Copertina
Autore Michael DiMercurio
Titolo Mosca cieca
EdizioneLonganesi, Milano, 2003, I grandi libri d'azione 23 , pag. 500, dim. 140x212x36 mm , Isbn 978-88-304-2008-3
OriginalePhoenix Sub Zero [1994]
TraduttoreAndrea Molinari, Luca Pastori
LettoreRiccardo Terzi, 2003
Classe thriller
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Pagina 17

PROLOGO



Mercoledì, 25 dicembre, Natale

IL MISSILE Hiroshima puntò verso il deserto e attivò la sequenza di detonazione finale della testata Scorpion. Dopo una discesa attraverso una bassa coltre di nuvole, uscì allo scoperto sopra la città abbandonata di Bajram Ali, in Turkmenistan. Poche centinaia di metri a est dalla moschea e dal centro città, l'esplosivo ad alto potenziale detonò.

Nel primo millisecondo, l'esplosione squarciò una sacca di monomero di acetato di vinile mescolato a un'altra dozzina di composti chimici, quindi sventrò una bombola di gas di etilene ad alta pressione. Le due sostanze si combinarono reagendo all'alta temperatura e alla pressione prodotte dalla deflagrazione. Infine, l'onda di pressione raggiunse un contenitore di finissime particelle metalliche. L'esplosione, diffondendosi a mille metri sopra Bajram Ali, sparse le particelle, che scivolarono verso la città sottostante. Le componenti chimiche formarono una fine sospensione atomizzata che precipitò su edifici e strade. Dieci minuti dopo, il composto lattiginoso si era asciugato, trasformato in una sostanza appiccicosa. Le particelle metalliche, mescolate alla colla, avevano aderito alle vie e agli edifici. In un raggio di mille metri dal punto in cui l'Hiroshima era esploso, su ogni superficie erano incollate particelle di metallo.

Un'ora dopo, un piccolo esercito di tecnici invase la città: prelevarono campioni dalle strade, estrassero mattoni dagli edifici, passarono i metal detector lungo i marciapiedi e tentarono, con gli idranti, di lavare via la colla e le particelle di metallo. Fu tutto inutile: lo strato colloso resistette a ogni tentativo di asportazione.

Quella sera, il comando del Fronte Islamico Unito di Dio ricevette via radio un'urgente comunicazione in codice. Il test della nuova arma si era svolto con successo. Era prevedibile che, quando le particelle metalliche fossero state sostituite da una combinazione venefica di plutonio e cobalto 60, il bersaglio contaminato avrebbe dovuto essere abbandonato per ventimila anni. Chiunque si fosse trovato in un raggio di due chilometri dal punto dell'esplosione sarebbe morto lentamente, tra atroci sofferenze. L'ordigno avrebbe richiesto solo una minima percentuale del plutonio necessario per costruire la più piccola delle armi nucleari.

Il messaggio si concludeva assicurando che, quando la testata Scorpion fosse stata impiegata contro la città degli Stati Uniti designata come bersaglio, nella fattispecie Washington, il corso della storia sarebbe cambiato, e la vittoria sarebbe stata vicina.


Dall'altra parte del mondo, al quarto piano dell'anello E del Pentagono, il capo di stato maggiore della marina, ammiraglio Richard Donchez, riprese il memorandum che aveva scritto sei mesi prima al presidente e lo rilesse con sensazioni contrastanti. In parte provava soddisfazione, notando come le sue previsioni si fossero tutte avverate, e in parte rammarico, poiché le sue raccomandazioni non erano state seguite. Le quattro pagine, redatte nello stringato gergo del Pentagono, sottolineavano la necessità di eliminare il generale Mohammad al-Sihoud, dittatore e leader di una coalizione di trenta Stati nota come Fronte Islamico Unito di Dio, conosciuto anche come FIU, estesa a tutto il Nord Africa, buona parte della Penisola arabica e metà dell'Asia. All'epoca, Sihoud aveva appena iniziato l'invasione dell'India, dopo aver annesso Ciad ed Etiopia con un blitz durato un solo mese.

Se il progetto prospettato nel memorandum avesse trovato applicazione al tempo in cui era stato proposto, il conflitto non sarebbe mai sfuggito di mano. Ma ciò, infine, era accaduto. Quando l'India si era rivolta all'ONU, gli Stati Uniti e le principali nazioni europee avevano creato la Coalizione Occidentale, dichiarando guerra al Fronte Islamico Unito di Sihoud. Dopo interminabili preparativi, l'invasione si era trasformata in una sanguinosa guerra d'attrito, che - su tre fronti - macinava uomini e mezzi come un tritacarne. Proprio come Donchez aveva previsto. Adesso, sei mesi dopo, il presidente Dawson aveva ordinato a Donchez di fornirgli «le più innovative proposte» della marina per porre rapidamente termine al conflitto. Donchez aveva preso in considerazione la possibilità di ritrasmettergli il memorandum sull'eliminazione di Sihoud, dopo tutto l'idea di fondo era ancora valida; poi aveva pensato che un tal gesto non avrebbe certo dato prova di molto tatto. Alla fine, il lunedì precedente, il presidente aveva concesso il nullaosta all'eliminazione del generale. Donchez aveva proposto che l'operazione Early Retirement avesse inizio immediatamente, il giorno di Natale, ma il presidente si era dimostrato contrario all'idea di far uccidere Sihoud proprio in quella data. Donchez aveva accettato, ordinando che l'operazione scattasse il giorno di Santo Stefano, due minuti dopo la mezzanotte ora locale, cioè nel tardo pomeriggio di Natale, ora di Washington.

Donchez appoggiò i piedi sull' ampia scrivania, portando le mani dietro la testa calva, e, dalla finestra, osservò il panorama innevato del fiume Potomac e il profilo familiare della capitale, lo scenario deserto del Natale, quando gli impiegati, gli avvocati e i politici erano a casa con le famiglie. Entro mezz'ora, l'operazione avrebbe avuto inizio: un commando di SEAL sarebbe stato paracadutato da un aereo da trasporto della marina, e missili da crociera Javelin sarebbero stati lanciati contro il bunker che ospitava il quartier generale di Sihoud. Entro le prime ore del pomeriggio di giovedì Donchez prevedeva di tenere una conferenza stampa per annunciare la morte del generale Mohammad al-Sihoud, il Khalib, ovvero «la Spada dell'Islam», e, con questa, la fine di una guerra che avrebbe potuto costare la vita a milioni di americani.

Donchez rimase qualche momento a guardare dalla finestra, pensando di sbrigare le faccende più importanti mentre attendeva l'inizio dell'operazione. Tolse i piedi dalla scrivania e s'immerse nella lettura di una cartella che recava la scritta: COLLAUDO MISSILE VORTEX. ESERCITAZIONE A FUOCO BONECRUSH. AUTEC: SOMMERGIBILE VS. SOMMERGIBILE. Una volta terminato l'esame dei documenti, ripose la cartella sulla scrivania, si passò la mano sulla testa calva, e, con un' espressione infastidita, sollevò la cornetta del telefono.


Michael Pacino riposava in una comoda poltrona di fronte al camino. Finalmente, a Virginia Beach, il clima era diventato sufficientemente fresco da pennettergli di accendere il fuoco. Nell'ultima ora aveva poltrito in attesa della cena di Natale scivolando, infine, in un sonno profondo. Il viso era teso e madido di sudore come se Pacino fosse tormentato da sogni agitati.

Al suono del telefono si rizzò a sedere di scatto, gli occhi sbarrati, mentre la stanza tornava lentamente a fuoco. In lontananza, udì Janice che rispondeva con la sua strascicata cadenza meridionale. Quando la moglie gli chiese di prendere la comunicazione, il battito del suo cuore aveva ripreso un ritmo regolare. Pacino si alzò dalla poltrona e si diresse verso il telefono, chiedendosi cosa volesse l'ufficiale di servizio in quel pigro pomeriggio di festa. L'unità al suo comando, lo USS Seawolf, giaceva inutilizzato, in un bacino di carenaggio, con un ampio squarcio su un fianco, la ùsala siluri brutalizzata dagli operai che incastravano al suo interno gli enormi tubi dei missili Vortex. Gli pareva un crimine che, mentre dall'altra parte del mondo infuriava una guerra, il più moderno sommergibile della marina degli Stati Uniti fosse bloccato in cantiere.

«Capitano di vascello Pacino», rispose secco, aspettandosi un giovane sottotenente che si lamentava di qualche nuovo problema. Ma la chiamata non veniva dal cantiere.

«Mikey.» La voce dell'ammiraglio Donchez gli rimbombò nelle orecchie. «Buon Natale.»

Hillary Janice Pacino, una donna snella e attraente, con i capelli biondi sciolti sulla schiena, si accese una sigaretta, mentre ascoltava la conversazione in sottofondo. Il suo viso assunse un'espressione infelice mentre si rendeva conto che si prospettava la partenza del marito. Come aveva previsto, mezzo minuto dopo il termine della telefonata, Pacino si affacciò sulla soglia della cucina.

«Dove vai questa volta?» chiese lei, con voce sorprendentemente calma.

«Ad Autec, il poligono delle Bahamas. Il collaudo dei missili di Donchez. Vuole che vada ad assistere. Il suo aereo passa a prendermi tra due ore.»

«Il giorno di Natale?»

«Il collaudo è domani.»

«Cos'è tutta questa fretta? Non devi andare in guerra. Ero sicura che quest'anno saresti rimasto a casa, a Natale. Il tuo sottomarino è in cantiere, e tu passerai le consegne tra due mesi. Perché devi partire proprio adesso? Solo perché il capo di stato maggiore te lo chiede, tu vai?»

«No. Io vado solo perché me lo ha chiesto Dick Donchez. Comunque, abbiamo tempo di cenare.»

«Quanto tempo starai via? »

«Due giorni. Forse tre. »

Pacino osservò la moglie che, con un'irritazione sempre più evidente, girava per la stanza, sbattendo nervosamente piatti e scodelle. Salì le scale e fece la valigia, chiedendosi perché il collaudo di un'arma fosse così importante da richiedere la sua presenza il giorno di Natale, costringendolo ad abbandonare la moglie così in fretta.

Dieci minuti dopo era davanti al televisore. Il notiziario annunciava l'invasione dell'Iran meridionale da parte della Coalizione. Pacino si morse il labbro, frustrato, chiedendosi per la centesima volta perché il Seawolf dovesse passare tutta la guerra nel bacino di carenaggio. Se proprio doveva stare lontano da casa il giorno di Natale, pensò, avrebbe potuto almeno trovarsi al comando del suo sottomarino in missione. Ripensò al suo vecchio comandante, Rocket Ron Daminski, che, adesso, si trovava in crociera di sorveglianza nel Mediterraneo a bordo dell'Augusta. Era partito il Giorno del Ringraziamento e, probabilmente, avrebbe trascorso le feste a guardare vecchi film nel suo alloggio, lamentandosi amaramente di essere in mare e facendo impazzire l'equipaggio.

Purtroppo, pensò Pacino, per i sommergibili non c'era molto da fare durante una campagna terrestre, se non rintanarsi sul fondo dell'oceano. O, almeno, così pareva.

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