Copertina
Autore Nicolas Dickner
Titolo Nikolski
EdizioneVoland, Roma, 2009, Intrecci 67 , pag. 240, cop.fle., dim. 14,4x20,5x1,6 cm , Isbn 978-88-6243-025-8
OriginaleNikolski
EdizioneAlto, Québec, 2007
TraduttoreFrancesco Gazzè
LettoreRiccardo Terzi, 2010
Classe narrativa canadese
PrimaPagina


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Indice


1989

Anomalia magnetica                                     9
Granpa                                                21
Téte-à-la-Baleine                                     39
Providence                                            59
Precedenza ai rifugiati politici                      65
Scala 1:1                                             69
San Pedro de Macorís                                  73
Colmado Real                                          75
Primo contatto con il vostro Macintosh                78
CCM                                                   80
La pesca grossa                                       81
Texas Instruments                                     84
Migliaia e migliaia di chilometri                     87


1990

William Kidd                                          91
Thomas Saint-Laurent                                  94


1994

Il piano dei serpenti di mare                        101
Jututo                                               111
Diluvio                                              117
L'Inferno                                            119
Non sbaglia di un grado                              126


1995

L'isola di Stevenson                                 131
Pigmentazione                                        140
Parafulmine Jim                                      143
I pirati sono persone pragmatiche                    148
Una dose di futuro                                   152


1999

Le meravigliose avventure di Charles Darwin          161
alle isole Galapagos
La travagliata epopea dei Garifunas                  166
Cheratina                                            171
Maria Libre                                          177
Archivi coloniali                                    181
Tutte le direzioni in una volta                      188
La Bestia                                            196
Distant Early Warning                                200
Visto di ingresso                                    205
L'Orsa Minore                                        210
Un dio per gli imbroglioni                           212
L'assurdità generale della situazione                217
Un piccolo cerchio                                   221
Liquidazione                                         227

RINGRAZIAMENTI                                       233



 

 

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Pagina 9

ANOMALIA MAGNETICA



Il mio nome non ha importanza.

Tutto ha inizio nel settembre del 1989, verso le sette del mattino.

Dormo ancora, rannicchiato nel sacco a pelo, steso sul pavimento del salone. Intorno a me scatole di cartone ammucchiate, tappeti arrotolati, mobili mezzi smontati, cassette degli attrezzi. Non c'è più niente sui muri, solo macchie chiare lasciate da quadri appesi lì da troppi anni.

Dalla finestra si sente il ritmo monotono delle onde che si infrangono sulla ghiaia.

Ogni spiaggia ha una particolare cifra sonora, che varia a seconda della forza e della lunghezza delle onde, della natura del fondale, della morfologia del paesaggio, dei venti dominanti e del tasso di umidità nell'aria. Impossibile confondere il mormorio felpato di Maiorca, il rotolare sonoro dei sassi preistorici della Groenlandia, la musica delle spiagge coralline del Belize o il fragore sordo delle coste irlandesi.

Ora, la risacca che sento stamattina è facilmente identificabile. Il brusio grave, grossolano, il suono cristallino dei ciottoli vulcanici, il ritorno delle onde appena asimmetrico, l'acqua ricca di sostanze nutritive – è l'inimitabile risacca delle isole Aleutine.

Socchiudo l'occhio sinistro brontolando. Da dove proviene questo rumore inverosimile? L'oceano più vicino si trova a mille chilometri da qui. E per giunta, non ho mai messo piede su una spiaggia.

Sguscio fuori dal sacco a pelo e vacillo fino alla finestra. Aggrappato alle tendine, guardo il camion della spazzatura fermarsi davanti al nostro bungalow con un sibilo d'aria compressa. Da quando i motori diesel imitano la risacca?

Dubbia poesia di provincia.

I due spazzini saltano giù dal veicolo e scrutano, sconcertati, la montagna di sacchi ammucchiati sull'asfalto. Il primo fa finta di contarli, con aria angosciata. D'un tratto mi domando: avrò forse infranto un regolamento municipale che limita il numero di sacchi della spazzatura per ogni casa? Il secondo spazzino, molto più pragmatico, comincia a riempire il camion. Se ne infischia alla grande della quantità di sacchi, del loro contenuto o della storia che li riguarda.

Ci sono esattamente trenta sacchi.

Li ho comprati nella drogheria all'angolo – una scena da magazzino che ricorderò a lungo. Impalato nel corridoio dei casalinghi, mi domandavo quanti sacchi dell'immondizia fossero necessari per contenere gli innumerevoli ricordi che mia madre aveva accumulato dal 1966. Quanto volume potevano occupare trent'anni di vita? Ricalcitravo di fronte a quel calcolo indecente. Qualunque fosse la stima, temevo di sottovalutare l'esistenza di mia madre.

Avevo messo gli occhi su una marca abbastanza resistente. Ogni pacco conteneva dieci rivoluzionari sacchi dell'immondizia in ultra plastica di capienza 60 litri.

Ne raccattai tre pacchi, per un totale di 1800 litri.

I trenta sacchi si sono rivelati sufficienti, anche se a volte è stato necessario calcare con la pianta del piede, e adesso gli spazzini si occupano di catapultarli nelle fauci del camion. Di tanto in tanto una pesante ganascia di acciaio schiaccia i rifiuti emettendo grugniti da pachiderma. Niente a che vedere con il poetico fruscio delle onde.

Ma tutta questa storia, visto che devo raccontarla, è cominciata con la bussola Nikolski.


La vecchia bussola è rispuntata fuori nel mese di agosto, due settimane dopo il funerale.

L'interminabile agonia di mia madre mi aveva spossato. Fin dalla prima diagnosi, la mia vita si era trasformata in una vera e propria corsa a ostacoli. Giorno e notte, facevo la spola tra casa, lavoro e ospedale. Non dormivo più, mangiavo sempre meno e avevo perso quasi cinque chili; si sarebbe potuto pensare che fossi io ad avere a che fare con le metastasi. Ma nessun margine di errore: mia madre sarebbe morta di lì a sette mesi, lasciandomi il mondo intero sulle spalle.

Ero svuotato, poco lucido, ma guai ad arrendersi. Evacuate le scartoffie burocratiche, avviai subito le ultime grandi pulizie.

Sembravo un sopravvissuto, trincerato nello scantinato del bungalow con trenta sacchi della spazzatura, una solida provvista di sandwich al prosciutto, parecchi litri di succo d'arancia surgelato e la radio in sordina. Mi sono dato una settimana per annullare cinque decenni di esistenza, cinque armadi a muro di bazzecole schiacciate sotto il loro peso.

Una simile faccenda può sembrare sinistra e vendicativa. Comprendetemi: mi ritrovavo d'improvviso solo al mondo, senza amici né famiglia, con l'urgente necessità di continuare a vivere. Bisognava mollare la zavorra.

Aggredii gli armadi col sangue freddo di un archeologo, suddividendo i ricordi in categorie più o meno logiche:

– una scatola di cigarillos riempita di conchiglie;

– quattro fascicoli di ritagli di giornale sui radar americani in Alaska;

– una vecchia macchina fotografica InstaMatic 104;

– più di 300 foto scattate con la suddetta InstaMatic 104;

– parecchi romanzi tascabili copiosamente annotati;

– una manciata di gioielli dozzinali;

– un paio di occhiali da sole rosa alla Janis Joplin.

E così via.

Sperimentavo un inquietante viaggio a ritroso nel tempo: più scavavo negli armadi, meno riconoscevo mia madre. Quegli oggetti polverosi appartenevano a una lontana vita passata, testimoniavano di una donna che non avevo mai incontrato prima. La loro quantità, la tessitura, l'odore si insinuavano nel mio spirito e si attaccavano ai miei ricordi come parassiti.

Mia madre si riduceva ormai a un mucchio di cianfrusaglie sconnesse che sapevano di antitarme.

Ero irritato dalla piega che prendevano gli eventi. Quella che doveva essere una semplice ripulita si trasformava poco a poco in una prova iniziatica. Non vedevo l'ora di raggiungere il fondo degli armadi, ma il loro contenuto sembrava inesauribile.

Fu allora che trovai un voluminoso diario, quindici quaderni dalla copertina morbida riempiti di una prosa telegrafica. Recuperai un filo di speranza. Forse quegli scritti mi avrebbero permesso di ricomporre i diversi pezzi del puzzle.

Classificai i quaderni in ordine cronologico. Il primo iniziava il 12 giugno 1966.


Mia madre aveva preso la via di Vancouver a diciannove anni, e se si considera che una rottura familiare degna di questo nome deve valutarsi in chilometri, la sua meritava di essere misurata in continenti.

Era fuggita un 25 giugno all'alba in compagnia di un hippie di nome Dauphin.

I due dividevano le spese per la benzina, i turni di guida e le lunghe boccate da piccoli spinelli rollati, stretti come stuzzicadenti. Quando non guidava, mia madre scriveva sul quaderno. La grafia, dapprima molto pulita e ordinata, cominciò presto ad arrotolarsi e srotolarsi, a disegnare onde e qualche spirale di THC.

All'inizio del secondo quaderno, si risvegliava da sola su Water Street, appena in grado di farfugliare qualcosa in inglese. Munita di taccuino, cominciò a comunicare per ideogrammi, alternando appunti e gesti. In un parco incontrò un gruppo di studenti di arti plastiche intenti a piegare in origami microscopiche razze manta di carta psichedelica. La invitarono a condividere il loro appartamento sovraffollato, il salone pieno di cuscini e la terza parte di un letto già occupato da altre due ragazze. Ogni notte, verso le due del mattino, si attorcigliavano tutte e tre sotto le coperte e fumavano spinelli discutendo di buddismo.

Mia madre giurava di non tornare mai più sulla costa est.

Se le prime settimane a Vancouver erano raccontate con abbondanza di dettagli, il seguito del suo periplo diveniva sempre più ellittico, le esigenze del nomadismo soppiantavano di gran lunga quelle della narrazione. Non restava mai nello stesso posto più di quattro mesi, partendo precipitosamente per Vittoria, Prince Rupert, San Francisco, Seattle, Juneau e mille altri luoghi che non si preoccupava sempre di identificare con chiarezza. Si guadagnava il pane grazie a miserabili espedienti: offriva ai passanti poemi di Richard Brautigan, vendeva cartoline ai turisti, faceva numeri da giocoliere, puliva camere nei motel, rubava nei supermercati.

L'avventura durò così cinque anni. Poi, nel giugno del 1970, ci presentammo alla stazione centrale di Vancouver con due enormi sacchi militari pieni da scoppiare. Mia madre aveva comprato un biglietto del treno per Montréal e avevamo attraversato il continente in senso inverso, lei rannicchiata nel suo sedile, io acciambellato nelle profondità del suo utero, virgola impercettibile di un romanzo ancora da scrivere.

Fin dal suo ritorno, si era riconciliata con i miei nonni, tregua strategica il cui scopo era ottenere il fido bancario necessario per comprarsi casa. Poco dopo, acquistava un bungalow a Saint-Isidore Junction, a due passi da Chateauguay, in quella che sarebbe diventata la periferia sud di Montréal ma che, all'epoca, aveva ancora l'aria di un posticino di campagna, con le sue case ancestrali, i campi incolti e un'impressionante popolazione di porcospini.

Condizionata ormai dall'ipoteca, aveva dovuto rimediare un lavoro in un'agenzia di viaggi di Chateauguay. Questo impiego segnò paradossalmente la fine della sua giovinezza vagabonda e, di conseguenza, del suo diario.


L'ultimo appunto terminava su una pagina non datata, intorno al 1971. Richiusi il diario, pensieroso. Di tutte le omissioni che ritmavano la prosa di mia madre, la più importante era Jonas Doucet.

Di questo genitore evanescente non rimaneva che un mucchio di cartoline compilate da una mano indecifrabile, l'ultima delle quali risaliva all'estate del 1975. Avevo spesso tentato di penetrare il segreto di quelle carte, ma da simili geroglifici non era possibile capire nulla. Neanche i timbri postali rivelavano qualcosa di più, punti di una traiettoria che partiva dal sud dell'Alaska, saliva verso lo Yucon, ridiscendeva verso Anchorage e terminava nelle Aleutine, più precisamente nella base militare in cui mio padre lavorava.

Sotto la pila di cartoline c'era un pacchetto stropicciato e una lettera della US Air Force.

La lettera non mi disse nulla di nuovo. Il pacchetto, in compenso, illuminò certi meandri bui della mia memoria: oggi vuoto, una volta aveva contenuto una bussola inviata da Jonas per il mio compleanno. Bussola che ricordai con una precisione sorprendente.

Come avevo potuto dimenticarla? Unica prova tangibile dell'esistenza di mio padre, era stata la stella polare della mia infanzia, lo strumento glorioso con il quale avevo attraversato mille oceani immaginari! E guarda adesso sotto quale montagna di rottami giaceva!

Preso da un'improvvisa frenesia, setacciai ogni angolo del bungalow, vuotando cassetti e armadi, guardando dietro le cassapanche e sotto i tappeti, strisciando fin dentro i nascondigli più bui.

Scovai la bussola alle tre del mattino, incastrata tra uno scafandro e un secchio dell'immondizia verde mela, nel fondo di una scatola di cartone riposta su due travi del solaio.

Gli anni non avevano certo migliorato l'aspetto di quella povera bussola, un gadget da cinque dollari trovato vicino alla cassa di una ferramenta di Anchorage. Per fortuna, la vicinanza prolungata di giocattoli metallici non aveva smagnetizzato l'indicatore, che ancora flebile puntava verso (quello che sembrava essere) il nord.

Non si trattava di una bussola vera e propria, ma piuttosto di un compasso da marina in miniatura, composto da una sfera di plastica trasparente riempita di un liquido chiaro nel quale fluttuava una seconda sfera magnetica graduata. L'inclusione di una sfera nell'altra, come in una minuscola matrioska, assicurava una stabilità giroscopica a prova delle peggiori tempeste: qualunque fosse stata la forza delle onde, la bussola avrebbe mantenuto la rotta e l'orizzonte.

Mi addormentai nel solaio, la testa affondata in un cumulo di lana minerale rosa confetto, la bussola appoggiata sulla fronte.


A prima vista questa vecchia bussola sembra assolutamente comune, uguale a tutte le altre. Un esame più attento permette tuttavia di costatare che non indica proprio il nord.

Certe persone pretendono di avere in qualsiasi momento una coscienza precisa del nord. E io sono come la maggior parte della gente: mi serve un punto di riferimento. Quando mi siedo dietro il banco della libreria, per esempio, so che il nord magnetico si trova a 4238 chilometri in direzione dello scaffale dei Bob Morane, il che corrisponde, in realtà, all'isola Ellef Ringnes, sassolino sperduto nell'immenso arcipelago della Regina Elisabetta.

Ora, invece di puntare in direzione dello scaffale dei Bob Morane, la mia bussola punta un metro e cinquanta più a sinistra, nel bel mezzo della porta di uscita.

Va da sé che il campo magnetico del pianeta subisca distorsioni locali e che il nord non appaia più precisamente al suo posto. Le possibili cause di tali anomalie sono numerose: un giacimento di ferro in cantina, la tubatura del bagno del vicino al piano di sopra, il relitto di un transatlantico seppellito sotto l'asfalto di via Saint-Laurent. Sfortunatamente, nessuna di queste ipotesi regge, perché la bussola punta a sinistra del nord, da qualsiasi punto la si consulti. Questa costatazione implica due fastidiose domande:

– Qual è la causa di quest'anomalia magnetica?

– Dove (diavolo) punta la bussola?

Il senso comune suggerirebbe che la mia immaginazione costituisca la principale anomalia locale del campo magnetico e che sarebbe meglio fare un po' di ordine invece di fantasticare. Ma le anomalie sono come le ossessioni: ogni resistenza risulta vana.

Ricordavo appena le lezioni di Geografia, la declinazione magnetica, il Tropico del cancro, la Stella polare. Era tempo di mettere in pratica questo sapere dimenticato. Munito di una pila di libri di Geografia e di una panoplia di carte a differenti scale, mi risolsi a determinare la direzione esatta verso cui puntava la bussola.

Dopo noiosi calcoli, arrivai a una declinazione di 34° a ovest del nord. Seguendo tale direzione, si attraversava l'isola di Montréal, l'Abitibi e il Temiscamingue, l'Ontario, le Praterie, la Colombia Britannica, l'arcipelago Principe di Galles, la punta sud dell'Alaska, un tratto dell'oceano Pacifico del nord e le isole Aleutine, per imbattersi alla fine nell'isola Umnak – e più precisamente in Nikolski, minuscolo villaggio abitato da 36 persone, 5000 pecore e un imprecisato numero di cani.

Si poteva quindi dedurre che la bussola puntava verso Nikolski, responso abbastanza soddisfacente, anche se aveva il difetto di rendere oscura la questione invece di chiarirla.

Non si può avere tutto.

Talvolta un cliente mi chiede cos'è lo strano gingillo che porto al collo. Rispondo:

– Una bussola Nikolski.

Il cliente sorride senza capire e cambia argomento con educazione. Mi domanda, per esempio, dove sono catalogati i Bob Morane.


Θ forse il caso di sottolineare che non lavoro in un istituto di Geografia o in un negozio di mappamondi?

In realtà, S.W. Gam inc. è una ditta specializzata in acquisizione, valorizzazione e rivendita di volumi usati. Una bottega di libri di occasione, insomma. La signora Dubeau, la mia stimata titolare, mi ha assunto nell'autunno dei miei quattordici anni. Ricevevo a quel tempo la cifra miserabile di 2 dollari e 50 l'ora, salario che accettai di buon grado allo scopo di troneggiare in mezzo a tutti quei libri senz'altra responsabilità che leggere.

Lavoro qui da ormai quattro anni, periodo che mi sembra più lungo di quello che è. Nel frattempo ho abbandonato gli studi, mia madre è morta e i rari amici di infanzia si sono volatilizzati. Uno di loro se l'è svignata in America Centrale al volante di una vecchia Chrysler e nessuno l'ha più rivisto. Un altro studia biologia marina presso un'università norvegese. Anche di lui non si sa niente. Quanto agli altri, sono semplicemente spariti, inghiottiti dal corso degli eventi.

Io, invece, sono sempre seduto dietro il banco della libreria, dove però godo di una vista panoramica su via Saint-Laurent.

Il mio lavoro somiglia più a una vocazione che a una normale professione. Il silenzio incita alla meditazione, il salario conferma il voto di povertà; quanto agli attrezzi del mestiere, hanno del minimalismo monastico. Niente registratori di cassa elettronici ultimo grido, tutti i prezzi sono calcolati a mano, care vecchie addizioni scarabocchiate sul primo pezzo di carta disponibile. E neanche inventari informatizzati: io stesso fungo da computer e devo ricordarmi, su richiesta, dell'ultimo posto in cui ho intravisto, per esempio, quella tale traduzione di Dharma Bums in esperanto. (Risposta: in bagno, dietro la tubatura del lavandino).

Il lavoro non è così semplice come sembra: la libreria S.W. Gam è uno di quegli angoli del cosmo in cui gli umani hanno da tempo perso il controllo sulla materia. Ogni scaffale supporta tre file di libri e i pavimenti scompaiono sotto dozzine di scatole di cartone tra le quali serpeggiano stretti sentieri allestiti per la circolazione dei clienti. Il minimo interstizio è sfruttato: sotto la macchina del caffè, tra i mobili e le pareti, dentro lo sciacquone del bagno, sotto la scala, e perfino nello spazio angusto e polveroso del sottotetto. Il nostro sistema di archiviazione è cosparso di microclimi, di frontiere invisibili, di strati, di immondizia, di inferi disordinati, di vaste pianure senza punti di riferimento apparenti – complessa cartografia che poggia essenzialmente sulla memoria visiva, facoltà senza la quale non si dura a lungo nel mestiere.

Ma lavorare qui richiede qualcosa di più che buon occhio e tre once di memoria. L' importante è sviluppare una percezione particolare del tempo. La questione è – come dire – che diversi avatar della nostra bottega coesistono simultaneamente in una moltitudine di epoche differenti, separate da ellissi molto sottili.

L'immagine merita senza dubbio una spiegazione.


Ogni libro che fa ingresso qui può incontrare il suo prossimo lettore in qualunque momento della storia del negozio, tanto nel futuro quanto nel passato. Quando smista un nuovo arrivo di libri, la signora Dubeau consulta freneticamente la sua personale "Enciclopedia Lavoisier" – una trentina di quaderni dove rubrica tutte le richieste speciali dei clienti dal 1971 - per vedere se qualcuno non abbia desiderato, dieci anni addietro, uno dei libri sbarcati di fresco. Ogni tanto impugna il telefono con un sorriso vittorioso.

– Signor Tremblay? Sono Andrée Dubeau, della libreria S.W. Gam. Ho una buona notizia: abbiamo ricevuto la Storia della caccia alla balena a Fairbanks nel diciottesimo secolo!

All'altro capo del filo, il signor Tremblay reprime un brivido. Eccolo riportato di colpo agli iceberg immacolati che ossessionarono le sue notti all'epoca della canicola del 1987.

– Arrivo subito! – biascica febbrilmente come se gli si rammentasse un appuntamento importante.

La signora Dubeau cancella la richiesta e richiude l'"Enciclopedia Lavoisier". Missione compiuta.

Non riesco a sfogliare questi spessi quaderni senza rabbrividire. Nessun lavoro rende meglio l'idea del tempo che passa: molti clienti annotati in queste pagine sono morti da anni, certi non provano più il minimo interesse per i libri, altri se ne sono andati in Asia senza lasciare indirizzo, e molti non troveranno mai l'opera tanto desiderata.

Mi domando a volte se esiste da qualche parte una "Enciclopedia Lavoisier" dei nostri desideri, repertorio esaustivo di ogni minimo sogno o aspirazione, in cui niente è perduto né creato, ma dove l'incessante trasformazione di tutte le cose si svolge secondo il ritmo di andata-ritorno, come un ascensore che collega i differenti piani della nostra esistenza.

Insomma, la nostra libreria è un universo composto e governato dai libri, e mi sembrava naturale dissolvermi del tutto in esso, votare il mio destino alle migliaia di destini debitamente affastellati su quelle centinaia di scaffali.

Mi si accusa talvolta di mancare di ambizione. Ma non sarò forse semplicemente colpito da una leggera anomalia magnetica?


Eccoci quasi alla fine del prologo.

Mi ci sono volute due settimane per riempire i trenta sacchi di immondizia che, stamattina, gli spazzini infornano nel camion. Milleottocento litri di ultra plastica, trent'anni di vita. Non ho conservato che lo stretto necessario: qualche scatola di souvenir, alcuni mobili, i miei effetti personali. Il bungalow è in vendita, due compratori sembrano interessati. L'affare dovrebbe concludersi di qui a una settimana.

Io sarò già altrove nel mio nuovo appartamento della Petite Italie, proprio di fronte alla statua del vecchio Dante Alighieri.

Gli spazzini hanno terminato il lavoro e si asciugano il sudore dalla fronte, all'oscuro di tutta la storia cui hanno appena preso parte. Osservo il camion masticare i sacchi senza sforzo, inghiottire quel che resta di mia madre.

Fine di un'epoca – mi ritrovo in territorio vergine, senza punti di riferimento. Guardo nervosamente intorno a me. La bussola Nikolski riposa sul pavimento, vicino al sacco a pelo, sempre puntata 34° a ovest del nord. Infilo il suo cordoncino rosso ciliegia intorno al collo.

Il camion della spazzatura si allontana. Lungo la sua scia arriva quello dei traslochi.

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Pagina 75

COLMADO REAL



Noah entra nell'ufficio postale con aria spensierata, facendo saltare nel palmo gli spicci che gli serviranno per comprare il francobollo. Nell'altra mano ha la busta dei miracoli, corredata del nome di sua madre, dell'indirizzo del fermo posta di Fertile, Manitoba, e dell'indirizzo del mittente – rassicurante punto fermo nell'universo.

A un tratto si ferma, folgorato in mezzo alla piazza. Aleggia, nell'aria, lo stesso odore delle migliaia di piccoli uffici postali sparpagliati nella pianura tra Winnipeg e Calgary. Polvere di carta, elastici, tamponi di inchiostro.

Noah vacilla: eccolo catapultato a 3000 chilometri da lì, tredici anni prima. Strizza gli occhi, si guarda attorno. Non sarà, Montréal, un fermo posta come tanti altri? Credeva di mettere piede sulla terraferma, lasciando la roulotte di sua madre, ed ecco che il suolo invece gli frana sotto i piedi. Tutto si riduce a oscillazioni, mare mosso e vertigine.

Fa un respiro profondo, tenta di ragionare. Che cos'è un odore, dopotutto? Un pizzico di molecole alla deriva nell'atmosfera. Vaghi stimoli che circolano tra l'epitelio olfattivo e la corteccia orbitofrontale. Crepitii elettrici, reazioni chimiche, enzimi, neurotrasmettitori – concatenazione anodina che però rompe il sottile equilibrio dei neuroni, scuote i corpi mamillari e stana vecchi ricordi di infanzia dalla beata inerzia nella quale si nascondevano.

Noah compra il francobollo, lo incolla, lascia cadere la busta nella fessura ed esce dall'ufficio postale senza perdere tempo.

Totale: settantacinque secondi in apnea.

Torna a casa con aria triste, gli occhi persi nel vuoto, le mani dietro la schiena legate da un paio di manette invisibili. Quando lo vede passare, Maelo sente il cuore accelerare. Conosce bene quella sensazione per averla colta mille volte sui visi dei cugini: è il mal di patria. I sintomi differiscono poco tra un dominicano e uno del Saskatchewan – l'umanità non è in fondo così sorprendente come si dice, e lui sa bene cosa fare. Con l'autorità imperturbabile di una vecchia levatrice, intercetta il suo coinquilino.

– Noah, devi prendere il toro per le corna.

– Prendere il toro per le corna? – ripete Noah senza emergere davvero da quella sensazione di smarrimento.

– I primi giorni sono i più difficili, ma ti devi scuotere. Prima di tutto bisogna trovarti un lavoro. Ti prenderei volentieri nella pescheria, ma ho appena assunto una ragazza. Va' piuttosto a far visita a Cesar Sanchez.


Cesar Sanchez, dominicano taciturno e instancabile masticatore di sigari a buon mercato, è il timoniere supremo del Colmado Real. Nella vetrina della sua drogheria un cartello offre perennemente un lavoro da fattorino con bicicletta. Il pezzo di cartone è bruciato da parecchie estati di canicola, accartocciato da innumerevoli gennai di brina – e Noah ne deduce che i fattorini del Colmado Real non invecchiano certo lì dentro.

Un Montecristo spento ficcato tra le labbra, Cesar Sanchez passa Noah ai raggi X.

– Conosci il quartiere? – si accontenta di chiedere.

– Sono nato in via Dante – afferma Noah senza battere ciglio.

– Fammi un giro di prova. Prepara l'ordinazione di Madame Pichet e portagliela. ‘Dale!

Gli appioppa in mano un vecchio taccuino. Sulla prima pagina c'è scarabocchiato un elenco di drogherie, metà in francese, metà in spagnolo.

– Mi fornite la bici? – risponde Noah rimboccandosi le maniche della camicia.

– ‘Claro! – scoppia a ridere il gestore, mostrandogli una fiammeggiante CCM 1977 modificata, parcheggiata davanti alla vetrina del meccanico.

Il primitivo veicolo si riduce al minimo indispensabile: tre ruote, due pedali, un cestino. Noah sente le ginocchia piegarsi. Non ha mai inforcato una bicicletta in vita sua. All'età in cui di solito se ne apprendono i rudimenti, lui aveva a che fare con vecchie cartine stradali, guardando sfilare davanti a sé i cortili delle scuole.

Affidandosi esclusivamente al suo coraggio, fa il giro degli scaffali di corsa e raccoglie gli articoli elencati nel taccuino. Poi controlla l'indirizzo scritto in fondo alla lista della spesa.

– Via De Gaspé?

Si stringe nelle spalle ed esce per mettere i sacchetti nel cestino della bicicletta. Passando vicino alla cassa, si porta via con discrezione uno stradario di Montréal.

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PRIMO CONTATTO CON IL VOSTRO MACINTOSH



Joyce lancia calci rabbiosi ai sacchi della spazzatura.

In strada ognuno si dà da fare col proprio lavoro. Un tipo malandato distribuisce volantini, operai comunali tagliano un acero centenario con la sega elettrica, il fattorino della pizzeria sale una scala con una scatola fumante tra le braccia – e Joyce guarda tutta quella gente in agitazione brontolando.

Dal suo arrivo a Montréal, non ha fatto altro che vendere filetti di sogliola, tagliare fette di salmone e sorridere ai clienti. Di questo passo, le sembrerà di essere tornata all'età di sei anni, quando cucinava per gli zii e imparava giudiziosamente lezioni di Storia naturale.

Tale capovolgimento di situazione non sarebbe affatto piaciuto al suo temibile antenato, il pirata Herménégilde Doucette. "Ma che razza di idea, lavorare in una pescheria," borbotterebbe con la voce roca "quando basta scendere al porto e imbarcarsi su un peschereccio."

– Ma, nonnino... – si difenderebbe Joyce allargando le braccia. – Siamo nel 1989!

– E allora, cosa cambia?

Come spiegarglielo? Questo mondo non somiglia più a quello di ieri. I registratori di cassa, gli sportelli automatici, le transazioni con carta di credito, i telefoni cellulari... L' America del Nord presto non sarà altro che una serie di reti informatiche interconnesse. Quelli che sapranno manovrare un computer potranno cavarsela. Gli altri perderanno il treno.

Joyce allunga un calcio a una scatola di cartone.

Un tipo si avvicina a tutta velocità alla guida di una bici da consegne, con l'aria più interessata all'architettura circostante che al percorso. Salta il bordo del marciapiede, sfiora i sacchi dei rifiuti, evita Joyce per un pelo e ridiscende sulla strada. Lei osserva quel veicolo dell'età del bronzo allontanarsi per poi sparire in un vicolo.

– E quello lì? – mormora. – Sarà felice di fare consegne per la drogheria?

Si è fermata davanti a un pacco di giornali vecchi. In cima alla pagina una pubblicità annuncia gli Speciali per il nuovo anno scolastico. In bella mostra dentro un piccolo riquadro austero, un IBM 286, processore sincronizzato a 50 MHz, 1 Mb di memoria fissa, 30 Mb di disco rigido, lettore di dischetti 1,44', monitor VGA, stampante laser – il tutto per 2.495 $ (tasse escluse).

A occhi chiusi Joyce divide il prezzo del computer per il salario minimo: quell'osceno marchingegno equivale a più di 400 ore di decapitazione di merluzzi!

Sospira e molla un solenne calcio al sacco di rifiuti più vicino. La plastica scoppia e una mezza dozzina di dischetti si sparpagliano sul marciapiede. Joyce, incredula, ne esamina uno. Sotto una piccola mela multicolore figura un allettante invito: Primo contatto con il vostro Macintosh.

Joyce si volta verso il mucchio di immondizia, trasfigurata.

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CCM



Noah si è innamorato all'istante della vecchia bici di Cesar Sanchez.

In piedi sui pedali, coi bordi del cestino ben saldi nelle mani e la testa bassa, ha l'impressione di sorvolare il quartiere. I rischi stradali spariscono. Niente più traffico, sensi unici, codice della strada – restano solo alcuni punti di riferimento stirati dalla velocità: il mercato Jean-Talon, la chiesa di Saint-Zotique, un anziano signore seduto sulla panchina, la statua del vecchio Dante Alighieri, l'alternarsi di macellerie e calzolai, un marciapiede fiancheggiato da alberi.

Il lavoro di fattorino, a prima vista banale, gli sembra improvvisamente la maniera ideale di cartografare il quartiere.

Alla guida della bicicletta, costruisce una vista aerea del territorio – piazze, vicoli, muri, graffiti, cortili di scuola, scale, bazar e bancarelle – mentre, intrattenendosi con i clienti, spia gli accenti, i vestiti, i tratti somatici, gli odori della cucina e qualche frammento di musica. Sommati insieme, i due inventari compongono una mappa complessa del quartiere, allo stesso tempo fisica e culturale.

Noah tenta di trasferire le sue osservazioni su una cartina di Montréal, ma due dimensioni non bastano per contenere quell'abbondanza di informazioni. Ci vorrebbe piuttosto un plastico, un mikado, una matrioska, se non addirittura una combinazione di miniature: una Petite Italie che contiene una Petite Amerique Latine, che contiene una Petite Asie, che contiene un Petit Port-au-Prince, senza dimenticare un Petit San Pedro de Macorís.

Per la prima volta in vita sua, Noah comincia a sentirsi a casa.

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