità del corpo di un prigioniero. La storia del ticking bomb rende accettabile, all'interno di una società improntata al liberalismo democratico, l'ipotesi che lo Stato torturi, che divenga, anzi, legale, in alcune circostanze eccezionali, la tortura di Stato.

Si deve ammettere che il dilemma della bomba a orologeria ha una forza dirompente; per le evidenti ripercussioni, etiche e politiche, non può essere sottovalutato. Non si dà, a ben guardare, alcuna disputa. Le colombe tacciono, gli "idealisti" integerrimi, che vorrebbero difendere la dignità umana sempre e ovunque, sono costretti a revocare le loro più ferme convinzioni, lasciando la parola ai falchi, ai "realisti" pragmatici, che sanno guardare con risolutezza al bene dei più, sanno calcolare benefici e costi, misurare le conseguenze, impedire la catastrofe, ottenendo un successo certo.

Questo scenario così angoscioso fa tornare alla mente le innumerevoli immagini di attentati terroristici trasmesse dal grande schermo. Però non riferisce l'esperienza di un attentato in particolare, né sembra rinviare a una situazione realmente accaduta. Il carattere ipotetico dell'intero dilemma ricorda piuttosto la serie 24 hours chrono, tutta costruita sulla trama della bomba a tempo. Non si tratterà dello stesso presunto "realismo", cioè della medesima fiction?

Se così fosse, il dibattito sviluppatosi in America sul ticking bomb, che ha coinvolto filosofi e intellettuali, ha investito i media e l'opinione pubblica, incidendo sul mondo politico, quasi a suggellarne le scelte compiute nel war on terror, ruoterebbe intorno a una favola. Per giunta una favola sbandierata come la più reale delle realtà. È possibile, in politica, prendere decisioni, gravi anche nel loro significato etico, basandosi su una fiction, su una rappresentazione immaginaria? È possibile, in filosofia, rimettersi a storielle irreali, pretendendo di edificare, su quella base fittizia, una nuova e più realistica etica, adatta alla minaccia del terrore? A meno che quella favola non sia un pretesto ideologico.

Nelle sue innumerevoli e differenti versioni lo scenario del ticking bomb appare un prodotto della fantasia. I "fatti" riportati, se considerati con attenzione, non sono neppure plausibili. L'intera situazione è costruita su presupposti inverosimili e assurdi.

Basta menzionarne alcuni: si assume che le autorità siano a conoscenza di un attacco imminente; che abbiano preso proprio uno dei terroristi che ha messo la bomba a orologeria; che questo davvero possieda le informazioni necessarie; che non ci sia altro mezzo efficace, per farlo parlare, se non la tortura; che non ci siano altre possibilità per salvare le vite umane; che la tortura sia efficace, che cioè il terrorista non abbia eventualmente un piano di riserva e dica la verità.

Si potrebbe continuare a decostruire l'impianto logico e retorico della story. Perché mai, in quella situazione di catastrofe incombente, per la quale gli strateghi militari, gli esponenti politici, gli apologeti della tortura, parlano di «necessità», sarebbe auspicabile sottoporre il sospetto terrorista alla lunga e incerta prassi dell'interrogatorio coercitivo, cioè della tortura non letale? O forse sarebbe più opportuno ricorrere ai provati, vecchi metodi della tortura tradizionale? Si deve inoltre pensare che il terrorista, che ha progettato un attentato, ammesso che sia lui, sia pronto a morire; non avrebbe allora difficoltà a resistere alla tortura, o meglio, a fornire informazioni sbagliate. Dallo US Army Field Manual (pp. 34-52), il manuale operativo dell'esercito americano, sino al modo in cui Agostino nella sua opera La città di Dio, (XIX, 6) riflette sulla presunzione di innocenza: tutti concordano nell'inattendibilità della confessione estorta sotto tortura.

Gli esempi, di solito addotti, per avvalorare il dilemma della bomba a tempo, sono stati sempre smentiti. Il più famoso è quello richiamato da Dershowitz e poi ripreso da molti: è il caso di Abdul Hakim Murad. Nel 1995, a Manila, la polizia nazionale filippina, durante una imponente operazione di sicurezza, scoprì il piano di Murad, un membro di Al Qaeda, che stava preparando un serie di attentati contro sette aerei di linea sulla rotta del Pacifico. Secondo la versione divulgata dopo l'11 settembre, quando in America andava crescendo il consenso per la tortura, la polizia filippina sottopose Murad per sessantasette giorni a pestaggi, waterboarding, violenza psicologica, sigarette spente sulle parti intime, minacce di violenza sessuale. Murad crollò e confessò la sua trama che sarebbe costata la vita di quattromila passeggeri. Questo episodio avrebbe dovuto dimostrare la razionalità e l'efficacia della tortura. «Che cosa sarebbe successo se Murad fosse stato arrestato in America?» - tuonò lo storico Jay Winnick dalle colonne del «Wall Street Journal». In molti gli fecero eco. Il famoso editorialista Jonathan Alter commentò: «Una certa tortura evidentemente funziona». Ma i fatti si svolsero ben diversamente: «La polizia di Manila aveva ottenuto da Murad tutte le informazioni rilevanti già nei primi minuti dopo il sequestro del suo portatile» (McCoy 2008, pp. 167-68). In seguito, nei giorni della tortura, per porre termine al dolore, Murad aggiunse solo dettagli che non erano altro se non la conferma, flebile e superflua, delle congetture che la polizia gli andava suggerendo.

Analoghi, seppure meno eclatanti, sono altri casi di attentati che - come quelli che Scotland Yard e i servizi di sicurezza britannici hanno scoperto il 10 agosto 2006 - sono stati sventati seguendo i metodi classici d'inchiesta. D'altronde, fino all'arresto dei sospetti, i servizi non sapevano dell'imminenza di un attentato. Qui si confonde l'imminenza con l'eventualità. Un attentato è, per chi non lo progetta, un evento inatteso e imponderabile. Il che non significa che non occorra prevenirlo. Ma lo scenario della bomba a orologeria vorrebbe far credere che si possa tenere sotto controllo attentato e attentatore e che la tortura sia a tal fine lo strumento indispensabile.

Solo torturando il terrorista si potrebbe disinnescare la bomba e fermare il tempo. Non importa, poi, che si chieda, come una necessità pressante, la tortura di uno solo contro la possibilità, molto aleatoria, della morte di molti. Nel «modello economico» della tortura contano i numeri (cfr. Wisnewski-Emerick 2009, pp. 16-45). Proprio questo principio utilitaristico dovrebbe, anzi, offrire legittimità etica alla tortura. Che dire poi del torturando? Un terrorista è un terrorista - non è un cittadino, non è un soldato, non rispetta la legge, né le regole della guerra. Si chiama fuori da ogni contratto politico, ma per ciò stesso anche da ogni vincolo umano. Non può valere per lui la reciprocità. Identificato sempre solo con l'azione che compie, consegnato a un'ostilità anonima e raggelante, per il terrorista a fortiori non è possibile alcuna empatia, cioè nessuna umana simpatia. Perché, dunque, non torturare il terrorista?

Bisognerebbe rovesciare l'argomento del ticking bomb, come suggerisce Luban, riformulandolo così (2014, p. 94):

E se l'unico modo per far sì che il terrorista riveli il luogo in cui ha collocato la bomba fosse quello di torturare per giorni e giorni, senza fine, te - sì, proprio te, in persona - pensi che il governo dovrebbe farlo? Sarai sequestrato, incappucciato, ti verranno tolti gli abiti; sarai costretto a mettere un pannolone e a indossare una tuta arancione; sarai bendato, ti verrà fatta una iniezione di sedativi, sarai trasportato con un volo a Cuba. Picchiato, denudato e deriso da membri dell'altro sesso, sarai tenuto per un guinzaglio, per ore sarai martellato da assordante musica rap e da luci stroboscopiche; bagnato con un tubo, verrai gettato in una cella frigorifera durante la notte, poi sarai incatenato a un gancio, nel corridoio, e costretto a stare in piedi, finché le tue caviglie non diventeranno il doppio e i tuoi reni non cominceranno a cedere. Quindi verrai legato al soffitto con le braccia tirate indietro e, infine, sotto le unghie ti verranno conficcati aghi sterilizzati. Per un motivo, o per l'altro, questo è l'unico modo che abbiamo per far parlare il terrorista. Dovremmo farlo?


La tortura è una forma di controterrorismo emotivo che al terrore risponde con il terrore. Ma nel dilemma della bomba a tempo non è stigmatizzata come una violenza brutale; viene presentata invece come un'azione doverosa, imposta dal calcolo del male minore, dettata dalla necessità. Che a compierla sia il torturatore nobile, l'utilitarista o Jack Bauer, la tortura appare l'unica scelta per evitare la catastrofe imminente. Appare - ma non è, né lo è mai stata.

Sulla questione è intervenuta Ruchama Marton, fondatrice di Israel's Physicians for Human Rights (Medici israeliani per i diritti umani), sostenendo che mai la tortura, anche la più crudele, ha contribuito a disattivare una bomba a orologeria. «E comunque - ha aggiunto - per quanto tempo continuerà a ticchettare? Per dieci minuti, due ore, o tre settimane? In realtà non c'è nessun chiaro caso di bomba a orologeria».

L'ideologia della tortura legalizzata si fonda su una favola. Sulla base dell'esperienza storica lo scenario del ticking bomb non si è mai verificato. Il che fa supporre che sia del tutto inverosimile. Non vanno perciò respinte solo le conclusioni, a cui l'argomento vorrebbe giungere, ma l'ipotesi stessa. Perché sta qui la trappola: presentare come evidenza empirica un caso particolare, che muterebbe l'intera questione, ma che, nella realtà, non si è mai dato. Il realismo è, a ben guardare, uno pseudorealismo. E l'eccezione, che giustificherebbe la tortura, si rivela una ipotesi fittizia, non desunta dai fatti, bensì forgiata dalla fantasia. L'argomentazione empirica, che ruota intorno alla fiction, si inoltra nell'esame di circostanze concrete, si arricchisce via via di dettagli. Si viene così risucchiati in una vertigine di analisi minuziose, di dilemmi insolubili, dove si perde di vista il tema stesso e, sopraffatti dall'ebbrezza di questo pseudorealismo, si finisce quasi per riconoscere, in quella situazione di emergenza, la necessità della tortura.

Se da un canto l'argomento del ticking bomb fa leva su impulsi e emozioni viscerali, mettendo di fronte alla minaccia efferata, dall'altro introduce in un artificioso mondo trasparente, dove dominano solo certezze, dove il male è calcolabile, dove tutto si snoda con logica sequenzialità, dove a ogni istante, malgrado l'urgenza implacabile, si impongono le decisioni giuste.

Il dilemma non è un dilemma. L'apparente complessità dei ragionamenti, più o meno capziosi, si risolve in un gioco intellettuale, una sorta di divertimento che distrae dalla questione effettiva, rischiando, con l'alibi dell'urgenza, di far passare per una ovvietà la tortura istituzionalizzata. Ecco perché lo scenario della bomba a orologeria non è che un'impostura, un raggiro, nonché un potente strumento di propaganda.

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Rendere legale ciò che è ingiusto ha conseguenze, non solo per l'etica, ma anche per lo Stato di diritto. Che cosa vuol dire esporre pubblicamente la tortura, metterla allo scoperto, facendola emerge dalle segrete e dai sotterranei di Stato, dove di solito è praticata nel segno della negazione che non lascia traccia? Che cosa significa, terminata da secoli l'età dei supplizi, atroci e spettacolari, raggiunta l'abolizione, stentata e vacillante, della tortura, ripristinarne apertamente l'uso, per quanto eccezionale, in una democrazia? Quali rischi comporta?

L'istituzionalizzazione della tortura mina l'idea di giustizia. Fa dello Stato un torturatore legale. Perché la tortura non spinge tanto lo Stato nello spazio dove non vige più il diritto - dato che lo Stato, anche quello democratico, può legalizzarne la pratica - quanto piuttosto lo porta a servirsi in modo illegittimo dei mezzi che i cittadini hanno ceduto, per garantire la propria sicurezza. Così lo Stato contravviene allo scopo precipuo del suo potere di coercizione, abusa di quel suo monopolio di violenza legittima, delegato solo per evitare l'erompere delle violenze singole. È la lezione di Thomas Hobbes. La delega è temporanea e condizionata al rispetto dei cittadini, che richiedono di essere tutelati nella loro integrità umana, nella loro inviolabilità, fisica e psichica, un rispetto che perciò è richiesto anche per gli stranieri, i non-cittadini, i residenti provvisori che sono ospiti.

Se lo Stato tortura, non abusa solo del potere, ma incrina anche la fiducia dei propri cittadini che, anziché difesi, vengono inaspettatamente offesi, colpiti nella loro disarmata vulnerabilità. Lo Stato che tocchi il corpo di un cittadino è già illegittimo. Anche se si tratta di un detenuto. Se a compiere la violenza è un agente, un funzionario dello Stato, allora quest'ultimo può e deve intervenire per sanzionare il colpevole e ripristinare l'ordine civile. Ma là dove è lo Stato a diventare un torturatore legale, chi sanzionerà?

Si capisce perché l'agente o il funzionario, che usa illegittimamente violenza, tenda a dissimularsi, a operare nel segreto, a fare come se agisse a proprio nome, non a nome del potere coercitivo che gli deriva dall'autorità statale. Questo consente allo Stato di intervenire ogni volta, come istanza terza e mediatrice, in quel corpo a corpo che si consuma tra il suo agente e il soggetto violato, e in cui rischia di cancellarsi lo spazio stesso del politico. Proprio in quanto è violenza che si esercita sull'altro, in quella sua inviolabilità, che dovrebbe essere alla base di ogni democrazia, la tortura ha il sapore acre e ripugnante del regresso allo stato di natura e alla legge del più forte.

L'istituzionalizzazione della tortura contraddice la finalità dello Stato democratico. D'un tratto non c'è più un'istanza regolatrice; viene meno lo Stato di diritto. Di più: lo Stato, alla fin fine, si autonega.

Che a essere torturati legalmente siano i "nemici" piuttosto che i cittadini, comunque la tortura legale estende la sua azione distruttiva investendo, al di là del torturatore e della vittima, tutti i membri della comunità. Perché tutti saprebbero che quella violenza, legale e illegittima al contempo, viene esercitata a loro nome. Potranno illudersi che una tortura chirurgica, nel contesto di uno stato d'eccezione, non sia pervasiva. Ma dovranno presto ricredersi, perché, diventata istituzione legalmente riconosciuta, la tortura degenererà in politica di massa, corrompendo l'intero corpo sociale. Le democrazie, che immaginavano di distinguersi, in questo, dai regimi totalitari, scopriranno di non essere immuni.

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8. Da Torquemada a Scilingo. Quattro ritratti


Forse nessuna figura è tenebrosa e fosca, enigmatica e perversa, come quella del torturatore. Che assuma l'aspetto altero dell'inquisitore o si nasconda dietro la maschera crudele del boia, con il tempo si è circondato dall'aura favolosa del mito, occupando un posto di primo piano nell'immaginario comune che la letteratura, a sua volta, ha alimentato. Basti pensare al Grande Inquisitore di Dostoevskij. Ciò ha contribuito a respingerlo in una lontananza estranea e rassicurante. Come se il torturatore avesse tratti non umani, mostruosi e diabolici.

Ma chi è realmente il torturatore? Come appare questa figura nel corso della storia? Si possono scorgere caratteri che, pur nelle differenze, tornano a ripetersi? Per rispondere, varrà la pena delineare a larghi tratti quattro figure: la prima, storicamente più distante, e nondimeno famosa, o famigerata, è quella di Tomás de Torquemada, le altre, più vicine, ma forse meno note, sono quelle del generale francese Paul Aussaresses, di Kaing Guek Eav, detto Duch, esponente dei Khmer Rossi, e infine dell'argentino Adolfo Scilingo.

Come a proposito della distinzione introdotta fra tortura e sterminio, anche nel caso del torturatore occorre evitare confusioni fuorvianti. Non si tratta solo di quantità e, dunque, del numero gigantesco di vittime eliminate nella catena di montaggio che funzionava, notte e giorno, nelle officine hitleriane. Il punto dirimente è il faccia a faccia. I nazisti lo sapevano bene. Perciò si sono trincerati dietro le loro scrivanie. Com'è noto, Adolf Eichmann non torturò né uccise mai nessuno. Il che non ne riduce la smisurata, epocale responsabilità. Pur avendo ricoperto cariche gerarchiche diverse, dal semplice aguzzino al comandante di un campo di internamento, il torturatore è quello che ha inflitto violenza senza esimersi dal guardare negli occhi la vittima. Anche là dove si sia limitato a ordinare la violenza. Torturare non è uccidere - l'industrializzazione della morte non ha un equivalente nell'industrializzazione della tortura. E questo perché la tortura è violenza meditata e distillata che richiede un faccia a faccia, non meno che un corpo a corpo.

[...]

Più impenetrabile è la personalità di Torquemada, le cui azioni tuttavia furono dettate da fede nella verità assoluta, ricorso a una crudeltà metodica, uso del terrore come strumento teologico-politico di controllo. Tradendo l'insicurezza del marrano, che voleva affermare la sua identità cristiana appena acquisita, fissò il suo bersaglio dapprima nei conversos e nei giudaizzanti, quindi negli ebrei, colpevoli non tanto di rappresentare l'estraneità, quanto di non permettere ai conversos di cancellarla, consegnandola al passato. Questo vuol dire che l'ideale di purezza di Torquemada non era fondato sul sangue, bensì sull'acqua e sul fuoco. Un marrano poteva liberarsi del proprio ebraismo e entrare a far parte della Nuova Spagna. Per questa purificazione, se non fosse stata sufficiente l'acqua del battesimo, sarebbe bastato il fuoco dei roghi.

L'intento della purificazione resta, nei secoli, uno dei motivi scatenanti della distruzione - come chiarisce bene Jaques Sémelin (2007). L'ideologia purificatrice può variare, ma invariata è la convinzione. Di qui il rifiuto al pentimento opposto da torturatori illustri. Protagonista di una accesa polemica, scatenatasi in Francia, è stato Paul Aussaresses, generale dell'esercito francese, comandante della Legion d'onore e medaglia alla Resistenza. Entrato, alla fine della seconda guerra mondiale, nel servizio di controspionaggio francese, praticò la tortura, prima nella guerra d'Indocina, poi in quella d'Algeria. A lungo fu considerato un eroe militare e godette di ottima reputazione. Fin quando lui stesso non decise di rompere il silenzio rivendicando la tortura quale «arma» al pari di altre. «Da parte mia, non mi pento», ha dichiarato in una famosa intervista. «La tortura non mi ha mai fatto piacere, ma mi sono deciso quando sono giunto ad Algeri. A quell'epoca era già generalizzata». Prima di morire, nel 2013, è tornato più volte sull'argomento, anche con un libro di memorie (2001). E come Torquemada è diventato il simbolo dell'Inquisizione, così Aussaresses è diventato il simbolo della tortura francese in Algeria.

Kang Guek Eav, detto Duch, è tra i pochissimi accusati di crimini contro l'umanità ad aver riconosciuto, già durante il processo, iniziato il 17 febbraio 2009 davanti al tribunale di Phnom Penh, i fatti che gli vengono imputati. La sua vita è legata a uno dei capitoli più bui della storia recente, quello della dittatura di Pol Pot, che durò dal 1975 al 1979.

[...]

Nel campo veniva accuratamente evitata la morte dei prigionieri, sottoposti invece a torture indicibili. La violenza sessuale sulle donne, anche sulle bambine, era la norma. Usuali erano bastonature e fustigazioni a sangue; si ricorreva all'elettroshock e all'uso di strumenti metallici incandescenti. L'elenco potrebbe continuare. Tutto ciò e altro ancora, è documentato anche grazie all'ordine meticoloso di Duch, il quale ha fatto sì che venissero conservate persino le foto di tutte le vittime del campo S-21.

Dopo la fine della dittatura di Pol Pot, nel gennaio del 1979, Duch abbandonò la capitale, non senza prima aver ucciso di sua mano tutti gli ultimi prigionieri. Si eclissò a lungo e, in quegli anni, dopo aver cambiato identità ed essersi convertito al cristianesimo, visse in mezzo ai rifugiati tra la Cambogia e la Cina. Nel 1999 un giornalista irlandese lo riconobbe e lo intervistò. Subito dopo l'intervista Duch si arrese alle autorità.

Concordano i diversi ritratti che di lui sono stati forniti. Per Rithy Panh, che nel 2003 ha realizzato il film documentario S-21. La macchina di morte dei Khmer Rossi, Duch è uno «spirito matematico», modesto e cortese, con la mania dell'archivio e la fissazione per l'ordine. Nel documentario viene ripetuta la frase «meglio arrestare per errore che liberare per errore», che Duch aveva formulato e che si era poi diffusa con successo. Insegnante modello, rivoluzionario irreprensibile, era convinto di possedere la verità ed era assillato dalla menzogna che credeva di vedere ovunque. «La loro doppiezza - confessa a Bizot, durante un colloquio, riferendosi ai prigionieri - mi è insopportabile. La sola maniera è terrorizzarli, isolarli, affamarli. È molto dura! Devo farmi violenza. Non immagini come la loro menzogna mi esasperi» (Bizot, 2006, p. 94). Era certo che contro i Khmer Rossi veniva ordita una grande cospirazione e che il suo sistema di tortura avrebbe potuto metterla allo scoperto. Era un abile organizzatore; sorvegliava tutto, annotava puntigliosamente le confessioni, le commentava. Eppure ammette: «Non ho mai creduto che le confessioni dicessero la verità». Le sue parole sono riportate nella testimonianza di Thierry Cruvellier, il giornalista francese che ha seguito il processo e ha poi pubblicato il libro Le maître des aveux (2011, p. 79).

In modo analogo Duch è stato descritto dagli esperti psichiatri, in particolare da Françoise Sironi, psicanalista e membro di Amnesty International. La formazione personale di Duch si coniuga con il contesto culturale del tempo. «La mia unica colpa è di non aver servito Dio. Ho servito gli uomini, ho servito il comunismo» - queste le sue parole. La necessità di fondersi nel gruppo, l'impegno senza limite, il bisogno di essere riconosciuto dal maestro o dal superiore, l'esigenza di servire, la passione dell'obbedienza, insieme a uno zelo mortifero, una freddezza estrema, fanno di Duch il prototipo del torturatore novecentesco che non ha solo deumanizzato le sue vittime, ma alla fine anche se stesso. Duch nel 2010 è stato condannato all'ergostolo dal tribunale della Cambogia, sotto l'egida dell'ONU, per crimini contro l'umanità.

Sebbene abbia ricevuto in Spagna, nel 2005 la stessa condanna - i motivi addotti sono «torture, genocidio, terrorismo» - per complessivi 640 anni di carcere, molto diversa è la storia di Adolfo Scilingo, ufficiale della Marina Militare argentina durante la dittatura di Videla dal 1976 al 1983.

«Sono stato all'ESMA. Le voglio parlare». Così Scilingo si rivolse al giornalista Horacio Verbitsky (2008, p. 13). Ne nacque una lunga e sconvolgente intervista, pubblicata con il titolo El vuelo. Le sue rivelazioni furono come un fulmine che colpì in ogni sua fibra l'Argentina. Già il 2 marzo 1995, quando uscì il volume, la stampa riprese le parole del militare e la televisione trasmise parti del dialogo registrato. L'effetto fu dirompente. A parlare non erano le vittime sopravvissute o i parenti delle vittime, bensì uno dei carnefici. Il suo racconto, tanto più agghiacciante, perché veniva dalla parte di chi aveva contestato ogni accusa per anni, confermava tutto quel che si presumeva sui voli della morte. La narrazione del carnefice coincideva questa volta con quella delle vittime. E lasciava affiorare il recente passato che l'Argentina aveva in parte tentato di rimuovere.

Scilingo parlò del suo lavoro all'ESMA, la Escuela de Mecánica de la Armada, il più famoso campo di internamento della dittatura, al centro di Buenos Aires, dove in migliaia furono torturati. Nella cosiddetta "guerra sporca" la tortura fu l'arma scelta dai generali. Soprattutto chiarì e precisò il modo in cui venivano messi a punto gli aerei che dall'ESMA decollavano verso Punta Indio e poi facevano rotta verso il mare aperto. Si trattava di far scivolare giù i corpi dei detenuti, di farli così scomparire. Desaparecidos. «Mi sembra inaccettabile il termine desaparecido, e che inoltre lo porti io sulle mie spalle. Perché né io né nessun altro nella Marina abbiamo fatto scomparire nessuno. Abbiamo eliminato il nemico in guerra» (2008, p. 51). Tuttavia qualcosa non funzionò e la corazza di Scilingo andò in frantumi. Accadde nel 1977 durante un volo. D'un tratto fu lì lì per precipitare in mare con una delle sue vittime. Vide allora se stesso al loro posto, si identificò, riconobbe nel "nemico" un essere umano. S'infranse il meccanismo militare, quell'ingranaggio di cui Scilingo era stato una rotella. Così ha ricordato quell'episodio (2008, pp. 66-67):

Ci sono quattro cose che mi fanno stare male: i due voli che ho fatto, la persona che ho visto torturare e il ricordo del rumore delle catene e dei ceppi che venivano messi ai prigionieri. [...]. Quando ci penso vado fuori di testa. Una volta che avevano perso i sensi, venivano spogliati e, quando il comandante, a seconda di dove si trovava l'aereo, dava l'ordine, si apriva lo sportello e venivano gettati di sotto nudi, uno a uno. Questa è la storia. Macabra ma reale, che nessuno può smentire. Non riesco a dimenticare l'immagine dei corpi nudi sistemati l'uno sopra l'altro nel corridoio dell'aereo come in un film sul nazismo. Venivano adoperati aerei Skyvan della Prefettura ed Electra della Marina. Nello Skyvan venivano gettati dallo sportello posteriore, che si apre verso il basso. È uno sportello molto grande, ma senza posizioni intermedie - o è chiuso o è aperto. Rimane perciò in posizione aperta. Il sottoufficiale teneva giù con il piede una specie di porta oscillante, per lasciare uno spazio di 40 centimetri verso il vuoto. Da lì cominciavano subito dopo a scaricare i sovversivi. Data la situazione, nervoso com'ero, per poco non cado e vengo risucchiato nel vuoto.


A nulla valsero i bicchieri di whisky, mandati giù d'un fiato, i sonniferi per superare la notte o gli psicofarmaci per farsi forza durante il giorno. Non lo confortarono neppure le parole del cappellano militare che, assicurandogli il placet delle gerarchie ecclesiastiche, aveva definito quella morte «cristiana e poco violenta», scomodando persino la parabola che ingiunge la separazione del grano dal loglio. Scilingo non trovava pace: il vuoto del mare lo divorava. A ogni passo temeva di mettere il piede in fallo. E i fantasmi dei volti addormentati e dei corpi nudi lo perseguitavano in sogno.

«Sono un assassino» - ha ammesso in una intervista televisiva. Ma i sensi di colpa devastanti, che non è riuscito a mitigare, non gli hanno fatto cambiare idea: «Era qualcosa di supremo che si faceva per il paese. Un atto supremo» (2008, p. 37). Ha chiesto quindi indulgenza per chi, come lui, ha solo eseguito gli ordini. Anche Tommaso d'Aquino, però, il santo patrono delle destre ispanoamericane, sostiene nella sua Summa theologiae che, se l'obbedienza è «la più grande delle virtù morali», tuttavia «l'inferiore non è tenuto a obbedire al superiore», se quest'ultimo comanda ciò che non è lecito compiere (II, 11, 104, 5). Sarebbe insomma tempo che venisse riconosciuta una colpa di obbedienza.

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6. Il gulag globale della CIA


La tortura dell'ultimo mezzo secolo porta impresso il marchio della CIA. È ipocrita presentare gli abusi commessi dai soldati americani in Afghanistan, a Guantánamo, in Iraq, come se fossero un unicum, un errore senza precedenti, in cui sono incorsi pochi individui irresponsabili, perché vuol dire astrarre volutamente da una lunga tradizione che si è andata sviluppando nella lotta contro la «sovversione comunista».

Quando in Europa scese la Cortina di Ferro, la mente umana diventò tacitamente uno degli ambiti dello scontro bellico. La posta in gioco era il mind control, il controllo delle menti. Tutto ebbe inizio, secondo lo storico Alfred McCoy, con lo scalpore suscitato dallo spettacolo delle confessioni pubbliche durante i primi processi sovietici. Anche personaggi ritenuti coraggiosi, si piegavano senza opporre resistenza. Fu d'un tratto evidente che le tecniche più efficaci non erano quelle che ricorrevano alla violenza fisica, bensì quelle che miravano alla psiche. A partire dal 1950 la CIA Si impegnò nel costosissimo progetto segreto MKUltra con l'intento di compiere ricerche sulla coscienza umana e mettere a punto metodi estremi di controllo: dall'ipnosi alle droghe allucinogene (in particolare LSD), dalle scosse elettriche alle deprivazioni sensoriali. Parteciparono medici, ricercatori, scienziati, e contribuirono rinomati ospedali, prestigiose università, nonché, ovviamente, le forze armate. Poiché la CIA era l'agenzia leader nell'intelligence, riuscì a trovare enormi risorse, finendo per compromettere tutta la società americana. E non mancò di servirsi delle competenze acquisite dai medici nazisti, tra i quali Kurt Plötner, che a Dachau aveva sperimentato la mescalina sui prigionieri ebrei. La guerra dello spionaggio contro l'Unione Sovietica passò attraverso il controllo dei cervelli.

Si trattò di una vera e propria svolta nella crudele scienza del dolore. La tortura psicologica diventò l'arma segreta della NATO contro il comunismo e la psicologia cognitiva fu l'ancella servizievole della sicurezza di Stato. Il nuovo paradigma univa due metodi: sensory desorientation, il disorientamento sensoriale, e self inflicted pain, il dolore autoinflitto. Raffinati in anni di pratica, hanno dato modo di perfezionare una sinergia il cui esito è il caos esistenziale.

Ciò emerse con chiarezza dai risultati, ottenuti con questi metodi, sulle vittime delle torture perpetrate durante il regime di Augusto Pinochet. Lo psichiatra cileno Otto Doerr-Zegers (1992) imputò molti sintomi, dall'ansia alla paranoia, talvolta irreversibili, alla nuova fenomenologia della tortura che si era andata delineando. Parlò di un teatro totale dove gli aguzzini erano gli attori di una trama fittizia che, recitata su un set con luci speciali, effetti sonori, colpi di scena, culminava nella distruzione della vittima.

Mentre le droghe si erano rivelate inefficaci, decisivo fu l'esperimento, finanziato dalla CIA e condotto all'Università McGill di Montreal dallo psicologo canadese Donald O. Hebb, che mostrò gli effetti devastanti provocati dalla deprivazione sensoriale. Non meno importante fu la scoperta del dolore autoinflitto - ad esempio in una posizione di stress - dove viene meno la volontà di resistere, perché la vittima percepisce se stessa come causa della propria sofferenza.

La CIA raccolse e codificò i risultati di queste ricerche nel manuale Kubark Counterintelligence Interrogation, detto poi semplicemente Kubark (nome in codice della CIA), redatto nel 1963 e diffuso per anni in tutti i paesi sotto la sfera d'influenza americana. Un altro manuale di interrogatorio fu lo Human Resource Exploitation Training Manual, che la CIA trasmise nel 1983 alle autorità dell'Honduras. Infine il terzo è costituito dalle istruzioni per il trattamento dei prigionieri, stilate nel 2003 dal generale Ricardo Sanchez, comandante delle forze americane in Iraq.

Questi manuali, soprattutto il Kurbak, su cui la CIA ha formato intere generazioni di torturatori, contribuirono in modo determinante alla diffusione capillare e indiscriminata della tortura in Asia, in Africa e in America Latina. Solo nel 1971 fu addestrato più di un milione di agenti in 47 nazioni. Ciò rese possibile il coinvolgimento diretto della CIA nella politica estera, anzitutto con il programma Phoenix, inaugurato sotto la presidenza Kennedy e collaudato nel 1967 contro i Viet Cong. Enorme fu l'impatto di questi manuali in America Latina dove le tecniche estreme impiegate dalle dittature provenivano direttamente dalla democrazia americana. La tortura restò il cardine della strategia perseguita dalla CIA anche nel segretissimo "progetto X" i cui documenti sono stati interamente distrutti dal Pentagono. Occorre sottolineare la doppiezza sistematica per cui, da un canto l'esercito americano si asteneva ufficialmente dalla tortura, secondo i dettami della Convenzione di Ginevra e del Field Manual, il manuale militare, dall'altro la CIA violava ogni divieto sulla tortura sperimentando e diffondendo i nuovi metodi. Mentre gli Stati Uniti si presentavano sul sipario internazionale come paladini dei diritti umani, Amnesty International seguiva le tracce della CIA per rinvenire e denunciare la tortura dietro le quinte.

Le tecniche si ripetevano, in una continuità innegabile, i metodi si affinavano, mentre si ampliava e si rafforzava il gulag globale della CIA, un dominio che ha ruotato intorno al cardine della tortura e che si è costituito attraverso legami antichi, alleanze consolidate, prigioni condivise, ma soprattutto mediante il vincolo della segretezza e il linguaggio comune della violenza.

Su tutto ciò la CIA può fare assegnamento all'indomani dell'11 settembre. Se la tortura è diventata l'arma privilegiata nella "guerra al terrore" è grazie al gulag globale della CIA. L'unica difficoltà è che, se l'agenzia di intelligence era in grado prima di reclutare collaboratori, ciò diventa pressoché impossibile nella lotta contro gli jihadisti. Di qui l'acuirsi delle pratiche efferate, il subappalto della tortura a paesi terzi, il coinvolgimento di molte nazioni nella extraordinary rendition. Il bilancio nei primi due anni di "guerra al terrore" è così riassunto da McCoy (2008, p. 182):

quasi 14000 detenuti di sicurezza iracheni sottoposti a duro interrogatorio, spesso con tortura; 1100 prigionieri di "alto valore" interrogati, con tortura sistematica, a Guantánamo e a Bagram; 150 rendition extralegali di sospetti terroristi in nazioni note per la loro crudeltà; 68 detenuti morti in circostanze sospette; 36 detenuti di alto rango affiliati ad Al Qaeda sottoposti per anni alle dure torture della CIA; 26 detenuti assassinati durante l'interrogatorio, almeno 4 dei quali dalla CIA.

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7. Guantánamo. Il campo del nuovo millennio


Arancione, un colore altrimenti radioso e allegro, è divenuto negli ultimi anni il simbolo della tortura. Sono impresse nell'immaginario collettivo le foto di uomini in tuta arancio, ripiegati su di sé, atrofizzati in stie d'acciaio: sono i sospetti terroristi, i "combattenti illegali", detenuti dal governo degli Stati Uniti nel campo di Guantánamo a Cuba. Di bianco sono vestiti coloro che hanno mostrato un positive behaviour, un comportamento positivo, espiando le proprie colpe passate con la collaborazione. E si sono lasciati indietro il fitto traliccio di metallo e la pesante benda di nylon verde che separa Camp 4, il braccio dei "privilegiati", dalle gabbie metalliche del famigerato Camp X-ray, in seguito rinominato Camp Delta, il sarcofago degli arancioni.

Guantánamo è la metonimia del campo nel nuovo millennio, l'iperbole della detenzione indefinita, l'effetto ultimo dello stato di eccezione, il fronte arretrato e decisivo della guerra al terrore. Eppure Gitmo, secondo l'abbreviazione del codice militare, è la punta dell'iceberg, il campo più grande e più conosciuto nel gulag globale della CIA. Di campi più segreti, come quello allestito nella base aerea americana di Bagram, in Afghanistan, si sa poco, di altri non si saprà forse mai.

Guantánamo ha cominciato a funzionare l'11 gennaio 2002. Erano passati quattro mesi esatti dall'attentato alle Twin Towers. In America il dibattito sulla tortura aveva già prodotto i primi risultati: si poteva parlare apertamente di quel male minore a cui ricorrere nell'emergenza. Gran parte dell'opinione pubblica si andava convincendo che fosse opportuna la violenza su uno solo per impedire quella su molti. Tanto più che si faceva strada il distinguo fra tortura e coercizione e a molti, anche liberal, sembrava ragionevole e non ipocrita - come spiegò in seguito il giornalista Marc Bowden (2003) - ottenere informazioni da un terrorista forzando un po'. Del resto Bush aveva già decretato il 13 novembre 2001 la sorte dei "combattenti illegali", dannati senza condanna, espulsi e tuttavia trattenuti, destinati a un confino d'acciaio per essere sottoposti all'arte oscura dell'"interrogatorio coercitivo". Non restava che individuare sulla carta geografica un luogo remoto, ma raggiungibile, estraneo alla giurisdizione, ma controllabile, una base americana in terra straniera. Fu scelto Guantánamo Bay.

I primi venti sospetti terroristi vennero scaricati con il "volo 01" proveniente da Bagram nella notte dell'11 gennaio 2002. Due giorni dopo il "volo 02" ne scaricò altri trenta. L'elenco degli arrivi e delle rarissime partenze è pubblicato nel sito della Joint Task Force Guantánamo. Il culmine è stato raggiunto nel 2003 con un numero di 680 detenuti - di 42 nazionalità e 19 lingue. In seguito le cifre si sono via via ridotte. Nel 2011 i detenuti erano 172. Malgrado il contrastato piano di chiusura che, ordinato dall'amministrazione Obama già nel 2009, ha dato avvio a pochi rimpatri e molti trasferimenti, a Guantánamo restano ancora oggi circa novanta detenuti.

Così Muhammad Naim Faruq, internato per alcuni mesi, ha descritto il suo volo verso la baia.

Ero stato catturato in Afghanistan e, a un certo punto, ci dissero che ci avrebbero trasferito in un luogo che non eravamo tenuti a conoscere. Ritengo che fossimo a metà del 2002. Fummo caricati su un aereo. Ero incappucciato e ammanettato dietro la schiena. I ferri erano così serrati che, dopo qualche ora, i polsi cominciarono a sanguinare. Ricordo che, durante il volo, molti dei miei compagni cominciarono a piangere, come impazziti.


A Guantánamo il tempo è sospeso in quella detenzione indefinita su cui ha insistito Judith Butler (2004, pp. 71-110). La tortura è già inscritta nelle condizioni della quotidianità. La cella è una gabbia modulare di 1,8 metri per 2,32, un parallelepipedo di acciaio aperto su tutti e quattro i lati e chiuso sopra da cemento armato e lamiera; il letto è una rete di ferro che occupa buona parte della gabbia. Massimo isolamento, totale esposizione, nessuna intimità, neppure per i momenti più privati. Dalla gabbia si esce novanta minuti a settimana. Ma si esce solo e sempre dopo aver messo una cintura di cuoio, stretta in vita da anelli agganciati a due metri di catena che legano caviglie e polsi (cfr. Bonini, 2004, pp. 21 e sgg.).

Nello zoo per umani, dove tutto è vietato, la depressione logora, corrode i corpi, scava le anime. Un consistente staff di psichiatri somministra psicofarmaci. I dannati in tuta arancione vengono tenuti in vita - che lo vogliano o no - per via delle informazioni che potrebbero fornire. Alcuni hanno tentato di togliersi la vita rifiutando il cibo. Altri hanno provato a impiccarsi. Ma la gabbia è troppo bassa e, pur infilando la testa al cappio appeso, non si riesce a morire e si resta in preda a convulsioni che lasciano segni indelebili.

In casematte di cemento senza finestre, dove la luce elettrica non si spegne mai, sono stati condotti gli "interrogatori coercitivi" sui sospetti di Al Qaeda. Niente tortura. Ma dieci metodi duri, tra i quali il waterboarding, nella forma in cui è stato approntato dalla CIA. Il prigioniero è legato a un'asse inclinata, con i piedi in alto e la testa in basso, mentre braccia e gambe sono bloccate; l'acqua rovesciata nella gola procura dolore e provoca l'effetto dell'annegamento. I comandanti di Guantánamo hanno ottenuto di poter ricorrere, durante gli interrogatori, a stress position anche per otto ore, impiego di benda o cappuccio, interrogatori di venti ore, isolamento fino a trenta giorni, esposizione a freddo o a caldo estremo, sconvolgimento dei cicli del sonno, uso di cani, privazione sensoriale monitorata da medici, tecniche di «abbassamento dell'ego» anche attraverso abusi sessuali o interrogatori condotti da inquisitrici donne. Agghiaccianti sono i pochi racconti degli interrogatori compiuti nell'hangar di Bagram, vicino Kabul.

Il generale di divisione Geoffrey D. Miller, comandante a Guantánamo dal novembre 2002 all'aprile 2004, incaricato da Donald Rumsfeld di "ghitmoizzare", in inglese di gitmoize, il carcere iracheno di Abu Ghraib, è stato accusato da Human Rights Watch di crimini di guerra commessi nelle torture inflitte ai detenuti.

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8. Abu Ghraib. Le foto della vergogna


Il 28 aprile 2004 la trasmissione 60 Minutes II della CBC manda in onda immagini digitali che provengono dal carcere di Abu Ghraib, in Iraq. Le foto, a metà tra l'abuso sessuale e la tortura, ritraggono guardie carcerarie, sia uomini sia donne, che apparentemente godono dei loro atti atroci. Al punto da mettersi in posa e fissare così, a eterna memoria, quel loro abietto trofeo.

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11. Tormenti e torture made in Italy


Le violenze emerse durante il G8 di Genova, gli abusi recenti compiuti dalle forze dell'ordine su cittadini inermi nelle stazioni di polizia o addirittura per le strade della città italiane, non sono episodi inediti e isolati. Per quanto suoni paradossale, il paese di Beccaria e di Verri può vantare una lunga tradizione nell'arte della tortura. Se Benito Mussolini, una volta salito al potere, si avvalse dell'OVRA (Opera Vigilanza Repressione Antifascista), la polizia politica e i servizi informativi, per torturare i nemici dello Stato, nell'immediato dopoguerra si ripetevano i casi di confessioni estorte dalla polizia. Fu Lelio Basso a denunciare la pratica ancora diffusa della tortura investigativa (1953).

Negli anni di piombo un dispositivo collaudato, ma usato sporadicamente, fu impiegato in modo sempre più intenso e sistematico. Il bersaglio furono i militanti della "lotta armata" intesa in senso abbastanza ampio. Tra la fine degli anni settanta e nei primi anni ottanta si andarono accumulando le denunce per tortura raccolte da Amnesty e riferite in Parlamento. L'elenco dei nomi, soprattutto di brigatisti, sottoposti a tortura, è fitto, e probabilmente incompleto. La reazione di chi allora aveva responsabilità politiche fu quella di negare o, tutt'al più, di ridurre la gravità di quel che avveniva, appellandosi alla ragion di Stato. Al 1982 risalgono le prime significative interpellanze parlamentari, firmate da esponenti del PdUP, degli indipendenti e del Partito Radicale, che puntano l'indice contro i «metodi duri» autorizzati dal Ministro degli Interni Virginio Rognoni e parlano apertamente di «torture» inflitte ai brigatisti. Lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia, parlamentare radicale, pronuncia una dura condanna contro uno Stato pronto a torturare dietro le quinte ( Amnesty 1985, VIII):

Non c'è paese al mondo, credo, che ormai ammetta nelle proprie leggi la tortura; ma di fatto sono pochi quelli in cui le polizie, sottopolizie e criptopolizie non la pratichino. Nei paesi scarsamente sensibili al diritto - anche quando se ne proclamano antesignani e custodi - il fatto che la tortura non appartenga più alla legge ha conferito al praticarla occultamente uno sconfinato arbitrio.


Ciò che dalle paludi melmose della storia italiana è andato affiorando di recente è la conferma di quel che si sapeva o si intuiva, ma che porta però la firma dei protagonisti di quelle torture, a suggello della narrazione fornita già dalle vittime. Nella sua Storia della colonna infame Alessandro Manzoni cita il trattato di Francesco Casoni De indiciis et tormentis pubblicato nel 1257 a Venezia (1843, pp. 55-56). Deve aver preso spunto da qui il prestigioso poliziotto Umberto Improta, allora vicequestore e capo operativo nella lotta contro le Brigate Rosse, per coniare il minaccioso soprannome di un suo subordinato: il «professor De Tormentis». Presente ovunque si torturasse, ma sempre rigorosamente nell'ombra, ammantato di una tetra segretezza, De Tormentis appare, nelle testimonianze e nei racconti di quegli anni, un personaggio chiave. Si guadagnava quell'appellativo dispensando sofferenze a piene mani. Giungeva con le sue "squadre speciali", due delle quali avevano nomi all'altezza di quello del loro capo: una era chiamata «I cinque dell'Ave Maria», l'altra «I vendicatori della notte».

Sebbene sembri uscito da un grottesco noir, De Tormentis è realmente esistito. Lo ha incontrato il giornalista Nicola Rao che, nel suo libro Colpo al cuore, pubblicato nel 2012, ha ricostruito l'esito finale dello scontro fra Stato e Brigate Rosse nella versione non ufficiale. Perché fin qui si è sempre asserito che lo Stato avrebbe avuto la meglio, senza mai ricorrere a metodi non democratici, all'arma inconfessabile della tortura. Non è così. E la storia ufficiale dovrà essere riscritta.

Le rivelazioni decisive si devono a Salvatore Genova, detto Rino, ex commissario di polizia e capo del NOCS (Nucleo operativo centrale di sicurezza). «Succedeva esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, come era scritto persino su un ordine di servizio, e poi venivano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale». Durante l'intervista rilasciata l'8 febbraio 2012 al giornalista Gianloreto Carbone, nel corso del popolare programma della RAI Chi l'ha visto?, Genova parla di De Tormentis, che presiedeva al waterboarding italiano, senza tuttavia farne il nome.

Ha scelto invece di svelarne identità il «Corriere della Sera» in un articolo del 10 febbraio 2012. De Tormentis è Nicola Ciocia, ex capo dell'UCIGOS, l'Unità antiterrorismo del Ministero dell'Interno, andato in pensione nel 2004, con il grado di questore, dopo una carriera di successi, e ritiratosi a vita privata nella sua casa sulla collina del Vomero. Appartenente alla Fiamma Nazionale, di sé dichiara: «sono da sempre fascista mussoliniano. Per la legalità». Nega di aver mai praticato la tortura. Si lascia tuttavia sfuggire un riferimento a Enrico Triaca con il quale certi metodi non avrebbero funzionato. Arrestato nel maggio del 1978, Triaca fu sottoposto a waterboarding. Denunciò la tortura e, in compenso, fu a sua volta condannato per calunnia. Ciò accadde peraltro a tutti i terroristi, veri o presunti, che furono allora torturati. Si sostenne che la denuncia della tortura era un'arma ulteriore di cui si avvalevano le BR. Per di più i giornalisti, come Pier Vittorio Buffa e Luca Villoresi, che delle torture parlarono con dovizia di particolari, finirono arrestati per aver rifiutato di rivelare le loro fonti; furono liberati solo quando, esponendosi in prima persona, due funzionari di polizia dichiararono di aver passato loro le notizie.

Sebbene la storia italiana sia fitta di misteri che attendono di essere risolti, si può dire ormai che il «colpo al cuore» venne inferto dallo Stato alle BR al tempo del sequestro Dozier e fu innegabilmente tortura.

Il generale americano James Lee Dozier, comandante della NATO nell'Europa meridionale, fu sequestrato dalla Brigate Rosse a Verona il 17 dicembre 1981. Non fu chiesto nessun tipo di riscatto. Il che lasciò subito pensare al peggio. Gli Stati Uniti intervennero esercitando una forte pressione sul governo italiano. Dopo un tempo inspiegabilmente breve, Dozier fu liberato a Padova il 28 gennaio 1982.

La liberazione non era stata per nulla spontanea, come le fonti istituzionali avevano voluto far credere. Alle squadre speciali dell'antiterrorismo fu ordinato di usare le maniere forti. Far male agli arrestati — senza lasciare segni. Né morti, né feriti. Perciò furono chiamati in soccorso gli specialisti dell'interrogatorio duro: De Tormentis e i suoi. Il 23 gennaio fu arrestato Nazareno Mantovani. Prima lo «disarticolarono», quindi fu consegnato nelle mani di De Tormentis. Qualche giorno dopo Ruggero Volinia e la sua compagna Elisabetta Arcangeli furono catturati e condotti in questura, in un locale dove, separati da un muro, l'uno potesse sentire l'altra. Arcangeli venne denudata e sottoposta a sevizie sessuali. A sua volta Volinia venne picchiato brutalmente; quindi fu portato in un villino affittato all'occorrenza, dove lo sottoposero al consueto trattamento di De Tormentis: quattro uomini lo legarono a un tavolo, la testa reclinata indietro, mentre con un imbuto gli versarono in gola grandi quantità di acqua e sale. Parlò e indicò l'appartamento dove era sequestrato Dozier.

Il blitz fu un successo. Le torture sortivano un effetto immediato. Parlò anche Antonio Savasta. Seguirono centinaia di arresti. Agenti inesperti si improvvisarono torturatori. Ma si ricorse anche alla esecuzione simulata, come nel caso di Cesare Di Lenardo. Una città dopo l'altra, una retata dopo l'altra, in un crescendo che portò alla dissoluzione irreversibile delle Brigate Rosse.

Per i torturatori valsero l'amnistia e l'amnesia. Così lo Stato italiano affidò la difesa della democrazia alle torture di De Tormentis, un efficiente fascista mussoliniano. Ha scritto Adriano Sofri: «Non importa che usassero il nome di tortura: non si fa così nelle ragioni di Stato, e del resto la Repubblica Italiana si guarda dal riconoscere l'esistenza di un reato di tortura. È superfluo, dicono. Bastava assicurare spalle coperte».




12. Perché è reato


Il passato recente dovrebbe far supporre che da tempo, se per caso non esistesse già, sia stato introdotto in Italia il reato di tortura. E invece non è così. Nel Codice Penale italiano la tortura, finora, non è stata dichiarata "fuori legge".

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Intimo è il nesso che unisce la tortura alle altre grandi imprese di distruzione, al genocidio e allo sterminio. La tortura svolge un ruolo decisivo nell'economia del male. Surrettiziamente prepara alla malvagità, tacitamente abitua all'efferatezza. La distruzione perpetrata dalla tortura non è l'annientamento compiuto dallo sterminio. Ma pur nelle indispensabili distinzioni, sussiste un saldo legame di continuità. La tortura non è un passo verso il genocidio, non accenna in quella direzione. Tuttavia manifesta il medesimo proposito distruttivo. La tortura non è un crimine isolato; dietro le quinte si muove sempre una organizzazione. Malgrado la segretezza, è una violenza pubblica, malgrado sia commessa contro un singolo, è un attacco alla comunità. Se si lede l'umanità di uno, si lede l'umanità di tutti.

Nessuno può dire oggi di non sapere. Il McMondo dell'informazione vieta di sottrarsi alle responsabilità. Da tempo è caduto l'alibi del «non so», del «non ero a conoscenza». Se la tortura non è scomparsa, si può almeno riconoscere un progresso in questo: nella vigilanza dell'opinione pubblica e nell'azione del diritto internazionale. Incriminati sono, però, i governi che devono rispondere di quel che tentano di occultare. Il compito della sorveglianza appare tanto più arduo, in quanto il potere ha mutato dimensione e si estende su larga scala, non solo tramite le molteplici connessioni reticolari, ma anche grazie agli immensi sistemi di controllo, di registrazione, di archiviazione, e attraverso quell'impalpabile dispositivo panottico in cui si va concentrando un potenziale di repressione senza precedenti.

Di fronte a questo rischio permanente, occorre che permanente e globale sia la vigilanza. Se ridotto è il margine politico delle organizzazioni non governative e umanitarie, che svolgono un lavoro arduo e impareggiabile, a sconfiggere la tortura sono l'antagonismo della disobbedienza e la parola che spezza il silenzio.

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