Copertina
Autore Philippe Djian
Titolo Imperdonabili
EdizioneVoland, Roma, 2009, Intrecci 61 , pag. 164, cop.fle., dim. 14,5x20,5x1,1 cm , Isbn 978-88-6243-042-5
OriginaleImpardonnables
EdizioneGallimard, Paris, 2009
TraduttoreDaniele Petruccioli
LettoreAngela Razzini, 2009
Classe narrativa francese
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Pagina 5

Sapevo benissimo che non c'era. Mentre Patti Smith, con la sua voce meravigliosamente roca e lacrimosa, cantava Pastime Paradise, io guardavo l'aereo di Alice atterrare vibrando forte contro il sole arancione e ancora caldo di fine estate, e sapevo perfettamente che lei non c'era.

Di solito non avevo premonizioni di questo tipo – me ne facevano quasi una colpa – ma quel giorno dissi a Judith che era meglio aspettare a ordinare la carne, perché nostra figlia non avrebbe preso quell'aereo. Come mai? Non lo sapevo. Secondo Judith, in quel caso ci avrebbe almeno telefonato.

Alzai le spalle. Sicuramente mia moglie aveva ragione. Eppure, soltanto un minuto dopo, ero di nuovo convinto che Alice non sarebbe arrivata.

Scendendo dall'aereo, Roger mi comunicò che non si faceva vedere da due giorni. Non risposi e baciai le gemelle, che sbadigliavano serie serie, per nulla turbate dall'assenza della madre.

– Il tempo è bellissimo qui da voi – mi disse. – Farà loro un gran bene.

Normalmente i bambini arrivavano dalla città pallidi, a volte perfino con due grandi occhiaie, e le piccole non facevano eccezione.

A bassa voce, per non farsi sentire dalle bambine, Roger mi confidò di non poterne più. Non ce n'era bisogno. Bastava guardarlo per capire come stava.

– Mmm, – feci – stavolta cos'è? Un film? Uno spettacolo?

– Chi se ne frega, Francis. Che importanza può avere il perché? Non ne posso più. Vada a quel paese.

Si era mostrato senza dubbio paziente, ma da parte mia potevo solo incoraggiarlo a tener duro, perché in caso di crollo del loro matrimonio vedevo stagliarsi all'orizzonte lo spettro della custodia delle gemelle, e con Judith avevamo già fatto quell'esperienza due anni prima, in occasione di un loro viaggio romantico pensato per ricominciare da capo.

A sessant'anni, non volevo nemmeno sentirne parlare. La mia unica aspirazione era la tranquillità. Leggere, ascoltare musica, passeggiare in montagna o sulla spiaggia di mattina presto. L'idea di occuparmi delle bambine, per quanto fossero sangue del mio sangue, come Judith non si faceva scrupolo di ricordarmi, non mi allettava decisamente più. A suo tempo mi ero già occupato di Alice e sua sorella e mi pareva di aver esaurito tutta la gamma di esperienze possibili, suscettibili di risvegliare l'anziano ragazzo che ero diventato; il mio tempo era prezioso, anche se ormai non scrivevo praticamente niente.

Motivo per cui, quando dopo pranzo mi venne affidato il compito di accompagnare le bambine al mare prima che devastassero il giardino da cima a fondo, non riuscii a reprimere una smorfia, visto che stavo proprio per andarmene di sopra, nella piacevole penombra del mio studio con il computer sulle ginocchia, o magari in poltrona, a mani intrecciate dietro la nuca – ah quanto vorrei farmi sorprendere così dalla morte, se mi venisse concesso, invece che in una clinica con i tubicini nel naso – e invece i miei progetti si polverizzavano, si volatilizzavano, come dopo una caduta dall'ultimo piano. Tutto per colpa di due bambine abbandonate dalla madre. Diedi loro un dolcetto e le feci aspettare fuori mentre cercavo di chiamare Alice, che non rispose.


*



– Credimi Roger, sono con te. Lo sai, la conosco. Ma quanto sarà? Due giorni? Quarantotto ore? Be'... dài... ne ha fatte di peggio, no? Non c'è da preoccuparsi, vedrai.

Avrei voluto sembrare tranquillizzante. Io stesso, trattandosi di Alice, non avevo ragione di impensierirmi per due misere giornate senza notizie, non fosse stato per il chiodo fisso che avevo avuto al risveglio di non trovarla sull'aeroplano. Non sapevo come interpretarlo, ma non riuscivo a togliermelo dalla testa. Con Alice, poteva capitare di vederla sparire per un'intera settimana. Allora perché due giorni destavano in me quel vago malessere?

– Scommetto che entro domenica sera avremo sue notizie – ho aggiunto alla fine.

Avevo poche probabilità di sbagliarmi. Alice non perdeva mai del tutto la testa. Non aveva sposato un banchiere? Dio sa i musicisti, i drogati e gli accattoni che frequentava all'epoca. Bisognava avere la testa ben piantata sulle spalle per riconoscere un banchiere in mezzo al mucchio.

– Ci hai fatto prendere certe paure... – dichiarai il giorno del suo matrimonio. Per tutta risposta, mi aveva fulminato con lo sguardo.

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Pagina 48

Qualche giorno più tardi il cane di Jérémie si sfracellò sugli scogli, spinto da un'onda dell'enorme mareggiata scatenatasi nel pomeriggio (la luna era cambiata). Aveva le ossa in briciole e il cervello spappolato.

Vennero ritrovati altri due cani, qualche gatto e alcune vacche trascinate dalla piena dell'Adour – come dopo ogni forte uragano, che tra l'altro riportava a riva droga, mazzette di banconote, stecche di sigarette e via dicendo. Il municipio faceva nuove assunzioni per spazzare via quella roba più o meno clandestina e in parte sanguinolenta. Il cane di Jérémie era senza più un dente e con la lingua a brandelli.

Calava la sera. Sapevo che Jérémie non lo trovava. Era passato qualche ora prima, piuttosto in ansia, a chiedermi se l'avevo visto – qualche volta le bambine lo portavano a passeggio. Avevo provato a rassicurarlo, ricordandogli quanto si era mostrato vivace, sveglio, intelligente – persino ai miei occhi di persona non proprio entusiasta degli animali domestici – insomma, abbastanza furbo da mettersi al riparo, vedendo che il tempo si guastava. Jérémie era diventato grigio. Dietro di lui l'oceano mugghiava, nubi basse correvano come sottomarini in un cielo di cuoio dorato.

– Fammi sapere – gli avevo detto. – Chiamami quando vuoi. E non ti preoccupare.

Un attimo dopo era scoppiato il temporale e nelle due ore successive li avevo completamente dimenticati, lui e il cane.

Roger era andato in città per non so quali traffici e le bambine, convinte di aver visto un fulmine attraversare la casa, mi si erano aggrappate tremando come foglie, mentre il cielo si illuminava a giorno e tuoni assordanti facevano vibrare i muri.

Mi stavano appese al maglione. Ne avevo una per gamba. Quando il cielo scagliava un lampo tra le dune, si chinavano urlandomi nelle orecchie. Le loro ultime grida vennero scatenate da un'improvvisa apparizione in giardino, proprio mentre il temporale si placava – una figura spettrale, immobile, sulla cui schiena lattea e fumigante rimbalzavano grosse gocce di pioggia.

Jérémie teneva tra le braccia il cadavere del suo cane.

– Sentite, bambine – dissi. – È meglio se andate in camera vostra. Ma erano già scattate, aprirono la portafinestra e si precipitarono su di lui prima che potessi intervenire. In un batter d'occhio si inzupparono dalla testa ai piedi.

Feci entrare tutti in cucina. Le bambine piangevano forte sbattendo i piedi. Jérémie sembrava in stato di shock. Gli tolsi l'animale, che appoggiai sull'asciugatrice. Un fantoccio di pezza di una decina di chili, a malapena riconoscibile e sgradevole al tatto.

Li portai di là. Le gemelle mi si aggrappavano singhiozzanti, convinte che se volevo potevo resuscitarlo. Li condussi al mobile bar, in modo da poter versare un whisky a 70° – fiume di fuoco, rinvigorente bruciore – a chi sembrava averne un gran bisogno.

– Mettiamoci seduti – dissi. – Cerchiamo di riprendere fiato. Va bene bambine? Adesso calmatevi. E anche tu, Jérémie, manda giù per favore. Ora te ne do un altro. Su, su bambine. Lasciatemi un momento. Tanto, strillare non serve. Vostro padre dove sarà? Quanto lo vorrei sapere. Siete fradice. Andate a prendere degli asciugamani. Così io e Jérémie vi asciughiamo. Vero Jérémie? Vero, Jérémie? Accidenti, mi dispiace davvero. È un brutto colpo, eh? Povero cane. Dài, siediti, non stare lì in piedi come uno scemo. Ma sì, non ti preoccupare. È cuoio impermeabilizzato, non starci a pensare. Cerca di rilassarti. Respira. Respira a fondo. Com'è successo, l'hai trovato sugli scogli? Sotto al faro, dici? Pensi sia caduto di lassù? Ah, secondo te si è imbattuto in una coppia irascibile di gay infrattati? Mmm. Può essere. Non è escluso. In effetti non amano essere disturbati. E secondo te l'avrebbero scaraventato in mare? Ma perché? Jérémie? Guardami. Cos'hai? Aspetta un momento. Sentite, bambine. Adesso mi arrabbio.

Mentre le bambine andavano al piano di sopra a prendere gli asciugamani, mi chinai su di lui:

– Sei andato a rompergli i coglioni? Dimmi che non è vero, Jérémie. Guardami. Sei andato a rompere i coglioni a quella gente? Ma cos'hai nella testa?! Lo vedi cosa succede, poi? Davvero, sotto questo aspetto tuo padre non ti ha insegnato niente. Te lo dico chiaro e tondo, non ti ha fatto capire un bel niente.

Teneva la testa così bassa che non riuscivo a guardarlo in faccia. Non capivo se stava piangendo o se gocciolava. C'era odore di cane bagnato in tutta casa. Ai suoi piedi luccicava una piccola pozza. Quanta tristezza. Quanta sporcizia – e il cane ne aveva fatto le spese.

– Sentite. Non si può seppellire un cane nel bosco con questo tempo, non esiste al mondo. È da dementi, capito? Scavare una fossa con questo tempo, dico, vogliamo scherzare? Magari alla luce dei fari. In mezzo metro di fango. Sotto la pioggia battente.

Mi fecero notare che stava smettendo e la luna aveva asciugato i campi neri.

Aiutai Jérémie a trasportare il cane nel portabagagli della mia auto, mentre le bambine mettevano la casa a soqquadro raccattando tutte le torce che riuscivano a trovare – sentivo le posate rotolare nei cassetti e le porte degli armadi che sbattevano.

Uscire fu come tuffarsi in una piscina. Lasciai un messaggio a Judith per ragguagliarla sull'avventura in cui ci stavamo imbarcando, casomai fosse rientrata e avesse trovato la casa vuota. Ma chissà se sarebbe tornata.

– Non so nemmeno dove sei – conclusi con una voce che mi parve lamentosa.

Col tempo diventavo sempre più melenso. Se continuavo così, presto avrei sfiorato il grottesco.

Mezz'ora più tardi ci fermammo in mezzo al bosco. Pioveva ancora abbastanza fitto. Era buio pesto. Le bambine, sul sedile di dietro, continuavano a singhiozzare piano nei loro fazzoletti. Mi voltai e feci promettere loro di non muoversi finché io e Jérémie non avessimo finito.

Ben presto ci trovammo a lavorare in un pantano.

La terra era nera e grassa. Più scavavamo, più la fossa si riempiva d'acqua. Da dietro i finestrini appannati, le bambine ci guardavano con tanto d'occhi. La pioggia, intorno, sfrigolava come bacon in padella.

– Non te lo domando più – feci, quasi gridando per farmi sentire. – Guarda, non scherzo. Allora, per l'ultima volta, Jérémie, come stai?... altrimenti ti porto seduta stante al pronto soccorso e ti lascio lì, ok? Se fossi in te aprirei bocca, e anche in fretta, ok?

Lì per lì fece solo un cenno col capo. Misi subito in chiaro che non era sufficiente.

– E va bene, è tutto a posto – buttò là finalmente. – Solo non mi va di parlare.

Indossavamo delle specie di k-way col cappuccio, molto alla moda tra turisti e campeggiatori, che ci si appiccicavano addosso facendoci sembrare surgelati nel cellofan.

– M'hanno ammazzato il cane – ringhiò prima di rimettersi a scavare furiosamente.

Lo guardai per un momento:

– Non mi capacito che tu abbia potuto comportarti così con quelli – gli dissi alla fine. – Sono esterrefatto. Sai quanto sarà contenta tua madre? Proprio fiera di te. Doppiamente. E comunque cosa ne sai? Li accusi, ma non lo sai se sono stati loro. Sei ingiusto.

Sì tirò su, mi squadrò con astio, ma non proferì parola. Scagliò la pala a terra in modo rozzo e se ne andò furibondo a prendere il cane.

Ne avevamo già parlato, sapeva come la pensavo, qual era la mia posizione in merito. Comunque, mi aveva costretto ad ammettere che quando la cosa riguardava un genitore, non era certo facile per il figlio. Se era sconvolto, potevo capirlo. Potevo capire che la testa non gli funzionasse granché – ma c'è di peggio, uno può sempre prendersi la rabbia, la polio, o diventare megalomane.

Restò un momento immobile davanti al cofano aperto – mentre l'acqua gli si rovesciava in testa a secchiate – prima di chinarsi a prendere il cane. Anche stavolta ero pronto a riconoscere la gravità della perdita, per un ragazzo appena uscito di prigione dopo sei anni. Ma neanche la mia carrozzeria ne usciva troppo bene da quella storia – chissà se l'Audi trattava con l'antiruggine anche l'interno dei portabagagli.

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Pagina 73

A mezzanotte uscii dal bagno e mi vestii. Più di due mesi dopo la sua scomparsa ancora si parlava di lei, la giovane attrice di cui non si avevano notizie ormai da settantotto giorni. La sua foto apparve sullo schermo prima che avessi il tempo di fare un gesto verso il telecomando. Un presentatore disorientato citò svariati sequestri e omicidi di ragazze avvenuti di recente.

Mia figlia aveva sposato un giovane banchiere. Occupava il vasto attico e superattico di un palazzo di cui conoscevo il codice per aprire il portone. A volte, quando passavo in città, dormivo da loro. Avevo una copia delle chiavi. Con questo non voglio dire di avere avuto libero accesso. Non esageriamo. Erano le chiavi di servizio. Teoricamente non avrei dovuto portarle con me, solo conservarle in caso di bisogno.

In linea di massima, non abusavo della loro ospitalità. Non che mi facessero sentire di troppo – c'era un monolocale annesso che garantiva una certa indipendenza — ma spesso finivo per passare la sera con le bambine e la baby-sitter. Non pretendevo certo di essere scarrozzato in giro. Qualche volta, tuttavia, mi veniva voglia di chiedere alla baby-sitter se ero pettinato in modo strano, conciato in maniera bizzarra o se cominciavo a parlare a vanvera - ma quella poveretta faceva una faccia già abbastanza preoccupata alla sola idea di stare rinchiusa con un uomo la cui capigliatura incanutiva pericolosamente.

Presi una torcia, una macchina fotografica e un hard disk portatile. Nient'altro. Attraversai la strada. Girai attorno ai giardinetti. All'angolo, un uomo si costruiva un riparo di cartone sotto una pensilina dell'autobus, col carrello parcheggiato davanti. Incrociai il suo sguardo, quindi m'infilai nel portone. L'androne era deserto. Dopo aver dato un'occhiata in giro, mi diressi alla scala di servizio. Salii.

Entrai in casa attraversando una specie di sgabuzzino pieno di scope, carrellini per la spesa e lucido da scarpe. Accesi la torcia e ispezionai il corridoio buio.

Non avevo alcuna intenzione di farmi sorprendere mentre perquisivo l'appartamento di mia figlia. Spinto da questa paura ridicola — la situazione imponeva di transigere a certi principi — andai a chiudere le tende.

Mi collegai al computer e cominciai a scaricare tutto. L'operazione mi risvegliò brutti ricordi, ma A.M. era convinta che la chiave del mistero si trovasse in quell'appartamento. Dovevo fidarmi del suo istinto, mi aveva ripetuto per due giorni. Faceva quel mestiere da trent'anni. Trent'anni in cui il suo istinto si era aguzzato fino a diventare una seconda vista, tanto da poter affermare che nel nostro caso la chiave dell'enigma stava in quell'attico e superattico, e io lo dovevo passare al setaccio. Ogni volta la interrogavo con lo sguardo, ma alla fine l'aveva sempre vinta lei, mi convinceva di avere davvero acquisito quel dono, quel fiuto, appannaggio esclusivo dei migliori detective.

Salii al piano di sopra e fotografai metodicamente ogni angolo delle camere da letto — secondo A.M., alcuni particolari importanti potevano sfuggirmi. Tuttavia, ispezionare l'armadio di Alice si rivelò un compito pesante, da mozzare il fiato, il suo odore era fortissimo e alcuni abiti, toccandone la stoffa, facevano riaffiorare ricordi precisi, luoghi dove eravamo stati insieme — tra l'altro notai che aveva conservato alcune cose della madre e della sorella, ma non gliele avevo mai viste indossare, almeno in mia presenza.

Regnava il silenzio più assoluto — grazie ai doppi vetri, nessun rumore arrivava dalla strada. Ero tesissimo. Un tempo ci sarebbe voluto ben altro per emozionarmi, ma la tragedia svoltasi sotto i miei occhi — e impressa per sempre nella mia memoria — mi aveva scosso, reso più fragile. Alcune foto particolarmente toccanti della nostra vita di prima — che Alice teneva in un cassetto del comodino — mi tremavano tra le mani.

Dovetti sedermi, il materasso del loro letto era morbido. Avevo i brividi all'idea che il destino, dopo avermi tolto metà della mia famiglia, volesse privarmene del tutto. Non c'era dunque limite all'umana sofferenza? Era extra-large? Carezzai il posto dove mia figlia poggiava le spalle. La nuca, così spesso in tensione. Fare l'attrice era un vero inferno. L'avevo sempre detto. Ma una ragazza ci perdeva la testa senza accorgersene — e avevo paura che Alice non fosse in grado di smettere. Un po' troppo coinvolta, secondo me. Ma ormai cosa importava? Non avrei fatto tanto il difficile se l'avessi ritrovata viva. Avrei baciato i piedi di Dio senza un attimo di esitazione.

Per un momento pensai di stendermi. Invece mi alzai e tornai dabbasso.

Rivoltai cuscini, aprii cassetti, ispezionai la libreria, rovistai nel cestino della carta straccia, guardai se c'era qualcosa nascosto sotto la scrivania o in qualche angolo oscuro, tastai sopra gli armadi, alzai i tappeti, fotografai ogni metro quadro con la precisione di un orologiaio svizzero e così via.

Non trovai niente. Nemmeno un barlume, in fondo al tunnel. In compenso speravo di aver raccolto abbastanza materiale da riportare ad A.M., per permetterle di scovare quanto mi era sfuggito anche se magari ce l'avevo davanti gli occhi – me lo auguravo davvero. Lavoravo con metodo. Mentre controllavo il frigo, ne approfittai per versarmi un bicchierone di succo d'arancia con polpa – intanto si faceva notte fonda, l'ora in cui ormai quasi tutti dormivano.

A un certo punto sentii un cigolio. Rimasi inchiodato. Spensi la torcia. Il cervello cominciò a lavorare a cento all'ora.

La porta del monolocale si aprì e una figura, come un'ombra cinese – al buio non riuscivo a distinguere altro – cominciò a scendere la rampa che portava in salotto. Mi accovacciai dietro una poltrona. Ero pentito di non essermi portato un'arma, anche solo un coltello. Oggigiorno ci voleva poco, per non dire niente, a imbattersi in qualche maniaco – per molto tempo mi avevano dato dello scrittore pessimista, ma non facevo che leggere i giornali, guardarmi intorno, ascoltare la radio, ed esageravo appena se dicevo che le occasioni di incappare in un serial killer non mancavano di certo, visto quanti ne brulicavano in giro.

L'ombra mi passò davanti. Mi tirai su di botto con il fiato corto.

– Alice? – balbettai.

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Pagina 92

Circa sei mesi dopo l'incidente, il primo dell'anno, con la prima neve, di buon mattino, avevo deciso di rimettermi al lavoro.

Avevamo traslocato e in quel momento godevo di una vista sul lago — strano e inquietante viatico per un inventore di storie.

A sera, non ero stato in grado di buttar giù neanche una riga. Alice aveva per sé una camera abbastanza grande dall'altra parte della casa e faceva un bel po' di casino, ma non era colpa sua se avevo dato prova di assoluta mancanza di concentrazione per dodici ore filate. Il giorno dopo, stessa storia.

Nel frattempo, a pochi metri da me, lei crollava sul letto o rotolava sulla moquette senza che mi accorgessi di niente.

Anche per me era difficile superare la perdita di Olga e Johanna. Non sapevo cosa dirle quando la vedevo fatta o ubriaca. Spesso scoppiavamo a piangere tutti e due — non era il miglior rimedio al nostro male.

A tutto ciò si aggiungeva adesso l'agghiacciante incapacità a concentrarmi sul lavoro più di un minuto, a scrivere più di poche righe, che quando calava la sera finivano immancabilmente nel cestino — e al mattino mi svegliavo esangue, debole come se avessi buttato giù diecimila parole in un colpo solo.

Non riuscire a scrivere mi scaraventava nel panico. Ogni giorno mi bloccavo all'improvviso, neanche mi avessero pugnalato, oppure mi mettevo su una sedia, non riuscivo più ad alzarmi e mi perdevo.

Quando per caso facevo qualcosa di simile a un pasto insieme ad Alice la mettevo a parte dei miei problemi, mentre lei collassava sulla sua tazza di cereali ai frutti rossi. Era un dialogo tra un cieco e una sorda.

A volte mi capitava addirittura di guardarla senza riconoscerla. Una mattina di febbraio eravamo in cucina, e osservandola vidi che nonostante portasse svariati maglioni aveva la pelle d'oca, il suo respiro si condensava in nuvolette bianche. Stupito, toccai i termosifoni, grossi termosifoni di ghisa. Erano freddi.

Il termometro di casa indicava meno due. Non riuscivo a crederci. Meno due. La stessa temperatura che all'esterno. E lei non diceva niente. Si lasciava morire di freddo.

Rimasi sgomento. Mi voltai verso il lavello. L'acqua calda era fredda. All'improvviso mi tornò in mente un temporale di tre giorni prima – mi ero appostato davanti alla finestra aperta, nella speranza che un fulmine mi colpisse e mi facesse resuscitare. Distolsi gli occhi da Alice e mi alzai.

I fusibili della caldaia erano saltati. Evidentemente Alice si lavava con acqua fredda da svariati giorni – seppure si lavava. Inorridii. Uno zombie. Mia figlia era diventata uno zombie.

Corsi in città a comprare i fusibili. Almeno mangiava? Dormiva? Preferivo non pensarci. Per non sbagliare avrei dovuto tenerla costantemente d'occhio, ma era impossibile. Prima la perdita di Johanna, adesso questo: non saper ricominciare, non sapere ricominciare a scrivere, come se non riuscissi più a tenere la penna in mano, come se avessi perso la forza di andare avanti. Mi rendevo conto fino a che punto ero mancato nel mio ruolo di padre, quanto fossi incapace di proteggerla – in quello stesso istante non stava forse in una casa ridotta a cella frigorifera, tremante, palesemente fatta e a stento in grado di reggersi i piedi?

Appena tornato, corsi a sostituire i fusibili e feci partire la caldaia. Il bruciatore si rimise in moto. Andai a bussare alla porta della sua stanza. Niente. Nessuna risposta. La casa era luminosa, schiarita da un cielo bianco, elettrico, ma la camera di Alice sembrava una caverna. Non avevo molte occasioni di entrarvi, però nei miei andirivieni alla ricerca dell'ispirazione o Dio sa cosa mi ci era cascato l'occhio, quindi non mi stupii quando aprendo la porta lì per lì non vidi niente a causa del buio.

Le persiane erano chiuse. I muri ricoperti da foto ritagliate da riviste – attori, cantanti, artisti e compagnia. Perfino il soffitto.

– Dov'è l'interruttore? – chiesi.

– Che c'è? – disse una voce. – Cosa vuoi?

– Sapere come stai – risposi. – Fatti vedere. La sai l'ultima? Non hai notato niente negli ultimi giorni?

Il suo ragazzo, Roger, grugnì dal divano su cui giaceva. Non l'avevo mai visto normale. E di rado in piedi. Fare il banchiere era l'unica qualità che gli riconoscevo – a parte il fatto di non trattare male Alice. Non riuscivo a scambiare con lui il più piccolo scampolo di frase. Quando ci incontravamo rallentavamo entrambi, abbozzavamo una sorta di danza immobile, ma senza fermarci veramente.

– Lui sta bene? – chiesi avvicinandomi al letto, dove mia figlia era raggomitolata sotto una quantità di coperte. Mi sembrava di sentirlo rantolare.

Fece una smorfia:

– Come fai?

– Come faccio cosa, Alice?

– A stare in camicia. Con questo freddo. Cosa vuoi dimostrare?

– Dài, lascia stare. Non fa niente. Chi se ne frega di come sono vestito. Ci sono cose molto più importanti. Posso sedermi?

Si tirò subito su, visibilmente contrariata. Anche se nessuno mi aveva dato il permesso, mi sedetti sul bordo del letto. Alice tremava.

— Non ci riesco più — dissi. — Cristo di Dio, Alice. Non riesco più a scrivere. Non chiedermi perché, non lo so. Ci ho messo un mese a scrivere tre pagine, ti rendi conto? Devo fare uno sforzo per non urlare, lo sai?

— Ma che dici?

— E non venirmi a raccontare che è come andare in bicicletta. Risparmiami queste cavolate. Sono così a terra da non poterne più, capito?

Sospirò.

— Allora? — insistei. — È come essere morti, no? Non è come se fossi morto, secondo te?

Allungò una mano febbrile verso il comodino, per prendere una sigaretta. Non solo tremava, le colava pure il naso.

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