Copertina
Autore Philippe Djian
Titolo Vendette
EdizioneVoland, Roma, 2011, Intrecci 80 , pag. 146, cop.fle., dim. 14,4x20,5x1,2 cm , Isbn 978-88-6243-101-9
OriginaleVengeances
EdizioneGallimard, Paris, 2011
TraduttoreDaniele Petruccioli
LettoreAngela Razzini, 2011
Classe narrativa francese
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Pagina 11

I più colpiti erano di sicuro i più giovani, quelli sui vent'anni. O giù di lì. Bastava guardarli.

L'avevo capito davvero durante una festicciola dai nostri vicini, pochi giorni prima di Natale. Quando Alexandre, mio figlio diciottenne, aveva lasciato di sasso poi terrorizzato gli astanti sparandosi a freddo una pallottola in testa. E crollando sul buffet.


Ero tornato a casa, avevo svegliato Élisabeth - l'avevo presa a scossoni, strappata ai suoi sonniferi.

- Guarda, Élisabeth! Guarda! - le avevo detto con un filo di voce, ancora tremante. - Guarda cosa è successo. Guardami il sangue sulle mani!

A sentir lei, mi ero messo a piangere come una fontana nell'attimo in cui avevo pronunciato quella frase. Senza riuscire a smettere per giorni.


Élisabeth aveva tentato di tutto per aiutarlo a venirne fuori, per consolarlo, riconfortarlo, ma lui non sentiva ragioni. Morto suo figlio, non faceva che bere - sbronzarsi al più presto, senza indugio, prima che il dolore si risvegliasse. Gli era sembrata una buona soluzione, un compromesso accettabile. Aveva sperato che Élisabeth si prendesse qualche settimana di vacanza, anzi qualche mese. Non aveva mai desiderato tanto una cosa, mai pregato tanto che la spedissero dall'altra parte del mondo per lavoro, in modo da poter restare solo. Ma lei aveva resistito, doveva riconoscerlo. Non lo aveva mollato.


I più colpiti, bisognava arrendersi all'evidenza, avevano al massimo una ventina d'anni. Due sedili oltre il suo, quando il treno era ripartito, era toccato a un'adolescente, una bionda che emetteva sonori rutti fin dalla stazione prima - ci pensò lei a dare la triste dimostrazione di quanto fossero proprio loro quelli più a terra, quelli ridotti peggio. Toccò a lei vomitarsi sulle scarpe di mattina presto. Valutare l'effetto con sguardo allucinato. Appestare tutto il vagone dell'odore di un vinaccio infame. Bella prova. Il minimo, quando si vuole tenere alta la bandiera. Impossibile dire quanto gli paresse atroce, avvilente per una ragazza - tra l'altro si era presa in pieno, aveva il davanti della gonna e una manica della giacca picchiettati di vomito. Vedendola storcere la bocca pensò di sentirla cacciare un urlo di rabbia, invece cadde su un fianco e scivolò in terra senza un suono.


Era mattina presto. A parte alcuni lavoratori antelucani in fondo al vagone, ancora mezzo morti di sonno e silenziosi, lo scompartimento era vuoto. La metropolitana passava sopra il fiume proprio mentre la ragazza si rotolava nei suoi filamenti lucidi seguendo una gran curva che si apriva a ovest verso i grattacieli - i cui ultimi piani brillavano al sole come carboni ardenti.


Non morivo dalla voglia di aiutarla. Per un attimo ho rivolto l'attenzione altrove. Mancavano pochi minuti alla mia fermata, per non intervenire mi sarebbe bastato distogliere lo sguardo durante quel breve lasso di tempo, mettermi a osservare i graffiti sul soffitto, o magari le norme in caso d'incidente. Qualcun altro avrebbe pensato a lei. Ce l'avevo a morte con la ragazza, mi faceva tornare in mente Alexandre - era passato per due coma etilici prima di mettere fine alla sua carriera, e adesso saltava fuori questa qui a ricordarmi fino a che punto erano fusi, quanto fossero profonde le radici del loro malessere. Quel ragazzo mi aveva devastato.


- Avrebbe devastato chiunque - gli aveva detto Michel, circa sei mesi dopo la morte di Alexandre, guardandolo dritto negli occhi e mettendogli una mano sulla spalla. - Hai passato un brutto quarto d'ora, caro mio, lo sappiamo benissimo. Sarebbe stato così per tutti. Marc, amico mio, sarebbe stato esattamente così per chiunque. Ci avrebbe distrutti.

Poi, dopo averlo fissato ancora un momento e abbracciato stretto, gli aveva fatto spegnere le quarantacinque candeline della torta e gli altri avevano applaudito. Tranne Élisabeth, che aveva già preso il largo.


E tuttavia Marc trascinò la ragazzina fuori dal vagone - stando attento a non sporcarsi i vestiti - e riuscì a metterla seduta su una panca di legno senza l'aiuto di nessuno, senza vedere emergere un'anima pia dallo sparuto gruppo dei mattinieri.

La esaminò per un istante, subodorando l'infernale miscela che si era somministrata ma senza provare alcuna compassione per lei. Prese una bottiglietta d'acqua da un distributore automatico e gliela tese. Nonostante gli occhi semiaperti, era impossibile valutarne il grado di coscienza. "Fuori" non era la parola. "Completamente fuori" era appena un po' meglio.

"Fusa" rendeva l'idea. Faceva piuttosto freddo.

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Per riuscirci, dovevo produrmi in due o tre tentativi, chiudere bene gli occhi e poi riaprirli fin quando non mi scattava l'illuminazione. Bisognava concentrarsi. Diceva sul serio oppure no? Fin dal liceo alle ragazze non piaceva andare con lui, lo trovavano freddo e crudele. Bastava che ci stessero insieme qualche minuto, sentirlo parlare anche solo per poco, e scappavano a gambe levate. Anne era stata la prima - e l'unica, finora - a sapergli prendere le misure, a scoprire cosa si nascondeva sotto la poco simpatica scorza, con quel sorriso inquietante e l'aria da cospiratore. È vero, era freddo e crudele, ma sapeva essere anche dolce e affettuoso, o riflessivo e tagliente. Politicamente molto a sinistra, molto impegnato, aggressivo: a vent'anni militavamo nello stesso gruppo, Anne e io eravamo i suoi sottoposti gerarchici, avevamo anche portato a termine qualche "missione" ai suoi ordini. Ma di tutto questo gli rimaneva appena il necessario per alimentare qualche discussione a fine serata tra amici, col tempo aveva smussato gli angoli, per il peso degli impegni, l'inerzia, il tradimento dei leader - e intanto i suoi capelli si diradavano come stoppie bruciate e l'ideologia vacillava sotto i colpi di un animo intento a scoprire i benefici dei divani in pelle di bufalo, i cosmetici Kanebo Sensai, le vacanze in Toscana, il cachemire tre fili e gli alberghi a cinque stelle. Soprattutto i cinque stelle. Con poca parlantina riuscivamo a ottenere sconti spaventosi, in modo da poter scialare a buon mercato e regalarci il meglio - tipo il Chateau Marmont a cento dollari a notte se si prenotava la camera per un mese, roba così. Regalato. E la quantità di coca che girava all'epoca. Come faceva un ragazzo padre a non esagerare? In quanti avevano saputo resistere, quante centinaia di migliaia di feste si davano da un capo all'altro della nazione? In quanti erano stati capaci di fare i genitori esemplari? Quante volte pure io mi ero ritrovato a ridere come un deficiente rialzando la testa con le narici bianche, o dopo aver scolato una bottiglia d'alcol, o essermi fatto una canna?

Mi piaceva da matti. Mi piaceva da matti drogarmi e ballare tutta la notte. Non che mi dispiacesse avere un figlio. Non mi aveva conquistato subito, pochi mesi dopo che era nato, appena aveva smesso di sembrare un mostro tutto smorfie e gorgoglii? Non avevo forse ringraziato Julia per quel dono inatteso - per quanto brontolassi all'idea dei soldi da spendere in baby-sitter se volevamo continuare a uscire al ritmo di cinque o sei volte a settimana?

Certo, cercavo di non mescolare alcol e droghe in una stessa sera, ma con scarsi risultati. Julia non mi dava certo il buon esempio. Si era messa in testa che aveva dedicato a nostro figlio un intero anno di vita e adesso toccava a me, potevo aspettarmi solo una cena fredda in frigo, niente di più.

A volte la cena in questione volava attraverso la stanza, quando mi vedevo sottratti quei momenti di distrazione, di abbandono - soprattutto pensando che Julia sarebbe tornata con le guance arrossate, gli occhi brillanti, le labbra tumide e un sospiro quasi estatico al ricordo. Avevo persino tracciato una mappa delle feste di cui mi aveva privato e di cui avevo poi sentito parlare per settimane. Sembrava una cartina del metrò disegnata da un ragazzino pazzo. Ci avevo colato sopra una resina e l'avevo esposta con un cartellino vagamente delirante. Era stato un trionfo, il telefono non la smetteva di squillare, una serie di gallerie avevano cominciato a farmi proposte inopinate, mettendosi subito a parlare di soldi. Parlare di soldi. Il mio lavoro li interessava molto meno delle percentuali che avrebbero potuto ricavare dalla sua commercializzazione. Nel mondo dell'arte girava a quel tempo un sacco di grana, tutti quei giovanotti della City, miliardari che giocavano in borsa e compravano opere d'arte al telefono, dopo una semplice occhiata a una brutta foto ricevuta via fax. Milioni di dollari. Milioni di sterline. Chiamavano dai loro yacht nel porto di Hong Kong senza nemmeno tentare di pronunciare il mio nome in modo corretto - però l'accredito arrivava senza intoppi, questo va detto.

- Ci conosciamo da tanto - se n'era uscito un giorno Michel. - Prendimi come agente. Mi occupo io dei contratti. Non sono affatto uno sprovveduto. Neanche un po'.

Non avevo dovuto rifletterci troppo:

- Geniale! - gli avevo risposto. - Facciamo il dieci per cento?

- Mmh. A essere sincero mi aspettavo di più.

- Prego?

- Vedila così: tu hai bisogno di uno come me. Qualcuno di cui fidarti. Qualcuno per gestire, organizzare, tenere gli occhi aperti, rivedere i conti. Io sono la scelta migliore da questo punto di vista. Ma il dieci per cento! Non voglio elemosina. Siamo seri. Venticinque. Prezzo da amico.

- Stai parlando di un quarto di quello che produco, un quarto del mio tempo. Un quarto della mia vita. Lo sai, sì? Sei completamente pazzo.

Eppure non aveva tutti i torti. Come avrei potuto occuparmi degli affari, dove avrei trovato il tempo? L'avevo guardato in silenzio per un po' - stavamo risalendo piano il corridoio di un supermercato per rifornirci di alcolici, roba cui eravamo ormai avvezzi non tanto per economia quanto per paura di restarne privi, per paura di trovare i negozi chiusi e non avere niente da bere la domenica pomeriggio - e poi avevo sparato il quindici, ultima offerta.

- Va bene - aveva detto lui. - Diciassette. Qua la mano.

Adesso, quasi venti anni dopo, non me ne ero ancora pentito. Non mi aveva deluso. Non era scappato con la cassa. Vendeva la mia roba a buon prezzo. Si era fatto carico del ruolo. Lo rispettavo per questo. Non mi sentivo migliore di lui. E potevo piombargli in casa a qualsiasi ora, e non sempre mi sbatteva la porta in faccia.

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Alla luce di quello che accadde dopo, mi resi conto di quato il cammino fosse disseminato di segnali, indizi che non avevo saputo - forse nemmeno voluto - decifrare. Ma quando il vago seme di un presentimento cominciò a sbocciare in me, ormai non c'era più tempo per eventuali contromisure.

Passò meno di una quindicina di giorni fra la sera in cui io e Michel eravamo rotolati insieme nel fossato e la terribile tragedia che si sarebbe svolta nelle vicinanze immediate. Quindici giorni! Poco e molto al contempo, direbbero alcuni.


Il giorno dopo il mio alterco con Michel - la nostra brillante impresa notturna era testimoniata da alcune ecchimosi - avevo appuntamento con un giovane pusher in una parte della città abbastanza malfamata, oltre il ponte, un luogo non propriamente per famiglie, ma i dintorni, con l'aiuto del sole, sembravano molto meno lugubri del solito. Quella mattina un uomo in divisa da pompiere era uscito dall'ingresso di una casa in fiamme con un bambino in braccio e il video veniva trasmesso a ripetizione su tutti gli schermi del paese, per cui la gente si sentiva piuttosto di buonumore, nonostante il brutto scherzo giocatole da banche e speculatori vari, e poi era ancora bel tempo, si affrontava la giornata con serenità e fiducia. Anche i lungofiume erano molto frequentati, battuti, sfruttati in mille modi, ma erano abbastanza ampi da conservare diversi angolini tranquilli, ombreggiati, rastrellati, con un bel prato che il comune curava in modo maniacale per favorire la propria immagine. L'acqua scintillava, il fiume canterellava come una sorgente. Camminavo riflettendo sul problema dei miei lavori che si deterioravano non appena venivano esposti in luoghi troppo caldi o troppo freddi. Ero in contatto con un pittore di Amburgo vittima dei miei stessi problemi, mi aveva mandato la ricetta di un composto di sua invenzione ma avevo qualche remora a manipolare prodotti infiammabili.

Strada facendo mi avvicinai a un gruppo di adolescenti un po' loschi, intenti a chiacchierare intorno a una panchina con aria da cospiratori, e in mezzo a loro riconobbi Gloria. Girai subito i tacchi.

Speravo che non mi avesse visto, non ci tenevo a spiegarle cosa combinavo in quei paraggi. Ma allo stesso tempo mi chiedevo cosa ci facesse lei.

Ritrovai il mio pusher più su, a due strade di distanza, gli spiegai cos'era successo ma lui si fece prendere da una mezza crisi isterica per questo piccolo incidente di percorso, cominciò a gridare, a imprecare, alcune persone si fermarono incuriosite e io pensavo alla quantità di roba che quell'imbecille doveva portarsi addosso, non riuscivo a credere che avesse deciso di imbastire una scenata proprio lì, in mezzo alla strada, a meno di essere completamente fuori.

Di conseguenza, lo piantai lì per lì. La personalità di un pusher è non meno importante della sua mercanzia e quel ragazzo non era proprio tagliato, mi pareva evidente.

Ne approfittai per tornare sui miei passi, stavolta con tutte le precauzioni del caso per evitare di farmi vedere da Gloria.

Il suo gruppetto emanava qualcosa di molto strano, che la mia fuga subitanea mi aveva impedito di approfondire: colpiva in loro una forte aria di famiglia, alcuni sembravano addirittura fratelli, anzi meglio, gemelli, Gloria compresa. Era un quadro piuttosto sconvolgente. Per qualche istante Gloria guardò fisso verso di me, ma io rimasi immobile e riuscii a non farmi notare. Nel frattempo gli altri portavano a termine una specie di conciliabolo nervoso e si voltarono verso di lei come a rimproverarla, infatti chinò la testa e annuì con un'espressione di ragazzina colta in fallo, di cui non la credevo capace. Cercò, per quanto riuscii a cogliere, di ribattere, ma i suoi accusatori ripresero il sopravvento e la misero a tacere.

Quando, abbastanza perplesso, decisi di riprendere la strada verso casa, venni raggiunto dal mio ex pusher il quale, profondendosi in scuse, mi chiese di giustificarlo sostenendo di trovarsi sotto l'effetto di una nuova sostanza.

- Non ci contare - risposi. - E levati di torno.

Tornai subito a casa e rovistai camera di Gloria, ma possedeva pochissima roba e non trovai nulla, non riuscii a raccogliere nessun indizio rilevante, se non il fatto, appunto, che non c'era nessun indizio rilevante da raccogliere.

Mi misi un attimo seduto sul suo letto. La foto di Alex, che mi aveva preso dopo avermi devastato casa, troneggiava ora sul comodino in una lucida cornice metallica da viaggio, ma evitavo di posarvi gli occhi.

Uscendo dalla sua camera mi accorsi che il pomeriggio volgeva alla sera e rinunciai a recarmi allo studio. Mi versai un bicchiere di vino e scesi a prendere del materiale nel seminterrato, volevo lavorare al bozzetto di un incarico affidatomi dalle Poste, rimasto in arretrato.

Quando Gloria tornò era già buio.

Le feci un cenno dal salotto e abbassai di nuovo lo sguardo sullo schermo del mio portatile, in cui avevo aperto in sequenza gli appunti sul progetto in questione - una prima traccia di bozzetto occupava già metà del tavolo, avevo deciso di usare solo bambù e servirmi in modo esclusivo di prodotti naturali, nei limiti del possibile.

Dopo aver passato le ultime ore a interrogarmi su quanto avevo visto avrei proprio voluto parlarne con lei, ma temevo di commettere una di quelle goffaggini in grado di marchiare per sempre un'esistenza, distorcerla e corroderla, avevo paura di metterla in fuga e spingerla di nuovo nel suo bozzolo, perdendo così ogni speranza. In fondo, poteva frequentare chi voleva, essere chi voleva, come voleva, non aveva nessuna importanza, in realtà, proprio nessuna importanza.

- Pensavo di cuocere due salsicce alla brace. Ti andrebbero? - le dissi.

- Salsicce alla brace? Fantastico, una roba leggerissima!

- Ho delle ali di pollo alla messicana, sennò.

- Va bene. Vada per il pollo. OK per me.

I barbecue notturni sono la cosa più bella del mondo - frammenti di un pianeta in rovina chiamato paradiso, che a volte cadono sulla terra e la illuminano del loro splendore. Basta una felpa un po' pesante con un bel cappuccio e il fresco della sera diventa anche gradevole. La luna brillava al centro di un alone ovattato.

- Ha lavorato tutto il giorno a questa roba? - chiese Gloria indicando il bozzetto. Sembrava piuttosto ubriaca. Aveva il volto lucido.

- Sì ma non ci sono molto portato. Non ne faccio quasi mai. La carne sfrigolava. Gloria andò in cucina a prendere due bicchieri di vino e tornò senza danno, cosa di cui la complimentai accennando, con la punta delle mie pinze da griglia, ai suoi tacchi altissimi.

- Dove li hai presi? - chiesi con un sorriso.

- Le piacciono? - replicò sullo stesso tono e alzò una gamba verso di me, con l'effetto automatico di tirare su la gonna già corta ed esibire l'inguine al mio sguardo.

- Molto - risposi, e mi girai di nuovo verso il barbecue.

- Oh scusi! Mi dispiace! Scusi! - disse come se avesse rovesciato per terra mezzo ettolitro di latte.

Per rassicurarla, mi sporsi verso il dondolo e le accarezzai una mano: - Tranquilla, Gloria. È già passato. Non preoccuparti, non è successo niente.

Tra l'altro era la pura verità. Avevo dimenticato tutto in un lampo. Ci avevo rovesciato sopra una tonnellata di sabbia e l'avevo pressata ben bene. Mangiammo dentro, Gloria aveva paura di prendere freddo. Sarà stata l'una e mezza del mattino, avevo appena messo un ciocco nel caminetto quando lei cominciò a ticchettare con il telecomando. Si fermò su un film porno.

- L'ho già visto - dissi dopo un paio di minuti. - Sbrighiamoci a finire di mangiare perché poi ci vanno molto sul pesante.

Rise e spense la TV.

- Cos'è, gliel'ha proibito il dottore?

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