Autore Grabriele Di Fronzo
Titolo Il grande animale
Edizionenottetempo, Roma, 2016 , pag. 162, cop.fle., dim. 14x20x1 cm , Isbn 978-88-7452-578-2
LettoreLuca Vita, 2016
Classe narrativa italiana












 

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Pagina 9

1

Ho fatto esperienza che qualunque cosa non si voglia perdere va innanzitutto vuotata, bisogna fare spazio, sgomberare, portare via quello che c'era in precedenza, occorre sempre togliere: solo cosí, ciò che altrimenti subito scomparirebbe, rimarrà nostro per sempre.




2

Per darmi l'esempio cominciai con un gatto, lo tenni in braccio per un'ora prima di iniziare a lavorarci su, come a volergli bene, lo stavo assicurando a me e a quel che di suo era ancora ricettivo, la corporatura minuta e il fatto che fosse morto dopo appena pochi mesi di vita costituivano un potenziale aggravio in caso di errore, un conto è perdersi nelle misure di uno stambecco, un altro è difettare anche di un solo centimetro nell'imbastire l'espressione di un gatto poco piú che neonato: piú piccolo è il campo d'azione e piú grande è la probabilità di insuccesso, piú giovane è l'animale e piú vergognoso lo sgarro.

Il gatto era rimasto intossicato per aver leccato una lumaca, un groppo di resti di cibo si era impigliato senza fluire in basso per essere digerito, le mucose pallide e una sete enorme, il veleno l'aveva prima impedito ad alimentarsi, poi sciancato nei movimenti e alla fine l'aveva ucciso.

Me lo portò un amico che sapeva di cosa all'epoca stessi iniziando a interessarmi, ne notai subito il naso rosastro e gli occhi giallo bruni che staccavano sul pelo bianchissimo, gliene fui molto grato perché permise il mio esordio: con il senno di poi, se allora non mi fosse quasi piovuto tra le mani quel suo gatto, è persino probabile che la mia carriera si sarebbe arrestata alla semplice teoria.

Tamponàti con del cotone le narici, la bocca e l'ano, ne incisi con un bisturi la pelle bianca del ventre, da appena sotto lo sterno in giú, senza mai accelerare, sentivo le mie anche che tremavano in parte per l'emozione della prima volta, in parte perché avevo letto che, avessi inflitto una pressione appena maggiore al consentito al taglio che stavo realizzando, la carne del gatto ne sarebbe stata rovinata.

Ci andai quindi via via sempre piú piano e, quando mi convinsi di aver finito, mollai subito il bisturi, quasi me lo feci cadere dalla mano.

In seguito mi dedicai a snudarlo, lo spelai con le unghie e con la spatola, a tratti con vigore, lontano dagli arti soprattutto, quando pareva che la pelle si stesse allentando dal corpo, a tratti con lentezza estenuata, specialmente nei paraggi del bacino, spogliai poi la coda come stessi rivoltando il dito di lattice di un guanto per lavare i piatti, e piú tardi, sull'animale oramai denudato, sparsi una modesta quantità di cenere per asciugare le carni dal sangue.

Ancora adesso non mi sono avvezzato per niente a togliere il cervello dal cranio degli esemplari che mi vengono commissionati, tra tutte è la cosa che mi disturba di piú, mi accorgo di corrugare il naso le volte che mi capita di farlo, e fu a partire da quel gatto, sin da quando per la prima volta intrusi un sottile bastoncino nella sua cavità occipitale, che ho sperato che il timore nel compiere ciò prima o dopo declinasse fino ad andarsene del tutto.

L'avrei preparato in posizione raccolta, la bocca appena schiusa, gli incisivi e i canini quasi non si vedevano, il paio di orecchie tenuto a riposo.




3

Mi chiamo Francesco Colloneve e di mestiere sono un tassidermista, le ragioni per cui imbalsamo animali sono le ragioni che le persone che a me si rivolgono hanno per domandarmi di farlo, sono dieci anni che lavoro tenendo dietro ai motivi dei miei clienti, ma è altrettanto certo che a parer mio faccia piú compagnia un cane morto e poi impagliato di un criceto che pure sia tuttora vivo e vegeto.

Recuperare la pelle una volta separata dalla carne, dopo aver ricavato lo spazio per il cotone, grattarla nel minimo, montare la parte anteriore sostituendo i muscoli delle zampe con la plastilina, modellare la cartapesta a mimarne le fattezze originarie e cucire a zig-zag dall'interno all'esterno, fare tutto questo su un gatto non implica un minore apporto emotivo di quanto ne richieda dargli da mangiare, pulirne la lettiera, spuntarne il pelo di troppo o accarezzarlo mentre beve da una ciotola con sopra scritto il suo nome.




4

Date questa e altre ragioni, non conosco una persona consacrata agli animali come me.

Per ciascuno di loro a forza di unghie saggio la resistenza della pelliccia e di conseguenza opto per l'arnese che dovrò usare, il coltellino a lama panciuta, la forbice curva, la pinza, scelgo il vigore cui lo sottoporrò e, di qualunque strumento io abbia deciso di servirmi per incidere, occorrerà star fermo come un sarto che stia prendendo le misure per confezionare un paio di pantaloni, anche se nel mio caso il diretto interessato non salterebbe né si metterebbe a urlare neppure se tutti gli spilli gli finissero nella pelle.

Dagli scalpellini anatomici ai raschiatoi, l'equipaggiamento del tassidermista si compone di decine e decine di strumenti, indispensabili perché un lavoro possa dirsi ben eseguito.

La filiera organizzativa, riducendola al corredo, la so a memoria: coltellini a lama retta e coltellini a lama panciuta, coltelli anatomici se la grossezza dell'animale è maggiore, forbici a lame rette e forbici a lame curve, pinze a estremità taglienti per scarnificare le ossa e pinze a prensione robuste, pinze a presa dolce per impostare le piume e pinze lunghe a medicazione, tenaglie per modellare il fil di ferro, il fil di ferro per la montatura, tenaglie per attorcigliarlo e tenaglie con cui troncarlo, le aste usate per procedere all'imbottitura, i vuotacarni, le lime, le raspe, i trapani, i martelli, gli spilli e gli aghi per cucire le pelli, pennelli di crine per spalmare la pomata arsenicale e pennelli morbidi per lisciare.

Uso perlopiú gli stessi attrezzi che si usavano cento anni fa, la tecnologia non mi è venuta granché incontro e io non l'ho cercata, preferisco i succhielli o mettere il fil di ferro sul fuoco per mallearlo al meglio, il contribuito maggiore che ha portato alle mie pratiche sono le cuffie con cui ascolto la musica mentre incido, scavo, svuoto, pulisco, cucio, riempio, allestisco e via cosí cantilenando.




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Il mio lavoro, facile capirlo, ha a che fare con la parte viva dei morti.




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L'ultima volta che ero passato a trovarlo, gli avevo predisposto un telefono alla parete, a fianco alla finestra della camera da letto, un telefono che non ha né rubrica, né segreteria, giusto dieci grandi tasti che vanno dall'uno allo zero, il vivavoce con il volume regolabile e l'indicatore luminoso che si attiva a ogni chiamata.

Quando ero andato ad acquistarlo, il commesso mi aveva detto, come se la cosa potesse interessarmi, di non avere altri colori disponibili a parte quel titanio, mi aveva indicato un tasto che avrebbe consentito la ripetizione dell'ultimo numero chiamato, e io, sul cartoncino dove di solito si scrive il proprio recapito di casa, avevo appuntato il mio numero di cellulare.

Ha anche quattro tasti che permettono la selezione diretta, a ciascuno corrisponde un numero di telefono, per alleggerire il carico sulla memoria dell'anziano, per accelerare la telefonata in caso di emergenza, per arrivare prima a soccorrerlo, Uno è il mio numero, gli avevo detto e mio padre lo aveva guardato, spremuto lí, come a dirmi, indicando i tasti del telefono appeso al muro, Cosa ne faccio degli altri tre?

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Cosí come da bambino un po' avevo impiegato ad aspettare da lui il peggio senza però stupirmi dei suoi momenti di gentilezza, ora ci misi lo stesso un po' ad abituarmi alla malattia senza lasciarmi ingannare dagli attimi in cui si dimostrava lucido e indipendente, che piú convenientemente attribuivo a fortune passeggere e volatili su cui non avrei mai dovuto far affidamento.

Quando mi veniva vicino, si imbestiava, gli sbuzzavano gli occhi dalla testa ciondoloni da mulo fiacco, il loro colore però era giallo verdastro come di lince, le orecchie si facevano largo sulle guance e si innerivano come quelle di un elefante vecchio, il naso era di scimmia, i denti brunastri di cernia, le braccia screziate cascavano come manto di ermellino, un paio d'ali di falena appese sulle spalle, la pancia floscia e piumata di un'oca: e se di vederlo animale quando mancavo i dieci anni mi succedeva per paura, ora da adulto quando talvolta mi è successo, credo sia stato per la professione che mi sono scelto e per il materiale con cui mi trovo giornalmente a lavorare.

E come un tempo mi lasciavo assorbire fino a prendere alcune sue opinioni, anche allora modificai le mie perché si accordassero con le sue e, quando me ne accorgevo, avvertivo che tutto quello che gli stavo sacrificando nella nostra nuova convivenza era il proseguimento piú naturale di quanto era successo anni prima.

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Vendetta, ripicca, o deriderlo magari, forse avrei dovuto mettermi a un tiro di piede dal suo viso sghembo a irriderne i connotati, farmi beffe dell'agguato cui la vita lo aveva costretto, stilare una lista dei suoi difetti, altro che riferirgli le circostanze in cui mi picchiava, l'unica cosa che avrei dovuto fargli ripetere a voce alta sarebbero state le sue zoppie, farne gli scarabocchi, del naso bitorzoluto, delle cicatrici seguite all'operazione, quei calanchi disastrati, delle labbra irrequiete, tante piccole farse sulla sua faccia, sí, esasperarne i tratti ridicoli, il rito serale dell'acido muriatico, accentuarli, il vocabolario metà della soubrette e metà del barbiere, caricaturarli, la sua divisa di spugna azzurra, è probabile che il mio atteggiamento avrebbe dovuto essere questo, schernito colui che era riverito, umiliato invece che temuto, un figlio ha in dote un futuro di canzonature, mi succedeva talvolta di pensare cosí, e mio padre, spaurito invece che iracondo, il contrario di carnefice che non è vittima ma inerme.

Appena fuori dal supermercato, dove avevo messo nel carrello una confezione di gomme da masticare, non te n'eri accorto fino a quando la cassiera l'aveva battuta sullo scontrino, Ne parliamo a casa, mi dicesti gentile, nel frattempo che arriviamo mangiane pure quante ne vuoi. Mi avevi mandato in panetteria da solo, giusto il tempo per te di parcheggiare la macchina, e io avevo bussato i pugni contro la vetrina, dall'interno del negozio, per richiamare la tua attenzione, non sapevo cosa avrei dovuto comperare. La sera che mia madre andò via, in televisione insistevo per vedere i cartoni animati, ma sul secondo canale c'era un film western.

O dovrei forse compatirlo, mi chiedevo, cosí ammaccato, rovistato dai malanni, dove pulsavano i muscoli ora si congedava la pelle, mi sarebbe stato richiesto di averne pietà forse, di offrirgli un rispetto quasi postumo, concedergli la quiete, e chissà che non fosse proprio questa la traiettoria che avrei perseguito, quella di tentare di diminuire le colpe, sottostimare i colpi, convincermi cioè che i suoi esercizi di possesso non fossero poi granché: tante volte ho temuto potesse capitare cosí, che mi persuadessi che, se mi picchiava, era perché mi voleva bene, impaurivo a pensare che alla fine mi sarei indotto a credere che le sue botte erano state per me sacrosante.

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Gli animali, dopo la mia lavorazione perché io li reputi riusciti, devono soddisfare due requisiti, che sembrano discordanti ma che in realtà, per il compito che mi do facendo questo lavoro, non sono affatto incompatibili: da un lato l'esemplare morto deve risultare indistinguibile dal suo corrispettivo vivo e dall'altro, anche se di simulazione di vita si tratta, il preparato montato deve essere una rappresentazione della morte, e non sempre accade che io sia cosí bravo da tenere assieme la recita del vivo e la figura del lutto, ma è questo l'obiettivo piú alto che ritengo possa e debba porsi un tassidermista.

La casa di mio padre, quando l'avrò finita, rispetterà questi due movimenti, verso la vita il primo, in direzione della morte il secondo, e lí in mezzo, nell'intersezione, troverò l'eternità, certo avrò il palmo liscio per il tanto lavoro, starò curvo come un mulo stancato dal peso che gli è stato buttato addosso, ma sarà, ne vado sicuro, un lavoro eccellente quello che avrò fatto qui.

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La mia testa ora dà ospitalità ai loro musi, alle loro zampe, alle loro bocche, alle stanze in cui vivevano, nel caso conoscessi direttamente il proprietario del criceto o del volatile che avrei imbalsamato, e alla stanza in cui sarebbero stati collocati, mi ricordo per ciascuno come superai l'attrito della difficoltà imprevista, come organizzai il lavoro e il numero di ore che mi ci vollero, quello che mi costò in materiali e il grado della mia soddisfazione finale.

Eppure a spetalare questa lista, ciò che mi balza all'occhio è che al suo interno non ci sia un grande animale, quello di cui mi rendo conto seriamente è che io non ho ancora mai avuto un mio grande animale da imbalsamare.

Finora la pezzatura maggiore con cui mi sono trovato ad avere a che fare è stata quella di un cerbiatto, mai che mi sia stato commissionato un orso, un cervo, cosí questa casa è il mio grande animale, ha le stanze al posto degli arti o delle pinne, i mobili invece che le interiora, i longheroni per denti, le porte a vetri profilate d'ottone al posto degli occhi, i contravventi di legno come pelle o squame.

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