Copertina
Autore Paolo Di Stefano
Titolo Nel cuore che ti cerca
EdizioneRizzoli, Milano, 2008, La scala , pag. 300, cop.ril., dim. 14,5x22x3 cm , Isbn 978-88-17-02167-8
LettoreFlo Bertelli, 2008
Classe narrativa italiana , noir
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Pagina 13

Quel lunedì mattina di marzo mi sono svegliato prima del solito. Sono rimasto a letto una mezz'ora, il tempo giusto per mettere a fuoco le scadenze della settimana (non molte, per la verità), ascoltare alla radio un po' di musica e poi il notiziario. Politica, i battibecchi in Parlamento, sempre uguali. Cronaca, una bambina violentata a scuola dai compagni, i licenziamenti delle ferrovie dello Stato, insomma la dose quotidiana di cattive notizie, tanto per cominciare bene la giornata. Naomi, la modella che aveva sfilato quasi nuda in passerella a Milano, era la vera sorpresa, e pensavo che non me ne sarei dimenticato presto.

Verso le otto ero davanti allo specchio del bagno a farmi la barba e notavo non solo la ruga verticale sempre più profonda sulla fronte (sapevo che per fortuna sarebbe sparita durante il giorno), ma anche la rotondità insopportabile del mio viso, che disegnava una sorta di mappamondo leggermente schiacciato in alto e in basso, con un voluminoso doppiomento e la pelle ai lati che tendeva a staccarsi dalla curva delle mandibole e a rilasciarsi. "Dovresti fare degli esercizi regolari aprendo e chiudendo la bocca, quando te ne ricordi" mi dicevo. "Basterebbe una decina di minuti al mattino e altrettanto la sera e la tua faccia avrebbe un aspetto più teso ed elastico, più giovane." Ricordavo di aver letto quel consiglio su uno dei settimanali che spesso, dato il mio mestiere, mi capitano sotto mano. Provvedimenti inutili per uno come me che aveva superato i cento chili...

Più o meno negli stessi minuti in cui ero lì davanti allo specchio a riflettere sugli effetti nefasti dell'età, uno sconosciuto stava portando via Rita sul suo furgoncino azzurro. Non ne avrei saputo niente fino alle undici. Per cui me la sono presa molto comoda e mi sono goduto, come sempre, il cappuccino con due brioche seduto al bar dell'angolo sfogliando il giornale. Sono andato a cercare per prima cosa la fotografia di Naomi e senza molta fatica l'ho trovata nella parte centrale della prima pagina: lo spacco posteriore era davvero profondo. Dopo averla osservata con attenzione, ho richiuso subito quei fogli già consumati che mi davano la nausea solo al tatto. Non ho mai sopportato di tenere fra le dita un giornale sgualcito.

Non lo sapevo ancora, ma erano quelle le ultime ore che vivevo, diciamo, da persona normale. Quasi normale. Marito separato da qualche tempo, padre di una bambina di dieci anni, felice di niente, tanto meno del lavoro a cui avevo dedicato le mie energie giovanili e che ormai percepivo come pura routine, un'ex moglie che continuava a rompere appena ne aveva l'occasione, uno sguardo sempre sensibile alle altre donne e in fondo però rassegnato ad accontentarsi di se stesso, uno sguardo senza obiettivi né intenzioni, come se dall'apprezzare visivamente non potessi più neanche ambire a passare alle vie di fatto. A ciò contribuiva la mole che con gli anni era cresciuta parecchio. Il mio quintale si vedeva tutto. Mi bastava non toccare i centoventi chili, anche se, a dire il vero, dovevo dimostrarne ancora di più considerando il mio passo lento e sempre un po' affannato per una annosa mancanza di esercizio fisico. In effetti, avrei dovuto pensare più al cuore che al doppiomento: «Caro dottor Scaglione» mi sentivo dire ogni volta che andavo a trovare il medico per qualche piccolo disturbo, «con la sua struttura fisica, se non si decide a fare movimento, passerà dei guai. Pensi al cuore...». Non sapeva che il mio cuore avrebbe dovuto sopportare ben altro che i cento chili che mi portavo appresso, destinati a diventare centoventi, centotrenta.

I miei colleghi non avevano nessun bisogno di pensare al cuore, erano snelli, sportivi, più giovani. Li vedevo concentrati a mantenersi in forma. Arrivavano in ufficio al mattino con enormi ed eleganti borsoni, in genere neri, con cui si allontanavano verso l'una per ricomparire freschi, fieri e sorridenti alle tre e mezzo. Come nulla fosse. Ricambiavo la loro inutile fierezza con una congrua dose di disprezzo.

Sono uscito dal mondo, e nonostante tutto non ci sono mai più rientrato.


Mi chiamava stellina. Uscendo dalla stanza, per lasciarmi lì dentro da sola, chiudeva il portone di cemento armato. Lo bloccava con una grossa manopola di ferro. E mi teneva al buio. Per qualche minuto. Dovevo aspettare un po' che da fuori lui decidesse di accendere la luce bianca al neon. Il neon è un gas nobile molto leggero e porta il numero atomico 10. L'ho imparato guardando un quiz della sera, una delle mie trasmissioni preferite. Insieme al telefilm (ma quello l'ho scoperto dopo). Non avrei mai rinunciato a seguire un quiz, per nessuna ragione al mondo. Insomma, aveva questa strana abitudine di tenermi al buio. Forse ci provava gusto. Nel sapermi al buio per qualche secondo. Sapeva che avevo una paura terribile del buio. Già prima avevo paura del buio, a casa. Prima di essere portata via. Mi faceva terrore stare al buio da sola. E lui lo sapeva.

Se invece eravamo sopra, nell'appartamento, potevo affacciarmi alla finestra. Guardando fuori come il mio Dawson, potevo immaginare. Che a un certo punto arrivasse qualcuno, dalla finestra. Per salvarmi. O forse solo per parlare o per guardare un film insieme. Tutto qui, mi sarebbe bastato. Ma potevo affacciarmi solo quando il signor Sergio me lo permetteva. Cioè i primi tempi mai. Dipendevo solo da lui. Ogni tanto mi diceva: «Stellina, ora puoi affacciarti». Però la tapparella era appena sollevata e il sole intero non lo vedevo quasi. Mi chiamava sempre stellina.

A proposito di telefilm. Il mio era Dawson's Creek, ovvio. Se mi chiedete: si può crescere grazie a un banale telefilm? Io vi rispondo: certo che si può... Si può. Si può crescere e imparare. A vivere quando è difficile. Prigioniera in sei metri quadrati. Quante volte ho pensato a Dawson, alla piccola città di Capeside, alla sua amica Joey, a Pacey, a Andie, a Jack. Li ho amati, sognati, odiati, chiamati, cacciati, abbandonati, ripresi, maledetti, incontrati di giorno e di notte. A un certo punto vivevano con me, nella stanza, cioè di sotto, nella prigione. Entravano e uscivano.


Sono uscito dal mondo normale senza accorgermene, come mia moglie. Da solo. I primi tempi guardando la televisione: telegiornali, giornali regionali, notiziari di ogni tipo, poi ho lasciato perdere. Aspettando, fuori dal mondo, che succedesse qualcosa, inseguendo fantasmi. Per tanti anni, quel lunedì di marzo davanti agli occhi, siamo usciti dal mondo normale, ognuno per conto suo, mia moglie da una parte, io dall'altra, ad aspettare che succedesse qualcosa.

Era il 9 marzo prima di primavera. Saranno state le undici e dieci, c'era un sole fresco sulla tangenziale est, ero in coda con la mia Tempra come ogni mattina, anche se era già tardi per le mie abitudini. Stavo mangiando una treccia con le uvette, e mentre ascoltavo le informazioni squilla il cellulare. Finita la colazione al bar non riesco a fare a meno di passare dalla pasticceria prima di salire in macchina. Faccio non più di una decina di metri, raggiungo la pasticceria (che è sicuramente meglio del bar, ma non dispone di tavolini che ti permettano di metterti seduto) e mi porto via almeno una treccia con le uvette da consumare in macchina durante il radio-giornale. A volte due o tre, a seconda dell'umore: cornetti o saccottini al cioccolato. Piacevano anche a Rita e infatti era sovrappeso, anche lei. Ricordo che un sabato ne ordinai cinque (volevo assicurarmi la colazione anche per la domenica) e il pasticciere, un tipo giovane che doveva essere nuovo perché lo vedevo per la prima volta, forse valutando il mio peso mi chiese senza muovere un muscolo della faccia:

«Le mangia qui o le porta via?».

C'era dietro di me una nutrita coda di persone che aspettavano il loro turno al banco e non ebbi la prontezza di mormorare altro che:

«No, no, porto via...».

Insomma, quella mattina appena squilla il cellulare mi dico: sarà Borghi, il caporedattore che avevo battezzato mentalmente Faccia-di-culo per la simpatia naturale che ispirava. Sarà Borghi che mi chiede se stasera posso prolungare il turno. Era da diversi giorni che mi faceva quella richiesta:

«Buongiorno Scaglione, stasera c'è lavoro per te...».

Puntualmente verso le undici, e io ogni volta non riuscivo a sottrarmi. Dentro di me ero deciso a resistere e a rifiutarmi, poi regolarmente cedevo e restavo in redazione fino alle nove e anche fino alle dieci. Invece quel lunedì di marzo al telefono era Barbara, la mia ex moglie. Singhiozzando mi ha detto:

«Rita è scomparsa».

Era disperata, piangeva come solo lei sapeva fare, con la vocina che le ho sentito troppe volte. Era la sua solita disperazione se così si può dire, tant'è vero che non le ho dato peso, pensavo a una delle sue invenzioni per indurmi a tornare a casa, o almeno così supponevo io. Una volta addirittura mi ha telefonato per dirmi che aveva un cancro al cervello e che non poteva più badare a Rita da sola. Balle, tutte fantasie, invenzioni, stronzate, baggianate. Un'altra volta mi ha raccontato, con la stessa identica vocina, che il medico aveva diagnosticato una sclerosi multipla alla bambina. Un'altra volta ancora si è inventata (forse non del tutto, dato quel che avrei saputo dopo) un amante puntando sulla mia gelosia, senza sospettare che io non ero per niente geloso. Anzi, il pensiero che fosse con un altro uomo (e qualcun altro c'era, a un certo punto), mi avrebbe confortato e quando ho saputo che aveva davvero una relazione ne sono stato sinceramente contento. Mi dicevo: forse è la volta buona... Invece, niente, anche se aveva un altro uomo (e qualcun altro c'era, a un certo punto), continuava a concentrarsi su di me, a rompermi le scatole in tutti i modi, a rimproverarmi di trascurare Rita o di essere troppo possessivo, di essere inaffidabile se tardavo di un quarto d'ora a riaccompagnarla a casa, di volermene liberare subito se la portavo all'ora stabilita, di viziarla se le facevo un regalo, di ignorarla se Rita tornava a casa a mani vuote, di ossessionarla con lo studio se aveva già fatto i compiti, di essere un padre debosciato se non l'avevo costretta a studiare la pagina di geografia che le era stata assegnata.

Una mente malata, ecco che cos'era diventata Barbara, una mente affollata di fantasie malate e di rancore nei miei confronti, anche se poi la separazione era stata una decisione, come si dice, consensuale. E pensare che quando l'ho conosciuta era completamente diversa: sempre pronta alla battuta, giocosa, leggera, un po' infantile, come piaceva a me. Si cambia in modo imprevedibile, per ragioni che sfuggono. La nascita di un figlio, o anche per cose minime, forse: un sogno, un brutto pensiero, un inutile sospetto. Un giorno ti svegli e non sei più la stessa persona. E gli altri? Si adeguino, se vogliono. Altrimenti, amici come prima. Anzi, nemici.

Sono uscito fuori del mondo quel lunedì 9 marzo e non ci sono più rientrato, nonostante quello che è successo otto anni dopo. Non l'ho più rivista, la mia bambina, nonostante tutto.

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Faccia-di-culo Borghi avrebbe fatto di tutto pur di non avere fastidi. Semplicemente, preferiva non dire al direttore se c'era qualcosa che non andava per il verso giusto, cercava di nascondere o di minimizzare. Quando ho cominciato a non farmi vedere in ufficio, per diverse settimane, ha scelto di coprirmi, senza che io glielo avessi chiesto, come se la mia fuga (diciamo così) fosse anche un po' colpa sua: non era generosità, era viltà o meglio ancora vigliaccheria, credo. E questo, in un posto di lavoro con sei o sette persone al massimo, tra giornalisti veri, giornalisti finti, tipografi e segretarie.

Da giovane, dopo i primi tempi in cui credevo di poter cambiare il mondo scrivendo sui giornali, ho capito che era meglio fare il proprio dovere e basta, senza chiedere troppo né al lavoro né a me stesso. Per anni stavo in redazione e stop, il mio compito era scegliere le lettere dei lettori e passarle al mio capo, che era Borghi, il quale poi le girava al direttore per un'ultima selezione: alla fine tornavano a me con le risposte e io le mettevo in pagina aggiungendovi un titolino. Dunque, non scrivevo più i lunghi articoli che avevo scritto in passato. Faccia-di-culo però mi diceva:

«Mi raccomando, Scaglione, se hai qualche proposta per un servizio...».

Fingeva di esortarmi. Di motivarmi, come si dice. E io ogni tanto fingevo di lasciarmi motivare e facevo qualche proposta: un'inchiesta sui cani in città e sulla pulizia dei marciapiedi, un servizio sui parcheggiatori abusivi in stazione o sui frequentatori dei locali notturni, tipo quelli che avevo scritto da giovane. Sapevo benissimo che non erano proposte adatte a "Vita vera", ma le facevo ugualmente, a tempo perso, con la certezza (e anche un po' con la speranza) che sarebbero cadute nel vuoto. E infatti cadevano nel vuoto. Lui, Borghi, spalancava i suoi occhi da bue o da faccia di culo fingendo di stupirsi ogni volta delle mie trovate geniali, si passava l'indice sotto il naso e mi rispondeva:

«Interessante, Scaglione, interessante, ne voglio parlare con il direttore».

Con il direttore ovviamente non ne parlava mai e dopo due o tre giorni tornava grattandosi la testa calva e mi diceva:

«Ah, sai, per quella cosa là, non gli va, gli sembra un po' moscia. Io ho cercato di insistere, ma è inutile, sai com'è, il direttore...».

Io sapevo com'era Borghi, un vile, ma anche un po' una faccia di culo. Tirava fuori sempre le solite scuse: il direttore che non voleva saperne, lui che si batteva senza successo. A me prudevano le mani, i primi tempi, gli avrei spaccato in testa una sedia, come si fa in certi western (sempre piaciuti, i film western...), dove le sedie vanno in frantumi e la vittima cade distesa per terra senza avere il tempo di reagire. Mi sarebbe piaciuto, ma ero più vile di lui, aveva ragione mia moglie.

Quando sei anni fa hanno deciso di spostarmi dalle lettere alla redazione di cronaca (l'unica redazione esistente), perché il direttore voleva sistemare al mio posto Bonardi, un suo cugino di Parma che non aveva mai visto una redazione e che dunque poteva solo occuparsi delle lettere, Borghi l'ha spacciata per una sua vittoria:

«Ehi, Scaglione, finalmente ce l'ho fatta, a schiodarti dalle lettere...».

Ho sorriso con un sorriso ebete di finta gratitudine e da allora mi sono occupato di cronaca nera, grigia, bianca, rosa, come gli altri. Eravamo in tre. Si prendevano i servizi su amori, sparatorie, litigi condominiali, morti ammazzati e non, curiosità cretine e violenze di ogni genere apparsi sui quotidiani di provincia durante la settimana, bastavano due o tre telefonate (ai carabinieri e alla polizia del posto, alle famiglie e agli amici delle vittime o degli assassini) e si riscrivevano i pezzi ricostruendo gli ambienti con l'aiuto delle fotografie e soprattutto della fantasia. A me la fantasia non mancava e mi veniva abbastanza facile scrivere due o tre articoli al giorno. Faccia-di-culo dirigeva il traffico, ogni tanto correggeva una virgola, per credersi utile, e soprattutto si occupava dei titoli. Orribili. Ma a quanto pare piacevano ai lettori e il giornale funzionava.

Era il cameriere (del direttore, ovvio), mai un'obiezione, mai una critica. Andava a prendere le ordinazioni a orari fissi durante la giornata, gli mancava solo il tovagliolo bianco sull'avambraccio, il suo compito era quello di tornare e trasmettere i desideri del direttore, i servizi da scrivere, il taglio preferito. In tanti anni sono passati quattro direttori molto diversi tra loro, uno più accondiscendente, l'altro più nervoso, l'altro ancora più autoritario, e Faccia-di-culo è riuscito a stare a galla, adattandosi perfettamente, sempre brontolando alle loro spalle, in cortile, mentre fumava una sigaretta o davanti al distributore del caffè. Borghi non aveva moglie e figli e aveva il tempo di concentrarsi sulla carriera (la sua ambizione era di diventare direttore, figurarsi...), che per la verità gli ha regalato un posto misero di misera responsabilità in un giornale misero come "Vita vera". Un po' mi faceva pena, un po' mi faceva sorridere: una vita da cameriere, questa sì brutalmente vera... E per che cosa? Per rimanere caporedattore di un giornale popolare che raccontava inutili palle alla gente, come mi aveva detto il comandante.

Comunque, insomma, a dire il vero la viltà di Faccia-di-culo per diverse settimane è servita alla mia, di viltà. Ho ricevuto sempre lo stipendio. E anche solo per quel che spendevo in brioche e cornetti, in quelle settimane, lo stipendio mi era indispensabile.

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La polizia aveva passato in rassegna i proprietari di furgoncini azzurri in città e nella cintura, poi persino nella provincia. Erano andati a visitarli uno per uno, senza preavviso. Non erano neanche tanti. Alcuni li avevano pure convocati in commissariato, dopo un primo interrogatorio. Ma non ce n'era uno che rivelasse un indizio serio. Niente. Non c'erano squilibrati, schizofrenici, paranoici, psicopatici, individui che avessero avuto a che fare con manicomi, non c'era nessuno con precedenti penali, nessun alcolizzato, nessun immigrato clandestino, nessuno zingaro (i furgoni degli zingari, in effetti, di solito sono bianchi), non c'erano ultras da stadio, non c'erano naziskin e nemmeno anziani bisognosi di affetto, non c'erano magnaccia, non c'erano nemmeno distinti e appartati signori di mezz'età senza famiglia, nessuno che avesse mai preso una multa se non per infrazioni banali, eccesso di velocità o parcheggio vietato, non ce n'era uno che fosse alto, barba, calvo, grosso, occhi azzurri, sulla cinquantina, che somigliasse cioè all'identikit che mi ero disegnato in testa. Niente. Sembravano persone perbene, normali e al di sopra di ogni sospetto, con un impiego fisso e senza preoccupazioni di soldi, e se avevano un furgoncino azzurro non era colpa loro: lo utilizzavano chi per lavoro, chi per portare in giro la famiglia numerosa durante le vacanze, chi per arrotondare nel fine settimana facendo in nero riparazioni idrauliche, interventi elettrici o piccole opere di muratura. Oggi può sembrare incredibile, ma era così.

A quanto pare nessuno di loro era stato affetto da enuresi notturna fino a tarda età, aveva rivelato da piccolo la mania di uccidere o torturare animali, era stato mai tentato dalla piromania. Secondo quello che dichiaravano in televisione gli esperti intervenuti sul rapimento di Rita, erano questi tre elementi, messi insieme in varie combinazioni, a formare inequivocabilmente un potenziale serial killer, un potenziale pedofilo, un potenziale maniaco. È assurdo ma a pensarci bene io, a differenza delle persone in possesso di un furgoncino azzurro, lo ero. Potenziale in tutto. Perché fino a quattordici-quindici anni e forse anche più in là bagnavo il letto. Non ogni sera, ma spesso. Diciamo due volte alla settimana. Era la disperazione di mia madre, che doveva cambiare le lenzuola come si cambiano le mutande. Mi capitava anche di giorno, fino almeno alla terza media. Ero seduto al banco, mentre il professore parlava, e cominciavo a sentire un prurito, poi un bruciore crescente alla pancia che nel giro di qualche secondo non mi lasciava scampo, e mentre le tempie prendevano a pulsare con regolare ostinazione, potevo solo concentrarmi sul bruciore, cercando di anestetizzarlo col pensiero, contorcermi piano, premere lì con una mano per tentare di bloccare l'afflusso, accavallare le gambe oppure agitarle a destra e a sinistra, allargare e stringere, allargare e stringere, a scatti sempre più veloci come per una sorta di tremore improvviso che faceva traballare il banco, ma era lo stesso. Serviva solo a rimandare di qualche minuto il fiotto irresistibile e caldo che si allargava nei pantaloni e che scendeva fino alle caviglie e ai piedi inondandomi le scarpe e formando una pozza sotto la sedia. Sentivo già il cic-ciac delle calze chiuse nelle scarpe e delle suole sul pavimento di linoleum mentre un odore acido si impossessava delle mie narici e il prof continuava a parlare imperterrito. Mi sentivo liberato dal bruciore ma oppresso dal terrore che di lì a poco mi avrebbero scoperto, avrebbero visto la pozza d'acqua, i compagni mi avrebbero guardato strano e riso tra loro del Grasso Piscione, come mi chiamavano.

Non mi restava che tornare a casa, alzarmi alla fine della lezione come niente fosse e incamminarmi un po' storto con una mano in tasca lungo il corridoio, cercando in ogni modo di nascondere la macchia grondante. D'inverno era più semplice grazie alle giacche e ai cappotti abbastanza lunghi, ma d'estate appariva tutto inequivocabile alla luce del sole, e anche se tiravo fuori la maglietta lasciandola penzolare davanti, non riuscivo mai a coprire la mia vergogna. Una volta l'insegnante di storia, che era comprensiva come una nonna, mi chiamò alla cattedra durante la ricreazione e mi consigliò: «Ragazzo mio, quando la senti arrivare, alza la mano e chiedi di andare in bagno...». Troppo semplice. Avevo già tentato, ma siccome il bruciore arrivava senza preavviso annunciando una pressione irrimediabile e immediata, dopo aver alzato la mano mi ero messo in piedi e senza riuscire neanche a fare il primo passo mi ero già sentito inondare le parti basse, così la figuraccia l'avevano vista tutti in un terribile spettacolo in diretta. Dunque, da allora non avevo più chiesto niente e mi ero accontentato delle piccole rassegnate contorsioni d'attesa.

Rita deve aver preso da me. Ma si è sempre limitata a bagnare il letto durante il sonno. Dopo, le sarà capitato anche dopo? Non so.


Non so perché, c'era qualche vecchio libro sugli scaffali della stanza, Il rosso e il nero era quello che mi piaceva di più, con quel tipo antipatico e scontroso, che faceva lo stronzo, scusate il termine: a volte riuscivo a leggerne dieci pagine di seguito. Mai di più. C'era anche un romanzo che si intitolava Papillon. Andavo e venivo, leggevo e rileggevo. Senza fare grandi passi in avanti. Mi piacevano tanto. Che continuavo a tornare sulle stesse pagine. Per finire quei libri ci ho messo qualche anno. Due o tre, e se mi chiedete la storia potrei stare qui delle ore. E non ne verrebbe fuori niente. Era talmente lenta la mia lettura. Che perdevo tutto l'insieme. Mi piaceva tantissimo leggere. Qualunque cosa, anche i vecchi giornali buttati lì in un angolo. Riviste e settimanali. Sempre quelli per anni. Ma appena cominciavo volevo passare ad altro. Leggere, scrivere, dormire, pensare. Guardare i quiz. Parlare da sola, parlavo, per nascondere il ronzio del ventilatore che mi girava nella testa. Il ventilatore era entrato nella mia testa. Nel cranio. E dovevo fare attenzione. A non impazzire. Per questo parlavo da sola, per non impazzire. Per questo continuavo a scrivere il mio diario. Con i segreti che nessuno potrà mai sapere.

Quando poi lui veniva giù a trovarmi, e sentivo la manopola che si muoveva, dovevo lasciare, abbandonare i libri e il bloc notes, far finta di niente. Non volevo che capisse che avevo una mia fantasia. Altro che non fosse la mia solitudine. Perché se capiva qualcosa che non gli piaceva, magari poteva mettermi di nuovo nella stanza del castigo. Lui non voleva certo. Ma poi, senza colpa né mia né sua...

Si avvicinava con il sorriso e mi diceva:

«Ciao stellina, fammi guardare qua».

«Qua dove?» fingevo di ridere.

«Dài, stellina, non fare la sciocca. Fammi vedere.»

E allungava le mani dove voleva, e forzava se necessario. Per lui era un gioco. Quel gioco. Che mi faceva schifo, a dire il vero, ma fingevo di ridere. E di non. Mai contraddirlo.