Copertina
Autore Tommaso Di Francesco
CoautoreEdoarda Masi, Alain Badiou, Alessandro Russo, Angela Pascucci, Rossana Rossanda, K.S. Karol
Titolo L'assalto al cielo
SottotitoloLa rivoluzione culturale cinese quarant'anni dopo
Edizionemanifestolibri, Roma, 2005, Esplorazioni , pag. 208, cop.fle., dim. 145x210x13 mm , Isbn 978-88-7285-452-5
CuratoreTommaso Di Francesco
LettoreFlo Bertelli, 2006
Classe paesi: Cina
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Indice

Introduzione                                  9
Tommaso Di Francesco


LA RIVOLUZIONE CULTURALE                     17

Una follia necessaria                        19
Edoarda Masi

La rivoluzione culturale:
l'ultima rivoluzione?                        37
Alain Badiou

La scena conclusiva.
Mao e le guardie rosse nel luglio 1968       73
Alessandro Russo


NOTE SULLA CINA CONTEMPORANEA               115

Uno sguardo sull'attuale teatro cinese      117
Edoarda Masi

La città assedia la campagna                123
Angela Pascucci


RILETTURE

Il comunismo difficile                      133
Rossana Rossanda

Da Deng a Deng.
Tre anni di lotta politica in Cina          163
K.S. Karol

Gli autori                                  203

 

 

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Pagina 9

INTRODUZIONE
Tommaso Di Francesco



ATTUALITΐ DELLA RIVOLUZIONE CULTURALE

Il conflitto più grande che nel mondo si apre, dopo le macerie delle ultime guerre inconcluse nei Balcani in Iraq e in Afghanistan, in Medio Oriente e dopo le rovine dell'11 settembre, è quello che comincia ad opporre, anche in chiave militare, gli Stati uniti e l'Occidente alla nuova Cina del «capitalismo di partito» voluto da Deng Xiao Ping e cominciato alla fine degli anni Settanta, dopo la morte di Mao. Il gigantismo produttivo cinese, pur sostenendo per i suoi meccanismi l'intero sistema capitalistico mondiale a partire proprio dall'economia Usa, «minaccia» ormai dall'interno le basi del neoliberismo, sia sul terreno produttivo (prezzi, copyright, mercati, salari ecc.) che su quello dell'uso delle sempre più scarse fonti mondiali di energia. Si tratta, naturalmente, di una minaccia sulla quantità che non mette certo in discussione la qualità, cioè la natura capitalistica del modello di sviluppo sociale ed economico, vale a dire di super-sfruttamento, accumulazione e divisione sociale del lavoro. Ma è la divisione internazionale del lavoro ad uscirne stravolta. Perché, di fronte al nodo immodificabile del sottosviluppo, che era ed è per due terzi dell'umanità non arretratezza ma il risultato distorto e diseguale del nostro sviluppo occidentale-centrico, è accaduto che la Cina alla fine si è fatta «capitalismo», assumendo l'unico sviluppo possibile, quello fondato sulle disuguaglianze sempre più estese e sullo sfruttamento, materiale e immateriale, dell'uomo sull'uomo, sulla violenza connessa all'enfasi delle spese militari. Ma a quali condizioni e pagando quali costi politici, umani e sociali? Perché nella costruzione di questa nuova forma di capitalismo si avverte ormai una sottrazione di tempo e speranza all'umanità tutta. Giacché ora la Cina è, tout court, il capitalismo.

Questo modello di sviluppo socio-economico – che ha modificato alla radice la natura profonda della Cina contemporanea e la sua immagine – è sostanzialmente mostruoso, perché artificialmente basato sulla disuguaglianza necessaria e sulla violenza di stato. Che hanno portato al risultato di una crescita solo per l'esportazione, alla ricchezza per pochissimi e per poche zone a fronte della grande miseria programmata dell'interno, alla nuova subalternità del lavoro contadino con condizioni di vita che determinano ormai l'esistenza di una voragine tra città e campagna, alla diffusione dell'incertezza e della disoccupazione per centinaia di milioni di persone, alla cancellazione anche di ogni pur misero preesistente welfare, ad uno sfruttamento disumano del lavoro, alla nascita di una nuova esigua classe di imprenditori privati-di stato, super-ricca, che occupa le istituzioni contro la maggioranza degli emarginati. Si tratta di una evidenza diventata ormai drammatica, al punto che sulla critica di questi nuovi disastri si è ridefinito di recente, dal 2002, l'assetto del nuovo potere in Cina con l'avvento della leadership di Hu Jintao e l'annuncio nel 2005 di un «piano» quinquennale contro le sperequazioni. Ma, al punto attuale della degenerazione cinese, non basterà un ordine di dietrofront dato dal Pcc e tantomeno un'operazione di maquillage.

Quando il modello-mostro nacque venne presentato dal partito comunista cinese come «socialismo di mercato», il primo stadio economico necessario per costruire le basi del futuro socialismo cinese, con una «apertura» agli investimenti esteri verso «zone speciali» dove era permessa ogni forma di supersfruttamento insieme all'assenza di ogni diritto, con l'abbattimento per la grande Cina dell'interno, quella delle campagne, del sistema delle Comuni popolari, luogo politico delegato all'erogazione e alla distribuzione eguale del lavoro, del welfare e delle risorse agricole.

Oggi, per capire che ci troviamo di fronte sì ad un «primo stadio», ma di una nuova grande esplosione sociale epocale della quale la rivolta della Tian An Men è stata solo una timida avvisaglia, basta attraversare le zone dell'interno senza occupazione e prospettive, con le campagne abbandonate, dove è rinato il latifondo a seguito della distribuzione diseguale del lavoro, dove l'azzeramento della Comuni popolari ha portato alla devastazione l'ambiente agricolo, impoverito dalle monoculture e privo ormai di minime infrastrutture – la storia della Cina era la storia delle sue canalizzazioni –, oppure visitare la nuova Pechino dove gli abitanti del centro storico sono stati cacciati con la violenza, o la luminaria di Shanghai-Las Vegas. E basta leggere le cronache quotidiane di migliaia di rivolte contadine contro la confisca delle terre o le ultimissime statistiche sull'ineguaglianza in aumento anche nelle città. Con un interrogativo in più, insopportabile non solo politicamente, per i cinesi e l'intera umanità: dove e come trovare l'energia per questo iper-sviluppo diseguale all'interno e concorrenziale, quanto a produttività e spreco, con il mondo?

Ma c'era un'altra possibilità per la Cina di non seguire la «linea capitalistica» per uscire dall'arretratezza e dalla subalternità nella quale era relegata dalla spartizione del mondo tra Usa e Urss? Quaranta anni fa questa possibilità alternativa fu rappresentata, dal 1966 al 1968 e 1969, dalla Grande Rivoluzione culturale proletaria, una linea politica che voleva per la Cina uno sviluppo «moderno» ma fondato sull'egualitarismo e sul controllo dal basso della politica e dell'economia – la nuova Comune di Parigi, la chiamavano i giovani rivoluzionari, le guardie rosse – rifiutando inoltre l'applicazione alla Cina di ricette fallimentari già applicate negli altri paesi di socialismo reale – come lo sfruttamento intensivo delle campagne al fine dell'edificazione di una grande industria pesante che Stalin aveva voluto nell'Urss. La linea della Rivoluzione culturale attraversò e spaccò le fila del Partito comunista fin nel comitato centrale e nel governo, e venne lanciata nella stagione del maggio 1966, dal basso, dall'interno dell'Università di Pechino, dai movimenti più intransigenti di studenti e quadri operai e contadini, ma anche dall'alto dallo stesso Mao Zedong, che la riprese e rilanciò, dall'interno e contro il Partito comunista cinese, vale a dire lo stesso partito garante del socialismo fin lì realizzato.

Quaranta anni fa, il 25 maggio 1966, sette giovani docenti e studenti dell'Università Beida affissero il primo manifesto a caratteri cubitali (dazebao): l'obiettivo immediato era il rettore dell'Università, quello indiretto il potente sindaco di Pechino Peng Chen e soprattutto il comitato del partito. Insomma un intervento politico che dentro il partito era cominciato già dal 1961, sia sulla strategia e sul modello socialista valido per la Cina, sia sull'autorità dello stesso Mao. Il dibattito, singolarmente, aveva preso le mosse da un disputa «letteraria», con l'accusa allo scrittore Wu Han di avere adombrato nel suo testo La destituzione di Han Jui, che raccontava le disavventure di un onesto mandarino allontanato per sempre dall'imperatore nel 1559, la possibilità di una riabilitazione per Peng Te Huai, generale dell'Armata rossa prima e ministro della difesa poi, che nel 1959 aveva criticato Mao sui metodi di riorganizzazione dell'esercito auspicandone una iper-modernizzazione – e depoliticizzazione – simile a quella sovietica.

Ma, ben al di là del contenuto del dazebao di Beida, quella protesta era diretta, cioè non era stata autorizzata da alcuna struttura di partito, e per questo era di fatto una ribellione aperta allo status quo del Partito comunista cinese che, a quel punto della sua storia, era impegnato proprio in una vasta campagna interna di «nuova educazione socialista». Mao non si limitò ad accogliere positivamente l'avvenimento, ma legittimò la protesta dichiarando che essa rappresentava: «il manifesto della Comune di Parigi degli anni sessanta del ventesimo secolo», e invitando tutti a fare altrettanto. E il 5 agosto affisse alla porta del comitato centrale il suo dazebao personale: «Bombardate il quartier generale». Dalla sessione di quel comitato centrale nasce il famoso «documento in 16 punti». L'8 agosto sulla piazza Tian An Men otto milioni di guardie rosse salutano il presidente Mao. Tutti questi avvenimenti furono l'inizio di un vasto rivoluzionamento che dalla Cina arrivò a parlare direttamente a noi. Sì dall'arretrata Cina, a così forte composizione contadina, arrivo il messaggio che «ribellarsi è giusto» e gli stessi temi – la riscoperta dell'autonomia e dell'alterità totale del proletariato, l'egualitarismo, la fine delle gerarchie, la fine della divisione sociale del lavoro, il tentativo di riequilibrare la rottura storica tra città e campagna, il valore di potere degli organismi di movimento, unica fonte di legittimità dei partiti del movimento operaio – che emergevano nelle mature società avanzate dell'Occidente e che esplosero in grandi movimenti di massa nel 1968 e nel 1969.

Ma la «Grande Rivoluzione culturale proletaria» degenerò. Prima nel verbalismo dell'ultrasinistra, in molte violenze illegittime e in lotte di potere fino a snaturarsi. Fu sconfessata per la sua irresolutezza e disordine alla fine dallo stesso Mao e venne sconfitta. Lo stesso Grande Timoniere ne uscì ridimensionato. Ma fu anche un grande movimento di rimessa in discussione del potere, di rigenerazione della politica, di «rifondazione» del comunismo con l'attacco diretto al ruolo onnivoro del partito-regime proprio di tutte le esperienze del socialismo reale, e con il rilancio del ruolo e dell'identità di potere dei movimenti di massa.

Il fallimento di quella «Rivoluzione», ancora presentata come misteriosa da molti sinologi occidentali e taciuta dal rumoroso silenzio assoluto dell'attuale Cina – dove è proibito parlare di due cose: della Tian An Men 1989 e della Rivoluzione culturale 1966 – porta dunque la responsabilità della sconfitta di una linea politica ed economica egualitaria, l'unica possibile per la crescita reale di un paese fortemente arretrato che, 40 anni fa come oggi, vale un terzo dell'umanità. Rappresentando a quel punto un modello di sviluppo alternativo non solo per la Cina.

Si dirà ora che la scelta diseguale di Deng ha tenuto alla fine i comunisti al potere con le sue «modernizzazioni», e che invece altrove come in Urss tutto è crollato. Ma fino a quando si continuerà ad usare questo ben misero modello interpretativo, a più di quindici anni dalla caduta del Muro di Berlino? In realtà, il mostro innaturale del «socialismo di mercato», o meglio del capitalismo di partito, sta per scoppiare. All'interno, in Cina, e nel conflittuale rapporto con il mondo. Che è quasi la stessa cosa, vista non solo la dimensione demografica (un miliardo e 300 milioni di persone destinate a breve a diventare 1 miliardo e 6OO milioni) ed economica della Cina. Non è piuttosto vero che, con la sconfitta della rivoluzione culturale e l'affermarsi della linea di Deng Xiaoping, a partire dalla fine degli anni Settanta la Cina, applicando la «ricetta capitalistica» alla soluzione dei propri problemi, ha di fatto allargato la dimensione mondiale dell'economia di mercato entrata così nella sua piena fase globale? Dunque, «tornare» a interrogarsi sulle ragioni della Rivoluzione culturale non solo è necessario. Ci riguarda direttamente, è insomma decisivo. Mai come in questo momento la Cina è stata davvero così vicina. Come e più del 1966.

Ne «Le invasioni barbariche», lo straordinario film del regista franco-canadese Denys Arcand, il protagonista evoca l'immagine del suo «cretinismo» quando da giovane si sperticava in lodi della «formidabile» rivoluzione culturale cinese che, solo attraverso la conoscenza diretta di una donna cinese, gli apparirà poi in tutta la sua durezza, complessità e amarezza. Ma, ecco il punto, quella memoria, insieme a tutte quelle degli anni Sessanta, viene inscritta da lui e dal gruppo degli amici cinquantenni che stanno attorno al suo capezzale di malato terminale, come una «memoria necessaria»: che fonda questo presente ancora non piegato completamente alla logica del capitalismo e insieme rende il protagonista ancora vivo, avvicinandolo a quella passione ma anche cecità dell'adolescenza ribelle del '68. Noi, per evitare che i nuovi barbari della fine della storia e del pensiero unico cancellino la memoria collettiva delle lotte anticapitaliste della fine del millennio che si è da poco concluso, non possiamo non tornare a quel movimento dopo quaranta anni. Con una doppia consapevolezza. Quella dell'impossibile nostalgia. Perché noi, che pure rifiutavano l'ideologia liturgica alla «Servire il popolo», vedevamo giustamente nei contenuti della possibile «Comune di Parigi del XX secolo» un messaggio preciso sulle contraddizioni e i conflitti in atto in quel momento in Occidente. Ma sbagliammo, non sapendo e non capendo la distanza incolmabile tra istanze dei movimenti e realtà, e così superficialmente chiudemmo tutti e due gli occhi di fronte ai settarismi che uccidevano il movimento e alla brutalità «infantile» che preparava la sconfitta. E la seconda consapevolezza è proprio quella di chi vede nel fallimento spesso annunciato — e perfino consapevole nello stesso Mao Zedong — della rivoluzione culturale, la responsabilità dell'avvento dell'attuale mostruosità cinese. Perché alla fine la Rivoluzione culturale si concluse con un bilancio ambiguo e l'allontanamento dalla politica, equiparata a quel punto al disordine, delle vaste masse della popolazione. La politica tornava appannaggio del partito, dei funzionari e dello strato degli uomini d'affari e di potere. Solo il movimento della Tian An Men, per un momento e tra mille ambiguità, porterà in primo piano la possibilità di organizzare luoghi della politica e del potere, diffusi e molteplici, fuori dello stato. Lo stesso tema che la Rivoluzione culturale con il suo «assalto al cielo» aveva lasciato irrisolto. E il pieno ritorno di Deng Xiaping al potere nel 1976-1977 — hanno scritto Claudia Pozzana e Alessandro Russo — segna proprio il ritorno di tutta la sfera politica all'interno dello stato. Ecco dunque che la responsabilità di quella sconfitta pesa. E ci riguarda.

Il tentativo della Cina degli Anni Sessanta di costruire un modello di transizione socialista diverso da quello dell'Unione sovietica, non fu atto di fideismo e fedeltà ideologica. Fu un «atto di verità», scrisse Franco Fortini, la proposta «di un rischio che si gioca di giorno in giorno, di singolo in singolo, che conta sulle proprie forze di ogni singolo... fino a far coincidere la libertà con il rischio etico». Allora come adesso, sempre ricordando le parole di Franco Fortini, la verità cinese da una parte ci toglie le speranze e le disperazioni più basse — rispettivamente, quelle del sogno e della fantasticheria e quelle del cinismo — dall'altra ci chiede sempre più e ancora un altro ordine di virtù: la forma, la modestia, l'inflessibilità sorridente. E un dover essere verificabile.

Con questa antologia si propone non già un'opera esaustiva sulla Rivoluzione culturale del 1966, ma un percorso di lettura per tornare, quaranta anni dopo, ad approfondire i contenuti di un movimento così importante.

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UNA FOLLIA NECESSARIA
Edoarda Masi



I restauratori dell'ordine amano rappresentare le rivoluzioni come momenti di distruzione irrazionale e arbitraria, fino alla criminalità, quasi fossero esplosioni di cariche compresse del «male» ed emersione dell'«oscuro», combinate con intellettuale utopismo velleitario. Grazie a questo procedere, dove si intrecciano formalismo e psicologismo deteriore, si occultano i contenuti e i motivi che generano i conflitti e le elaborazioni teoriche che li accompagnano. Si tenta così di disperdere un patrimonio di esperienze e di conoscenza assai ricco, concentrato in periodi brevi e intensi, e si contribuisce pure a calare un velo sulle contraddizioni della realtà presente.

Così, per la maggior parte dei casi, si è fatto e si fa a proposito della rivoluzione cinese del XX secolo, e specialmente della rivoluzione culturale proletaria degli anni sessanta. (Per esempio, si continua a lamentare le persecuzioni di cui sono stati oggetto personaggi della cultura ma si sorvola sulle loro lunghe dispute con i rivoluzionari – con implicito disprezzo, fra l'altro, per la loro figura di intellettuali.) Le sfere accademiche si associano largamente, in questo imbroglio, ai politici anticomunisti; ne sono anzi protagoniste per il carattere dell'operazione, ideologica e ammantata di competenza specialistica.

Fortunatamente dalla Cina – paese non domato ed estremamente vitale – nuove e ricche fonti ci vengono ripetutamente offerte, che consentiranno agli studiosi indipendenti indagini approfondite che portini alla luce la molteplicità degli eventi, nella loro vaarietà dall'una all'altra sfera della società e dall'uno all'altro luogo: un lavoro di dimensioni imponenti, che è urgente intraprendere, cominciando l'analisi settore per settore; così da porre le premesse per le più diverse interpretazioni che ne seguiranno.

Per il momento, nell'ambito dell'elementare dovere di esporre i motivi profondi che hanno portato alla rivoluzione culturale, credo si possano ricavare alcuni elementi già da vecchi dati in nostro possesso. Θ possibile, in primo luogo, disegnare nei tratti principali lo stato di cose che ha condotto alla rivoluzione; in secondo luogo, seguire il senso di alcune delle accese discussioni che negli anni sessanta e settanta l'hanno preceduta e accompagnata, rivelandone i motivi e la necessità.