Copertina
Autore Lizzie Doron
Titolo Perché non sei venuta prima della guerra?
EdizioneGiuntina, Firenze, 2008, Israeliana , pag. 142, cop.fle., dim. 13,2x21x1 cm , Isbn 978-88-8057-300-5
OriginaleLamah lo bat lifne hamilchamah
EdizioneChalonot, Tel Aviv, 1998
TraduttoreShulim Vogelmann
LettoreAngela Razzini, 2008
Classe narrativa israeliana
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Indice


Prologo                                          9
Kiryat Haim                                     11
Chicchirichì                                    17
Caffè, biscottini e un bicchier d'acqua         23
Kol Nidré                                       31
I pacchi di Haim                                35
Una passante                                    41
Uno è il nostro Dio                             49
Libertà                                         55
Selezione                                       61
«To ja»                                         65
Un foglietto                                    71
Come pecore al macello                          79
Purimshpil                                      85
Chi ha più dignità?                             89
Porcellana e cristallo                          95
Radici                                         101
Lo zio Oded                                    107
Cortocircuito                                  113
Non sono sola                                  119
Scarpe da ginnastica, calze militari e
    un bastone da passeggio                    125
L'arca santa                                   131
Epilogo                                        137


 

 

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Pagina 11

Kiryat Haim



Maggio 1960.

Un giorno, appena tornata da scuola, trovai Helena che mi aspettava impaziente sulla soglia di casa.

«Vieni, si va a Kiryat Haim! Forse abbiamo famiglia là» mi disse con emozione.

«Solo una volta, una volta sola non ho fatto in tempo a sentire la radio» borbottò tra sé. «Fortuna che almeno Djusia era in ascolto e si è appuntata tutto quanto, e qui ci sono i dati», e ha indicato un foglietto che prima era il conto della mesticheria e ora era l'indirizzo che stringeva in mano. «Si va» sentenziò.

Un attimo, e sulle mie spalle era già appeso uno zaino con dentro un panino e un frutto. Helena prese la borsa con dentro documenti e soldi, si guardò un momento allo specchio e si pettinò con rapidi colpi di spazzola. Ci mettemmo in viaggio.

Da casa alla fermata dell'autobus, dall'autobus alla stazione; dalla stazione al pullman per Haifa, e da Haita in autobus a Kiryat Haim.

Per tutta la strada, silenzio.

«Kiryat Haim ovest» gridò l'autista.

Helena mi tirò per la mano. Raggiunse l'autista e gli mostrò il biglietto con la via e il numero civico. Lui fece un cenno col braccio: «Ecco, là, la prima casa all'angolo».

«È come se fossimo nel nostro quartiere» Helena ruppe il suo silenzio, e non sembrava a suo agio.

«Ho bisogno di altre notizie, non posso bussare alla porta in questo modo, devo sapere chi l'aprirà» disse forse a se stessa, forse in modo che la sentissi. E dopo queste parole cambiò direzione, entrò in un vicolo oltre la casa d'angolo, e là, con sua grande gioia, trovò un negozio di alimentari.

Comprò una tavoletta di cioccolata e al pizzicagnolo che si stava mangiando delle sardine dentro due grosse fette di pane chiese: «Mi scusi, forse lei conosce i miei parenti, la famiglia Mitzmacher?».

L'uomo si pulì i baffi con il grembiule blu che gli copriva la grossa pancia, come se quella fosse una tavola e il grembiule la sua tovaglia piena delle macchie unte di una cena sontuosa.

«Sì,» rispose «abitano più avanti», e inghiottì i resti del pane.

«È una brava persona, compra a credito» aggiunse generosamente.

«E paga?» lo interruppe Helena preoccupata.

«Sì, paga. Ma prima che...» rispose e scoppiò a ridere.

Helena impallidì: «Be', un po' come tutti» difese quel nostro — forse — nuovo parente. «Mi faccia un piacere,» continuò «mi rammenta come si chiama sua moglie, e i bambini? Sono tanti anni che non li vedo» , e scusandosi concluse: «Non mi ricordo tanto bene i nomi e i dettagli».

«La moglie si chiama Bella, e i bambini...» alzò gli occhi al cielo, e dopo averci pensato li riportò giù: «C'è solo un bambino, ha sette anni, forse otto. Io lo chiamo tesoro».

«Bene, grazie,» disse «la cioccolata è per lui». Pagò e uscì. In una mano teneva la mia mano e nell'altra una tavoletta di cioccolata per tesoro.

Appena fuori dal negozio, senza esitazione alcuna, si rivolse ai passanti di Kiryat Haim: «Dov'è la scuola del quartiere?». E quando arrivammo alla scuola domandò: «Dov'è la segretaria?».

E alla segretaria disse: «Buongiorno e mi scusi, io sono Helena. Forse verremo ad abitare nel quartiere, ed Elizabeth, è lei,» indicò nella mia direzione «studierà qui e del posto non conosce nessuno. Io conosco soltanto la famiglia Mitzmacher – il loro figlio studia qui?» domandò. E prima ancora di avere una risposta chiese di potersi sedere e riposarsi un attimo.

«Sì» rispose la segretaria.

«Lui, mi scusi,» aggiunse Helena «sarà di buon esempio? Mi capisca, Elizabeth è figlia unica».

«Oh, ma certo,» ribatté la segretaria «è un bambino diligente, un bambino eccezionale».

«Grazie molte» disse Helena sollevata. E se ne andò.

Prima di bussare alla porta di quella che sarebbe dovuta essere la nostra famiglia, Helena effettuò un ultimo controllo dai vicini del primo piano.

«Sono venuta da Tel Aviv, siamo parenti,» disse alla donna che aveva aperto la porta «ma ora non c'è nessuno. Mi potrebbe dire, per piacere, dove lavora lui? Lo andremo a trovare al lavoro».

La donna piccola e magra rispose: «In comune».

«Cos'è, un impiegato?» si lasciò scappare Helena stupefatta.

«Non lo so quale sia di preciso il suo lavoro» ribatté la donna.

Dopo che uscimmo. Helena disse con voce delusa: «È un brutto segno, nella nostra famiglia non ci sono impiegati», e la mano che teneva la mia tremava.

Ci rivolgemmo finalmente all'appartamento designato. Sulla porta c'era una targhetta di legno: «Bella e Marek Mitzmacher».

Dopo aver bussato una sola volta la porta si aprì. Una donna con una grossa pancia, che non era chiaro se fosse incinta o avesse mangiato troppo, stava sulla soglia. Con un sorriso generoso ci invitò a entrare. Dopo aver capito di cosa si trattava, chiese alla vicina di andare a chiamare suo marito al lavoro.

«Forse, finalmente,» disse «anche noi avremo una famiglia».

Quando lui arrivò e ci salutò in un ebraico condito con una cadenza ungherese fu subito chiaro che non eravamo parenti. Ma nonostante la delusione ci servirono un uovo al tegamino con delle olive nere, un cetriolo sotto aceto e una fetta di pane. Consumammo il pasto e ricevemmo anche un consiglio: ci saremmo dovuti recare — così ci dissero — in un paese vicino a Haifa, là c'era un uomo con lo stesso cognome, e visto che eravamo già in zona perché non tentare?

Helena si rianimò di speranza. Nel tardo pomeriggio ci separammo con profusione di ringraziamenti e proseguimmo per il paese vicino a Haifa che si trovava a mezz'ora di distanza.

All'entrata del paese Helena chiese di Marek. Un uomo con una camicia blu, pantaloni corti, stivali alti e che puzzava di vacca disse: «Sono io».

Helena si presentò.

«Mi sembra di ricordare qualcosa» rispose in un ebraico corretto e con gli occhi socchiusi, coperti da folte ciglia. Ma cosa mi ricordo ormai?» si chiese. «La Polonia l'ho lasciata da bambino, i miei genitori non hanno più avuto contatti con me».

Ci sedemmo su una panchina e lui chiese: «Perché la tua bambina è così pallida e magra? Cosa sono questi vestiti diasporici? E perché, dimmi, perché non sei venuta prima della guerra?».

Helena non rispose alle domande. Marek proseguì a raccontare con soddisfazione che era sempre stato sionista, e che ammirava se stesso per aver avuto a un'età così giovane il coraggio di ribellarsi ai propri genitori salvandosi così la vita. Helena continuava a pronunciare i nomi di quelli che se n'erano andati, e chiedeva con dolore, quasi in lacrime: «Forse ne hai sentito parlare? Forse li conosci?».

E lui con la sua storia: «Sono partito molto giovane, non rammento e non conosco nessuno. Era evidente che voleva porre fine alla conversazione e proseguire con le sue faccende. Dopo che si era già incamminato, si girò e con orgoglio disse che il suo nome in Israele era Meir Sabre, e Marek era rimasto soltanto come nomignolo.

«Finalmente abbiamo trovato qualcosa in comune» disse Helena. «Sulla mia carta d'identità hanno scritto che il mio nome in Israele è Haia, e il nome Helena,» fece un lungo sorriso «ora capisco che posso utilizzarlo come nomignolo».

Dopo esserci salutati di nuovo, Helena afferrò la mia mano e disse, forse a lui, forse a me, ma sicuramente a se stessa: «Quello è un Sabre come io sono Haia».

E la via del ritorno a casa fu lunga e buia.


Il giorno dopo Djusia domandò: «Nu, com'è andata?».

«Sono tutti morti» rispose Helena.

E smise di cercare parenti.

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Pagina 55

Libertà



Nei primi giorni della quarta elementare trasformai la tavola di cucina in un atelier di pittura. I piatti e le posate furono sostituiti da matite, tubetti di colore, pennelli di tutte le dimensioni, gomme da cancellare, pastelli e fogli di carta.

Helena scrutò quei preparativi e volle sapere a che pro quello sconvolgimento.

«Compiti a casa per Viterbo, il nuovo maestro d'arte» risposi mentre dipingevo.

Helena osservò con preoccupazione i ritratti che avevo dipinto. «Non ti vergogni?» disse. «Hai mai visto persone del genere?», e senza attendere una risposta decise: «Va bene, una pittrice non sei». E come sempre quando scopriva in me un limite fece di tutto per evitare che mi trovassi in imbarazzo: «Ai disegni per Virginio ci penso io».

«Viterbo» cercai di corregerla.

«Viterbo, Virginio, ad ogni modo una persona con un nome simile dovrebbe evitare di fare il maestro».

Non avendo scelta, la proposta di Helena passò, e una volta alla settimana, dalla quarta elementare fino alla terza media, Helena preparò con costanza i miei compiti d'arte. A volte si dedicava a dipingere le pareti della casa con tinte colorate, disegnava decorazioni sugli armadi e sugli scaffali, e ai quadri aggiungeva particolari e nuovi pigmenti.

Già in quarta elementare fui nominata «pittrice del quartiere». Helena primeggiava nell'accostamento dei colori, nella tecnica del disegno, nei ritratti e nella prospettiva. «Un misto perfetto di tecnica e sensibilità» aveva scritto Viterbo nella mia pagella. Non indagò mai da dove provenisse quel talento, osservava i miei compiti a lungo, li osservava e rimaneva in silenzio.

Negli anni seguenti, nelle classi superiori, Viterbo ci affidò compiti più impegnativi. Helena continuò a mantenere un alto livello nella tecnica, nel colore e nella forma. E tuttavia, certe volte, sorgevano dei problemi.

Quando ci fu richiesto di dipingere un «un pasto regale», Helena decise di dipingere una lussuosa tavola sulla quale pose resti di verdure marce, una fetta di pane ammuffito e dell'acqua sporca al posto della minestra. È stata la prima volta che scorsi Viterbo soffermarsi vicino a me e rabbrividire. La pelle gli si ingrigì, le labbra gli si seccarono e lo sguardo rimaneva inchiodato sul dipinto.

«Non c'è cibo, non c'è pasto,» disse commosso «ma la tecnica è buona». Segnò «molto buono», e fino alla fine della lezione scrutò dentro ai miei occhi che cercavano rifugio da quella vergogna.

Da allora, ogni volta che mi incrociava, Viterbo prese a salutarmi, e il suo sguardo mi accompagnava durante le lezioni e gli intervalli, con calore, con affetto e, soprattutto, con preoccupazione.


Durante una lezione, Viterbo raccontò dei pionieri che avevano fatto fiorire il deserto e chiese che dipingessimo qualcosa sul tema «il lavoro della terra». Per tutti i miei compagni la terra dei pionieri produsse ogni bene: piante, fiori e frutti; nel dipinto di Helena, invece, la terra era desolata, fredda e innevata, e a germogliare erano nomi, e a fiorire tombe e lapidi.

Avevo paura di portare quel dipinto a scuola, ma Helena disse con tono fermo: «Anche questo è lavoro della terra». E aggiunse «E che lavoro della terra!». Mi arresi, mio malgrado. La mia pagella, questo lo sapevo, sarebbe stata compromessa, ma la paura più grande era che venisse smascherata la bugia mia e sua.

Viterbo diede un rapido sguardo al dipinto, segnò «ottimo» e durante la lezione, come suo solito, mi guardò negli occhi.

«A mezzanotte, sotto le stelle, Elizabeth e Viterbo ne fanno delle belle» presero a canticchiare i miei compagni quando si accorsero dei suoi sguardi e della mia vergogna, e durante l'intervallo decorarono la lavagna di cuori e frecce. In classe tenevo gli occhi bassi, nell'intervallo piangevo, a casa non raccontavo niente.

Helena continuò a dipingere di colori le sue notti bianche.

Nell'ultima lezione, poco prima delle vacanze estive, ci fu chiesto di dipingere sul tema «vacanze».

Su un cartoncino bristol enorme, con un pastello nero carbone, Helena dipinse il filo spinato, le torrette di guardia e un uccello senza ali che cercava di volare dallo spazio innevato verso il cielo grigio, sul quale era scritto in tutte le lingue «LIBERTÀ».

«Questo disegno non lo porto a scuola!» gridai con tutte le mie forze.

«Fai uno sbaglio,» rispose Helena con calma «Questo è il disegno migliore, è eccellente».

Non l'ascoltai. Lasciai il disegno a casa e furiosa me ne andai a scuola, non senza aver prima urlato:

«Non mi importa se mi darà insufficiente».

«Tua madre ha detto che ti sei dimenticata il disegno a casa e mi ha detto di dartelo prima della lezione» mi disse la segretaria della scuola che era entrata in classe insieme a Viterbo mentre suonava la campanella e aveva appoggiato il disegno sul mio banco.

Viterbo venne a vedere il disegno. Diede un breve sguardo, chiuse gli occhi all'istante, prese la mia mano all'improvviso e si chinò verso di me. Raggelai e i miei sensi si pietrificarono. Non segnò alcun voto e passò al ragazzo seduto davanti a me. Durante quella lezione non mi rivolse lo sguardo.

Alla fine della lezione venne da me e con grande rispetto chiese di poter conservare quel disegno.

«È più di ottimo,» disse «questo è il meglio che ci può essere», e grosse lacrime trasparenti presero a scendere dai suoi occhi.

La sera della festa di fine anno della terza media venne da me e mi chiese di andare da lui dopo la festa. «Solo una breve chiacchierata,» disse accarezzandomi la testa «ti aspetto in sala professori». Per la vergogna, la paura e l'imbarazzo scappai via prima dell'inizio della festa.

Poi mi raccontarono che aveva atteso in sala professori finché il bidello non gli aveva detto che bisognava chiudere la scuola.


Finirono i giorni della scuola media. Non incontrai più Viterbo, e Helena dipinse soltanto dietro ai quadri appesi in casa, e certe volte anche dietro alle fotografie chiuse negli album. Nel quartiere continuarono a girare voci su Elizabeth la pittrice di talento e sullo strano maestro che si era innamorato di lei.

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Pagina 101

Radici



Come si addice a una casa di persone colte, Helena aveva avuto cura di ornare i muri con librerie, e sulle mensole, tra le diverse enciclopedie, aveva inserito anche gli album di fotografie. Ogni album aveva una copertina rigida e colorata e dei fogli neri e ruvidi sui quali erano attaccate le fotografie. Helena passava molto tempo a guardare i suoi album.

Ogni volta che mi trovavo ad essere presente quando Helena guardava i suoi album, lei si rivolgeva a me con un consiglio che era anche una richiesta: «Elizabeth, appiccica all'album solo fotografie che non facciano male».

Quando domandavo «Fare male a chi? In che senso fare male?» non sempre veniva data una risposta.

A volte, dopo un breve silenzio, ribatteva: «È una questione di sicurezza, un investimento intelligente». Si poteva dedurre che quella era la risposta alla domanda.

A quanto pare, Helena era convinta che non bisognava guardare in faccia un morto, e dunque la testa di ogni deceduto veniva tagliata e sepolta in una scatolina di latta. Il cartone nero e ruvido subentrava nel piccolo spazio rimasto vuoto. Gli altri — famiglia, bambini e amici — continuavano a sorridere agli occhi dell'osservatore, come se niente fosse cambiato. Helena mantenne quella norma con pignoleria e mai successe, Dio ne guardi, che un morto sorridesse da una foto. Con gli anni rimasero gambe, braccia, vestiti e oggetti, e diminuirono sempre di più gli sguardi e i sorrisi: foto senza volti eternavano i morti negli album.


Helena aveva adottato un ulteriore principio nella sistemazione delle foto: negli album figuravano soltanto persone, uomini, donne e bambini con i capelli dorati e gli occhi azzurri. Tutti i vicini e gli amici che rispondevano a questi criteri occupavano le pagine degli album, gli altri venivano chiusi in scatole di latta per cioccolatini.

Alla domanda «Perché proprio in delle scatole di cioccolatini?» rispondeva: «Perché queste scatole conservano le foto di persone dolci che hanno gli occhi e i capelli del colore della cioccolata».

Fin qui il suo sistema forse non era semplice ma era chiaro.

Ma non per quanto riguardava noi; l'ostacolo eravamo proprio noi due, o come diceva Helena: «Non va bene che tu ed io siamo scure».

Il problema degli occhi azzurri Helena lo risolse con un escamotage. Le nostre pupille mutarono tutte colore grazie alla punta di un unghia e un po' d'inchiostro. Su ogni occhio marrone dipinse un puntino azzurro.

Nello stesso tempo, con l'aiuto di ossigeno e tintura, Helena coltivava le sfumature di biondo dei nostri capelli. Quando una ciocca si ribellava rifiutando il trattamento, veniva immediatamente tagliata alla radice o, in alternativa, affogata nell'ossigeno. I casi più complicati venivano portati in cura dal parrucchiere; e certe volte, forse per scherzo o forse con vera speranza, Helena mi diceva che se avessi perseverato a mantenere i miei capelli biondi, forse con il tempo anche gli occhi mi sarebbero diventati azzurri, e solo allora si sarebbe potuta togliere l'ansia dal cuore ed essere sicura che nessuno mi avrebbe mai fatto del male.

Nonostante le difficoltà e gli ostacoli, gli album di Helena mantennero la purezza del biondo e dell'azzurro. Quando crebbi, conservai i miei capelli biondi con grande cura, in modo che il colore non sparisse, e lo facevo con la profonda fede che quello era un comportamento intelligente.


1990.

Helena si ammalò.

Un fiotto di sangue allagò il suo cervello e la lasciò pressoché immobile, danneggiando i polmoni, la memoria e l'intelletto.

Ma anche il sangue che era straripato e aveva operato tanta distruzione non aveva colpito la sua passione di aggrapparsi alla vita. Nel reparto dei malati terminali, su una sedia a rotelle, con la testa afflosciata, il corpo sfatto e lo sguardo appannato, si preoccupò di farci sapere che soltanto i biondi vivevano, e che questo concetto era fondato su un sapere frutto della sua esperienza di vita.

Quando le chiedevano il suo nome, non sempre se lo ricordava. Del giorno, l'anno e il luogo, non ne aveva la più pallida idea. Ma a tutti quelli che entravano nel reparto e avevano una capigliatura nera diceva: «Solo i biondi vivono», e a me raccomandò con forza: «Sii bionda per tutta la vita, Elizabeth, i biondi non li uccidono».

Anche nella malattia chiese che i suoi capelli divenuti bianchi fossero fatti tornare biondi, perché i farmaci e la fisioterapia, così credeva, erano buoni per la cura, ma i capelli biondi, quelli erano la condizione necessaria per continuare a vivere.

Helena morì bionda.


Finirono i giorni di lutto.

I miei capelli dorati si seccarono e si spezzarono, e il cuoio capelluto si squamò e si spellò.

«Sei allergica alla tintura» diagnosticò la dottoressa e prescrisse: «Radere i capelli, e mai, mai più» mi mise in guardia «mettere in testa ossigeno o qualsiasi altra cosa contraria alla natura. Hai un danno serio, una vera e propria escoriazione».

Mi tagliai i capelli, completamente sicura che avrei continuato a vivere, perché anche senza ossigeno o colore il biondo era il mio colore naturale. Ma il cuoio capelluto che si era spellato fu rimpiazzato da un altro cuoio, e i capelli biondi e secchi fecero spazio a dei capelli neri senza neppure una sfumatura di castano. L'apparizione di quelle radici nere mi sorprese, e pensai che si trattava di un errore temporaneo. L'errore temporaneo divenne stabile.


Anni dopo, in un giorno qualsiasi, alla fermata dell'autobus, una vecchia signora mi tirò per la manica e disse: «Ciao, Elizabeth, io, forse non te lo ricordi, sono un'amica di Helena da là».

Dopo questa breve introduzione, con un tono severo e sicuro mi sgridò: «Ma cosa hai fatto? Sei impazzita? Ti sei colorata i capelli di nero?».

«No,» le risposi «è il mio colore naturale».

«Ma che dici?! Io ti conosco da quando sei nata, forse hai avuto qualche giorno nero, ma i capelli ce li hai sempre avuti biondi. Tu sei proprio come Helena,» aggiunse «soltanto al contrario: lei, che aveva i capelli neri, è riuscita a convincere perfino i tedeschi che era bionda: e tu, che sei bionda dalla nascita, sei convinta di avere i capelli neri; ma cosa hai in testa, cosa?» si arrabbiò per quell'inganno.

«Allergia al colore» risposi.

«Vabbè,» ribatté placandosi all'improvviso. «Che importanza ha, mica si muore per una cosa del genere».

Rimasi in silenzio.

«Ma a parte questo, come stai?» si interessò.

«Quanti bambini hai?».

«Due» risposi.

«E sono biondi» affermò.

«Sorprendentemente».

«Sorprendentemente?» si scandalizzò. «Non è sorprendente – il colore dei capelli è ereditario!».

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