Copertina
Autore Marcello D'Orta
Titolo Nero napoletano
SottotitoloViaggio tra i misteri e le leggende di Napoli
EdizioneMarsilio, Venezia, 2004, Le maschere , pag. 238, cop.fle., dim. 135x204x20 mm , Isbn 978-88-317-8378-1
LettoreRiccardo Terzi, 2004
Classe viaggi , narrativa italiana , leggende , citta': Napoli
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Indice

  5 Introduzione

 11 Litania I

    Vico Limoncello
    Anticaglia (Teatro di Nerone e Museo di Anatomia)

 27 Litania II

    Via Duomo (miracolo del sangue di san Gennaro)
    Vicolo dei Mannesi (sesso e Inquisizione)

 43 Litania III

    Castel Capuano
    Lazzaretto
    Chiesa dei Gerolomini
    Piazza San Gaetano (peste e trombe marine)
    Cinema Arena San Gaetano
    Chiesa delle Anime del Purgatorio (culto dei defunti)
    Palazzo Spinelli
    Libreria Colonnese (iettatura e superstizione)
    Port'Alba (streghe e Inquisizione)

 83 Litania IV

    Ospedale dell'Annunziata (Ruota degli Esposti)
    Via Grande Archivio (gioco del lotto)
    Palazzo Sansevero (delitto d'Avalos)
    Cappella Sansevero (principe Raimondo de Sangro)
    Via Mezzocannone (Cola Pesce. Invenzione dei maccheroni)

113 Litania V

    Vergini
    Sanità (Cimitero delle Fontanelle)
    Capodimonte (Catacombe di san Gennaro)

131 Litania VI

    Via Toledo (Santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe)
    Vico Sant'Anna di Palazzo (sottosuolo di Napoli)
    Piazza Municipio (Maschio Angioino)
    Piazza del Plebiscito
    Castel dell'Ovo (Virgilio mago)

159 Litania VII

    Riviera di Chiaia
    Mergellina
    Piedigrotta (tombe di Leopardi e Virgilio)
    Palazzo Donn'Anna
    Marechiaro

189 Litania VIII

    Corso Umberto (Chiesa di San Pietro ad Aram)
    Piazza Mercato

207 Litania IX

    Piazza Carlo III (Eusapia Palladino e lo spiritismo)
    Capodichino (massoni e templari)

223 Litania X

    Poggioreale
    E oltre
 

 

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Pagina 5

Introduzione



Il fatto curioso è questo: ho cinquant'anni, ma non potete lasciarmi da solo in casa, soprattutto se è inverno e l'ora è tarda.

Come un bambino di sei o sette anni, ho paura delle pareti domestiche, temo che da un momento all'altro Qualcuno o Qualcosa sbuchi fuori (magari dalle stesse pareti), nel qual caso morirei d'infarto.

Il curioso è che mostri, lemuri, zombi sono il mio pane quotidiano. Infatti non c'è giorno in cui non visioni uno dei circa mille film di fantascienza e horror che affollano la mia videoteca, o non sfogli un libro «maledetto», come il misterioso Necronomicon dell'arabo pazzo Abdul Alhazred (nella versione data da Lovecraft) o il Doppio segno del comando di Cornelius Agrippa o il Malleus Maleficarum di Institor e Sprenger (la «Bibbia» degli inquisitori).

Nel mio studio ci sono effigi, sculture, stampe che raffigurano Edgar Allan Poe, il principe di Sansevero, Cagliostro. Sulla scrivania, poi, fa bella mostra di sé un bronzo di Osiride, il dio dei morti.

Insomma, esseri leggendari popolano casa mia, e perciò non si spiega perché io abbia paura del silenzio e delle ombre domestiche. Soprattutto non si spiega perché, essendo le mie notti popolate da incubi, io non mi decida a fare un bel falò (un autodafé, per dirla con gli inquisitori) di tutta l'orrida mercanzia che mi circonda.

Non v'è dubbio che questo rapporto di odio-amore, o attrazione-repulsa verso il mistero, sia materia da psicoanalisi. Ma siccome ho cercato di spiegarmi le cose per conto mio (senza dissanguarmi economicamente con gli psicoterapeuti), ecco a quale conclusione sono giunto.

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Pagina 9

In un certo senso, Napoli è una pagina di letteratura dickensiana, dove la maschera di Pulcinella va a braccetto con la figura dello schiattamuorto.

Dalla leggenda della sirena Partenope (mitica fondatrice della città) al miracolo del sangue di san Gennaro; da Cagliostro a Virgilio-mago; dai Campi Flegrei (ritenuti sede degli Inferi) alla devozione per le anime del Purgatorio; dall'invenzione alchemica dei maccheroni all'interpretazione dei sogni nel gioco del lotto; dal culto del dio Nilo alla presenza dei Cimmeri (misteriosi abitatori del sottosuolo); dal munaciello allo iettatore; dalle case infestate da fantasmi ai massoni e templari: Napoli, di cose straordinarie, ne ha davvero tante da raccontare.

E lo ha fatto, naturalmente, talora affidandosi a penne illustri. Ma questa volta il progetto era diverso. Nello spirito, ho voluto avvicinarmi a quelle pellicole di Stanlio e Ollio costruite su una trama horror-noir in cui l'umorismo diventa irresistibile proprio al culmine della tensione. Ho cercato cioè di esorcizzare l'ansia e la paura dell'Ignoto attraverso la comicità e l'ironia, mai dimenticando che lo scopo principale del testo era di far cultura.

Se ci sono riuscito, significa che ho speso bene il mio tempo; se no, vorrete per questo negarmi un fiore sulla tomba?

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Pagina 23

Il napoletano che volesse visitare il laboratorio del dottor Frankenstein, senza sottoporsi a lunghi viaggi in Svizzera o in Transilvania, potrebbe farlo in tutta tranquillità imboccando via Armanni, strada parallela a vico Limoncello.

Qui sorge il Museo di Anatomia, la più ricca raccolta di mostruosità umane cittadina.

Fondato nel 1540 da Marco Aurelio Severino (quindi ampliato nel Settecento da Domenico Cotugno) il museo nacque in un momento in cui «l'Anatomia era in pieno sviluppo e gli anatomisti per la penuria di cadaveri, avvertirono la necessità di preparare e conservare pezzi anatomici prevalentemente a scopi didattici». Non a caso, infatti, il museo è «racchiuso» tra la sala mortuaria e l'ospedale Incurabili.

In origine si trattava di un gabinetto di storia naturale, poi la collezione fu arricchita dalle donazioni di privati, perché nel secolo XVIII era di moda tenere in casa (mostrandoli ad amici, in serate particolari) reperti umani. Anzi, a quei tempi non era per niente eccezionale conservare tra le pareti domestiche il corpo della persona cara. I genitori di Madame de Staël erano stati «custoditi» in una grande vasca; Madame Necker aveva ordinato che, una volta passata a miglior vita, le sue spoglie fossero mantenute «nell'alcol come un feto»; Martin van Butchell tenne in casa il corpo della moglie imbalsamata, finché la seconda moglie (mi pare di poter dire: con ragione) non si stancò dello spettacolo.

Io, invece, non voglio dare ingombro in casa, preferisco la strada classica del camposanto, e per questo ho già acquistato una capace e accogliente nicchia al cimitero di Poggioreale. Un bel giorno, il sottoscritto e altri sette futuri morti, si sono riuniti e hanno deciso di fare cassa comune (è proprio il caso di dirlo), cioè di versare una medesima quota per una tomba che accogliesse le rispettive spoglie allorquando fossimo usciti da casa con i piedi davanti; due dei sottoscrittori hanno già inaugurato la compera, e spero non tocchi a me - in tempi brevi - andargli a fare compagnia.

Le dissezioni pubbliche erano avvenimenti non rari nel Settecento. Nel Malato immaginario di Molière, il fidanzato di Angelique la invita ad assistere a una di queste operazioni, come le proponesse di andare a teatro o in discoteca: «Avec la permission aussi de monsieur, je vous invite à venir voir l'un de ces jour, pour vous divertir, la dissection d'une femme, sur quoi je dois raisonner [...]. Le divertissement sera agréable».

E che lo spettacolo fosse «divertente» è da credere, visto che tali dissezioni si svolgevano spesso durante i festeggiamenti per il Carnevale!

Dunque, uno spettacolo e una moda, e infatti, sempre nel secolo dei lumi, molti portavano appesi al collo o nelle borse, preparati disseccati di varie parti del corpo, come dita, orecchie eccetera.

Non credo si arrivasse a conservare lembi o ritagli di deretano...!

D'altra parte, la Chiesa stessa aveva avviato una sorta di caccia all'uomo, anzi ai resti dell'uomo, riuscendo ad «accaparrarsi» migliaia di reliquie di santi e di uomini dabbene.

I gabinetti d'anatomia, oltre che gli studiosi attiravano una folla di visitatori morbosi, affascinati dall'esposizione di cadaveri affetti da deformità. E infatti, secondo il famoso anatomista danese Bartolinus, fu mandato in dono al cardinale Richelieu un feto rimasto nel ventre materno ventotto anni!

Perdiana, neppure Budda teneva una pancia così grande!

Ritornando a Napoli, ciò che si osserva nel Museo di Anatomia di via Armanni sono: malformazioni fetali (per esempio un bimbo con tre teste); crani di delinquenti; enormi calcoli renali; scheletri di nani e di giganti; teste disseccate; aborti; colonne vertebrali di storpi; fegati malati; pelli distrutte da malattie veneree: organi genitali di ermafroditi; cuori più grandi del normale; ciclopi (ossia crani con una sola orbita oculare al centro della «faccia»); teschi con abbozzi di naso, occhi e orecchie, o senza bocca e struttura mascellare; e finanche un tavolino il cui piano è formato da un (artistico, non c'è che dire) impasto di sangue, cervello, fegato, bile e polmone.

Sapete che vi dico? M'è passato l'appetito...!

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Pagina 34

Come ho accennato, quello di Gennaro non è l'unico miracolo «napoletano» riguardante il sangue. Nelle varie chiese della città sciolgono (o scioglievano) il proprio sacro liquido, santo Stefano (26 dicembre), san Luigi Gonzaga (21 giugno), san Pantaleone (27 luglio), sant'Alfonso Maria de Liguori (2 agosto), san Lorenzo (1O agosto), santa Patrizia (25 agosto), san Giovanni Battista (29 agosto) eccetera. Inoltre si venera il sangue dei Servi di Dio suor Maria Villani, suor Rosa Giannini, suor Maddalena Sterlicco, fra Giovanni Leonardo del Fusco, e altri.

Una vera e propria «città dei sangui» (urbs sanguinum) come la definì nel XVII secolo Jean Jacques Bouchard, colpito dal numero enorme di reliquie (oltre tremila) conservate in chiese e conventi della città. Fra tutti spicca il monastero di San Gregorio Armeno (in zona Spaccanapoli), che conserva resti di Giovanni Battista, san Pantaleone, san Lorenzo, san Francesco d'Assisi, santo Stefano, e in cui santa Patrizia liquefà il proprio sangue il 25 agosto, ma non solo, ogni martedì, a condizione che la si preghi con ardore.

Ad ogni modo, chi voglia venerare il «Sangue dei sangui», non è a Napoli che deve venire (e sembra un paradosso, dopo tutto quello che abbiamo detto), ma valicare le Alpi (se viene dal Sud, s'intende), e raggiungere la città di Bruges, nelle Fiandre, dove, nella Basilica del Preziosissimo Sangue, è conservato nientedimeno che il sangue di Gesù Cristo!

Davanti al Quale, con tutto il rispetto, anche san Gennaro deve farsi da parte.

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Pagina 62

Ma è tempo di scendere nei particolari di quello straordinario e singolare complesso di usanze e atti attraverso il quale i napoletani esprimono il loro culto per i defunti.

Nel primo capitolo ho fatto cenno alle numerose edicole votive della città, e al fatto che molte immagini di questi tempietti sono rappresentazioni delle Anime del Purgatorio. Si tratta di figure di gesso circondate da fiamme serpeggianti, le quali levano imploranti le braccia al Cielo, al Crocefisso o all'Addolorata. Lo scenario - in genere di cartapesta - è costituito da rocce ignee, grotte, mucchi di ossa, oppure da una volta stellata, verso la quale si appuntano speranzosi gli sguardi dei sofferenti.

È interessante notare come, in alcune di queste edicole, vi sia la doppia rappresentazione del Paradiso e del Purgatorio. Nel «vano» superiore è l'immagine di Cristo, della Madonna o dei Santi, in quello inferiore, appunto il Purgatorio. Ma non tutti sanno che per i napoletani esiste un «doppio» Purgatorio. Quello leggero e quello pesante. Nel leggero, le anime scontano pene fino a cento anni, in quello pesante si va oltre il secolo (i due Purgatori sono riconoscibili dall'intensità delle fiamme che avviluppano le anime).

E l'Inferno? L'Inferno non è mai rappresentato, perché «Inferno» è considerato il sottosuolo stesso della città, l'incredibile complesso di cave tufacee di cui parleremo nelle Litanie successive.

Il Purgatorio fu negato per secoli. Nell'antichità greca e romana, due erano i luoghi oltremondani: l'Ade e i Campi Elisi. Il primo corrispondeva all'incirca al nostro Inferno, il secondo al Paradiso. La visione dualistica fu (pur con le dovute differenze) «confermata» dal Cristianesimo, almeno fino al II secolo, quando ci si cominciò a chiedere se per caso non esistesse quello che, mille anni dopo, Lutero avrebbe chiamato il «terzo luogo», ossia il Purgatorio.

Pareva infatti poco «cristiano» negare ai peccatori che si fossero pentiti (o i cui peccati fossero veniali) la possibilità di espiare la colpa, per poi ricongiungersi a Dio.

Così, approfondendo l'esame di alcuni passi della Bibbia, (Maccabei, Corinti, Matteo) si «dedusse» l'esistenza di un luogo in cui le colpe venivano rimesse, e il Purgatorio fece la sua comparsa ufficiale nel Medioevo (come sappiamo, Dante ne darà una poderosa rappresentazione nella sua Commedia).

Lutero, che conosceva fin troppo bene gli uomini, intuì subito che la scoperta di questo terzo luogo poteva rivelarsi un affare senza precedenti per la Chiesa di Roma. Così ammonì a diffidare, anzi a denunciare quanti andavano di piazza in piazza a chiedere soldi, offrendo in cambio «sconti» sugli anni da trascorrere in Purgatorio.

La vendita delle indulgenze (cioè appunto la remissione dei peccati in cambio di denaro) era una truffa bella e buona, che serviva solo ad arricchire preti, vescovi e (soprattutto) il papa.

Come sappiamo, alla Riforma luterana, seguì una risposta decisa e straordinaria della Chiesa, passata alla storia come Controriforma. Paolo III indisse a Trento un Concilio (1545), durante il quale la Chiesa si organizzò per far fronte alla minaccia protestante. La Controriforma si espresse in modo «tangibile» attraverso l'arte. Gli edifici sacri furono in gran parte rinnovati, dovendo rappresentare più che in passato la Chiesa trionfante (a tale scopo furono assoldati grandi artisti, come Bernini e Borromini), ma nel contempo fu esaltata l'immagine della Morte, allo scopo di intimorire il credente e ben disporlo alle donazioni.

Mentre Lutero, infatti, riteneva che solo la pietà di Dio potesse alleviare le sofferenze delle anime purganti, Roma considerava fondamentale l'intercessione dei vivi, sia sotto forma di preghiere che di elemosine o lasciti. Così sorsero un po' dovunque Congregazioni e Opere pie, ma fu soprattutto a Napoli che esse trovarono il luogo di elezione, facendo presa sulla disperazione della gente, che, piegata dal malgoverno spagnolo e dalle mille calamità naturali, volgeva lo sguardo speranzoso all'Aldilà.

Si avviò allora un quotidiano e confidenziale dialogo coi morti, come se si trattasse di gente ancora viva, ma con poteri particolari, primo fra tutti quello di intercedere presso Dio.

Napoli non ebbe problemi ad «accettare» il Purgatorio. Infatti vari fattori - la conformazione stessa della città, che poggia su caverne e grotte di tufo; la presenza di un vulcano eruttante fuoco; il ribollire dei Campi Flegrei, ritenuti discesa agli Inferi; la mitica presenza di un popolo di ciclopi, i Cimmeri, abitatori degli antri sotterranei contribuirono ad ammettere quasi naturalmente il «nuovo» luogo oltremondano.

Ne nacque un culto del tutto originale, che non trova riscontro in nessun luogo d'Italia.

Siccome la maggior parte dei morti veniva gettata nelle fosse comuni (dovremo aspettare l'Ottocento per parlare di camposanti comunali), chi voleva piangere un figlio, un parente, un amico scomparso, doveva recarsi negli ipogei delle chiese, dove solo i più ricchi o i prelati avevano sepoltura.

Qui «adottava» un teschio con la stessa cura e riflessione di una massaia che al mercato sceglie fra le decine di meloni posti nel cesto: «L'esaminava da tutte le parti, ne provava la consistenza, lo girava e lo rigirava, lo palpava, lo soppesava, e l'annusava». Una volta operata la scelta, il cranio veniva spolverato, pulito e tirato a lucido (ai nostri tempi, si giungerà alla cera per mobili!), quindi gli si assegnava un nome (non di rado una professione) e da quel momento il defunto entrava a far parte dello «stato di famiglia»...

Non sempre il teschio «rappresentava» un congiunto scomparso; anzi la pietà dei napoletani si indirizzava per lo più al culto delle cosiddette anime pezzentelle, cioè anime del Purgatorio abbandonate da tutti, anche dai parenti, per le quali nessuno versava una lacrima.

Fino a tutti gli anni sessanta del secolo scorso, nell'ipogeo di San Pietro ad Aram (zona Ferrovia), al Cimitero delle Fontanelle (Sanità) e appunto nell'Ossario della Chiesa del Purgatorio ad Arco, le pratiche devozionali in onore dei defunti costituivano uno spettacolo a metà strada tra fede, superstizione e pratiche magiche. Le pie donne che frequentavano questi ambienti (perché per lo più di donne si trattava), adottato un teschio, e presumendo (ma da quali segni?) che l'anima che un tempo ne vivificava il corpo si dimenasse tra le fiamme del Purgatorio, lo «refrigeravano» (il cosiddetto refrìsco) con le preghiere, fidando nella misericordia di Cristo.

Ma poiché anche dalle nostre parti non si fa niente per niente, ecco che alle preci si accompagnava immancabile la richiesta di grazie (numeri al lotto, salute in famiglia, marito per qualche zitella eccetera), e se il favore tardava a realizzarsi, il devoto percuoteva o agitava lo scaravàttuolo (cassetta di legno o vetro nella quale era deposto il cranio) o si rivolgeva in via diretta alla capuzzèlla (teschio) ricordandogli con tono severo la promessa (era in pratica lo stesso linguaggio usato dalle «parenti» di san Gennaro). Nella migliore delle ipotesi «non spolverava più il cranio e, quando il manto di polvere si riformava, vi disegnava un cerchio in modo che l'anima si concentrasse».

Come a dire: fila dritto, o son mazzate. Pure da morto.

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Pagina 70

«La iettatura esiste. Quelli che, ostentando superiorità di animo, dicono di non crederci, ricorrono a tutti gli scongiuri del caso, e nascondono ciondoli in tutte le parti del corpo» (Libero Bovio).

«Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male» (Eduardo De Filippo).

«Non è vero, ma prendo le mie precauzioni» (Benedetto Croce).

«Noi crediamo tutti quanti nella iettatura» (Matilde Serao).

Così si esprimono quattro dei nostri maggiori intellettuali sulla superstizione. E davvero non c'è napoletano che alla luce del sole, o sotto sotto non professi la sua credenza nel malocchio, e non reputi che forze misteriose e oscure regolino la nostra esistenza.

Non solo, ma «da queste forze deriva l'ultimo spicchio di fantasia concessa agli uomini. Quando si dileguerà dalla Terra, allora, davvero non ci sarà più gioia» (Domenico Rea), perché tutto sarà svelato, le cose appariranno per quelle che sono, il vero avrà trionfato sull'immaginazione.

Sotto questo aspetto, davvero Napoli rappresenta «l'ultima possibilità che ha il genere umano per sopravvivere» (Luciano De Crescenzo), davvero si tratta di «una civiltà a parte, la civiltà in cui continua a vivere [...] l'infanzia dei popoli» (Jean-Noël Schifano), il mondo antico e moderno che fa di tutto per non soccombere alla massificazione delle idee e delle mode, la città che ebbe ospite il Poeta delle illusioni (Leopardi) e ne derise l'aspetto fisico, ma del quale, da sempre, aveva sposato un'idea di fondo: l'idea dei cari inganni senza i quali la vita dell'uomo è un succedersi di giorni aridi e vuoti.

Così i napoletani danno un significato a tutto quanto li circonda (ma in primo luogo ai sogni) perché convinti che la Natura comunichi con l'uomo attraverso segni che vanno interpretati.

Quindi, se di prima mattina ci si imbatte in un gatto bianco o nero, o in una vedova, o in un carabiniere in alta uniforme, o in un gobbo, o in un sacerdote, la giornata sarà fortemente condizionata, nel bene o nel male. Ancor oggi, nell'era di internet e della posta elettronica, Fortuna e Sfortuna ci inviano dei messaggi che vanno decifrati: e in questo i napoletani sono maestri.

Dell'arte di interpretare questi segni e di volgerli in numeri attraverso la Smorfia parleremo in seguito, a proposito del gioco del lotto. Ora voglio affrontare l'argomento che in qualche modo riassume tutta la superstizione, e cioè la iettatura.

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Pagina 196

Quella di venerare un cranio può sembrare una pratica affine alla necrofilia, ma (come ho più volte sottolineato) in tutto il Mezzogiorno d'Italia, e soprattutto a Napoli, il teschio non è un qualcosa di macabro ma un'immagine di culto, una sacra icona, che lungi dal raffigurare la Morte, la Fine, l'Oblio di ogni cosa, è simbolo della Vita che continua, testimonianza di un aldilà certo, che per molti versi rappresenta il continuum dell'«aldiquà» terreno, ma in meglio. Il sarto, in terra, continua a fare il sarto in cielo; il medico, il medico; il barbiere, il barbiere; e così via.

Io però, se vado in Paradiso cambio mestiere: faccio il miliardario.

Che la vita prosegua anche dopo la morte (che la morte non sia che un aspetto della vita) è affermato anche dal banchetto funebre, che soprattutto un tempo si dava in casa del defunto.

Non voglio esaminare questo aspetto nei suoi significati antropologici, rimando solo alla Litania IV, dove abbiamo conosciuto la «ricetta funebre» di Marotta.

Marotta, la Morte. Un tema che il grande scrittore sapeva trattare con ironia, ma anche con dolente poesia: «Quando muore un bambino i suoi parenti gettano, dietro il carro bianco che si allontana, manciate di confetti. Rimbalzano e rotolano sulla strada, questi confetti di qualità scadente, porosi e grigiastri: innumerevoli coetanei del defunto accorrono e si accapigliano per raccoglierli, lasciando lembi di camicia e di pelle nella zuffa; ridenti e furiosi non sentono la morte che li chiama e li conta come la chioccia fa con i pulcini».

Al dolore straziante dei congiunti farà seguito la rassegnazione, non per questo il rapporto con la persona defunta verrà meno. Attraverso i più vari rituali del cordoglio, si entrerà «in contatto» virtuale (ma anche fisico, tattile, e basti pensare, ad esempio, alla pulizia del teschio) con il caro estinto, costruendo un invisibile e saldo ponte con l'Aldilà.

Che a conti fatti equivale a un eduardiano pernacchio alla Morte.

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