Copertina
Autore Danilo Dolci
Titolo Una rivoluzione non violenta
EdizioneTerre di mezzo, Milano, 2007, collana e num. , pag. 158, cop.fle., dim. 12x19x1 cm , Isbn 978-88-89385-95-1
CuratoreGiuseppe Barone
LettoreRiccardo Terzi, 2008
Classe politica , storia sociale , poesia italiana , regioni: Sicilia
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Indice


BIOGRAFIA                                             5

Un mondo nuovo potrebbe crescere, diverso             7
Di Giuseppe Barone


PAROLE                                               55

Perché i sogni diventino progetti                    57
Un'intervista di Mao Valpiana a Danilo Dolci

Per una rivoluzione nonviolenta                      71

Dal trasmettere al comunicare                        79

Massa significa pasta                                86

Il sistema clientelare-mafioso                      106

Il metodo maieutico reciproco                       130

Il Centro per lo sviluppo creativo "Danilo Dolci"   154


 

 

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Pagina 10

Gli anni della formazione

Danilo Dolci nasce il 28 giugno 1924 a Sesana, una località del nostro estremo confine orientale, posta a quel tempo in provincia di Trieste, e oggi in territorio sloveno. La madre, Meli Kontelj, è di origini slave, il padre, Enrico, è ferroviere: il suo lavoro determina per la famiglia frequenti cambi di residenza. In Lombardia il giovane Danilo compie i primi studi, conseguendo il diploma presso un Istituto tecnico e poi la maturità artistica a Brera. È un ragazzo piuttosto introverso e incline alla meditazione, attratto dalla musica (i Lieder, le partiture per pianoforte dei grandi compositori dell'Ottocento e, più di tutto, Bach). Gli piace nuotare e talvolta marina la scuola per fare lunghe passeggiate nei boschi. Spesso si sveglia nel cuore della notte per dedicarsi alla sua passione più grande: i libri. In modo in parte casuale, comincia a costruirsi un percorso di letture che lo conduce a conoscere Tolstoj e Ibsen, Russell e Voltaire, Seneca e i filosofi presocratici, i Dialoghi di Platone e i poeti del Romanticismo tedesco, i classici del pensiero orientale e il teatro di Shakespeare.

Nel 1940 il padre è promosso capostazione e trasferito a Trappeto, un piccolo centro costiero del Golfo di Castellammare, posto esattamente a metà strada tra Palermo e Trapani. Qui Danilo, durante la chiusura delle scuole, trascorre alcuni brevi periodi di vacanza, facendo amicizia con i pescatori suoi coetanei e conoscendo le dure condizioni di vita di quelle terre. Questi soggiorni, che avrebbero potuto rappresentare solo delle brevi parentesi negli anni della formazione, gettano invece nel suo animo dei semi che germineranno in modo vigoroso una decina di anni più tardi.

Pur non avendo rapporti con esponenti dell'opposizione clandestina, Dolci matura presto un forte, ancorché generico, senso di avversione al fascismo. Nel tortonese, dove risiede con la famiglia durante la fase iniziale del conflitto, cominciano a tenerlo sotto controllo: è stato visto strappare manifesti propagandistici del regime. Nel 1943 rifiuta di vestire la divisa repubblichina e tenta di passare la linea del fronte, ma è arrestato a Genova: approfittando di un momento di distrazione dei carcerieri, riesce a fuggire riparando in un piccolo borgo dell'Appennino abruzzese, Poggio Cancelli, dove trova ospitalità presso una famiglia di pastori. Lì impara ad apprezzare la loro straordinaria capacità di rapportarsi con la natura e di vivere una dimensione autenticamente poetica.

Al termine della guerra - dopo un breve soggiorno nella capitale, durante il quale segue corsi universitari di architettura e le lezioni di Ernesto Buonaiuti - è di ritorno a Milano, dove prosegue gli studi al Politecnico e conosce, tra gli altri, Bruno Zevi. Le prime opere che pubblica sono due manuali di scienza delle costruzioni a uso degli studenti di architettura (Studio tecnico delle strutture isostatiche e Compendio della teoria del cemento armato). Per non gravare sulle modeste finanze familiari, insegna presso una scuola serale a Sesto San Giovanni: tra gli operai che siedono dietro i banchi c'è anche Franco Alasia, col quale inizia un importante e fecondo rapporto di amicizia e collaborazione. "Danilo invitò ciascuno di noi a esprimere opinioni, a tentare risposte", ricorda Alasia. "Propose di procedere 'a giro', dando la parola a ciascuno, perché tutti potessero esprimersi, non soltanto quei pochi che tendevano ad intervenire in continuazione. Partecipavo non del tutto consapevole a una delle prime esperienze educative in cui la maieutica socratica diventava 'sviluppo maieutico reciproco'. Ma forse Danilo stesso, giovanissimo, pur avendo avuto quella grande intuizione, non ne aveva piena consapevolezza. Doveva sperimentare anni e anni, per tutta la vita, con i pescatori di Trappeto, i braccianti e gli 'industriali' di Spine Sante a Partinico o nei bassi di Palermo e dei paesi dell'interno della Sicilia; con gruppi di giovani, di scolari e di studenti, nei licei, negli istituti tecnici e nelle università, dalla Sicilia alla Calabria, alla Sardegna fino alla Val d'Aosta, alla Svizzera, alla Svezia, negli Stati Uniti e altrove nel mondo (esiste un'ampia documentazione). Io allora, più di mezzo secolo fa, non sapevo il significato della parola maieutica, ma ne sperimentavo la qualità dell'approccio educativo sulla mia pelle."

Alla fine degli anni Quaranta è già conosciuto e apprezzato autore di versi: diverse riviste e volumi antologici ospitano i suoi componimenti e nel 1947 è nella rosa dei finalisti del Premio Libera Stampa di Lugano (organizzato dall'omonimo quotidiano ticinese), con Andrea Camilleri, Maria Corti, Pier Paolo Pasolini, David Maria Turoldo, Andrea Zanzotto.

Nel 1948 dà alle stampe un'antologia di massime commentate e divise per argomento, L'ascesa alla felicità. Si tratta di un testo giovanile, edito in modo spartano (il libro è poco più di un ciclostilato), pervaso da un profondo sentimento religioso, ma che già contiene in nuce alcuni dei temi che avranno poi largo sviluppo nel dipanarsi della sua vicenda: la ricerca di un equilibrio tra conoscenza scientifica ed espressione artistica e poetica, l'enfasi posta sul lavoro educativo, la valorizzazione della creatività individuale e di gruppo, il rifiuto di ogni netta cesura tra teoria e prassi, tra concreto operare e tensione utopica. Si colgono, inoltre, già con chiarezza le tensioni che determineranno le decisioni degli anni successivi: "Come puoi essere felice", si chiede Dolci, "se intorno a te i tuoi fratelli vengono consumati e travolti dalla fame e dalla miseria?". E la domanda potrebbe persino sembrarci retorica, se non conoscessimo già la sua personalissima, concretissima risposta.


Da Nomadelfia alla Sicilia

Nel 1950 Danilo Dolci compie una scelta fondamentale per tutto il suo percorso successivo: "Cominciavo a capire che un architetto avrebbe lavorato solo per i ricchi, per chi aveva i soldi, e non per chi non aveva né case né soldi; occorreva dunque fare un altro lavoro, prima dell'architettura e prima della cosiddetta urbanistica". A un passo dal completamento degli studi (aveva superato tutti gli esami e stava già lavorando alla tesi di laurea), abbandona l'Università e va a vivere a Nomadelfia, "la città dove la fraternità è legge": una comunità di accoglienza per bambini sbandati dalla guerra, sorta nell'ex campo di concentramento nazifascista di Fossoli (Modena) ad opera di don Zeno Saltini, apertamente osteggiata dai benpensanti e considerata un pericoloso covo di sovversivi dalla gretta classe dirigente di quel tempo e dalle stesse gerarchie cattoliche. Nel 1951 è ormai uno dei principali collaboratori di don Zeno e viene incaricato di coordinare i lavori per la fondazione di una nuova sede della comunità, sul colle Ceffarello, nei pressi di Grosseto.

"Per quattro mesi", scrive la giornalista Antonietta Massarotto, "nella nuova scuola di architettura dei Piccoli Apostoli studiò appassionatamente il grande progetto. Venivano interpellati gli uomini, i ragazzi, le donne. Il plastico urbanistico della futura borgata nacque così linea per linea, discussione per discussione, dalla comune collaborazione dei millecinquecento e più cittadini di Nomadelfia."

L'anno successivo, una decisione ancora più radicale: senza che si consumi alcuna rottura con don Zeno, Dolci avverte la necessità di abbandonare quella che ormai giudicava una sorta di "arca, pur se meravigliosa", separata dal resto del mondo, e decide di andare a vivere nel paese più povero, più bisognoso di soccorso che avesse mai visto: Trappeto.

Nasce il "Borgo di Dio": comincia a essere intessuta una delle vicende più limpide e significative della faticosa rinascita civile e democratica del nostro Paese dalle devastazioni, non solo materiali, del fascismo e del secondo conflitto mondiale, "continuazione della Resistenza, senza sparare". Bruno Zevi, qualche anno dopo, annota: "Evitiamo il pericolo di creare un mito di comodo, per liquidarlo. Basta dire: 'è un essere superiore, un apostolo, un eroe' per sottintendere: 'noi, con lui, non c'entriamo'. Si tratta invece di un architetto come noi, che ha optato per una via alternativa senza la quale l'architettura scade nel mestierantismo avaro, perde ogni forza di 'profezia', ogni ruolo di promozione civile, diviene un mezzo sconsolato per campare magari agiatamente, ma privi di felicità".

Le condizioni di vita sono davvero disperate: centinaia di braccianti e pescatori spesso non guadagnano abbastanza neppure per acquistare il pane, la mortalità infantile arriva quasi al dieci per cento, una fogna a cielo aperto (a pochi metri dalla quale i bambini giocano e trascorrono le loro giornate) attraversa la strada principale del paese, causando periodiche esplosioni di epidemie. Così Carlo Levi, ne Le parole sono pietre, descrive il suo arrivo a Trappeto e l'incontro con Dolci: "Scendemmo con lui al Vallone, per le strade miserabili e putride, rivedemmo, ancora una volta, come in tanti altri villaggi e paesi del Sud, la grigia faccia della miseria; gli uomini senza lavoro, 'disfiziati', senza volontà e desideri, le madri senza latte, i bambini denutriti e ridotti a scheletri. In via Silvio Pellico, una specie di burrone scosceso tra catapecchie cadenti, in faccia alla casa dove era stato nascosto, negli anni scorsi, un famoso bandito, vidi la stanza, simile, come le altre, a una tana senza luce, dove vive uno dei giovani attirati qui dall'esempio di Dolci, un musicista di Ginevra che fa il pescatore con i pescatori, su questo mare ridotto sterile e senza pesci dalla pirateria dei pescatori di frodo, tollerata benevolmente dalle autorità. Poco più su, un uomo ancora giovane, dal viso smunto, infreddolito dalla tubercolosi, cercava, avvolto in uno scialle di lana, di scaldarsi al sole. In quella totale destituzione gli occhi guardavano tuttavia Danilo con un lume di speranza, e una certa vaga speranza anche in se stessi mi pareva leggervi di riflesso".

Nell'ottobre del 1952 un bambino, Benedetto Barretta, muore, letteralmente, di fame. Non è la prima volta che accade un episodio del genere, ma in questa occasione Dolci decide che non è più possibile aspettare, o affidarsi, come era avvenuto sino a quel momento, alle sole attività di assistenza messe in piedi con le donazioni di alcuni amici più generosi: "Non si poteva più continuare a inseguire i moribondi, bisognava intervenire". Il 14 ottobre, sdraiato sul letto dove si era spento il piccolo Benedetto, Danilo Dolci dà inizio al suo primo digiuno. Alcuni pescatori suoi amici (Paolino Russo, Toni Alia e altri) si dichiarano pronti a prendere il suo posto, e a proseguire la protesta, qualora lui fosse morto. La stampa nazionale comincia a definirlo il "Gandhi italiano". Dolci precisa, tuttavia, che il suo gesto "non si era prodotto, come hanno pensato molti, in seguito a letture o a riflessioni mistiche".

E spiega: "Quando ho visto le condizioni disperate di questo bambino sono corso alla farmacia di Balestrate per cercare del latte da portargli, ma è stato inutile. È morto proprio davanti a me. Allora cominciai a digiunare. Non c'era un ragionamento preciso, non avevo letto Gandhi, sapevo solo che non potevo accettare che esistesse un paese senza fognature, senza strade. Anzi le fognature erano le strade stesse. Volevo manifestare istintivamente la mia solidarietà. Avevo la vaga intuizione, ma non la certezza, che nella zona le cose potessero cambiare. Mi ero messo d'accordo con dei pescatori e con degli agricoltori che se io fossi morto, sarebbero andati avanti loro. Molta gente veniva dove stavo io, piangeva e mi chiedeva perché lo facessi. [...] La gente sa cosa è la fame, soprattutto quei siciliani lo sapevano. Io non avevo ancora l'idea che quello potesse essere un lievito per muovere la gente. Avevo iniziato a digiunare perché avrei avuto schifo di me a continuare a mangiare tranquillo intanto che gli altri morivano. E invece in quell'occasione mi sono accorto della forza di questo mezzo, che poi ho valorizzato con una coscienza diversa. Imparai che, a certe condizioni, il digiuno poteva diventare una forza".

Sono trascorsi già alcuni giorni, e le condizioni di salute di Danilo Dolci cominciano a peggiorare, quando un emissario del presidente della Regione giunge da Palermo a garantire che saranno immediatamente avviati i primi lavori per migliorare le condizioni di vita degli abitanti di Trappeto: saranno costruite le fogne e una strada, arriverà l'acqua potabile. La protesta finalmente può essere interrotta. La situazione per gli abitanti del piccolo centro del Golfo di Castellammare comincia, lentamente ma in modo chiaro, a cambiare.

Tra i primi a cogliere appieno il valore di un gesto inusuale per il nostro Paese è Aldo Capitini, con il quale si stabilisce un dialogo fitto, intenso, duraturo: "Tra la povera gente che veniva - talvolta piangendo - in quella stanza con il pavimento di terra che rischiava di essere sommerso dal vicino torrente-fognatura, è arrivata la postina con una lettera, una lettera sola, da Perugia, da uno che non conoscevo. Nei mesi successivi ho voluto incontrarlo. Dopo di allora, finché ha vissuto, non c'è stata decisione di fondo nel nostro lavoro a Partinico e nella zona che non sia stata verificata anche con lui: come ci era possibile data la distanza, per lettera o attraverso incontri personali".

Nel dicembre del 1952, Dolci - che già nel corso della Seconda guerra mondiale aveva rifiutato di imbracciare le armi, anche mettendo a rischio la propria vita - prende apertamente posizione in favore dell'obiezione di coscienza, diffondendo un lungo appello e invitando tutti a sottoscriverlo: "Sento ora necessario dichiarare", leggiamo nel volantino, "che se sarò chiamato per uccidere o collaborare anche indirettamente alla guerra mi rifiuterò: non voglio essere assassino".

Oltre quarant'anni più tardi, a chi gli chiede un giudizio sul valore dell'obiezione di coscienza, risponde: "Io ho sempre sostenuto che l'obiezione di coscienza è importante, ma non è sufficiente. Preferisco parlare di obiezione/azione di coscienza. Perché obiettore sembra solo uno che dice di no, ma non basta dire solo di no. Ciò che è essenziale è produrre alternative. Certo la difesa del diritto all'obiezione di coscienza è importantissima (io sono stato vicepresidente di War Resisters' International per circa tre anni), ma sempre cercando di portare avanti un lavoro soprattutto preventivo. Questo è veramente importante. Perché il lavoro preventivo è un lavoro per la salute; il dire solo di no alla guerra è intervenire già nella malattia, nella nevrosi. Per diventare delle 'persone', non basta dire no, occorre proprio sapere dove dire di no e inventare un sì".

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Per una rivoluzione nonviolenta


Chi si spaventa quando sente dire
rivoluzione,
forse non ha capito.

Non è una sassata a una testa di sbirro,
sputare sul poveraccio
che indossa una divisa non sapendo
come mangiare;
non è incendiare il municipio
o le carte al catasto
per andare stupidi in galera
rinforzando il nemico di pretesti.


Il dominio è potere malato -
cresci soltanto quando ti maturi
corresponsabile:
la gente non è suolo ma semente.

Quando senza mirare ti agiti
la rivoluzione viene a mancare;
se raggiungi potere e la natura
dei rapporti rimane come prima,
viene tradita.

È conquistata ad ogni istante quando
creature si organizzano
estinguendo ogni zecca.

Da "Se gli occhi fioriscono", Bologna, Martina, 1997, p. 29


Una complessa strategia

Non è difficile trovare architetti disposti a costruire case per chi ha soldi, economisti pronti ad aumentare il danaro dei ricchi, sociologi disponibili a collaborare con chi sfrutta affinché lo sfruttamento avvenga con meno difficoltà, strateghi o diplomatici disponibili a far propria la causa dei forti. D'altra parte non è difficile trovare candide persone che credono si possa cambiare gli ingiusti privilegiati e gli sfruttatori prepotenti con le prediche. Si incontrano a un estremo esperti di aumento di produzione e reddito, impegnati a realizzare sviluppo in particolari settori, il cui scopo è conseguire il massimo guadagno con il minimo sforzo: perlopiù presentati come scienziati o tecnici, spesso non sono che quadri più o meno abili dello sfruttamento, o alleati che facilitano loro il compito realizzando reti di opportuni servizi. Dall'altro estremo è facile incontrare sognatori impotenti, sfocati, o evasivi, con premura di trovare panacee universali; o educatori impegnati in un lavoro di sviluppo personale o settoriale che prescinde, o quasi, dalla necessaria trasformazione delle condizioni ambientali globali.

Alla solidità chiusa dei primi corrisponde la genericità effimera o l'insufficenza dei secondi.

A livello locale, nazionale e internazionale, in un contesto transnazionale - i problemi trapassano ormai in ogni modo frontiera -, occorrono nuovi esperti capaci di promuovere e operare dalle singole situazioni, allargandosi via via con le popolazioni potenzialmente interessate, esatte diagnosi e necessari interventi: capaci di lavoro di gruppo, attenti all'intrecciato insieme dei problemi, sensibili sia agli aspetti quantitativi, sia alla qualità dello sviluppo, cioè veri esperti di valorizzazione. E soprattutto, a evitare inutili e dannosi conflitti, capaci di intuire quando e come sia possibile operare prima che le situazioni si deteriorino, si sfascino.

Intervenire, a livello locale come a livello internazionale, quando le situazioni sono già gravemente compromesse e i rapporti sono ormai corrotti o addirittura saltati, è naturalmente più difficile. Non pochi d'altronde desiderano prepararsi per dare un senso profondo alla propria vita e operare con competenza efficace alla realizzazione di una vita nuova, di tutti, con nuove prospettive.

La costruzione di una nuova società che viva in modo pacifico, ovviamente non può significare l'assenza di conflitto o lo status quo. Quando si mira a una società pacifica, penso, si mira ad una società nonviolenta, cioè a una società che strutturalmente tenda a eliminare quelle violenze dirette o indirette (come la guerra, il razzismo, lo sfruttamento) che impediscono lo sviluppo; e nel contempo a una società in cui, chi risulti in qualsiasi modo impedito, tenda a impegnarsi - nei conflitti che stima necessari - in modo nonviolento.

La complessa strategia per operare trasformazioni nonviolente richiede capacità specifiche, ad esempio:

1) Saper promuovere "coscientizzazione" nelle popolazioni interessate, precisa autoanalisi popolare, scoprendo zona per zona le tecniche più adatte.

Occorre che ciascuno sappia riconoscere i problemi essenziali: ciascuno, ad esempio, dovrebbe avere esattissima coscienza di come nel suo ambiente si forma, e viene esercitato, il potere. Ogni zona, ogni problema, richiede uno studio a sé, approfondito, per sapere ad esempio come impostare la ricerca dei dati essenziali, la proposta di nuovo sviluppo, la discussione popolare di queste proposte, le possibili azioni costruttive, le più opportune pressioni.

2) Saper promuovere tra chi è debole perché solo, isolato, la sua partecipazione ai diversi gruppi (locali e non) in cui, integrato, possa valorizzarsi sulla base dei suoi più profondi interessi; mirare alle più vaste dimensioni, agli obiettivi più complessi, sapendo come occorre iniziare trovando i punti più saldi su cui far leva.

3) Saper promuovere e interrelare nuovi gruppi aperti, democratici, valorizzatori di ciascun membro, e all'esterno.

4) Saper riconoscere e sviluppare i più profondi valori, e le persone che li incarnano, ove sono, spesso silenziosi e nascosti: riuscendo a sostituire al modello violento imposto i modelli ideali nonviolenti.

5) Saper promuovere assunzione di responsabilità nelle popolazioni per una precisa azione di denuncia dei fatti e dei fenomeni relativi alle strutture violente, anche facendo leva sulle "carte" e le leggi, internazionali o nazionali, già esistenti.

6) Saper ogni volta inventare le più efficaci forme di pressione nonviolenta: attente a elevare il livello dei conflitti da parte di chi li muove (tendendo a elevarli anche negli avversari violenti, se non si vogliono scoprire all'opinione pubblica per quello che sono).

7) Saper promuovere nuovi gruppi di gruppi.

8) Saper promuovere zona per zona, con metodi che variano secondo il grado di maturità acquisita dalle popolazioni, una pianificazione democratica, organica, col massimo di partecipazione creativa da parte di ciascuno, individuo o gruppo.

9) Saper operare con la necessaria dialettica tra azione maieutica all'intorno, e assunzione personale di responsabilità.

10) Saper contribuire a promuovere o consolidare la formazione di necessari centri di coordinazione mondiale - non necessariamente di potere - e la coordinazione tra loro stessi.


Non è possibile prevedere se gli uomini sceglieranno di sopravvivere o di suicidarsi: ma se sceglieranno la vita - per paura se non per amore - questa scelta significherà l'invenzione sempre più scientificamente organica dell'azione e della rivoluzione (cioè anche di una cultura e di una morale) nonviolenta.

A chi obietta che finora nella storia non sono stati possibili cambiamenti strutturali con metodi nonviolenti, che non sono esistite rivoluzioni nonviolente, occorre rispondere con nuove sperimentazioni per cui sia evidente che quanto ancora non è esistito in modo compiuto, può esistere. Occorre promuovere una nuova storia.


Da "Non sentite l'odore del fumo?", Bari, Laterza, 1971, pp. 87-90

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Pagina 75

Per una rivoluzione nonviolenta

Molto spesso, nelle più diverse parti del mondo, non si sa che lo sviluppo è possibile, non si sa esattamente come è possibile: e le situazioni all'estremo o permangono statiche, come in molte delle zone chiamate sottosviluppate - o, se migliorano in qualche modo, non sono autopropulsive -; o hanno una dinamica coi paraocchi, come avviene perlopiù nelle zone a intensa industrializzazione, concependo quasi come fatale un particolare tipo di sviluppo. In un caso o nell'altro manca perlopiù alle popolazioni interessate la conoscenza esatta dei loro problemi e la visione delle possibili alternative. Le popolazioni soffrono i loro problemi e, in quanto questi rimangono irrisolti, crescono condizioni insane, grumose, talvolta mostruose: e ci si dibatte, spesso ciecamente, o d'istinto a tentoni, talvolta ci si scatena frenetici quando la sensazione del male è tanto acuta da generare panico, incapaci di trovare con la necessaria serena concentrazione gli spiragli delle soluzioni. Tutto questo ci è più chiaro quando vediamo una vespa o un uccello sbattersi disperatamente contro la rigidità dei vetri pur quando la possibilità di uscirne dovrebbe essere evidente: molto meno chiaro quando noi ci sentiamo prigionieri e come incapaci di riconquistare il nostro libero movimento, il giusto ritmo del nostro respiro.

Pensare che il mancato cambiamento sociale sia sempre e solo imputabile alla incapacità di sviluppo delle persone, categorie, classi, popolazioni più sofferenti, è ovviamente falso: le stesse persone, o categorie, classi, popolazioni, quando siano eliminati i fondamentali impedimenti che li costringono come dal di sopra, hanno più facili possibilità di sviluppo. Pensare d'altronde che il mancato cambiamento sia sempre e solo imputabile a persone conservatrici, o categorie, classi, popolazioni, ed ai più o meno complicati intrighi messi da loro in atto, è altrettanto falso: e diminuisce il necessario senso di responsabilità, tende a eliminare la necessaria analisi di quegli impedimenti allo sviluppo che pur possono essere presenti in chi è oppresso. In molte situazioni infatti la grande maggioranza delle persone è malcontenta, ma non riesce a trasformare il proprio malcontento in una nuova forza propulsiva, capace di vincere gli impedimenti esterni al proprio sviluppo.

Se per cambiamento sociale intendiamo quella modifica delle condizioni umane per cui ciascuno, individuo o gruppo, abbia maggiore possibilità di realizzare la propria personalità - dunque maggiori possibilità economiche, ambientali, giuridiche, culturali, morali - è comunque ovvio che molto spesso l'impedimento fondamentale è costituito da una resistenza al cambiamento operata, consapevolmente o ciecamente, dagli interessati - individui o gruppi - a che il cambiamento non avvenga: resistenza che molto spesso si esercita attraverso strumenti e metodi violenti.

Operare per un cambiamento sociale pacifico significa impegnarsi soprattutto affinché i più direttamente interessati al cambiamento riescano a organizzarsi per diagnosticare quali esattamente siano, caso per caso, gli impedimenti allo sviluppo, e stabilire i propri obiettivi, globali e intermedi; per inventare quelle strategie e quei metodi che possano permettere di impostare esattamente i necessari conflitti e la loro soluzione; per riuscire a uscire dal pragmatismo qualunquista attraverso un'azione costruttiva ben finalizzata. Non ignorando che viviamo in un'epoca di transizione in cui l'umanità sempre più facilmente può ottenere, attraverso la tecnica, gli strumenti della propria distruzione o del proprio sviluppo.

Quando si dice giustizia, si intende solitamente riferirsi a due significati diversi: corrispondere alle più profonde necessità, al più profondo interesse di ciascuno, persona o gruppo, con senso di responsabilità; o il complesso delle leggi e degli strumenti che dovrebbero rappresentare il minimo proposto dai diversi governi. Si tende a istituzionalizzare le più profonde intuizioni morali: il secondo significato rincorre, sia pure talvolta contraddittoriamente, il primo. La giustizia come la pace, non viene mai sufficientemente realizzata. La disperazione uccide: niente uccide quanto la disperazione.

La nuova intuizione morale identifica ingiustizia e violenza: l'impedire, direttamente o indirettamente, lo sviluppo delle persone, dei gruppi, delle collettività. In quanto il mondo per gran parte è inaccettabile, la nuova morale, necessaria agli uomini se vogliono sopravvivere, identifica la giustizia col cambiamento sociale e, dove l'ingiustizia è più grave, con la rivoluzione nonviolenta: cioè con un cambiamento che al contempo sia strutturale, profondo, rapido, educativo per ciascuno, per cui ciascuno possa assumersi responsabilità e effettivo potere. Identifica la giustizia con una nuova pianificazione operata creativamente da ciascuno, individuo e gruppo, che sia l'effettivo superamento degli attuali tentativi di "razionalizzazione del sistema". Identica la giustizia con il fare esplodere, dove necessario, le inaccettabili contraddizioni.


Da "Non sentire l'odore del fumo", Bari, Laterza, 1971, pp.93-96

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Pagina 106

Il sistema clientelare-mafioso


Esistono contrade
ove si commercia una femmina
soldi alla mano, o buoi;

zoppica taluno
perché agli schiavi che tentano liberarsi
è segato un tendine;

si mozza la lingua a chi parla troppo,
si tronca al rivale il genitale
col falcetto per porgerlo monile
prestigioso all'amata;

all'albero si impicca chi è sorpreso
a delinquere (basta uno strappo
e il collo inturgidisce violaceo);

in piazza la gente crocefissa
perché diversa,
sotto gli avidi voli degli avvoltoi
per giorni e giorni si dissangua.

Nelle contrade ove
solo le foglie pendono dagli alberi,
le amate sono ornate con asettiche
palline di vetro o perle, col Sidol
i crocefissi sono lucidati -

si contratta la gente con pudore
viene ossequiato chi sa derubare
senza sfilare agli altri il portafoglio,
chi è diverso si acqueta nella droga
(con urbane maniere:
si drogano o li drogano in privato),

ridacchiando dei barbari
                        si elegge
il più furbo a mentire,
                        Presidente.

Da "Poema umano", Torino, Einaudi, 1974, pp. 202-203


Criminalità privata e criminalità di Stato

L'angosciosa crisi del nostro tempo non deriva per gran parte dallo smarrimento di chi appura insufficienti le antiche norme di comportamento, mentre ancora gli mancano gli strumenti metodologici per concretare le nuove?

Se uno arriva a una scelta inusuale, perché no? Se responsabilmente consapevole. Ma sovente uno non sceglie, si appoggia a consuetudini che gli impongono già da piccolo, quando non sa, diventa adulto senza domandarsi il perché di quelle consuetudini non sue: condannare o lapidare gli altri, in questi casi, è rifiutare a priori la vita civile.

L'angoscia non arriva dalla solitudine dello smarrirsi nei labirinti ciechi dei vecchi Castelli e dei moderni Palazzi dei Processi sbagliati in quanto agiscono sugli effetti invece che sulle cause?

Non si è disintegrata un'armonia.

I tentativi di restaurazione dispotica nel mondo ora perlopiù avvengono ipocritamente: dietro lo scudo degli abusati simboli cristiani, o islamici, o chissà quali altri, si tacciono o manipolano essenziali informazioni, si camuffa l'inoculare affermando che sia comunicare, e così via.

La protesta esasperata si amplifica e diffonde. Ove la protesta diviene dominante senza al contempo saper avviare alternative valide, si accelera lo sfascio.

La grande svolta, lentamente si evidenzia, può avvenire nel rifiutare l'opinione che l'uomo "ha bisogno di un padrone"; nel respingere l'opinione che l'uomo è "come un legno storto" da cui "non può uscire nulla di interamente diritto"; nel rigettare il pregiudizio che il dominio sugli uomini è necessario, col relativo rapporto fra comando-comandamento e obbedienza-sudditanza. La grande svolta può avvenire elaborando un'etica la quale affermi necessario che ognuno impari a comunicare, impari a crescere creativo, mentre apprende a coorganizzarsi: un'etica che consideri crimine il dominio, l'assuefare "le masse al dominio", l'esaltazione della "volontà di dominio" - del Superuomo o dello Stato, sul branco -, mentre l'alternativa cresce dall'apprendere la creatività comunicante nelle strutture valorizzatrici.

La gente ha cominciato a non credere più al padrone, al dominio, alle verità imposte? Ma ancora non sa esercitare la coorganizzazione maieutica, non sa ancora uscire dalle proprie nicchie a organizzarsi in fronti atti a risolvere i propri profondi interessi. È arduo inventare soluzioni inedite alle più ampie scale, alla ormai necessaria misura planetaria, valorizzando da ogni parte l'insieme. Più che la tolleranza interculturale, la ricerca maieutica in comune tra gente diversa aiuta alla verifica-composizione di scelte pur etiche.

Se un bambino viene addestrato dai genitori a rubare nelle tasche e nelle case degli altri, crescendo in un contesto simile (come in certi quartieri di Palermo) è presumibile che cercherà di imparare credendo di far bene.

In occasione della recente Marcia per la pace, contro la mafia a Reggio Calabria, ho pensato opportuno a metà del percorso andare in macchina con un amico ad Archi (paese dove si spara di frequente, meta della marcia) per cercare di ascoltare i ragazzi nella piazza cosa pensavano. Sostanzialmente dicevano: "Arrivano i provocatori".

Un mio amico che insegna in una scuola elementare lì vicino, mi racconta: "Durante l'intervallo per la colazione, in un gruppetto impegnato in una discussione animata, Z. F. di anni 8 si accalora: '... è uno che non meritava nessuna pietà!... lo avete visto tutti come era grasso e ben pasciuto quando è tornato a casa.... lo hanno trattato come un principino e lui che cosa fa per tutta riconoscenza? Si mette a fare la spia, il bastardo!... Avrebbero fatto meglio ad ammazzarlo: stavano tutti più tranquilli e lui imparava a farsi i fatti suoi'. Parlano di Cesare Casella e del sopralluogo effettuato con lui in quei giorni nelle zone del sequestro. Nessuna meraviglia. È molto difficile riuscire a pensare diversamente da quanto un certo tipo di istituzione ci inculca.


Ancora lo Stato italiano insiste a sparare (quando è costretto dal clamore di certi fatti), come avviene soprattutto in Calabria, contro gente che, nella grandissima maggioranza, se avesse vero lavoro e una diversa educazione, preferirebbe non avere a che fare con armi e sequestri. Mentre l'articolo 4 della Costituzione assicura: "La repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto".

Di fatto, in certi luoghi la disoccupazione degli adulti arriva al 35 per cento, quella giovanile al 51 per cento: sono dati dichiarati ufficialmente. Che lo Stato uccida la gente disperata è particolarmente criminale.

Il caso della maestra che tappa la bocca ai piccoli con lo scotch, e li lega alla sedia, è un misero caso di criminalità privata: da una persona, probabilmente malata, i ragazzini vengono impediti nello sviluppo della propria creatività. Ma se le scuole pubbliche pretendono sistematicamente di inquadrare aggiogando milioni, miliardi di creature, questa risulta criminalità di Stato, usurpazione del diritto e del potere personale e collettivo.

Quale educare è mai persuadere o dissuadere? L'ammaestrare, come si fa con scimmie e pappagalli in gabbia, non è esercizio del potere, reciproca influenza del comunicare in cui ognuno cresce, ma tipico dominio che implica la non-libertà degli altri.

La violenza può apparire "il mezzo più risolutivo" sul momento, ma tale non risulta in prospettiva. I valori si possono mai inculcare? Attraverso "i valori che si inculcano" si può mai "compiere un processo di socializzazione"? Che tipo di sapiente è mai "chi inculca l'inferiore"?


Dal primo Novecento, come è noto, si diffonde l'esigenza del suffragio universale - ognuno, uomo o donna, partecipi a votare -; i conflitti operai reclamano via via una più equa distribuzione del reddito e una maggiore sicurezza sociale per i più deboli mentre, soprattutto quando avvampano guerre, lo Stato si impone come industria militare, apparato tecnologico-poliziesco.

La ricchezza di alcune famiglie può non significare affatto il benessere di tutti i governati. Lo Stato moderno, pur se si ammanta di democrazia, sovente sta diventando una macchina burocratica in cui "il governo" dipende di fatto, direttamente o indirettamente, dal grande capitale, dai maggiori padroni che influenzano - con peso occulto e attraverso i media - le decisioni fondamentali: quando le esigenze sociali non vengano affermate e difese da organismi popolari, ove la gente coraggiosamente si sveglia.


La "ragione di Stato" non esprime potere razionale, ma le patologiche convinzioni dei dominatori, esprime volontà di dominio. Lo Stato pretende di incrementare il proprio dominio "a scapito di ogni altra finalità". Su questa scia si potrà incontrare, non ironico, un libro intitolato Le Ragioni della mafia.

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