Copertina
Autore Joël Dicker
Titolo La verità sul caso Harry Quebert
EdizioneBompiani, Milano, 2013, Narratori stranieri , pag. 784, cop.fle.sov., dim. 15x21x4,8 cm , Isbn 978-88-452-7328-5
OriginaleLa Vérité sur l'Affaire Harry Quebert [2012]
EdizioneFallois, Paris, 2012
TraduttoreVincenzo Vega
LettoreAngela Razzini, 2013
Classe narrativa francese , gialli
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Indice


Il giorno della scomparsa (Sabato 30 agosto 1975)          7

                        Prologo
                      OTTOBRE 2008
            (TRENTATRÉ ANNI DOPO LA SCOMPARSA)

"Tutti parlavano del libro..."                            11

                     Parte Prima
             LA MALATTIA DEGLI SCRITTORI
       (OTTO MESI PRIMA DELL'USCITA DEL LIBRO)

31. Negli abissi della memoria                            15
30. "Il Formidabile"                                      43
29. È possibile innamorarsi di una ragazza
    di quindici anni?                                     69
28. L'importanza di saper cadere
    (Università di Burrows, Massachusetts, 1998-2002)     95
27. Dov'erano piantate le ortensie                       119
26. N-O-L-A
    (Aurora, New Hampshire, sabato 14 giugno 1975)       149
25. A proposito di Nola                                  163
24. Ricordi di un 4 luglio                               189
23. Quelli che la conoscevano bene                       205
22. Indagini di polizia                                  233
21. Della difficoltà dell'amore                          253
20. Il giorno della festa in giardino                    275
19. Il caso Harry Quebert                                295
18. Martha's Vineyard
    (Massachusetts, fine di luglio 1975)                 325
17. Tentativo di fuga                                    347
16. Le origini del male
    (Aurora, New Hampshire, 11-20 agosto 1975)           375
15. Prima della tempesta                                 399

                     Parte Seconda
            LA GUARIGIONE DEGLI SCRITTORI
                  (STESURA DEL LIBRO)

14. Il famoso 30 agosto 1975                             425
13. La tempesta                                          443
12. L'uomo che dipingeva quadri                          473
11. Aspettando Nola                                      493
10. Alla ricerca di una ragazza di quindici anni
    (Aurora, New Hampshire, 1-18 settembre 1975)         509
 9. Una Montecarlo nera                                  527
 8. Il corvo                                             557
 7. Dopo Nola                                            589
 6. Il principio Barnaski                                605

                     Parte Terza
            IL PARADISO DEGLI SCRITTORI
             (PUBBLICAZIONE DEL LIBRO)

 5. La ragazzina che ha commosso l'America               629
 4. Sweet Home Alabama                                   659
 3. Election Day                                         677
 2. Finale di partita                                    699
 1. La verità sul caso Harry Quebert                     717

                       Epilogo
                    OTTOBRE 2009
      (UN ANNO DOPO LA PUBBLICAZIONE DEL LIBRO)

"Un bel libro, Marcus, non si valuta..."                 767


Ringraziamenti                                           775


 

 

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Pagina 7

Il giorno della scomparsa
(Sabato 30 agosto 1975)



"Centrale di polizia, qual è il suo problema?"

"Mi chiamo Deborah Cooper, abito in Side Creek Lane. Credo di avere appena visto una ragazza inseguita da un uomo nella foresta."

"Cos'è successo esattamente?"

"Non lo so! Ero affacciata alla finestra, stavo guardando verso la foresta, e a un certo punto ho visto questa ragazza correre in mezzo agli alberi. Dietro di lei c'era un uomo... Credo che stesse cercando di sfuggirgli."

"Dove si trovano in questo momento?"

"Non... Non riesco più a vederli. Sono dentro la foresta."

"Mando subito una pattuglia, signora."

Fu quella telefonata a dare inizio alla vicenda che turbò la cittadina di Aurora, nel New Hampshire. Quel giorno, Nola Kellergan, una ragazza del posto di quindici anni, scomparve. Non venne più ritrovata.

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Pagina 17

All'inizio del 2008, all'incirca un anno e mezzo dopo essere diventato, grazie al mio primo romanzo, il nuovo beniamino delle lettere americane, fui colpito da un terribile blocco dello scrittore, una sindrome che sembra piuttosto diffusa tra gli autori baciati da un successo istantaneo e clamoroso. La malattia non era arrivata di colpo: si era insinuata dentro di me lentamente. Era come se il mio cervello, una volta infettato, si fosse bloccato un po' per volta. Di fronte ai primi sintomi avevo fatto finta di niente: mi ero detto che l'ispirazione sarebbe tornata l'indomani, o il giorno dopo, o forse il successivo. Ma i giorni, le settimane e i mesi erano passati e l'ispirazione non era mai tornata.

La mia discesa in quegli inferi si era sviluppata in tre fasi. La prima, indispensabile per una splendida caduta vertiginosa, era stata l'ascesa folgorante: il mio primo romanzo aveva venduto due milioni di copie, catapultandomi, a soli ventotto anni, nell'Olimpo degli scrittori di successo. Era l'autunno del 2006 e nel volgere di qualche settimana il mio nome diventò il nome: la mia immagine spuntava dappertutto, in televisione, sui giornali, sulle copertine delle riviste. Il mio viso compariva su enormi cartelloni pubblicitari nelle stazioni della metropolitana. I critici più severi dei grandi quotidiani della East Coast erano tutti d'accordo: il giovane Marcus Goldman sarebbe diventato un grandissimo scrittore.

Un libro, uno solo, e già vedevo aprirsi davanti a me le porte di una nuova vita: quella delle giovani star milionarie. Lasciai la casa dei miei, a Montclair, nel New Jersey, per trasferirmi in un lussuoso appartamento del Village; abbandonai la mia Ford di terza mano per una Range Rover nuova fiammante, nera e con vetri fumé; cominciai a frequentare i ristoranti più ricercati, mi affidai ai servizi di un agente letterario che organizzava il mio tempo – e veniva a guardare le partite di baseball sullo schermo gigante del mio nuovo appartamento. Affittai uno studio a due passi da Central Park, in cui una segretaria di nome Denise, che forse si era invaghita di me, sbrigava la mia corrispondenza, preparava il mio caffè e archiviava i miei documenti importanti.

Nei primi sei mesi dopo l'uscita del libro mi ero limitato ad approfittare degli agi della mia nuova esistenza. Ogni mattino passavo in studio per leggere gli eventuali articoli che mi riguardassero e per dare un'occhiata alle decine di lettere di ammiratori che ricevevo quotidianamente e che Denise provvedeva ad archiviare in voluminosi schedari. Poi, soddisfatto di me stesso e giudicando di aver lavorato abbastanza, me ne andavo a zonzo per le strade di Manhattan, dove i passanti sussurravano tra di loro al mio passaggio. Dedicavo il resto delle giornate ad approfittare dei nuovi diritti che mi offriva la celebrità: il diritto di comprare qualunque cosa mi andasse; il diritto di ottenere posti VIP al Madison Square Garden per assistere alle partite dei Rangers; il diritto di sfilare sui red carpets insieme alle star della musica di cui, da ragazzo, avevo comprato tutti i dischi; e il diritto di uscire con Lydia Gloor, la protagonista della serie TV del momento, che tutti si contendevano. Ero uno scrittore famoso; avevo l'impressione di fare il mestiere più bello del mondo. E, convinto che il mio successo sarebbe durato per sempre, avevo ignorato i primi avvertimenti del mio agente e del mio editore, che mi sollecitavano a rimettermi al lavoro e a cominciare a scrivere il mio secondo romanzo.

Fu durante i successivi sei mesi che mi resi conto che il vento stava girando: le lettere degli ammiratori si erano diradate e per strada non venivo più abbordato così spesso. Ben presto, i passanti che ancora mi riconoscevano cominciarono a chiedermi: "Signor Goldman, di cosa parlerà il suo prossimo libro? E quando uscirà?" A quel punto avevo capito che dovevo provarci, e ci avevo provato: avevo buttato giù qualche idea su dei fogli volanti e abbozzato una sinossi sul mio computer. Niente di buono. Allora mi ero spremuto per partorire qualche altra idea e avevo abbozzato un altro paio di trame. Ma anche in quel caso, senza risultati apprezzabili. Alla fine avevo comprato un nuovo computer, nella speranza che fosse corredato di buone idee e di eccellenti sinossi. Tutto invano. Allora avevo provato a cambiare metodo: requisivo Denise fino a tarda notte per dettarle quelle che mi sembravano frasi fantastiche, parole splendide e incipit eccezionali. Ma l'indomani tutte quelle parole mi suonavano insulse, le frasi sgangherate e gli incipit disastrosi. Stavo entrando nella seconda fase della malattia.

Nell'autunno del 2007 era passato ormai un anno dall'uscita del mio primo libro e non avevo ancora scritto neanche una riga del secondo. Quando non ci fu più nessuna lettera da archiviare, nessun avventore che mi riconoscesse in un locale pubblico, e nessun manifesto con la mia faccia nelle grandi librerie di Broadway, mi resi conto che la gloria era effimera. Era una gorgone affamata, e coloro che non la nutrivano si vedevano rapidamente rimpiazzati, come stava succedendo a me: l'uomo politico del momento, la starlette dell'ultimo reality, il gruppo rock che aveva appena sfondato avevano deviato su di sé la mia parte di visibilità. Eppure dal mio primo libro erano trascorsi solo dodici piccoli mesi: un lasso di tempo ridicolmente breve ai miei occhi, ma che, nella scala del successo, corrispondeva a un'eternità. In quello stesso anno, solo negli USA, era nato un milione di bambini, era morto un milione di persone, mezzo milione era sprofondato nella droga, un milione era diventato milionario, diciassette milioni avevano cambiato cellulare, cinquantamila erano deceduti in incidenti d'auto e, nelle stesse circostanze, due milioni erano rimasti feriti in maniera più o meno grave. Quanto a me, ero rimasto al mio primo libro.

Schmid & Hanson, l'influente casa editrice newyorkese che aveva sborsato una bella somma per pubblicare il mio primo romanzo, e che puntava molto su di me, assillava il mio agente, Douglas Claren, il quale a sua volta mi dava il tormento. Mi diceva che il tempo stringeva, che dovevo assolutamente presentare un nuovo manoscritto, e io, rassicurando lui per rassicurare me stesso, gli rispondevo che il secondo romanzo procedeva di buon passo e che non c'era alcun motivo di preoccuparsi. Ma, nonostante le ore che passavo chiuso in ufficio, le mie pagine restavano bianche: l'ispirazione era scomparsa da un momento all'altro e non la trovavo più. E la sera, a letto, non riuscendo ad addormentarmi, pensavo che ben presto, e prima di compiere trent'anni, il grande Marcus Goldman avrebbe cessato di esistere. Quel pensiero mi spaventò così tanto che decisi di concedermi una vacanza per rinfrescare le idee: mi concessi un mese in un albergo di lusso di Miami con il pretesto di cambiare aria, intimamente convinto che un po' di relax all'ombra delle palme mi avrebbe permesso di riprendere il pieno controllo del mio genio creativo. Ma evidentemente la Florida era solo un magnifico tentativo di fuga, e duemila anni prima di me il filosofo Seneca aveva già sperimentato quella penosa situazione: ovunque possiate fuggire, i problemi che vi affliggono si infileranno nei vostri bagagli e vi seguiranno dappertutto. Era come se, appena sbarcato a Miami, un affabile facchino cubano mi avesse rincorso mentre uscivo dall'aeroporto e mi avesse detto:

"È lei il signor Goldman?"

"Sì."

"Allora questa è sua."

E mi avrebbe porto una busta con dentro una manciata di fogli.

"Sono le mie pagine bianche?"

"Sì, signor Goldman. Pensava di lasciare New York senza portarle con sé?"

Così passai quel mese in Florida da solo, chiuso in una suite in compagnia dei miei demoni, triste e risentito. Sul mio computer, acceso giorno e notte, il file che avevo nominato Nuovo romanzo.doc restava disperatamente vergine. E la sera in cui offrii un margarita al pianista del bar dell'albergo, capii di avere contratto una malattia molto diffusa nell'ambiente artistico. Seduto al bancone, il pianista mi raccontò che in tutta la sua vita aveva scritto soltanto una canzone, ma che quella canzone era stata una cannonata. Aveva avuto un tale successo che in seguito non era più riuscito a scrivere niente, e adesso, rovinato e disperato, sopravviveva strimpellando successi di altri artisti per i clienti degli alberghi. "All'epoca ho fatto delle tournée incredibili nelle più grandi sale del paese," mi disse, aggrappandosi al colletto della mia camicia. "Diecimila persone che gridavano il mio nome, ragazzine che svenivano e altre che mi lanciavano le mutandine. Una cosa fantastica." E, dopo aver leccato come un cagnolino il sale sul bordo del suo bicchiere, aggiunse: "Ti giuro che è la verità." Il lato peggiore era proprio quello, perché sapevo bene che era vero.

La terza fase delle mie disavventure iniziò mentre tornavo a New York. Durante il volo di rientro, lessi un articolo su un giovane autore che aveva appena pubblicato un romanzo incensato dalla critica, e quando arrivai all'aeroporto LaGuardia vidi la sua faccia su un paio di grandi manifesti nell'area del recupero bagagli. La vita si prendeva gioco di me: la gente, oltre ad avermi dimenticato, stava provvedendo a rimpiazzarmi. Douglas, che venne a prendermi all'aeroporto, era fuori di sé: quelli della Schmid & Hanson, la cui pazienza era ormai agli sgoccioli, volevano qualcosa che dimostrasse che stavo procedendo e che presto sarei stato in grado di consegnare il nuovo romanzo finito.

"Siamo nei guai," mi disse in macchina mentre mi riportava a Manhattan. "Dimmi che in Florida ti sei ripreso e che il tuo libro è a buon punto! C'è quel tizio di cui parlano tutti... Il suo libro sarà il grande successo di Natale. E tu, Marcus? Cos'hai per Natale?"

"Ce la farò!" urlai io, in preda al panico. "Ti assicuro che ci riuscirò. Faremo una grande campagna pubblicitaria e funzionerà! Al pubblico è piaciuto il primo libro, amerà anche il secondo!"

"Marc, tu non capisci: avremmo dovuto farlo qualche mese fa. Era quella la strategia: sfruttare l'onda del tuo successo, alimentare il pubblico, dargli quello che voleva. Il pubblico voleva Marcus Goldman, ma siccome Marcus Goldman è andato a fare i suoi comodi in Florida, i lettori sono andati a comprare il libro di un altro. Hai studiato un po' di economia, Marc? I libri sono diventati un prodotto intercambiabile: la gente cerca un libro che le piaccia, che la rilassi, che la diverta. E se non sei tu a darglielo, lo farà il tuo vicino, e tu sarai pronto per il dimenticatoio."

Atterrito dai vaticini di Douglas, mi misi al lavoro come non avevo mai fatto prima di allora: cominciavo a scrivere alle sei del mattino e non smettevo mai prima delle nove o anche le dieci di sera. Passavo intere giornate nel mio studio, a scrivere incessantemente, trascinato dalla frenesia della disperazione, ad abbozzare parole, iniziare frasi e moltiplicare i soggetti del romanzo. Ma, con mia grande afflizione, non producevo niente di valido. Denise passava le giornate a preoccuparsi per le mie condizioni. Non avendo più altro da fare – nessuna dettatura da trascrivere, nessuna corrispondenza da archiviare, nessun caffè da preparare – andava avanti e indietro nel corridoio. E quando non ce la faceva più, tamburellava alla mia porta.

"La prego, Marcus, mi apra!" gemeva. "Esca da quella stanza, vada a fare quattro passi al parco. Oggi non ha mangiato niente!"

Io le rispondevo urlando:

"Niente fame! Niente fame! Niente libro, niente cibo!"

Lei quasi singhiozzava.

"Non dica così, Marcus. Adesso vado al deli giù all'angolo e le prendo dei sandwich al roast-beef, quelli che le piacciono tanto. Vado subito! Vado subito!"

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Pagina 281

13 luglio 1975

Era un grande evento, e Tamara aveva organizzato le cose in grande: tenda a padiglione nel giardino, argenteria e tovagliato bianco sulla tavola, buffet commissionato a un ristorante di Concord e composto di antipastini di pesce, carni fredde, vassoi di frutti di mare e insalata russa. Per servire le bibite fredde e il vino italiano era stato ingaggiato un cameriere professionista. Tutto doveva essere perfetto. Quel pranzo sarebbe stato un appuntamento mondano di primaria importanza: Jenny stava per presentare ufficialmente il suo spasimante ad alcuni membri selezionati della buona società di Aurora.

Mancavano dieci minuti a mezzogiorno. Tamara contemplava con sguardo fiero l'allestimento del giardino: tutto era pronto. Avrebbe servito il cibo all'ultimo momento, per via del gran caldo. Eh, quanto avrebbero gradito le capesante, le vongole e le code di astice, ascoltando la brillante conversazione di Harry Quebert con al braccio la sua splendida Jenny! Sarebbe stato fantastico; Tamara fremette di piacere nell'immaginare la scena. Ammirò ancora una volta l'effetto di tutto quel lavoro, poi ripassò mentalmente la disposizione dei posti, che aveva annotato su un foglio e che si sforzava di imparare a memoria. Tutto era perfetto. Mancavano solo gli ospiti.

Tamara aveva invitato quattro sue amiche con i rispettivi mariti. Aveva riflettuto a lungo sul numero degli invitati. Era una scelta difficile: invitarne pochi avrebbe fatto pensare che fosse una festa al risparmio, mentre un eccesso di ospiti rischiava di dare al suo delizioso rinfresco all'aperto l'aspetto di una sagra campagnola. Alla fine aveva deciso di selezionare le amiche più adatte per una diffusione meticolosa della notizia in tutta la città, quelle grazie alle quali si sarebbe rapidamente sparsa la voce che Tamara Quinn organizzava eventi eleganti molto selettivi — e questo perché il suo futuro genero era una star del mondo letterario. Perciò aveva invitato: Amy Pratt, in quanto organizzatrice del Ballo d'Estate; Belle Carlton, che si credeva la sacerdotessa del buon gusto perché suo marito cambiava automobile ogni anno; Cindy Tirsten, che era la responsabile di svariati circoli femminili; e Donna Mitchell, una pettegola che parlava troppo e passava il tempo a vantarsi del successo dei propri figli. Tamara si preparava a farle restare a bocca aperta. Infatti, le ospiti avevano telefonato appena avevano ricevuto l'invito per informarsi sul motivo del festeggiamento. Ma Tamara aveva saputo prolungare la suspense, mantenendosi sapientemente evasiva: "Devo darvi una grande notizia." Moriva dalla voglia di vedere la faccia che avrebbero fatto alla notizia che la sua Jenny e il grande Quebert avrebbero trascorso insieme il resto dei loro giorni. Ben presto la famiglia Quinn sarebbe diventata l'oggetto di tutte le conversazioni — e di tutte le invidie.

Tamara, troppo impegnata nei preparativi, era uno dei pochi abitanti di Aurora che non si stesse scalmanando davanti alla casa dei Kellergan. Come tutti, aveva saputo la notizia del tentato suicidio di Nola nelle prime ore del mattino, e aveva tremato per la sua festa in giardino. Grazie a Dio la ragazza non era riuscita nel suo proposito, e la donna si era sentita doppiamente fortunata: innanzitutto perché se Nola fosse morta avrebbe dovuto annullare la festa (non sarebbe stato opportuno né chic dare un ricevimento in simili circostanze). In secondo luogo, era una fortuna che fosse successo di domenica anziché di sabato, perché se Nola avesse deciso di suicidarsi di sabato le sarebbe toccato trovarle una sostituta per il Clark's, il che era molto complicato. Nola era stata proprio brava a scegliere un sabato notte per il suo tentativo, ed era stata ancor più brava a non riuscirci.

Soddisfatta per come aveva allestito l'esterno, Tamara andò a controllare l'interno della casa. Trovò Jenny nella postazione stabilita, ovvero all'ingresso, pronta ad accogliere gli invitati. Ma dovette sgridare vigorosamente Bobby — al solito —, che era, sì, in camicia e cravatta, ma non aveva ancora indossato i pantaloni: la domenica aveva il permesso di leggere il giornale in mutande sulla veranda, ed era felice quando la brezza si intrufolava nei suoi boxer, perché quella rinfrescatina, specialmente sulle zone pelose, gli piaceva tantissimo.

"Adesso basta con questa storia di girare per casa seminudo!" lo rimproverò la moglie. "Chiaro? Quando il grande Harry Quebert sarà nostro genero lo accoglierai in mutande?"

"Sai," ribatté Bobby, "credo che Quebert sia un po' diverso da come lo immagini tu. In fondo è un tipo molto semplice. Gli piacciono le automobili, la birra fredda, e penso che non si offenderebbe se mi vedesse nel mio abbigliamento domenicale. Anzi, voglio proprio chiedergli..."

"Tu non gli chiedi un bel niente! Durante il ricevimento non dovrai pronunciare neanche una sillaba! Mettitelo in testa: non voglio sentirti. Ah, mio povero Bobby, se non fosse illegale ti cucirei le labbra, così non potresti più parlare: ogni volta che apri la bocca è solo per dire qualche sciocchezza. A partire da oggi, la domenica indosserai pantaloni e camicia. Fine dell'argomento. Non provare a farti vedere ancora a zonzo per casa in mutande. Ormai siamo gente importante. Molto importante."

Mentre parlava, Tamara si accorse che il marito aveva scarabocchiato qualcosa su una cartolina posata sul tavolino basso del soggiorno.

"Cos'hai lì?" strillò.

"Niente di importante."

"Fammi vedere!"

"No," ribatté il marito; afferrando la cartolina.

"Bobby, fammi vedere subito cos'hai lì!"

"Si tratta di corrispondenza personale."

"Oh, adesso il signorino riceve della corrispondenza personale! Ti ho detto di farmela vedere! Chi comanda in questa casa, tu o io?"

Strappò la cartolina dalla mano del marito, che tentava di nasconderla sotto il giornale. L'illustrazione raffigurava un cagnolino. Tamara lesse a voce alta e in tono beffardo:

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Pagina 495

Quella del 2008 fu un'estate molto tranquilla in America. La battaglia per i ticket presidenziali si era conclusa a fine giugno, quando i democratici, durante le primarie del Montana, avevano designato Barack Obama come loro candidato, mentre i repubblicani avevano già indicato unanimemente John McCain sin da febbraio. Si aspettava il momento della contrapposizione: i prossimi appuntamenti cruciali sarebbero stati a fine agosto, quando in occasione delle assemblee nazionali dei due principali partiti del paese, i candidati alla Casa Bianca avrebbero ricevuto l'investitura ufficiale.

Quella relativa calma prima della tempesta elettorale che avrebbe portato all'Election Day del 4 novembre, lasciava al caso Harry Quebert il posto d'onore sui media, provocando un fermento senza precedenti nell'opinione pubblica. C'erano i "pro-Quebert" e gli "anti-Quebert", c'erano i seguaci della teoria del complotto e quelli che pensavano che il rilascio su cauzione fosse dovuto solo a un accordo finanziario con il vecchio Kellergan. Inoltre, dopo che i giornali avevano pubblicato i miei appunti, il mio libro era sulla bocca di tutti: non si parlava d'altro che del "nuovo libro di Goldman che uscirà in autunno". Elijah Stern, benché non fosse citato apertamente negli appunti, aveva presentato una denuncia per diffamazione al fine di impedire la pubblicazione del libro. Anche David Kellergan aveva reso nota la sua intenzione di adire le vie legali, confutando energicamente le accuse di maltrattamenti alla figlia. Ma c'erano due persone che si rallegravano in maniera particolare di quella baraonda: Barnaski e Roth.

Roy Barnaski, che aveva sguinzagliato le sue squadre di avvocati newyorkesi fino nel New Hampshire, per fronteggiare qualsiasi inghippo giudiziario potesse ritardare la pubblicazione del libro, gongolava: la fuga di notizie, di cui non faceva più mistero di essere l'artefice, gli permetteva di occupare spazio mediatico e avrebbe garantito vendite eccezionali. Barnaski diceva che la sua strategia non era né migliore né peggiore di quella dei concorrenti; che il mondo dei libri era passato dalla nobile arte dell'editoria alla follia capitalista del XXI secolo; che ormai i libri andavano scritti per essere venduti e che per vendere un libro occorreva che se ne parlasse; e affinché se ne parlasse occorreva appropriarsi di uno spazio che, se non lo occupava con la forza lui, era destinato a essere occupato dalla concorrenza. In poche parole: mangiare o essere mangiati.

Sul piano giudiziario, era ormai evidente che il castello accusatorio era sul punto di crollare. Benjamin Roth stava per diventare l'avvocato dell'anno e accedere a una notorietà di livello nazionale. Accettava qualsiasi richiesta di intervista e passava gran parte del tempo negli studi delle televisioni e delle radio locali. Faceva qualsiasi cosa, purché si parlasse di lui. "Pensi un po', a questo punto posso fatturare mille dollari l'ora," mi disse. "E ogni volta che compaio su un giornale, aggiungo dieci dollari alle mie tariffe orarie per i prossimi clienti. La gente ricorda di aver visto la tua foto sul "New York Times", non quello che dicevi nell'intervista." Roth aveva sempre sognato di imbattersi nel caso del secolo, e adesso c'era finito dentro. Ormai fisso sotto la luce dei riflettori, rifilava ai media tutto ciò che volevano sentire: parlava del capitano Pratt, di Elijah Stern; ripeteva all'infinito che Nola era una ragazza pericolosa, sicuramente una manipolatrice, e che in effetti la vera vittima di quella storia era Harry. Per eccitare il pubblico, cominciò perfino a fare allusioni, ventilando particolari inventati di sana pianta, al fatto che la metà della popolazione maschile di Aurora avesse avuto rapporti intimi con Nola, tanto che mi vidi costretto a chiamarlo per dargli una calmata.

"Benjamin, la smetta con questi pettegolezzi pornografici. Sta gettando fango su tutti."

"È proprio quello che voglio, Marcus. In fondo il mio compito consiste non tanto nel lavare l'onore di Harry, quanto nel mostrare le macchie nell'onore degli altri. E se dovrà esserci un processo, farò testimoniare Pratt, farò convocare Stern, farò chiamare alla sbarra tutti i maschi di Aurora affinché ammettano pubblicamente i loro peccati carnali con la piccola Kellergan. E dimostrerò che il povero Harry ha avuto l'unico torto di essersi lasciato sedurre da una ragazzina perversa, come tanti altri prima di lui."

"Ma che sta dicendo?" sbottai. "Non si è mai trattato di questo!"

"Su, amico mio, chiamiamo le cose col loro nome... Quella ragazza era una puttanella."

"Lei è proprio patetico," dissi.

"Patetico? Sto soltanto riprendendo quello che lei scrive nel libro, o no?"

"No, per niente. E lei lo sa benissimo! Nola non era una puttanella e non aveva niente di perverso. La sua relazione con Harry era una storia d'amore!"

"L'amore, l'amore, sempre l'amore! Ma l'amore non significa niente, Goldman! L'amore è un trucco inventato dagli uomini per non dover fare il bucato!"

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Il libro procedeva. A poco a poco, le ore passate a scrivere si traducevano in pagine, e io sentivo riaffiorare in me quella sensazione che pensavo di avere perduto per sempre. Era come se finalmente riscoprissi un elemento vitale la cui assenza mi aveva bloccato; come se qualcuno avesse premuto un pulsante nel mio cervello e all'improvviso l'avesse riacceso. Era come se fossi nuovamente vivo. Era ciò che prova uno scrittore.

Le mie giornate iniziavano prima dell'alba: andavo a correre, attraversando Concord da un lato all'altro, con le cuffie del registratore calcate sulle orecchie. Poi, tornato in albergo, ordinavo un bricco di caffè e mi mettevo al lavoro. Potevo nuovamente contare sull'aiuto di Denise, che avevo recuperato dalla Schmid & Hanson e che aveva accettato di riprendere servizio nel mio studio sulla Fifth Avenue. Le spedivo via e-mail le pagine che terminavo e lei si preoccupava di apportare le correzioni d'uso. Quando ultimavo un capitolo, lo spedivo a Douglas per avere il suo parere. Era divertente vedere fino a che punto il mio agente puntava su quel libro: sapevo che stava incollato al computer in attesa dei miei capitoli. E si premurava di telefonarmi per ricordarmi la scadenza, ripetendo: "Se non finiamo in tempo, siamo fottuti!" Parlava al plurale anche se lui, teoricamente, non aveva nulla da perdere in quell'operazione, ma si sentiva coinvolto quanto me.

Credo che Douglas subisse notevoli pressioni da parte di Barnaski e cercasse di proteggermi: Barnaski temeva che non riuscissi a rispettare la scadenza senza un aiuto esterno. Mi aveva già telefonato più volte per dirmelo personalmente.

"Dovrebbe affidarsi a un ghost-writer per scrivere questo libro," mi aveva detto, "altrimenti non farà in tempo. Ho dei collaboratori che sono qui per questo: gli dia una traccia e loro scriveranno al posto suo."

"Neanche per sogno," gli avevo risposto. "Scrivere questo libro è una mia precisa responsabilità. Solo io posso farlo."

"Goldman, lei è proprio insopportabile con il suo moralismo e i suoi buoni sentimenti. Ogni scrittore oggi si affida a qualcun altro. Waterman, per esempio, non rifiuta mai l'aiuto dei miei ghost-writer."

"Waterman non scrive da solo i suoi libri?"

Barnaski aveva fatto la sua tipica risatina stupida.

"Certo che no! Come diavolo crede che possa mantenere quel ritmo? Ai lettori non interessa sapere come fa Waterman a scrivere i suoi libri, e nemmeno chi glieli scriva. Vogliono semplicemente che ogni anno a inizio estate gli consegniamo un nuovo libro del loro scrittore preferito per portarselo in vacanza. E noi li accontentiamo. Si chiama avere il senso del commercio."

"Si chiama imbrogliare il pubblico," gli avevo risposto.

"Imbrogliare il pubblico... Tsss, Goldman, lei è sempre così tragico..."

Quando gli avevo fatto capire che non c'era alcuna possibilità che quel libro lo scrivesse qualcuno che non fossi io, Barnaski aveva perso la pazienza ed era diventato volgare.

"Goldman, se non sbaglio le ho sganciato un milione di dollari per quel cazzo di libro: quindi mi piacerebbe che lei fosse un po' più collaborativo. Se dico che le serve un ghost-writer, lei deve servirsi di un ghost-writer, porca puttana!"

"Sí calmi, Roy: avrà il suo libro entro la data prevista. A patto che la smetta di interrompere il mio lavoro telefonandomi in continuazione."

A quel punto, Barnaski era diventato estremamente volgare:

"Goldman, perdio, spero che lei si renda conto che con questo libro sto rischiando il culo. Il culo, chiaro? Ho investito un fracco di soldi e c'è in ballo la credibilità di una delle più importanti case editrici del paese. Perciò sappia che se la cosa dovesse finire male, se non dovesse esserci nessun libro per colpa dei suoi capricci o di chissà quale altra cazzata, io colerò a picco, ma la trascinerò giù con me! E fino in fondo!"

"Lo terrò presente, Roy. Lo terrò presente."

Barnaski, al di là dei problemi caratteriali, aveva un talento innato per il marketing: il mio libro era già diventato il romanzo dell'anno anche se la promozione, a colpi di pubblicità gigantesche sui muri di New York, era appena agli inizi. Poco dopo l'incendio della villa di Goose Cove, Barnaski aveva fatto una dichiarazione melodrammatica. Aveva detto: "In questo momento, nascosto da qualche parte in America, uno scrittore si sta sforzando di ristabilire la verità a proposito di ciò che è successo ad Aurora nel 1975. E poiché la verità disturba, c'è qualcuno pronto a tutto per tappargli la bocca." L'indomani, un articolo del "New York Times" titolava così: "Chi vuole la pelle di Marcus Goldman?" Ovviamente mia madre l'aveva letto e si era precipitata a telefonarmi:

"Per l'amor del cielo, Markie, dove sei?"

"A Concord, al Regent's. Suite 208."

"Sta' zitto!" aveva strillato. "Non voglio saperlo!"

"Ma come, mamma, sei stata tu a..."

"Se me lo dici, non potrò fare a meno di dirlo al macellaio, che lo dirà al garzone, che lo riferirà a sua madre, che è la cugina del bidello del liceo di Felton e non potrà fare a meno di dirglielo, e quel furfante andrà a raccontarlo al preside, che ne parlerà nella sala dei professori, e ben presto tutta Montclair saprà che mio figlio è nella suite 208 del Regent's di Concord, e il tizio che vuole farti la pelle verrà a sgozzarti nel sonno. E comunque, perché una suite? Sei in compagnia di un'amichetta? Stai per sposarti?"

A quel punto, mia madre aveva convocato mio padre, urlandogli: "Nelson, vieni al telefono! Markie si sposa!"

"Mamma, non sto per sposarmi. In questo momento sono da solo nella mia suite."

Gahalowood, che era con me nella stanza e si era appena fatto servire una sontuosa colazione, non aveva trovato di meglio da fare che mettersi a strillare: "Ehi! Ci sono io!"

"Chi ha parlato?" aveva subito chiesto mia madre.

"Nessuno."

"Non dire bugie! Ho sentito la voce di un uomo. Marcus, sto per farti una domanda medica estremamente importante, e tu devi essere onesto con colei che ti ha portato in grembo per nove mesi: c'è un uomo omosessuale segretamente nascosto nella tua stanza?"

"No, mamma. C'è il sergente Gahalowood, che è un poliziotto. Sta indagando con me e si occupa anche di far esplodere il conto del mio room service."

"È nudo?"

"Cosa? Ma no che non è nudo! È un poliziotto, mamma! Lavoriamo insieme."

"Un poliziotto... Guarda che tua madre non è mica nata ieri: l'ho visto quel filmato musicale con tutti quei maschi che cantano insieme: c'erano un motociclista tutto vestito di cuoio, un idraulico, un indiano e anche un poliziotto..."

"Mamma, il sergente Gahalowood è un vero ufficiale di polizia."

"Markie, in nome dei nostri antenati che sono sopravvissuti ai pogrom, e se davvero vuoi bene alla tua mammina, caccia quell'uomo nudo dalla tua stanza."

"Io non caccio nessuno, mamma."

"Oh, Markie, perché mi telefoni se è solo per farmi soffrire?"

"Sei stata tu a telefonare, mamma."

"L'ho fatto perché tuo padre e io abbiamo paura di quel pazzo criminale che ti sta dando la caccia."

"Nessuno mi dà la caccia, mamma. I giornali esagerano sempre."

"Lo sai che mattina e sera controllo la cassetta delle lettere?"

"Perché?"

"Perché? Perché? Mi chiedi perché? Ma per via delle bombe!"

"Non credo che qualcuno verrà a piazzare una bomba nella vostra cassetta delle lettere, mamma."

"Moriremo uccisi da una bomba! E senza aver mai provato la gioia di essere nonni. Ecco, sei soddisfatto di te? Pensa che l'altro giorno tuo padre è stato seguito fin sotto casa da una grande automobile nera. Papà si è precipitato dentro e l'auto è andata a fermarsi lungo la strada, proprio all'angolo."

"Avete chiamato la polizia?"

"Ovviamente. Sono arrivate due macchine a sirene spiegate."

"E...?"

"Erano i vicini. Quei maledetti si sono comprati un'auto nuova! Senza neanche avvisarci. Un'auto nuova, tsss! Tutti dicono che ci sarà un'enorme crisi economica e loro si comprano l'auto nuova! Non ti sembra una cosa sospetta? Secondo me, il marito traffica nel mercato della droga o roba del genere."

"Mamma, ti rendi conto che stai dicendo un sacco di sciocchezze?"

"Io so quello che dico! E non parlare così a una povera madre che da un momento all'altro rischia di morire dilaniata da una bomba! Come va il tuo libro?"

"Procede bene. Dovrei terminarlo tra quattro settimane."

"E come finisce? Forse il tizio che vuole ucciderti è lo stesso che ha ucciso la ragazza."

"Ecco, questo è il mio unico problema: non so ancora come finisce il libro."

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