Autore Paolo Di Stefano
Titolo Ogni altra vita
SottotitoloStoria di italiani non illustri
Edizioneil Saggiatore, Milano, 2015, La Cultura 900 , pag. 262, cop.fle., dim. 15,6x21,4x1,8 cm , Isbn 978-88-428-1979-0
LettoreMargherita Cena, 2015
Classe narrativa italiana , storia sociale , regioni: Sicilia , citta': Milano , paesi: Italia: 1940 , paesi: Italia: 1960












 

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Indice


Il venditore di uova                     11

Lo sbarco di Venerina                    27

Clelia e Glauco assieme                  39

Il Carlone e i loschi figuri             53

Piccola Fiorenza in fuga                 67

Rosa dolente o volente                   77

Dio è fantascienza                       93

I tormenti della giovane Flora          109

Le situazioni drastiche                 123

«Ma chi te lo fa fare»                  141

Il ragazzo che cade                     157

Moua per sempre                         179

«Ora ti sento vicino»                   197

La finestra sul selciato                211

Un applauso per Sheila                  223

«Da come mi guardava»                   237

Veronica jumping                        251


 

 

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Pagina 11

Il venditore di uova


C'è stato un tempo in cui Gesù Bambino si chiamava Adriano. Le monache del Rosario di Scicli ogni domenica dopo pranzo allestivano il presepe vivente e Adriano Arrabito, per diversi mesi, diventava il Gesù nella culla, con un «abitino molto grazioso» e una candela in mano, riscaldato dal respiro di una mucca e di un mulo, accanto a un vecchio con la barba bianca, Giuseppe, e a una ragazza di paese, Maria. Il vantaggio era che finita la sacra rappresentazione le benedettine lo accompagnavano in sacrestia, «ove c'era preparata una bella mensa» con ogni ben di Dio, tutto quello che il piccolo non poteva mangiare durante la settimana. Perché la sua era vita di poveraccio, un padre contadino e infermiere precario, «impiagato all'Ospedale dei Cappuccini», la madre lavoratrice delle bestie e dei campi, come tante donne che abitavano a quel tempo nel Tavolato Ibleo.

Il piccolo Arianu non aveva neanche un soldo in tasca per comperarsi un fischietto. Crescendo e perduta l'aureola, era diventato un picciriddu un po' troppo vivace, Adriano. Il suo primo ricordo risale a quando aveva cinque anni, ed è una caduta: un giorno, giocando intorno alla fontana, che si chiamava «carrugia» e si trovava di fronte al palazzo del barone Ignazio Mormina Papaleo, perde l'«egolibbrio» e precipita nella «piccola beveratoia», tra quattro «tubbi a getto». Gli sembra di annegare, urla e annaspa nell'acqua, suo cugino Nazzareno gli allunga un braccio e lui ne esce fradicio e in lacrime per lo spavento. Corrono a chiamare sua madre. «La mamma» racconterà «appena mi vide in quelle condizioni si dispiacque, mi tolse labbitino e tutto mi asciucò.» In quello stesso anno, giocando con i cugini, Adriano cade da un albero di cachi e batte la faccia contro un sasso: «Tale fatto dispiacque molto alla mamma mia, accausa di quella caduta mi rimase molto schiacciato il naso». Con il suo naso pestato, il bambino dice un sacco di «buggie», la nonna lo rimprovera, vorrebbe «pungergli la lingua». Adriano ama molto sua madre, di un amore la cui assolutezza infantile non verrà meno neanche in età adulta.

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Pagina 27

Lo sbarco di Venerina


Il venditore di uova Adriano Arrabito se lo ricordano anche ad Avola. Vendeva uova fresche di giornata almeno una volta alla settimana, passando con il carretto a molle trainato da un vecchio mulo taciturno. Suo figlio Carmelo a Lugano sarebbe diventato amico di un avolese, Giovanni Di Stefano, che insegnava latino e greco nel suo stesso istituto, il liceo Carlo Cattaneo, immerso nel parco Ciani, sul lago. Carmelo e Vannuzzu si conobbero nel 1963 e in vecchiaia erano ormai come due fratelli stanchi che, incontrandosi, un po' scherzavano confidandosi le ansie della salute, un po' facevano finta di niente, un po' soffrivano nel raccontarsi i loro anni tra dolori antichi e presenti. Giovanni Di Stefano se n'è andato a ottantaquattro anni, era mio padre, e ricordava quando l'ovaio di Scicli in tarda mattinata entrava in paese lasciando fluttuare nell'aria, da lontano, una specie di onda araba: «Ova-ova-ova-ova!». Mio padre descriveva don Arianu come un uomo alto, asciutto, l'aria distinta e gli occhi buoni, ombreggiati dalla coppola. I baffetti quadrati li ha sempre avuti.


Ad Avola se lo ricordano, Adriano Arrabito, soprattutto in zona stazione, dove arrivava dopo ore di strigliate sulla schiena del vecchio mulo sbuffante. È la stessa zona in cui abita Venerina Toscano. Per molto tempo, prima della guerra, anche sua madre Vittoria aveva aspettato don Arianu per comprare le uova.

Vado a trovare Venerina in uno di quei pomeriggi d'estate in cui il sole si accanisce sui paesi sfiniti, e fino a tarda sera non ne vuole sapere. Una luce che asciuga le cose, le case, le terrazze, le strade polverose, le chiese, i pensieri dei pochi cristiani che vagano a quest'ora. La stazione è ancora lì ma è come se non ci fosse, i treni la ignorano, e non si fermano forse dal tempo delle littorine. Venerina Toscano si chiama come la santa del paese, come le tante Venera del paese. Piccola, scattante, in nero, un fazzoletto bianco da muratore annodato al collo, due orecchini d'oro aderenti ai lobi. Appare sulla porta, tra i fili di plastica della tenda, le braccia penzolanti, il viso rugoso e allegro dei suoi novant'anni. Un altare di madonne gesucristi padripii cuori sanguinanti appesi alle pareti sorveglia la sua vecchiaia indomita. Sedie di ferro attorno al tavolo, dietro i vetri affumicati del buffet si intravedono teiere decorate, piattini, tazze e tazzine dorate, vasetti romani, piccole anfore, la torre di Pisa, saliere, due gattini di ceramica e un camoscio bianco.

Venera è una di quelle nonnine che, sedute o in piedi, l'altezza non cambia. Ora è seduta, le mani aperte passano e ripassano sulla tovaglia fiorata del tavolo da cucina come volessero spazzar via le briciole della memoria una volta per tutte. Il pendolo barocco suona le cinque quando Venerina comincia a raccontare il prima e il dopo.

«Per tutto il periodo della guerra ci abbiamo arrangiato alla meglio, seminavamo il grano e facevamo il raccolto, che per macinarlo ci andava mio padre. Certo, si soffriva, e siccome le cose hanno andato sempre a migliorare, i giovani di oggi non lo capiscono tutto quello che abbiamo sofferto. Ma a noi non ci ha fatto mai impressione perché ci siamo nati nel fascismo e nella guerra.

«Io ho fatto la quinta elementare. Avevamo la casa sempre al quartiere Cianarenza, Piano di Renzo, via Tommaso Campanella, alla penultima strada, sono nata in questo quartiere e sempre qui sono abitata. La casa era fatta con volta e tegole, canne e gesso. Dentro con noi c'era la stalla col mulo e le galline, porcellini d'India, conigli e una capretta. Quando stavo alla quinta elementare ci hanno fatto fare un saggio nella chiesa di sant'Antonio con lo stemma di Mussolini, ci facevano piegare accussì per terra e gridare il nome del Duce. Ci facevano scrivere a scuola i suoi discorsi per la guerra del Negus, prima che scoppiava la guerra vera, e dovevamo dire che l'Italia era 'na potenza imperiale, non m'arricordo la parola precisa, vicino all'Italia ci avevano messo un altro nome che ora non me l'arricordo, impero coloniale forse, perché ci avevamo impadronito dell'Abissinia.

«Neanche il tempo d'aggiustarmi i capelli avevo. Io la scuola la volevo, ero volonterosa e latina, ma finita la quinta m'hanno mandata in una sarta a impararmi il cucito perché mamma mia mi diceva che solo i masculi dovevano andare alla scuola. Quando che ho finito l'elementare la maestra ha chiamato a mia madre per dire: mandatacela a scuola, questa bambina, lei la vuole la scuola, è 'na picciridda volonterosa, giusta e latina... No no, ha risposto mamma mia, no, Venerina ha da lavorare a fare i servizi di casa. Io ero la più grande e dovevo fare i servizi, non avevo istruzione, quello che acchiappavo di guadagno dovevo acchiappare e per questo mi ho dedicata anima e corpo al cucito.

«Quello che ha fatto l'avviamento è stato mio fratello che di studiare non ne voleva sapere proprio e a scuola non ci andava, se ne stava aggiro dove gli piaceva, ma i miei genitori lo mantenevano lo stesso allo studio perché volevano che riusciva in qualcosa e lo mandavano anche al doposcuola dal ragioniere Barbiera, così si chiamava. Questo ragioniere al posto di fargli la lezione lo mandava con la bicicletta ad Augusta per comprare le sigarette del contrabbando, senza che lo faceva sapere a mia madre. Era 'na storia d'intrallazzi... e mio fratello qualcosa di soldi se li teneva in tasca pure lui.

«Si campava sempre nello spavento. Negli ultimi momenti gli Alleati buttavano sempre bollettini e avvisi sugli obiettivi, foglietti che cadevano dagli aerei. L'ultimo c'era scritto: ULTIMO AVVISO. «Noi abitavamo tutta la famiglia nella stessa strada, uno di faccia all'altro, e stavamo sempre insieme. Uno zio di mamma mia, zio Corrado, che avevano un terreno prima della Fiumarella con una casa sfasciata, aveva detto: meglio che la sistemiamo questa casa, che ci può venire utile se dobbiamo scappare... Effettivamente la fece mettere apposto, con tutte le tegole che non c'erano, e fece aggiustare pure un recinto alto tutto rinchiuso, e nei giorni prima dello sbarco tutti se n'andavano là, specialmente quelle spose che non avevano più i mariti. 'Stu me frati che ora è morto, allora era picciotto, aveva sedici anni, e lavorava là con mio zio a fare seminato e raccolta di frumento, puliziarlo, trebbiarlo con gli animali, 'stu mio fratello la sera del 9 era là che aveva travagghiato con lo zio, mentre che noi si stava al paese sempre nello spavento. Mio padre, che aveva fatto la Grande Guerra e di bombe ne aveva conosciute tante, prima era dell'opinione di andare nella contrada della petraia, tra Avola e Cassibile, alla base della montagna, che era la terra più ricca di mandorleti e i campagnoli aravano sulla pietra... Lì però ce ne furono troppe di bombe cadute e mio padre cambiò idea... Quella sera disse che non voleva neanche che scappavamo alla casa di zio Corrado, cioè a dire alla Fiumarella: se ci aggiorna che siamo ancora vivi, disse, domani ce ne corriamo alla campagna, ma però la nottata la passiamo qua. Insomma, nella sera del 9 luglio fino alla mattina presto del 10 hanno bombardato per tutta la nottata qui affianco dove c'era il passaggio a livello della ferrovia, e proprio qui affianco si sentivano abbassare gli aerei e mitragliare i treni. Si sentivano i bombardamenti e si sentiva fischiare vicino vicino. Alla mattina però graziaddio eravamo ancora vivi.»


Dal nulla dell'atrio, compaiono all'improvviso un uomo e una donna di mezza età, lei in bilico su tacchi altissimi, lui con una camicia lucida e scura, chiusa fino al collo. Sono un figlio e la nuora di Venerina Toscano, impazienti di tuffarsi in una festa di matrimonio. Salutano rapidamente, prima di dileguarsi e sciogliersi sull'asfalto del paese. Venerina non ci bada e lascia che le parole e i ricordi continuino a correre.


«Che giorno era non m'arricordo, quando ha scoppiato la guerra, però m'arricordo che la campana della chiesa matrice la suonava Giummo Giuseppe, il padre della sarta. Perciò noi che ancora non conoscevamo la guerra eravamo tutti impauriti, poi mano a mano ci abbiamo pigliato l'abbitudine, capivamo che insomma la guerra era 'na cosa normale... Avevo diciott'anni, con due fratelli più piccoli di me e uno più grande che non ha mai divenuto grande essendo morto piccolino. Mio padre era del 1889, lavorava alla campagna e aveva fatto la Prima grande guerra mondiale, lui potrebbe contare le cose a filo per segno. Da bambino sapeva la Cavalleria rusticana e la Divina commedia ammemoria, e anche il Guerin Meschino con la storia di Bramante che se l'arricordava ancora da vecchio e me l'arricordo pure io.

«Mio padre c'aveva le terre lì dove ancora oggi c'è il ponte mussoliniano per andare a Siracusa, che ci sono i terreni della marchesa di Cassibile... Era un tipo fatto a modo suo e un poco duretto, mio padre. Si figuri che una mattina in campagna c'era la zia che doveva partorire nel carretto e siccome u picciriddu era fimmina, appena che nacque ci tirò il collo perché era obbligatorio che doveva essere masculu. 'Na volta raccontò che quando partì per la Prima guerra, nelle trincee dell'Isonzo con i suoi compagni si presero gli assalti degli austriaci, che avevano fatto un massacro di italiani. E nell'esercito mio padre aveva un amico sardo chiamato u Sardignolo che disse: il primo austriaco che piglio lo sgozzo come un agnello e mi bevo il sangue, e come disse lo fece. Mio padre vide per davvero u Sardignolo tagliare il collo dell'austriaco, prendere la gamella, metterci là dentro il sangue e se lo bevette sul serio. Ma papà mio tanto era duro che lo raccontava come 'na barzelletta. Era fatto così.

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Era la vigilia di Natale del 1952 quando il venticinquenne Glauco Maresca si sentì battere una mano sulla spalla, si voltò e vide una ragazza che conosceva: «Ciao, bell'uomo». Clelia Di Chiara non era ancora ventenne e Glauco l'aveva conosciuta alla piscina Cozzi diversi anni prima. Si erano già adocchiati allora e quando mamma Tanina sentì pronunciare da Clelia il nome di Glauco, andò a informarsi. Le dissero che la famiglia Maresca era comunista: «La parola era molto brutta per noi» mi dice Clelia, «significava che erano persone da non frequentare». Si sarebbero sposati nel 1955 senza più lasciarsi da quel giorno lontano. Allora non potevano saperlo, ma si erano certamente incrociati anche in un altro giorno, un giorno storico per l'Italia: la mattina del 29 aprile 1945, lui da Monza e lei da corso Buenos Aires erano arrivati in piazzale Loreto, a distanza di pochi minuti l'una dall'altro, immersi nella folla che acclamava i cadaveri penzolanti a testa in giù di Benito Mussolini e Claretta Petacci. Glauco e Clelia avevano vissuto il fascismo, con le rispettive famiglie, su due fronti opposti. La ricordano bene quella mattina, ciascuno per suo conto, seduti nel salotto ordinato, i muri giallini di tante case italiane, l' Ultima cena di Leonardo, sotto vetro, appesa alla parete di fondo.

Clelia non dimostra i suoi ottant'anni, sarà per l'ampio camiciotto rosso che indossa con naturalezza, sarà per la frangia nera che le copre la fronte, sarà per la voce argentina e squillante o per il sorriso aperto, privo di ombre e di malinconie. Non le è servito finire lo scientifico perché da ragazza ha trovato subito lavoro come impiegata meccanografica alla Montecatini. Con la maternità ha smesso, e si è data alla sartoria, con sua sorella: l'eredità paterna? Quando poi le case di moda hanno lasciato l'Italia e si sono rivolte alla Romania e alla Cina, ha chiuso bottega: «Armani nel '97 ci ordinò 600 milioni di merce, l'anno dopo solo 30. Giravamo la Brianza e il Veneto a vendere, ma siamo diventate troppo anziane per continuare e la crisi ci ha mangiato tutto». Questa però è una storia che viene dopo. Prima c'è il Duce. La fede nel Duce di papà e mamma, dice Clelia, non era mai venuta meno e non fu difficile trasmetterla alle figlie.


«Io ero la minore. Mio padre era un simpatico brontolone, curava moltissimo le sue quattro figlie e ci ha cresciute nell'obbedienza e nel rispetto delle regole come una volta, in casa eravamo fascisti, per ignoranza ma eravamo fascisti, e il fascismo per noi era un modo di vivere: la scuola, poi, ci aveva insegnato ad amare le adunate, i comizi, i discorsi alla radio, le divise, i riti del fascio, tutto era riferito a lui, ci regalavano le medaglie con la sua faccia e in classe c'era l'altarino con la sua immagine. Noi bambini ci avevano messo in contatto con i soldati in Albania, che ci scrivevano le cartoline e noi rispondevamo con l'inchiostro verde. Per me bambina il Duce era un innamoramento, mi parlavano di lui come di un eroe, tutto si faceva in suo nome, la ginnastica, la compostezza a tavola, la pulizia, l'ordine, l'educazione, il rispetto, l'obbedienza a scuola e a casa, la sua autorità sostituiva quella dei genitori, che non avevano neanche bisogno di alzare la voce, perché bastava Mussolini. I ragazzi lo imitavano e le ragazze lo adoravano, la mamma se lo sognava di notte, anch'io, e anche le mie sorelle, tutte figlie della lupa. A noi gente semplice la parte buona del fascismo ci è rimasta addosso. Siamo stati troppo fedeli. Una volta mamma mi ha portata con sé in un ufficio a consegnare la sua vera d'oro ricevendone in cambio una di metallo: ero molto fiera di lei. Io avrei dato tutto per il Duce. Ricordo che le cancellate delle case erano sparite, raccoglievano il ferro, anche le reti da letto, perché tutto il ferro e l'oro doveva andare alla patria. E io ero contenta se anche la nostra famiglia contribuiva.

«La guerra? Certo avevamo paura, stavamo nascosti nelle cantine, una sera eravamo in via Mauro Macchi quando hanno fatto cadere le bombe incendiarie sulla Lepetit, che era una industria chimica. Siamo usciti dalle cantine che il cielo era rosso fuoco. Nel cortile c'era una famiglia Schmidt, ebrei, che quando è scoppiata la questione della razza ci guardava male anche a noi. Poi siamo sfollati a Udine per due anni e non siamo potuti tornare perché mitragliavano i treni, finché un giorno nel giugno '44 sono riusciti a portarci a Salò, dove abbiamo visto la pattuglia davanti alla casa di Mussolini e gli squadristi con le vanghe e la scritta VIVA IL DUCE. L'8 settembre è stata una delusione, pensavamo che la guerra fosse finita, però poi sono arrivati i tedeschi, sono entrati anche in casa nostra, che stavamo sotto al castello, con le armi e i cani, e mia madre ha aperto i cassetti per far vedere perfino le mutande delle figlie: i tedeschi ci impressionavano anche a noi, con i loro stivali ferrati. E poi gli aerei sempre avanti e indietro, vuuum, vuuum, e il rumore dell'aspirazione delle bombe... Comunque, bombe a parte la guerra non faceva paura... da giovani si stava bene, eravamo felici lo stesso. Solo dopo abbiamo saputo che cos'era stato esattamente.»

Pensavamo di essere felici o eravamo infelici senza saperlo? Glauco Maresca ha ottantasei anni e somiglia a Montanelli, alto, magro, occhi verdi, viso spigoloso. Una vita da tecnico di acustica ambientale, oggi alquanto sordo, «soffittava» gli uffici, lavorando per tante industrie italiane. Bisogna urlare per farsi sentire. Chiede scusa: «Ho avuto un ictus e la memoria ogni tanto se ne va», ma non è vero, Glauco ricorda tutto, date, personaggi, circostanze e canti interi della Divina commedia. Nella sua memoria, il giorno della Liberazione è molto diverso da quello vissuto da Clelia, che lo guarda con ammirazione adolescente. Potrà sembrare assurdo, ma forse è ancora amore. «Dopo quasi sessant'anni di matrimonio» dice «me lo risposerei, il Glauco.» Lui mostra un sorriso contenuto ed elegante, una mano chiusa nell'altra, che la massaggia come per ridarle vita, sulle gambe accavallate e rigide. Chissà cosa si nasconde dietro il sorriso di Clelia quando Glauco ricorda il suo primo innamoramento. Rimini, 1938. «Era una ragazza ebrea tedesca. Un giorno arriva mia cugina e mi fa: guarda che la tua Lore deve andarsene. Partirono in America e non se n'è più saputo niente. Noi gli ebrei li abbiamo sempre frequentati e aiutati.»

«Noi no» dice Clelia, «il fascismo ci aveva dato una bella pennellata, solo dopo abbiamo capito e ne siamo venuti fuori, ma allora non avevamo coscienza, ci fidavamo del Duce. Non era ideologia, la nostra, ma rimbambimento da tifo calcistico, durante le adunate, poi, diventava impazzimento. Figurarsi che le donne incinte andavano da Mussolini a fargli vedere il pancione. Era una specie di santo.»

Ride benevolmente, Glauco. Acqua passata, ma non troppo. C'è qualcosa che brucia ancora nel suo racconto. Una fierezza opposta e speculare rispetto a quella di Clelia.


«Mio padre Eraldo era figlio di mazziniani napoletani e mia madre Ida era una romagnola dei Montanari, famiglia socialista. Senza merito e un po' per caso, ma figuratevi se potevamo stare con il Duce!

Papà aveva avuto la poliomielite da piccolo, e anche se era gobbo il suo nome di battaglia era il Bello. Non un eroe, ma un combattente sì. In casa davamo ospitalità clandestina a molti ebrei, papà li conosceva perché come pellicciaio aveva lavorato con loro. Diceva: questi ebrei bisogna aiutarli. Eugenio Curiel veniva da noi la sera a mangiare. Finché non venivano arrestati facevano vita normale, gli ebrei. Io mi ero iscritto al classico ma non l'ho finito. A un certo punto ho cominciato a scrivere articoli di colore per il Gazzettino padano, senza firmare, passavo le giornate in biblioteca e la Rai mi pagava anche per certe radioscene, ma non ho continuato perché ho sempre avuto paura e vergogna a scrivere.

«In casa non si diceva Hitler ma Barbesìn de foca, baffetti di foca, e Mussolini non era Mussolini ma l'Innominabile di Predappio: lo chiamava così anche un vecchio amico di mio padre dal '18, il professor Achille Magni, un santo, due medaglie al valore nella Grande Guerra, intransigente in fatto di morale, grande italiano e grande antifascista. Veniva in casa nostra a cena e non mangiava mai più di un uovo. Quando l'esercito tedesco entrò in Polonia lui andò sotto il monumento di Garibaldi in largo Cairoli per manifestare gridando "Viva la Polonia!", fu preso dalla polizia e portato prima a San Vittore poi a Ponza al confino. I miei piangevano, quando ci fu l'occupazione della Polonia e anche quando ci fu la guerra con la Francia. Dalla guerra del '15-'18 avevano un attaccamento ai francesi... Papà nel '42 portò me e mio fratello in un collegio sopra Genova per metterci al sicuro e dal promontorio di Portofino la sera vedevamo i bombardamenti sul golfo che ci sembrava di essere al cinema: erano Lancaster inglesi.

«Poi nel '43 ci hanno distrutto la casa di Rimini e siamo sfollati ad Arcore, dove c'erano i commercianti ebrei grossisti che lavoravano con mio padre. Lì vicino c'era un campo d'aviazione, io avevo degli amici tra i ragazzi militari e tra questi c'era Sergio, della Decima Mas, che è finito male. Una notte una banda partigiana tentò un attacco, ma fallì: arrestarono due partigiani, gli avieri si rifiutarono di fucilarli e allora per fucilarli chiamarono le brigate nere della Ettore Muti. Alla fine della guerra ci fu una spiata e si vennero a sapere i nomi...

«Si mangiava con i bollini delle tessere annonarie, l'albergo Sant'Eustorgio, dove dormivamo anche, era diventato una mensa, pieno di ufficiali tedeschi. La sera mangiavamo e bevevamo con loro. Bevevano spaventosamente, ogni scusa era buona per fare un brindisi a Hitler. E ci chiedevano anche a noi di bere con loro: trinken, trinken, trinken! Pensavano di vincerla la guerra, erano sicuri. Anche i nostri erano sicuri. Ricordo ancora il tenente Cassioli, lì al Sant'Eustorgio, che una sera gridò: col cavolo che gli americani arrivano a Berlino!

«Ad Arcore si stava bene, c'erano i maiali, il pane bianco, il latte e il burro. E probabilmente si mangiavano anche i gatti. Qui a Milano si mangiava da schifo, il pane era nero, di gomma. Mio padre non ha smesso mai di fare propaganda antifascista, io lo accompagnavo ad Airuno per le riunioni clandestine, dove più che altro si parlava male di Mussolini, e andavo in giro con lui a distribuire volantini e documenti, anche rischiando di lasciarci la pelle. Aveva rischiato di essere fucilato per propaganda, papà, una volta era stato schiaffeggiato pubblicamente da un tedesco per aver raccontato delle barzellette su Mussolini. Per lui l'Innominabile era un buffone, una patacca: marciare a passo romano, recitare gli stornelli contro gli inglesi... Una buffonata ridicola! "Taci, il nemico ti ascolta..." o "Dio stramaledica gli inglesi". Gran buffonate. Io lo odiavo. Il professore di ginnastica ci insegnava gli stornelli contro gli inglesi. E il professor Magni diceva sempre: possibile che nessuno lo fermi? Io andavo con lui e con mio padre a certi incontri segreti in cui si organizzava la Resistenza, anche a Rimini, dove mia madre aveva una villetta e dove ogni tanto arrivavano gli anarchici. Ricordo che a Rimini aspettavamo che finissero le scariche, e poi andavamo a raccogliere i bossoli di ottone per venderli.»

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La voce del Carlone si ferma, trema, dà piccoli colpi di tosse e recita di nuovo con solennità, chiudendo gli occhi, dall'inizio alla fine: «A quel punto sento alle mie spalle un fascista che fa: "Sospesa l'esecuzioneeeee!!!". E poi dice: "Però il ragazzo ce lo portiamo con noi..."».

Il giovanissimo Medaja è salvo, se lo contendono la Muti, il Corpo militare della Repubblica di Salò, e la banda dell'ex granatiere Pietro Koch. Da San Vittore, il Corbella finisce a Villa Fossati, una palazzina gotica che sarà denominata poi Villa Triste, nelle cui cantine la polizia segreta di Koch rinchiude gli oppositori per torturarli e strappare loro confidenze. «Il colonnello Colombo voleva portarmi a San Vittore, ma l'avvocato Trinca, della banda Koch, diceva: "Eh no, questo me lo tengo con me, perché il ragazzo sa il dialetto milanese". Io per me non posso dire che Trinca era un traditore, perché mi ha tirato fuori da San Vittore e mi ha voluto bene, mi ha salvato, è venuto lì al carcere a prendermi e mi ha portato a Villa Triste, non posso parlarne male di lui.»

A Villa Triste, circondata da un bel giardinetto ordinato chiuso da filo spinato e sirene d'allarme, nel luglio 1944 sono confluiti, da Roma, altri «loschi figuri», per dirla con il Carlone. C'è il protettore del Carlone, l'avvocato psicopatico e tossicomane Augusto Trinca Armati, addetto al cosiddetto Ufficio legale. E poi: il tenente Armando Tela, braccio destro di Koch, il conte-industriale-spia Guido Stampa, il padre benedettino don Epaminonda Ildefonso Troya sospeso a divinis, la ventiseienne segretaria e contabile Alba Giusti Cimini, chiamata la contessa: «Si davan tutti dei grandi signori per non farsi conoscere» esclama il Carlone. La contessa è addetta alle sevizie. Pietro Koch va e viene. Al gruppo si aggiunge saltuariamente l'attore cinematografico Osvaldo Valenti, ex Decima Mas, con la sua compagna, l'attrice Luisa Ferida, spesso invitati a pranzo da Giannino, il ristorante di via Sciesa, uno dei migliori di Milano, fatto requisire da Koch e dai suoi. La coppia è più interessata, probabilmente, agli affari di cocaina che alle torture. Ci sono anche altri personaggi, tra cui l'autista Raul Falcioni, una certa Camilla Giorgiatti e Lina Zini. Il Carlone starà lì con loro fino a dicembre, per quasi sei mesi, con il compito del tuttofare: cameriere, incaricato delle pulizie e dei lavori di fatica. Conosce i «loschi figuri» che passano di lì, vive con loro, braccio a braccio. Vede e ascolta, fingendo di non vedere nulla. Viene sottoposto a un finto processo per antifascismo, e ora fa la caricatura dell'arringa a sua difesa che fu pronunciata a Villa Triste dall'avvocato Trinca. Imita la sua magniloquenza, facendo volteggiare la mano per aria come fosse un principe del foro: «È un ragazzo piuttosto intelligente, ma siccome che stava in una cascina in mezzo del bosco dove vivevano come animali e non c'era né giornali né la radio, come faceva a sapere questo ragazzo che doveva presentarsi!». L'avvocato Trinca, il suo difensore, non riuscì però a risparmiargli un'altra sceneggiata, la peggiore: una finta esecuzione. «Il primo giorno a Villa Triste, per farmi dire se c'eran dei partigiani qui in mezzo al granoturco, mi han processato e poi mi han messo sulla sedia elettrica, hanno attaccato la spina per far finta di mazzarmi, ma ho fatto solo un volo di due metri per terra e mi son fatto niente. La scarica elettrica mi ha alzato di peso e mi ha sbattuto giù. A loro non interessava un baffo della paura che potevo avere.»

Finti processi e finte esecuzioni sono due delle tante specialità di Villa Triste: «Preparati che domani mattina sarai fucilato...». Le altre specialità della banda il Carlone se le ricorda bene: il cosiddetto «schiaffo scientifico», la «capriola», cioè il lancio della vittima contro un muro, la «corsa» del prigioniero nudo tra due file di cani-lupo e poliziotti forniti di fruste di cuoio, la «sospensione», la doccia bollente, l'uso di manici di scopa a vari fini. Non mancano i fiammiferi piantati sotto le unghie dei piedi, i bicchieri pieni di petrolio versati in gola ai prigionieri, i genitali schiacciati, il sale in bocca ai morenti, i sacchetti di sabbia contro i reni. Tutto serve ad affrettare le confessioni dei torturati. O a procurar loro la morte il più dolorosamente possibile. «È una storia lunga, ricordarsi tutto, non ci ho più la testa, come si fa» borbotta il Cartone.

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«I pericoli per me sono che la corrente elettrica non si vede e non puoi difenderti se non stai sempre lucido. Era il 21 novembre 1968 e io stavo lì da nove anni. Alle 15.30 dovevamo fare una manovra sull'alta tensione, diciamo da seimila a duecentoventimila, c'erano anche trasformatori che trasformavano da diecimila a centocinquantamila, che servivano per fornire energia elettrica allo stabilimento chimico e petrolifero. Bisogna tenere presente che gli impianti non devono mai fermarsi e che se si fermano ci vuole un lavoro anche di quattro giorni e quattro notti per ristabilire le cose come stavano, per questo gli scioperi e gli incidenti sono una sciagura. Insomma, quel giorno dovevamo inviare corrente in un posto e toglierla da un altro posto, fare una manovra per spostare l'interruttore e il sezionatore senza però far mancare l'elettricità. Io ero in sala quadri CS2, all'interno, facevo il quadrista elettrico. Aprendo il sezionatore, che è fatto di tre lame per ogni fase e lo azioni con un comando, si è alzata una fiammata immensa, io stavo lì a settanta centimetri e dietro avevo il muro, perciò non ho potuto evitare la fiammata, in più a quel tempo per risparmiare fornivano tute a base di liacryl, acrilico, tute che prendevano fuoco subito: e se erano di amianto non succedevano i danni che sono successi.

«Sono rimasto oltre il 50 per cento bruciato, gambe, faccia e mani, le mani completamente bruciate perché con le mani ero sul comando meccanico per aprire il sezionatore. Era successo che l'assistente sbagliò la sequenza, sbagliò a darmi l'ordine di aprire e di chiudere l'interruttore che noi chiamavamo il pettine, lui stava dall'altro lato della gabbia per verificare un altro sezionatore che doveva essere chiuso e invece era aperto, insomma ha avuto un abbaglio, era convinto che era chiuso e allora quando quello mi dice di aprire, io apro e vedo tre coltelli sfrecciare verso di me, vedo con gli occhi la sfiammata che mi aggredisce e capisco subito di essermi ustionato completamente, lo strano è che non avevo perso i sensi, sembra una barzelletta ma sul momento non sentivo dolore, però capivo, ero lucidissimo, mi allontano da solo, poi mi fermo mentre la gente corre per aiutarmi. L'assistente intanto aveva capito l'errore, si lasciò prendere dalla disperazione e si mise a scappare, reazione umana, reazione fisica, in più metteteci che in quel periodo era in rottura con la moglie e certi errori possono capitare anche per la troppa tensione.

«Intanto, mezzo stabilimento della Sincat si era bloccato mentre che quelli del reparto correvano da me che per fortuna avevo un pullover grigio di lana che un po' mi ha protetto, ma ero comunque una torcia umana, ho fatto ancora qualche passo, ricordo che qualcuno arrivava con bombole di CO2 antincendio che se hai già perso la pelle, come nel mio caso, è un veleno, ti intossica perché la carne viva lo assorbe come una spugna. Le ultime cose che ricordo mentre stavo lì in piedi sono le parole di due o tre compagni che gridavano: le calzette! le calzette!, perché mi prendevano fuoco anche i piedi. Sono le ultime parole prima di perdere la coscienza e cadere nella vertigine o per così dire nel sonno. Poi mi sono svegliato forse dopo dieci o venti minuti, e ricordo gli scalini per salire sull'autoambulanza e la pelle che mi cadeva sulle gambe ma ancora non sentivo dolore, sentivo freddo, perché il CO2 ha la temperatura del ghiaccio. Sentivo altri che gridavano: no, Pippo, no!, e Nunzio Delfino l'ho visto mettersi le mani nei capelli mentre che mi sdraiavano sulla barella per terra. Vedevo e non sentivo niente, o forse sentivo e non vedevo, non lo so che cosa succedeva dentro e fuori di me in quei momenti. Dopo un po' ero sull'ambulanza, l'effetto del CO2 comincia a passare e mi sento come un pesce fritto sulla padella, così quando arrivo all'ospedale di Siracusa io sto dormendo e in quel sonno sento la voce del dottore che dice: questo non passa la notte.»

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Bisognerebbe prendere l'aereo a Catania, come ha fatto Emanuele mercoledì 21 luglio 1999, quando, concluso il praticantato in uno studio legale, parte per Firenze dove dovrà compiere il Car di leva alla caserma «Lupi di Toscana» di Scandicci per poi passare allievo paracadutista a Pisa. Bisognerebbe prendere quell'aereo, seguire esattamente il suo viaggio, momento per momento, per cercare di ricostruire come sono andate davvero le cose dall'inizio alla fine, com'è potuto succedere che Emanuele, fisico da atleta, passione per il tennis, il calcio, il nuoto, la pallanuoto, il beach volley, quasi un gigante, sia precipitato dalla torre per l'asciugatura dei paracadute.

«Era un gatto» dice la madre, «agile come un gatto.»

Il salone di casa Scieri ha le dimensioni di una palestra, alle pareti in ombra sembrano levitare, come fantasmi, i ritratti sottovetro di Emanuele, piccole e grandi fotografie, disegni, tele, manifesti, qualche targa alla memoria. Papà Corrado ha la faccia un po' contadina un po' blues di Nicola Arigliano, stessa attaccatura dei capelli, due orecchie larghe, due baffetti da siciliano timido e testardo: «Emanuele non si risparmiava mai, non stava mai fermo, e se ha scelto di fare il parà quando aveva diciott'anni, sul momento l'ha fatto per scherzo e anche un po' per sfida».

«Forse, quel suo carattere...» sussurra mamma Isabella, più rotonda e altera di suo marito, una smorfia della bocca come per un disgusto che non passa.

«Però quando poi si è trattato di partire a militare, ci è andato senza voglia, l'ha fatto per spirito di obbedienza, aveva deciso così otto anni prima e dunque è partito.»

«Poi, dopo aver visto la vita di caserma a Firenze... mi diceva: mamma, qui siamo dei numeri. Aveva assistito pure a qualche sciocchezza, a qualcosa che non gli era piaciuta.»

«Avrebbe voluto rinviare» continua Francesco, il fratello maggiore, che è di passaggio in questa penombra, «cercando magari una scusa. Ma le cose sono andate diversamente...»

«Per lui, a quell'età, contavano il lavoro, lo sport, le ragazze, l'amicizia e un po' anche la politica.»

A differenza di Francesco, che simpatizzava per Rifondazione comunista, Emanuele si era avvicinato a Fabio Granata, candidato regionale di Alleanza nazionale, e aveva aderito ai gruppi giovanili di destra. Papà Corrado ancora adesso non riesce a nascondere il fastidio: «Noi politicamente se abbiamo qualche idea è socialista: che vuole, io sono un lavoratore, mia moglie è una lavoratrice e non potremmo mai essere di destra, però Emanuele era libero di pensare come voleva, perché io li ho sempre lasciati liberi i miei figli, nella religione, nella politica e pure nella vita».

«Francesco aveva il mito di Che Guevara» sorride indulgente mamma Isabella «e aveva influenzato pure Lele, forse cominciava a vederla diversamente, la politica, però non è mai stato un fascista o un fanatico, questo no. Con suo fratello qualche discussione, niente di più.»

«Già allora non mi piaceva la rigidità. E neanche a mio fratello Lele. Si discuteva, tutto qui. Oramai, se fosse per me... Non vado neanche a votare, mi sono sentito preso in giro da tutti. La giustizia, non ne parliamo, non esiste proprio. Sa chi sono le sole persone che non si sono rassegnate alla morte di mio fratello? Siamo noi, io e i miei genitori. Perciò, dopo quello che è successo, la mia fiducia nella politica e nelle istituzioni si è ridotta a meno di zero.»


È finito il Car. La mattina di venerdì 13 agosto, Emanuele e altri settanta allievi paracadutisti salgono su due pullman militari per essere trasferiti al Ceapar (Centro addestramento allievi paracadutisti) di Pisa, caserma Gamerra. Non è un viaggio tranquillo. Uno dei due automezzi si deve fermare per un guasto, nell'altro i «nonni» costringono le reclute a viaggiare immobili nella posizione della sfinge (mani sulle ginocchia e schiena dritta staccata dal sedile), con i finestrini chiusi e il riscaldamento al massimo nonostante la temperatura torrida. Un testimone dirà che durante il viaggio c'è stato un battibecco tra uno dei caporali e l'«avvocato» del gruppo, e cioè l'allievo Emanuele Scieri, più anziano dei suoi commilitoni, dunque più autorevole ma soprattutto insofferente più di altri verso le regole del nonnismo.


«Mio fratello Lele era un amante della vita e sapeva stare al suo posto. Ogni tanto però reagiva: siamo cresciuti insieme e nei primi anni c'era molta rivalità tra noi, eravamo due prepotenti che cercavano di sopraffarsi e ogni volta tornavano a rappacificarsi. Non direi che Lele era un leader, piuttosto una persona di riferimento per tanti che si confidavano con lui e gli chiedevano una parola di aiuto. Capitava che si incazzasse, ma bisognava provocarlo. Dovevi metterti di buona volontà...»

Emanuele, Ema, Lele, Manu, lo ricordano come un ragazzo «carismatico». Un tipo «aggregante», per suo padre: «Aveva un'energia inesauribile» dice. Per sua madre: «Non era un bonaccione, non sopportava i prepotenti e se si scatenava una lite, due o tre persone messe insieme non riuscivano a fermarlo».

Piaceva molto alle ragazze, Emanuele, non solo per l'aspetto, la postura, lo sguardo, ma anche per quel suo spirito forte, protettivo, per la sua fierezza scontrosa ma non prepotente.


Pranzo in mensa. Emanuele è con gli altri. Alle 15.30 consegna di lenzuola, coperte e cuscini per la branda. Emanuele è sempre lì. È seccato perché i superiori gli hanno appena negato la licenza per passare il fine settimana di festa in Sicilia. Cena alle 18, poi libera uscita. Emanuele visita, con alcuni commilitoni, piazza dei Miracoli: è la prima volta che vede il Duomo, il Battistero, la Torre, tra le 20.30 e le 21 è sotto la Torre, si guarda intorno, ride e scherza, prende il cellulare e telefona ai genitori, poi al fratello Francesco. Non c'è sera che non li chiami.

«Il solito Lele, sereno» ricorda Francesco. «Mi disse che forse sarebbero andati a mangiare una pizza prima di ritirarsi in caserma. Io gli ho detto che mi stavo organizzando per Ferragosto, nient'altro.»

Sono le 22.15 quando Emanuele Scieri rientra in caserma con gli altri. Fino a qui è tutto chiaro, ma da questo momento in avanti le tracce si confondono e bisogna attenersi alla testimonianza di un «depositario di verità non rivelate», secondo la definizione di un giudice. Si chiama Stefano Viberti e ha trascorso la serata con l'«avvocato» siciliano. Racconterà di essersi intrattenuto con lui, fumando una sigaretta per una decina di minuti sul vialetto che costeggiava il muro perimetrale della caserma. I due si sarebbero spinti fino al magazzino del casermaggio, poco distante dalla torre per l'asciugatura dei paracadute. Viberti aggiungerà che alle 22.30 Emanuele gli ha chiesto di restare solo per poter fare una telefonata con il suo cellulare, così lo lascia e rientra in camerata. Dai tabulati telefonici, però, non risulterà nessuna chiamata di Emanuele a quell'ora.

Passa un'oretta. Alle 23.45 il caporale di giornata fa il contrappello. Scieri è assente e la sua branda è vuota. Nessuno dei superiori se ne interessa né si preoccupa di farlo cercare. Viberti tace, ha una personalità che il magistrato definirà «introversa e fortemente controllata nella manifestazione delle emozioni e al tempo stesso granitica e scarsamente permeabile alle sollecitazioni esterne». Quella sera appare però molto agitato agli occhi di alcuni commilitoni, che poco prima del contrappello l'hanno visto affacciarsi più volte nervosamente ai finestroni della camerata. Il Viberti dirà cose strane, pensieri poco sensati: «Pensai che dopo la telefonata lo Scieri fosse uscito ancora dalla caserma... era una persona di ventisei anni, laureata, e che sapeva badare a se stessa». Sono quattro allievi a segnalare la stranezza ai caporali, perché, conoscendo la puntualità di Emanuele, e ben sapendo che era rientrato con loro dalla passeggiata in città, non riescono a capire come mai sia ancora assente. La caserma Gamerra dispone di un solo portone, piantonato, attraverso cui è difficile dileguarsi all'insaputa degli altri.

Dov'è scomparso dunque l'allievo Emanuele Scieri? Possibile che in una notte chiara di agosto sia sparito dalla caserma senza essere visto da nessuno?

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