Copertina
Autore Philip K. Dick
Titolo Rapporto di minoranza e altri racconti
EdizioneFanucci, Roma, 2010, Ventesima , pag. 218, cop.ril.sov., dim. 13x20,5x1,8 cm , Isbn 978-88-347-1609-0
OriginaleMinority Report, etc.
CuratoreCarlo Pagetti
PrefazioneCarlo Pagetti
TraduttorePaolo Prezzavento
LettoreGiovanna Bacci, 2011
Classe fantascienza , cinema
PrimaPagina


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Indice


Introduzione                          9


Rapporto di minoranza                23

Impostore                            75

Modello Due                          95

Ricordiamo per voi                  149

La formica elettrica                177

Venti minuti nel futuro             201


Note                                217



 

 

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Pagina 21

Rapporto di minoranza



Minority Report
(Minority Report)
USA, 2002
Regia di Steven Spielberg



La prima cosa che Anderton pensò quando vide il giovane, fu: «Sto diventando calvo. Calvo, grasso e vecchio.» Ma non lo disse a voce alta, anzi, spinse indietro la sedia, si alzò in piedi, e gli andò risolutamente incontro aggirando la scrivania e tendendogli la destra. Sorridendo con affabilità forzata, strinse la mano al giovane.

«Witwer?» chiese, cercando di far sembrare gentile la domanda.

«Esatto» rispose il giovane. «Ma naturalmente può chiamarmi Ed se, come me, detesta le formalità.» Il suo volto dai tratti nordici, molto sicuro di sé, dimostrava che considerava chiusa la questione. Da quel momento sarebbe stata una faccenda tra Ed e John: sarebbe stato un rapporto di franca collaborazione fin dall'inizio.

«Ha avuto problemi a trovare l'edificio?» chiese Anderton un po' diffidente, ignorando quell'approccio troppo amichevole. Buon Dio, prima o poi avrebbe trovato qualcosa a cui attaccarsi. Lo assalì la paura e cominciò a sudare. Witwer si muoveva per l'ufficio come se fosse già suo, come se stesse prendendo le misure. Non poteva aspettare un paio di giorni, un intervallo appropriato?

«Nessun problema» rispose allegro Witwer, tenendo le mani in tasca. Poi esaminò impaziente i voluminosi dossier allineati lungo la parete. «Non vengo nella sua agenzia alla cieca, come potrà ben comprendere. Mi sono fatto un'idea di come vanno le cose alla Precrimine.»

Un po' turbato, Anderton si accese la pipa. «Ah sì, e come vanno? Mi piacerebbe saperlo.»

«Non troppo male» disse Witwer. «In effetti, piuttosto bene.»

Anderton tornò a fissarlo. «Questa è la sua opinione personale? O sta solo parlando in codice?»

Witwer incrociò il suo sguardo con fare ingenua «Personale e pubblica. Il Senato è contento del suo lavoro. In effetti, ne è proprio entusiasta.» E aggiunse: «Entusiasta come possono esserlo dei vecchi senatori.»

Anderton trasalì. Rimase apparentemente impassibile, anche se dovette fare un grosso sforzo. Si chiese cosa realmente pensasse Witwer. Cosa stava veramente passando per quel cranio rasato quasi a zero? Gli occhi del giovane erano azzurri, splendenti... e terribilmente svegli. Non era facile fregare Witwer. E ovviamente era molto ambizioso.

«Da quel che mi risulta,» disse Anderton circospetto «lei sarà il mio assistente finché non andrò in pensione.»

«Risulta anche a me» replicò l'altro, senza un attimo di esitazione.

«Potrebbe essere quest'anno, o l'anno prossimo... o fra dieci anni.» La pipa che teneva in mano tremò. «Non sono obbligato ad andare in pensione. Ho fondato la Precrimine e posso restare qui quanto mi pare. Dipende unicamente da me.»

Witwer annuì, con un'espressione ancora ingenua sul volto. «Naturalmente.»

Facendo uno sforzo, Anderton abbassò i toni. «Valevo solo mettere le cose in chiaro.»

«Fin dall'inizio» convenne Witwer. «Lei è il capo. Ogni sua parola è un ordine.» Con tono apparentemente sincero, chiese: «Mi potrebbe mostrare come funziona l'organizzazione? Vorrei prendere confidenza con l'andazzo generale il prima possibile.»

Mentre camminavano lungo i corridoi di uffici in piena attività e illuminati di luce gialla, Anderton disse: «Lei conosce la teoria del precrimine, naturalmente. Penso che possiamo darla per scontata.»

«So quello che sanno tutti» replicò Witwer. «Con l'aiuto dei vostri mutanti precog, voi avete coraggiosamente e con successo abolito il sistema punitivo post-crimine fatto di prigioni e sanzioni pecuniarie. Com'è ovvio, la punizione non è mai stata un deterrente, ed è sempre stata di ben poco giovamento a una vittima già morta.»

Erano arrivati all'ascensore. Mentre scendevano velocemente, Anderton disse: «Lei ha probabilmente afferrato qual è il fondamentale difetto della metodologia precrimine dal punto di vista legale. Noi arrestiamo degli individui che non hanno infranto alcuna legge.»

«Ma che sicuramente la violeranno» affermò Witwer con convinzione.

«Per fortuna non lo faranno... perché noi li prendiamo prima che possano commettere un'azione violenta. Per cui la perpetrazione del crimine stesso è un qualcosa di assolutamente metafisico. Noi diciamo che sono colpevoli. Loro, d'altro canto, proclamano in eterno la propria innocenza. E in un certo senso sono innocenti.»

Uscirono dall'ascensore, e si trovarono di nuovo in un corridoio illuminato di luce gialla. «Nella nostra società non abbiamo più reati da pena capitale» continuò Anderton «ma abbiamo un campo di prigionia pieno di potenziali criminali.»

Aprirono e richiusero una serie di porte, e si ritrovarono nella sezione analitica. Di fronte a loro si innalzavano enormi gruppi di macchinari - i ricettori dei dati, e le macchine elaboratrici che studiavano e rielaboravano il materiale in entrata. E oltre i macdhinari sedevano i tre precog, quasi invisibili nel groviglio dei cavi.

«Eccoli» disse Anderton in tono distaccato. «Che ne pensa?»

Nella tetra semioscurità i tre idioti sedevano mormorando. Ogni emissione incoerente, ogni sillaba casuale, veniva analizzata, confrontata, riassemblata sotto forma di simboli visivi, subito trascritti su schede perforate convenzionali, che venivano espulse in varie caselle codificate. Gli idioti mormoravano tutto il giorno, imprigionati nelle loro sedie speciali dagli alti schienali, mantenuti in una posizione rigida da bande metalliche e fasci di cavi collegati con elettrodi. Le loro necessità fisiologiche venivano espletate automaticamente. Non avevano necessità spirituali. Simili a vegetali, borbottavano, sonnecchiavano ed esistevano. Le loro menti erano offuscate, perse fra le ombre.

Ma non le ombre del presente. Le tre creature farfuglianti, che incespicavano nelle parole, con le loro teste abnormi e i corpi devastati, stavano contemplando il futuro. Il macchinario analitico registrava profezie, e mentre i tre precog idioti parlavano, li monitorava attentamente.

Per la prima volta il volto di Witwer perse la sua disinvolta sicumera. Nei suoi occhi affiorò un'espressione malata, sconcertata, un misto di vergogna e shock morale. «Non è... un bello spettacolo» mormorò. «Non mi ero reso conto che fossero così...» Cercò nella sua mente la parola adatta, gesticolando. «Così... deformi.»

«Deformi e ritardati» concordò all'istante Anderton. «Soprattutto la ragazza. Donna ha quarantacinque anni. Ma sembra che ne abbia dieci. Il talento assorbe tutto; lo sviluppo abnorme del lobo esp ha fatto atrofizzare il resto dell'area frontale. Ma cosa ce ne importa? Noi abbiamo le loro profezie. Ci danno ciò di cui abbiamo bisogno. Loro non ci capiscono niente, ma noi sì.»

Soggiogato, Witwer attraversò la stanza fino a raggiungere il macchinario. Da una casella raccolse un mucchietto di schede. «E questi sono i nomi usciti?» chiese.

«Ovviamente.» Con un'occhiataccia, Anderton gli tolse le schede. «Non ho avuto la possibilità di esaminarli» spiegò, nascondendo a stento il suo disappunto.

Affascinato, Witwer guardò il macchinario sfornare un'altra scheda nella casella ora vuota. Seguì una seconda scheda... e poi una terza. Le rondelle ronzanti sfornavano una scheda dopo l'altra. «I precog devono vedere molto in avanti nel futuro» esclamò Witwer.

«La loro capacità di previsione è limitata» lo informò Anderton. «Una o due settimane al massimo. Molti dei loro dati sono privi di valore per noi, semplicemente irrilevanti per i nostri interventi. Li passiamo alle agenzie di competenza. E queste a loro volta scambiano dati con noi. Ogni ufficio importante ha la sua stanza sotterranea dove sono ben conservate le scimmie.»

«Scimmie?» Witwer lo guardò a disagio. «Oh, sì, capisco. Non vedo, non parlo, eccetera eccetera. Molto divertente.»

«Molto appropriato.» Automaticamente, Anderton raccolse le nuove schede uscite dal macchinario in movimento. «Alcuni di questi nomi verranno scartati completamente. E gran parte dei rimanenti riguardano crimini di poco conto: furto, evasione fiscale, aggressione, estorsione. Certamente saprà che la Precrimine ha permesso di ridurre i crimini del 99,8 per cento. Raramente si verifica un omicidio o un atto proditorio. Dopo tutto, il colpevole sa che lo metteremmo nel campo di prigionia una settimana prima che abbia la possibilità di commettere il reato.»

«Quando è stata l'ultima volta che è stato commesso un vero assassinio?» chiese Witwer.

«Cinque anni fa» rispose Anderton con un tono di voce che tradiva il suo orgoglio.

«Com'è potuto accadere?»

«Il criminale è sfuggito alle nostre squadre. Sapevamo il suo nome – in effetti, conoscevamo tutti i dettagli del crimine, compreso il nome della vittima. Conoscevamo il momento esatto, il luogo in cui si sarebbe svolto. Ma nonostante il nostro intervento, è riuscito a portarlo a termine.» Anderton si strinse nelle spalle. «Non possiamo prenderli tutti.» Sfogliò rapidamente le schede. «Ma la maggior parte sì.»

«Un solo omicidio in cinque anni.» La sicurezza di Witwer stava tornando. «È un risultato veramente straordinario... qualcosa di cui andare fieri.»

Con calma, Anderton disse: «Io ne sono fiero. Trent'anni fa elaborai la teoria – nei giorni in cui chi voleva arricchirsi pensava ancora alle speculazioni in Borsa. Io vidi qualcosa di legittimo di fronte a noi – qualcosa che aveva un enorme valore sociale.»

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Pagina 95

Modello Due



Screamers - Urla dallo spazio
(Screamers)
USA/Canada/Giappone, 1995
Regia di Christian Duguay



Il soldato russo si fece strada nervosamente sul lato scosceso della collina, tenendo pronta la sua arma. Si guardò intorno, leccandosi le labbra riarse, il volto immobile. Ogni tanto con la mano guantata si asciugava il sudore dal collo, scansando il colletto del cappotto.

Eric si rivolse al caporale Leone. «Lo sistemi tu? Oppure ci devo pensare io?» Regolò il mirino in modo che il volto del russo fosse perfettamente al centro, con le linee sovrapposte al suo profilo duro e solenne.

Leone rifletté un attimo. Il russo era vicino, si muoveva rapidamente, stava quasi correndo. «Aspetta, non sparare» disse ansioso. «Non penso sia necessario.»

Il russo accelerò il passo, scagliando ceneri e detriti sul suo cammino. Raggiunse la sommità della collina e si fermò, ansimando e guardandosi intorno. Il cielo era coperto di nuvole di particelle grigie che si muovevano lentamente. Si vedevano qua e là alcuni spogli tronchi d'albero; il terreno era piatto e desolato, ricolmo di macerie, le rovine degli edifici sparse intorno come teschi ingialliti.

Il russo era a disagio. Sapeva che c'era qualcosa che non andava. Cominciò a discendere la collina. Ora si trovava a pochi passi dal bunker. Eric stava diventando nervoso. Giocò un po' con la pistola, guardando Leone.

«Non preoccuparti» disse Leone. «Non ce la farà ad arrivare fin qui. Ci penseranno loro.»

«Sei sicuro? E dannatamente vicino.»

«Loro si aggirano intorno al bunker. Adesso comincia il bello. Preparati allo spettacolo!»

Il russo cominciò a correre, scivolando giù dalla collina, con gli stivali che affondavano nei cumuli di cenere grigia, cercando di tenere l'arma sollevata. Si fermò un momento, alzando il cannocchiale all'altezza del volto.

«Sta guardando proprio verso di noi» disse Eric.

Il russo si avvicinò ancora. Riuscivano a vederne gli occhi, che erano come due pietre azzurre. La bocca era leggermente aperta. Aveva la barba incolta; il mento era sfuggente. Su una guancia ossuta c'era un quadratino di cerotto, dai bordi bluastri. Un fungo mutante. Il suo cappotto era sporco e sdrucito. Gli mancava un guanto. Mentre correva, il cinturone sballottava avanti e indietro contro il suo corpo.

Leone toccò il braccio di Eric. «Eccone uno.»

Si vide qualcosa di piccolo e metallico che attraversava il terreno, risplendendo nell'implacabile luce di mezzogiorno. Una sfera di metallo. Correva giù per la collina dietro al russo, con i suoi fili che volavano. Era piccola, una delle sfere baby. Aveva tirato fuori gli artigli, due rasoi estensibili che vorticavano in un bagliore di acciaio bianco. Il russo la sentì. Si girò all'istante e fece fuoco. La sfera si dissolse in tante particelle. Ma già una seconda sfera l'aveva rimpiazzata. Il russo sparò di nuovo.

Una terza sfera balzò sulla gamba del soldato, ronzando e ticchettando. Di lì gli saltò sulla spalla. Le lame rotanti scomparvero nella gola del russo.

Eric si rilassò. «Be', è finita. Dio, quelle dannate sfere mi fanno venire i brividi. A volte penso che stavamo meglio quando non c'erano.»

«Se non le avessimo inventate noi, lo avrebbero fatto loro.» Leone si accese una sigaretta, ancora tremante. «Mi chiedo perché un russo debba venire da queste parti da solo. Non c'era nessuno a coprirgli le spalle.»

Il tenente Scott uscì dal tunnel che conduceva al bunker. «Cosa è successo? Ho visto qualcosa sullo schermo.»

«Un Ivan.»

«Uno solo?»

Eric si guardò intorno utilizzando lo schermo visore. Scott ci guardò dentro. Ora c'erano numerose sfere che brulicavano sopra il corpo accasciato, ottusi globi di metallo che ronzavano e ticchettavano, tagliando il russo in piccoli pezzi da portar via.

«Quanti artigli!» mormorò Scott.

«Sono arrivati come le mosche. Non ci sono più molte prede per loro.»

Scott scansò il visore, disgustato. «Come le mosche. Mi chiedo perché è venuto qui. Sanno che abbiamo gli artigli tutti intorno al bunker.»

Un robot più grande aveva raggiunto le piccole sfere. Un lungo tubo tagliato con estrusioni oculari stava dirigendo le operazioni. Non era rimasto molto del soldato. Ciò che restava venne portato giù dal fianco della collina dalla schiera di artigli.

«Signore, se lei è d'accordo vorrei andare a dargli un'occhiata» disse Leone.

«Perché?»

«Forse aveva qualcosa con sé.»

Scott ci pensò un attimo, poi si strinse nelle spalle. «Bene. Ma stia attento.»

«Ho la mia piastrina.» Leone diede un colpetto alla fascetta di metallo che portava al polso. «Starò attento a non superare la distanza di sicurezza.»

Prese il suo fucile e cominciò a uscire con cautela dal bunker, facendosi strada tra i blocchi di calcestruzzo e le loro anime d'acciaio, piegate e contorte. L'aria era fredda in cima a quel passaggio. Leone attraversò il tratto che lo separava dai resti del soldato, camminando sulla soffice cenere. Il vento soffiava tutto intorno a lui, e gli turbinava in particelle sul volto. Cercò di ripararsi e continuò ad avanzare.

Quando il soldato arrivò sul posto, gli artigli si ritrassero. Alcuni si irrigidirono, diventando immobili. Il soldato si toccò la piastrina. Quell'Ivan avrebbe dato chissà cosa per averla! Le potenti radiazioni a onde corte emesse dalla piastrina neutralizzavano gli artigli, li mettevano fuori uso. Anche il grande robot con i due occhi sporgenti in continuo movimento si ritirò con rispetto mentre lui si avvicinava.

Si chinò sui resti del soldato. La mano guantata era serrata. Stringeva qualcosa. Leone aprì le dita una a una. Un contenitore di alluminio, sigillato, ancora luccicante.

Se lo mise in tasca e fece per tornare al bunker. Dietro di lui gli artigli ripresero vita, tornando operativi. Ricominciò la processione, le sfere di metallo si mossero sulla cenere grigia con il loro carico. Sentì i fili che grattavano contro il terreno. Gli vennero i brividi.

Scott lo guardò attentamente mentre lui tirava fuori il tubetto luccicante. «Aveva quello?»

«Sì, lo teneva in mano.» Leone svitò il tappo all'estremità. «Forse dovrebbe dargli un'occhiata, signore.»

Scott lo prese e ne vuotò il contenuto sul palmo della mano. Era un foglietto di carta sottilissimo, ripiegato con cura. Si sedette alla luce e cominciò ad aprirlo.

«Cosa dice?» chiese Eric. Diversi ufficiali vennero su per il tunnel. Apparve anche il maggiore Hendricks.

«Maggiore, venga a dare un'occhiata» disse Scott.

Hendricks lesse il foglietto. «È appena arrivato?»

«Un'unica staffetta, proprio adesso.»

«E dov'è la staffetta?» chiese brusco Hendricks.

«Gli artigli l'hanno fatta fuori.»

Il maggiore Hendricks grugnì. «Ecco.» Passò il foglietto ai suoi compagni. «Credo sia quello che stavamo aspettando. Certo che ce ne hanno messo, di tempo.»

«Allora vogliono trattare» disse Scott. «Scenderemo a patti con loro?»

«Non sta a noi decidere.» Hendricks si sedette. «Dov'è l'ufficiale addetto alle comunicazioni? Voglio parlare con la Base Luna.»

Leone restò a riflettere mentre l'ufficiale addetto alle comunicazioni alzava con cautela l'antenna esterna, esaminando il cielo al di sopra del bunker per individuare un qualunque segno di una navicella russa in osservazione.

«Signore» disse Scott a Hendricks. «Certo è strano che si siano fatti vivi così all'improvviso. È un anno che utilizziamo gli artigli. Ora all'improvviso cominciano a cedere.»

«Forse gli artigli hanno cominciato a scendere nei loro bunker.»

«Uno di quelli grandi, quello con i tubi estroflessi, è entrato in un bunker degli Ivan la scorsa settimana» disse Eric. «C'è voluto un intero plotone di Ivan per chiudere il portellone.»

«Come fa a saperlo?»

«Me l'ha detto un amico. Quella cosa è tornata indietro con dei... resti.»

«Base Luna in ascolto, signore» disse l'ufficiale addetto alle comunicazioni.

Sullo schermo apparve il volto dell'addetto al monitor lunare. La sua linda uniforme contrastava con quelle dei soldati del bunker, ed era sbarbato di fresco. «Qui Base Luna.»

«Qui è l'avamposto L-Whistle. Su Terra. Mi passi il generale Thompson.»

L'addetto al monitor scomparve. Subito lo schermo si focalizzò sui lineamenti marcati del generale Thompson. «Maggiore, cosa c'è?»

«I nostri artigli hanno beccato una staffetta russa che portava un messaggio. Non sappiamo se agire di conseguenza... ci sono stati altri scherzi del genere in passato.»

«Cosa dice il messaggio?»

«I russi vogliono che mandiamo un ufficiale con l'autorità necessaria per trattare verso le loro linee, da solo. Per trovare un accordo. Non hanno specificato di che tipo di accordo si tratta. Dicono che è una questione...» consultò il foglietto «... di estrema urgenza, ed è opportuno che si apra un dialogo tra un rappresentante delle Nazioni Unite e loro.»

Tenne il messaggio davanti allo schermo così che il generale potesse leggerlo. Gli occhi di Thompson si mossero seguendo le righe del testo.

«Cosa dobbiamo fare?» chiese Hendricks.

«Mandare un uomo.»

«Non potrebbe essere una trappola?»

«Può darsi, ma l'ubicazione del loro avamposto è corretta. A ogni modo, vale la pena di tentare.»

«Manderò un ufficiale in avanscoperta. E le farò rapporto non appena ritorna.»

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Pagina 149

Ricordiamo per voi



Atto di forza
(Total Recall)
USA, 1990
Regia di Paul Verhoeven



Si svegliò che desiderava Marte. Pensò alle valli, alla sensazione che avrebbe provato a percorrerle faticosamente. Sarebbe stato grandioso: il sogno si fece sempre più vivido man mano che riacquistava coscienza; il sogno e il desiderio. Sentiva quasi la presenza avvolgente dell'altro mondo, che solo gli agenti del Governo e gli alti funzionari avevano avuto il privilegio di vedere. Un impiegato come lui? Non era possibile.

«Intendi svegliarti o no?» gli chiese sua moglie Kirsten ancora assonnata, con il solito tono irascibile. «Visto che ti stai alzando, premi il bottone del caffè caldo su quel fottuto fornello.»

«Okay» disse Douglas Quail, e si fece strada a piedi nudi dalla camera da letto fino alla cucina. Lì, dopo avere diligentemente premuto il bottone del caffè caldo, si sedette al tavolo e tirò fuori una piccola lattina gialla di tabacco da fiuto Dean Swift. Inalò in fretta, e la miscela Beau Nash gli si attaccò al naso, gli bruciò il palato. Eppure continuò a inalare; quella sostanza lo svegliava e faceva sì che i suoi pensieri, i suoi desideri notturni e le sue vaghe aspirazioni si condensassero in una parvenza di razionalità.

Ci andrò disse tra sé. Prima di morire voglio vedere Marte.

Naturalmente era impossibile, e ne era cosciente anche mentre sognava. Ma la luce del giorno, il rumore terreno che faceva sua moglie mentre si spazzolava i capelli davanti allo specchio — tutto contribuiva a ricordargli cos'era. Un piccolo miserabile impiegato salariato si disse amareggiato. Kirsten glielo ricordava almeno una volta al giorno e lui non gliene faceva una colpa; è compito di una moglie riportare il marito con i piedi per Terra. 'Per Terra' pensò, e rise. In questo caso la figura retorica calzava anche alla lettera.

«Cosa c'è da ridere?» gli chiese la moglie entrando rapidamente in cucina, con la lunga vestaglia rosa che ondeggiava dietro di lei. «Scommetto che stavi sognando. Sei sempre lì a sognare.»

«Sì» disse lui, e guardò fuori dalla finestra della cucina le auto a cuscino d'aria e i rulli pedonali, e tutti quei piccoli individui che si affrettavano per andare al lavoro. Fra qualche istante sarebbe stato uno di loro. Come sempre.

«Scommetto che sognavi una donna» insinuò freddamente Kirsten.

«No» replicò lui. «Un dio. Il dio della guerra. Ha dei meravigliosi crateri dove cresce ogni tipo di forma vegetale.»

«Stammi a sentire» Kirsten si accovacciò di fronte a lui e parlò, con fare terribilmente serio; il tono aspro era momentaneamente scomparso dalla sua voce. «Il fondo dell'oceano, il nostro oceano, è molto più bello, mille volte di più. Lo sai tu, e lo sanno tutti. Noleggia delle branchie artificiali per noi due e prenditi una settimana di ferie; scenderemo negli abissi e vivremo in una di quelle località di villeggiatura acquatiche aperte tutto l'anno. E inoltre...» Si interruppe. «Non mi stai ascoltando. Dovresti, invece. È molto meglio di quell'idea fissa, di quell'ossessione che hai per Marte, e nemmeno mi ascolti!» Il tono della voce si alzò e divenne sempre più penetrante. «Dio del cielo, sei proprio fissato, Doug! Che ne sarà di te?»

«Vado a lavorare» disse lui, alzandosi in piedi e dimenticando la colazione. «Ecco che ne sarà di me.»

Lei gli rivolse un'occhiataccia. «Peggiori di giorno in giorno. Diventi sempre più fanatico. Dove ti porterà tutto questo?»

«Su Marte» rispose lui, e aprì l'armadio per prendere una camicia pulita da indossare per il lavoro.


Dopo essere sceso dal taxi, Douglas Quail procedette lentamente su tre rulli pedonali densamente popolati verso l'ingresso moderno, invitante, seducente. Lì si fermò, bloccando il traffico di metà mattinata, e lesse attentamente l'insegna al neon intermittente. Aveva già esaminato quell'insegna in passato... ma mai così da vicino. Stavolta era diverso; stavolta avrebbe fatto qualcosa che prima o poi sarebbe dovuto accadere comunque.

RIKORD INCORPORATED

Era questa la risposta? Dopo tutto, un'illusione, non importa quanto convincente, rimaneva pur sempre un'illusione. Almeno da un punto di vista oggettivo. Ma soggettivamente... era tutto il contrario.

In ogni modo aveva un appuntamento tra cinque minuti.

Inspirando profondamente l'aria di Chicago leggermente infestata dallo smog, attraversò l'abbagliante luccichio policromo dell'ingresso e andò al banco della reception.

La bionda formosa, tutta agghindata e con il petto scoperto, disse gentilmente: «Buongiorno, signor Quail»

«Sono qui per quel trattamento Rikord, come lei saprà.»

«Non 'Rikòrd' ma Ri–kord» lo corresse la ragazza. Prese il ricevitore del videofono, tenendolo nell'incavo formato dal morbido gomito, e disse: «Signor McClane, c'è qui il signor Douglas Quail. Posso farlo entrare? Oppure è troppo presto?»

«Giz wetwa wum-wum wamp» borbottò il telefono.

«Sì, signor Quail» disse lei. «Può entrare; il signor McClane la sta aspettando.» Poi, notando la sua incertezza, aggiunse: «Stanza D, signor Quail. Alla sua destra.»

Dopo un frustrante ma breve attimo di smarrimento trovò la stanza giusta. La porta si aprì e dentro, seduto a una grande scrivania di noce autentico, sedeva un uomo dall'apparenza mite, di mezza età, che indossava un vestito grigio all'ultima moda, di pelle di rana marziana; il suo solo abbigliamento sarebbe bastato a far capire a Quail che si trattava della persona giusta.

«Si sieda, Douglas» disse McClane, indicando con la mano grassoccia una sedia di fronte alla scrivania. «Così lei vorrebbe essere stato su Marte. Molto bene.»

Quail si sedette, sentendosi teso. «Non sono sicuro che ne valga la pena, per quella cifra» disse. «Costa un sacco e a quanto mi pare di capire non ottengo nulla.» Costa quasi quanto andarci per davvero, pensò.

«Lei avrà una prova tangibile del suo viaggio» replicò con enfasi McClane. «Tutte le prove che vorrà. Venga, le mostro come funziona.» Frugò in un cassetto della sua enorme scrivania. «Un biglietto.» Frugò in una cartellina e tirò fuori un piccolo quadratino di cartone stampato a rilievo. «Questo dimostra che lei è andato... e tornato. Cartoline.» Posò sulla scrivania quattro cartoline affrancate con immagini in 3-D a colori, in una serie ben ordinata affinché Quail le potesse vedere. «Un filmino. Riprese di alcune località turistiche su Marte fatte da lei con una telecamera presa in affitto.» Mostrò anche quelle immagini a Quail. «Più i nomi delle persone che ha incontrato, souvenir per un valore di duecento poscrediti, che arriveranno - da Marte - il mese prossimo. E il passaporto, le vaccinazioni cui si è sottoposto. E poi...» Lanciò un'occhiata penetrante a Quail. «Lei saprà di essere andato» disse. «Non si ricorderà di noi, di me, o di essere mai stato qui. Nella sua mente sarà come un viaggio vero; glielo possiamo garantire. Due settimane intere di ricordi; fino al dettaglio più insignificante. E si ricordi: in qualunque momento lei dovesse dubitare di aver fatto realmente un lungo viaggio su Marte, può tornare qui e ottenere un risarcimento totale. Capisce?»

«Ma io non ci sono mai stato» disse Quail. «Non ci sarò andato veramente, non importa quale prova mi fornirete.» Fece un lungo e irregolare respiro. «E non sono mai stato un agente dell'Interplan.» Gli sembrava impossibile che l'impianto di una memoria extra-fattuale della Rikord, Inc. potesse funzionare — nonostante ciò che aveva sentito dire.

«Signor Quail» disse McClane pazientemente. «Come ha già spiegato nella sua lettera, lei non ha alcuna chance, neanche la minima possibilità, di andare mai veramente su Marte. Non se lo può permettere e, cosa ancora più importante, non potrebbe mai farsi passare per un agente segreto dell'Interplan o per chiunque altro. Questo è l'unico modo in cui può realizzare il... hmm... sogno della sua vita; giusto? Non può essere un agente; non può fare veramente questo viaggio.» Sogghignò. «Però può esserlo stato e averlo fatto. A questo pensiamo noi. E la nostra tariffa è ragionevole; non ci sono costi aggiuntivi.» Fece un sorriso di incoraggiamento.

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