Copertina
Autore Michel Dreyfus
Titolo Il secolo dei comunismi
EdizioneNet, Milano, 2004 [2001], , pag. 546, cop.fle., dim. 154x230x30 mm , Isbn 978-88-515-2188-2
OriginaleLe siècle des communismes
EdizioneLes Éditions de l'Atelier, Paris, 2000
CuratoreM. Dreyfus, B. Groppo, C. Ingerflom, R. Lew, C. Pennetier, B. Pudal, S. Wolikow,
TraduttoreChiara Bongiovanni, Daniele Rocca
LettoreFlo Bertelli, 2005
Classe storia contemporanea , paesi: Russia , storia: Europa , relativismo-assolutismo
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Indice

INTRODUZIONE                                              15
Bernard Pudal, Michel Dreyfus, Bruno Groppo, Claudio
Ingerflom, Roland Lew, Claude Pennetier, Serge Wolikow


PRIMA PARTE

Le interpretazioni dei comunismi
a cura di Bruno Groppo e Bernard Pudal
Introduzione: Una realtà molteplice e controversa         25
di Bruno Groppo e Bernard Pudal

1.  Totalitarismo e stalinismo                            32
di Brigitte Studer

La storia del comunismo fra scienza storica
    e legittimazione politica                             33
Il paradigma totalitario in ambito accademico             36
La svolta revisionista                                    38
Elementi per un approccio storiografico comparato: i casi
    della Germania e della Svizzera e il caso francese    39

2.  Le interpretazioni francesi del sistema sovietico     53
di Sabine Dullin

I contorni della sovietologia francese                    54
L'URSS come sperimentazione di modelli                    55
Mito del piano e scomparsa del piano                      56
Burocrazia e totalitarismo                                57
Specificità e convergenze                                 60
Conclusione: verso una storia sociale del politico        66

3. Storiografie dei comunismi francese e italiano         74
di Bruno Groppo e Bernard Pudal

Il Pci e la storia di partito                             74
La crisi della storiografia ufficiale e la nascita
    di una storiografia scientifica                       77
Dagli anni sessanta a oggi                                78
Il caso francese                                          80
Conclusione                                               84

4. Le interpretazioni del movimento
comunista internazionale                                  90
di Serge Wolikow



SECONDA PARTE
Le grandi fasi della storia dei comunismi
a cura di Michel Dreyfus e Roland Lew

Introduzione: Nel cuore del secolo                       103
di Michel Dreyfus e Roland Lew

5. Le conseguenze della Grande Guerra
sul movimento socialista                                 106
di Michel Dreyfus

1914: una nuova fase della storia del socialismo         106
1914-1918: un cataclisma per l'intero movimento operaio  107
La sottovalutazione del nazionalismo                     108
L'integrazione del movimento operaio prima del 1914      109
La partecipazione dei socialisti ai governi a partire
    dal 1914                                             110
Un socialismo sempre più a destra                        111
Partecipazione al potere e fiducia nella Società delle
    Nazioni                                              112
Un movimento operaio diviso                              113


I COMUNISMI DA UNA GUERRA ALL'ALTRA (1914-1944)


6. Dalla Russia all'URSS
a cura di Claudio Sergio Ingerflom                       119

Introduzione                                             119
di Claudio Sergio Ingerflom
    Storia dell'URSS o storia del comunismo?             119
    Un altro sguardo                                     120
    La specificità russa                                 122
La questione della violenza                              129
di Peter Holquist
    I precedenti                                         130
    La Prima guerra mondiale                             133
    La Rivoluzione                                       137
    Le guerre civili                                     140
Il Partito                                               151
di Gàbor T. Rittersporn
    Il monopolio politico dei bolscevichi                151
    Il controllo di un immenso corpo sociopolitico       152
    Il rafforzamento di strutture arcaiche               153
    Un proletariato minoritario in seno al partito       154
    Il crescente divario fra il progetto rivoluzionario
        e la quotidianità                                155
Il terrore                                               157
di Gàbor T. Rittersporn
La demografia                                            167
di Alain Blum
    Morire di fame in URSS                               167
    Nascere e morire in URSS: le tendenze di lungo
        periodo                                          169
I contadini dal 1917 ai nostri giorni                    172
di Lynne Viola
    Il 1917, una rivoluzione antifeudale nelle campagne  172
    Comunità contadine in piena evoluzione               173
    La frattura della collettivizzazione                 175
    La resistenza contadina                              176
    La vittoria delle fattorie collettive                177
Gli operai e i comunisti nel periodo 1917-1939           180
di Lewis Sigelbaum
    Lenin, gli operai e la conquista del potere          181
    Dittatura del proletariato e scomparsa della
        coscienza di classe                              182
    "Rivoluzione industriale" e crescita del numero
        di operai                                        183
    Lo choc del movimento stakanovista                   185
Gli operai e i comunisti durante la Seconda guerra
mondiale e il dopoguerra                                 187
di Donald Filtzer
    Le conseguenze della guerra e della carestia         188
    La mobilitazione forzata della manodopera industriale189
    Il fallimento delle riforme di Chruscëv              190
Le donne nella società sovietica                         194
di Wendy Goldman
    Il periodo rivoluzionario                            195
    Cambiare la vitaa per via legislativa                197
    Dal termidoro delle donne al produttivismo           199
    La guerra e la ricostruzione                         201
    Il crollo del socialismo                             203

7. Alle origini della galassia comunista:
l'Internazionale                                         206
di Serge Wolikow

La costruzione dell'Internazionale                       207
    e il progetto di rivoluzione mondiale
L'IC come strumento di omogeneizzazione                  211
    e diffusione del modello
Esitazioni e fluttuazioni strategiche della
    mondializzazione                                     213
Classe contro classe                                     215
I fronti popolari antifascisti                           217
Contro la guerra imperialista, il ripiegamento           220
L'esaltazione patriottica                                222


IL COMUNISMO COME SISTEMA (1944-1956-1968)


8. L'espansione europea del dopoguerra                   227
di Serge Wolikow e Antony Todorov

L'allargamento dell'influenza comunista a Ovest          229
I partiti comunisti prendono il potere all'Est
    (1944-1948)                                          232
L'eredità staliniana e la destalinizzazione              234
I partiti comunisti dell'Europa occidentale
    e lo stalinismo nella guerra fredda                  238

9. Il comunismo cinese                                   240
di Roland Lew

Il cammino verso la vittoria (1920-1949)                 240
La rivoluzione maoista                                   244
L'orientamento sovietico (1949-1957)                     250
La via maoista e le sue impasse (1958-1976)              258

10. Liberazione nazionale e comunismo nel mondo arabo    266
di René Gallissot

L'Internazionale comunista e l'arabismo                  267
La Palestina, focolaio centrale dei conflitti fra        269
    nazionalità
Il dissidio fra arabismo e comunismo nel dopoguerra      271
L'illustrazione della "grande frattura comunista"
    nell'esempio di Khaled Bagdash                       274

11. Liberazione nazionale e comunismo nel Sudest asiatico280
di Pierre Brocheux

Un'interfaccia fra mondo cinese e mondo indiano          280
Il Vietnam sottoposto alla dipendenza coloniale          281
L'innesto del leninismo in Vietnam                       282
Il significato del "momento favorevole"                  284
Il PCI prende il potere                                  285
La guerra, fattore di radicalizzazione, di forza
    e di fragilità                                       286
Le impasse dello sviluppo neostaliniano e
    il "rinnovamento"                                    287
Il fallimento dei comunisti nel resto del Sudest asiatico289


I COMUNISMI IN CRISI (1956-1968-1989)


12. I partiti comunisti francese e italiano              295
di Michel Dreyfus e Bruno Groppo


13. A Est, tentativi di riforma, fallimento, crollo      306
di Antony Todorov

Le riforme degli anni sessanta: la NEP est-europea       308
Il socialismo reale: matrimonio fra comunismo
    e società dei consumi                                311

14. In Cina: demaoizzazione e riforma                    317
di Roland Lew

Riformare per sopravvivere                               317
La demaoizzazione sotto controllo                        320
Al di là della riforma                                   321
Dalla crisi del potere alla crisi sociale e politica     322
Un sistema in via di riconversione: gli anni novanta     324


TERZA PARTE
Un'Internazionale dei partiti e degli uomini
a cura di Claude Pennetier e Bernard Pudal

Introduzione:
Un'Internazionale dei partiti e degli uomini             331
di Claude Pennetier e Bernard Pudal


L'INVENZIONE DELL'UOMO COMUNISTA


15. Dal partito bolscevico al partito staliniano         337
di Claude Pennetier e Bernard Pudal

La storia sacra e la storia demonologica                 337
Il modello russo                                         339
Il partito comunista come istituzione "totale"           342
Dall'apogeo alla crisi del modello di partito            343

16. Internazionalisti e internazionalismi comunisti      346
di Serge Wolikow

L'internazionalismo e le sue derive                      348
Un surrogato: la difesa della patria del socialismo      349
L'internazionalizzazione delle grandi cause umanitarie   351
Diffusione della dottrina internazionalista              353
Le scuole e il sistema di formazione                     355
La matrice kominterniana                                 356
Gli uomini dell'apparato centrale                        357
Emissari di Mosca e delegati a Mosca                     359
I delegati                                               360
I delegati a Mosca                                       361

17. La politica di inquadramento: l'esempio francese     364
di Claude Pennetier e Bernard Pudal

L'invenzione della politica dei quadri                   365
Verificare, valutare, promuovere o eliminare             366
Vigilanza e inquisizione                                 369

18. Stalinismo, culto operaio e culto dei dirigenti      374
di Claude Pennetier e Bernard Pudal

Il mito proletario e i suoi adepti                       375
Biografie esemplari dei dirigenti comunisti
    e culto di Stalin                                    377
La generalizzazione del modello                          378
Un racconto archetipico: Fils du peuple                  378
    di Maurice Thorez                                    382

19. "La donna nuova"                                     382
di Brigitte Studer

Un modello unico: quello maschile                        383
Un modello bipolare, ma gerarchico                       387


IDENTITÀ SOCIALI E PERCORSI MILITANTI


20. I contadini comunisti                                397
di Jean Vigreux

Mobilitare i contadini                                   398
Dal decreto sulla terra alla collettivizzazione          401
Collettivizzazione, modernizzazione o difesa dei
    contadini                                            403

21. Gli intellettuali e il Partito: il caso francese     410
di Frédérique Matonti

Varietà delle figure di intellettuale comunista
    e specificità del caso francese                      410
Primo ritorno dall'URSS                                  412
Evoluzione generale dei gruppi intellettuali membri
    del PCF                                              414
Promesse e disillusioni delle prime conquiste            415
L'apogeo                                                 419
La posizione degli intellettuali in un partito proletario420
I luoghi e lo status degli intellettuali                 421
Partito operaio e cultura comunista                      424

22. La figura dell'emigrato politico                     431
di Bruno Groppo

Analogie e differenze con altre emigrazioni politiche    433
L'emigrazione comunista italiana in Francia              435
Gli emigrati politici comunisti in URSS                  440

23. Uomini delle Brigate internazionali e partigiani     447
di Rémy Skoutelsky

La formazione delle Brigate internazionali               447
Quali comunisti nelle Brigate?                           449
Da un fronte all'altro                                   453
La Resistenza                                            455

24. Figure del comunismo latino-americano                460
di Michael Löwy


25. Sindacalisti comunisti                               469
di Michel Dreyfus

L'Internazionale sindacale rossa (ISR)                   471
Sindacalismo comunista in Francia                        475


QUARTA PARTE
Tre questioni in discussione
a cura di Serge Wolikow

Introduzione:
Il comunismo nella storia politica del xx secolo         483
di Serge Wolikow
Per nuovi termini di discussione                         485
Quale analisi comparata?                                 485

26. Comunismo e violenza                                 487
di Michel Dreyfus e Roland Lew

Il dibattito sul totalitarismo                           487
La Prima guerra mondiale, matrice del "secolo breve"     491
L'assenza di tradizioni democratiche in Russia prima
    del 1917                                             493
Violenza controrivoluzionaria nel periodo tra le due
    guerre                                               496
Comprendere la violenza di stato in URSS                 497
La Cina maoista                                          499
La continuità repressiva                                 500

27. Fascismi, antifascismi e comunismi                   504
di Bruno Groppo

La fine del comunismo e il dibattito sull'antifascismo   504
Fascismo e antifascismo prima del 1945                   505
La varietà degli antifascismi                            507
Gli antifascismi comunisti                               508
L'antifascismo dopo il 1945 in Italia e in Germania      512

28. Politicizzazioni operaie e comunismo                 518
di Bernard Pudal

Questioni di metodo: operai, culture operaie
    e politicizzazione democratica                       519
Operai e politica legittima                              520
Relativismo, cultura operaia e politicizzazione          521
Il comunismo e gli operai                                524
Il comunismo come soluzione illusoria                    526
Le condizioni di felicità di un incontro:
    l'eccezione francese                                 526

Indice dei nomi                                          535

 

 

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Introduzione



Se esiste un preconcetto che quest'opera auspica di mettere decisamente in discussione, benché come ogni pregiudizio contenga una parte di verità, si tratta dell'unicità di ciò che si è convenuto di chiamare il comunismo nel XX secolo. Dal passato di una illusione ai crimini del comunismo, l'errore di fondo consiste nell'acritico impiego dell'articolo al singolare e nella conseguente volontà di ridurre il comunismo a una proprietà fondamentale (il crimine di stato, l'utopia, una religione secolare ecc.). Si può in effetti a buon diritto dubitare di questa rivendicazione di unicità: in realtà il comunismo si declina, lungo tutto il corso della sua storia e in tutti i suoi aspetti, al plurale. È varietà unificata da un progetto.


Il comunismo al plurale

Dall'URSS ai paesi dell'Est, dalla Cina a Cuba al Vietnam, le differenze sono stupefacenti.

Da un lato, partiti comunisti che approdano al potere in seguito a fenomeni storici di primaria importanza ma profondamente differenti: la prima guerra mondiale per il Partito bolscevico; un movimento di liberazione nazionale e d'ingresso nella "modernità" per il PC cinese. Altri partiti comunisti si avvantaggiano della divisione delle zone d'influenza fra grandi potenze dopo la Seconda guerra mondiale: è il caso delle democrazie popolari dell'Est, ma con nette differenze a seconda del paese, la Jugoslavia non è la Romania. Altri partiti comunisti conquistano il potere dopo aver sopraffatto una dittatura (Cuba) o nel quadro di una lotta di liberazione nazionale. I partiti comunisti al potere non traggono la loro legittimità da una stessa vicenda né vengono posti davanti alle stesse sfide.

Dall'altro lato, tali partiti ereditano realtà economiche, sociali, culturali, che contribuiscono a configurare in modo diverso la storia delle società comuniste. Per i due paesi principali (Russia e Cina) che hanno conosciuto un potere politico comunista, è importante liberarsi da un punto di vista eurocentrico e considerare l'intera questione a partire dall'ingresso nella "modernità" di queste società. Russia e Cina sono paesi principalmente agricoli, senza tradizioni democratiche, posti di fronte alla propria industrializzazione e, dunque, ai problemi della questione contadina. La classe operaia, in teoria "l'attore collettivo" del progetto comunista, si trova ridotta ai minimi termini (Cina), oppure è minoritaria, di recente costituzione e per di più divisa quanto al sostegno offerto al Partito comunista (URSS). Questa constatazione non è volta a giustificare forme di potere politico presto qualificate come "arcaiche" (culto della personalità, dittatura), né a sdoganare una classe che si pretenda eletta ("la" classe operaia) di cui si vorrebbe salvaguardare a priori una rappresentazione idealizzata. Al contrario, apre la via a una necessaria riflessione sull'indifferenza politica e sull'isolamento operaio, nonché sul rigetto da parte degli operai, in particolare nel mondo occidentale, dei partiti comunisti. Mette inoltre in evidenza il problema delle élite militanti comuniste (intelligencija, militanti operai, militanti addestrati alla guerriglia ecc.). Che ne è del loro rapporto con le classi popolari, e in particolare con la classe operaia, cui si richiamano? Che ne è dei rapporti delle classi popolari con i loro "rappresentanti"?

Ridotti a gruppuscoli in numerosi paesi (il PC degli Stati Uniti nel periodo di maggior penetrazione conterà forse 80000 aderenti; la stessa constatazione vale per l'Europa del Nord a eccezione della Finlandia), o divenuti partiti potenti in altri (in Francia e dopo la Seconda guerra mondiale in Italia), i partiti comunisti che non abbiano mai detenuto il potere politico non hanno né le stesse basi sociali, né lo stesso tipo d'inquadramento partitico, né gli stessi destini (rimanere sette prive di consistenza, sopravvivere, o subire continue trasformazioni). Non sono nemmeno posti di fronte agli stessi contesti: il Partito comunista spagnolo (PCE) sarà segnato dalla guerra civile e poi, sotto il franchismo, dalla clandestinità; il Partito comunista italiano (PCI) affronterà la repressione mussoliniana, e il suo inquadramento si formerà perciò nell'immigrazione, prima di divenire nel dopoguerra un grande partito di massa, evolvendo dal 1956 secondo una esplicita logica di distacco dal modello sovietico; il Partito comunista francese (PCF) sarà forgiato dal suo impegno nel Fronte popolare e nella lotta antifascista, dalla sua esperienza resistenziale e dalla sua partecipazione ai governi della Liberazione; il Partito comunista tedesco (KPD), potente sotto la Repubblica di Weimar, subirà un crollo; il Partito comunista indonesiano eserciterà una grande influenza prima di subire nel 1965 una sanguinosa repressione, che condurrà al suo sradicamento; quanto ai partiti comunisti dei paesi a forte componente socialdemocratica (Inghilterra, Nord Europa), giocheranno ruoli svariati e secondari. Tanto le condizioni in cui sono emersi quanto le condizioni di esistenza individuano i singoli partiti comunisti, modificandone il ruolo nei sistemi politici nazionali cui appartengono e nei movimenti d'azione (sindacalismo, radicamento a livello municipale, reti associative, movimenti di massa) al cui interno si inseriscono.

Diversità di contesti storici, ma anche degli uomini e delle donne comunisti: non solo a causa delle molteplici traiettorie che inducono uomini e donne a divenire membri di un partito comunista a seconda delle epoche e dei paesi, ma anche perché sotto l'identità nominale di un partito, al potere o meno, le ragioni dell'impegno nei partiti comunisti e i modi di essere comunisti variano considerevolmente, come d'altronde attestano le defezioni, le esclusioni, le repressioni di cui possono essere vittime gli stessi comunisti. L'adesione al partito comunista può assumere un senso completamente diverso a seconda che significhi contestazione dell'ordine sociale o, al contrario, semplice conformismo nei confronti delle regole del gioco dominanti, caso frequente nei paesi comunisti dove ciò condiziona l'accesso a varie professioni (in particolare alla "nomenklatura"). Non può neppure essere ridotta a un significato univoco: in molti casi gli impegni degli anni venti non sono assimilabili agli impegni dei periodi unitari (antifascismo, Resistenza, alleanze con i partiti socialisti, eurocomunismo), né a quelli intrecciati con lotte di liberazione nazionale. Altro caso significativo, l'impegno degli intellettuali nei partiti comunisti: questo varia a seconda dei tipi di intellettuale, dei motivi per i quali si impegnano, dei vantaggi in termini materiali che traggono dall'impegno. I militanti provenienti dalle classi popolari, i militanti comunisti ebrei, le donne militanti, non entrano nel comunismo con le stesse tradizioni di lotta, secondo le stesse matrici d'adesione, né negli stessi periodi. Un medesimo individuo, infine, durante la propria militanza può andare incontro a un'evoluzione differente a seconda delle risorse culturali accumulate e delle esperienze sociali e politiche fatte. Non si comprenderebbe mai la logica delle continue purghe se non si vedesse come queste tendano anche a eliminare comunisti i quali, avendo acquisito autonomia, rischiano di mettere in crisi il funzionamento staliniano del modello di partito bolscevico. I partiti comunisti stessi non devono dunque essere reificati, e l'identità nominale non deve costituire un ostacolo per lo studio dei molteplici usi che i loro membri ne fanno.

Quale atteggiamento assumere, d'altra parte, verso tutti coloro che rivendicavano un'identità comunista diversa da quella del movimento comunista internazionale, incarnato dalla Terza Internazionale (Komintern), quindi dal Kominform? In particolare, verso le varie correnti trockijste, ma anche verso tutti coloro che lasciarono i partiti comunisti o ne furono esclusi - di gran lunga la maggioranza - pur restando fedeli a una concezione della storia fondata sulla lotta di classe come motore, sulla convinzione che l'universo sociale sia retto da logiche di dominio cui bisogna sostituire altre logiche sociali, pena il rendersi complici di iniquità trasmesse dalla storia, sulla rivendicazione a dirsi e a essere riconosciuti come comunisti? La loro etica comunista, se non assumeva più la forma di un impegno all'interno di un partito comunista, non per questo era meno rivolta alla trasformazione dei rapporti sociali, attraverso vie differenti.

Anche il marxismo è plurale. Marx non è Lenin né Stalin. Molti teorici marxisti (Kautsky, Bernstein, Hilferding ecc.) sono stati privati della loro etichetta di marxisti dai bolscevichi, mentre questi rivendicavano il proprio marxismo. Che cosa pensare, d'altra parte, di quei critici che furono Rosa Luxemburg, Gramsci, Bucharin, Lukács? Non si deve almeno cominciare scindendo, nell'opera di Marx ed Engels, i loro contributi alla fondazione delle scienze sociali nel XIX secolo dall'insieme degli usi politici di cui sarebbe stato oggetto il marxismo, a partire dagli stessi Marx ed Engels? Il marxismo, o più esattamente le interpretazioni che ognuno avanzava dei testi di Marx ed Engels, hanno alimentato una quantità di riflessioni e ricerche: gli storici marxisti inglesi degli anni fra il 1945 e il 1956, membri del Partito comunista, non scrivono la stessa storia dei loro colleghi sovietici nella stessa epoca; i filosofi marxisti della scuola di Francoforte non fanno propri i testi di Marx allo stesso modo di Louis Althusser. Quale atteggiamento assumere, infine, verso tutti coloro che hanno disgiunto l'interesse scientifico per l'opera di Marx ed Engels da ogni impegno per un qualsiasi genere di comunismo? Sotto l'etichetta "marxismo", come non vedere tutto il succedersi delle volgarizzazioni, politicamente strumentalizzate, mutevoli a seconda delle epoche e dei partiti, fra cui quello scientismo operaista e populista che è la volgarizzazione staliniana e la più importante? "Il" marxismo è, in sostanza, un mito.

È oggi diffusa la tentazione, alquanto ideologica, di ridurre questa diversità e questa complessità a una pretesa natura "del" fenomeno comunista, che tenderebbe a essere per costituzione un'"illusione" (il comunismo come religione secolare o mito dell'uomo moderno che si immagina in grado di rigenerare il mondo sociale), un'esperienza unica, quasi un accidente storico, la cui relativa durevolezza (1917-1989/91) si basa sulla coercizione, sulla repressione e sul crimine; infine, ed è il caso più frequente, si tende a ridurre il comunismo a un insieme di questi due aspetti. Tale tentazione si basa sul desiderio, piuttosto vano da un punto di vista scientifico, di dotarsi di una filosofia della storia del XX secolo in cui esprimere il proprio rapporto con l'idea che ci si fa "del" comunismo, più che il desiderio di comprenderne le molteplici e contraddittorie dimensioni. Le scienze sociali non possono rivaleggiare con simili concorrenti: distillano il dubbio più che la certezza. E le sintesi che propongono non possono essere che provvisorie e frammentarie. Sta di fatto che quegli studi il più delle volte filosofici, sull' essenza del comunismo, in particolare quelli di certi appartenenti alla "scuola totalitaria", poggiano su una realtà: l'esistenza, nel XX secolo, di un movimento comunista internazionale che in seno a un partito mondiale associa, non senza conflitti, una quantità di attori individuali e collettivi persuasi, spesso in modo illusorio, di condividere un medesimo progetto. Questo movimento rappresenta una delle maggiori esperienze storiche del XX secolo.


Il comunismo al singolare

La diversità, è importante sottolineare fin dall'inizio, non implica il rifiuto di interrogarsi sulla comune identità nel XX secolo di queste esperienze storiche, di queste molteplici forme di vita del comunismo. Ma questa identità non si può concepire se non a patto di pensare, nello stesso tempo, all'eterogeneità dei fenomeni che la costituiscono.

L'URSS e il movimento comunista internazionale sotto l'egida del partito bolscevico giocano un ruolo essenziale: da questo punto di vista rappresentano il fenomeno storico decisivo nel XX secolo. Sono spesso giunti ad arrogarsi il monopolio "del" comunismo (almeno della sua rappresentazione dominante) e hanno cercato, non di rado con successo, di imporre la propria legge. L'URSS ha in effetti il triplo privilegio della precocità, della "riuscita storica" ("la prova mediante il fatto", scrive Marcel Cachin nei suoi Carnets [Taccuini]) e del prestigio che l'accompagna e facilita tutte le idealizzazioni, oltre al potere di stato, il quale procura i mezzi istituzionali, materiali e finanziari che accrescono il raggio d'influenza. Ci fu quindi un "Vaticano moscovita" (Eric Hobsbawm) che, assieme al movimento comunista internazionale e a prezzo di una politica d'omogeneizzazione del corpo di militanti di professione e della dottrina, venne a costituire una sorta di chiesa universale. A prescindere dal carattere secolare di questa religione del comunismo, l'analogia si impone per via della dimensione universale che si volle dare a "una" ideologia comunista, dell'importanza del corpo dei "chierici" (i "rivoluzionari di professione", i "membri permanenti", i membri dell'apparato, gli uomini del Komintern), dell'opera di canonizzazione dei testi "rivelati" (il marxismo-leninismo), dei processi per eresia. Questo movimento comunista internazionale, di cui il PCUS si assumeva il controllo, ha concepito se stesso come attore politico mondiale destinato a promuovere un nuovo tipo di regime politico e di società. Ha procurato a tutti coloro che vi hanno preso parte, e che condividevano quell'"utopia", l'inestimabile conforto della "realtà". L'idealizzazione dell'URSS, per quanto distante abbia potuto essere dalle realtà sovietiche, alimentava l'immaginario di quel mondo nuovo da edificare. Il movimento comunista internazionale ne fu l'espressione istituzionalizzata. Da questo punto di vista, allo stesso modo in cui la Chiesa cattolica si caratterizza per la sua dimensione universale e l'unità della sua organizzazione rappresentata da Roma, il comunismo nel XX secolo ha presentato tratti simili.

Ma l'analogia vale solo se si tiene conto di quanto differenzia queste due grandi istituzioni di salvezza (Max Weber). Mentre la Chiesa cattolica riesce a gestire, con un grado di riuscita maggiore o minore a seconda delle epoche, la diversità delle esperienze religiose, la molteplicità dei gruppi che la compongono, l'eterogeneità delle prese di posizione al proprio interno (dall'integralismo religioso alla teologia della liberazione), il sistema comunista internazionale non ha retto, nel tempo, se non rinserrandosi progressivamente, eliminando a poco a poco tutte le contestazioni aperte e implicite, tacite o potenziali. Ciò è avvenuto innanzitutto nel cuore del sistema, in URSS, in seguito dovunque i partiti comunisti detenessero il potere politico: dietro l'apparenza di una cultura da guerra civile, poi, dopo la Seconda guerra mondiale, di una cultura da guerra fredda, il carattere poliziesco e repressivo si è dispiegato con una virulenza senza precedenti, facendo ricorso a tutte le forme di violenza fisica (campi di concentramento, carcerazioni arbitrarie, assassini, torture, estorsione di confessioni ecc.). Su ritmi diversi a seconda dei paesi e in ogni caso nell'Europa orientale dopo il 1956, le forme di questa violenza fisica cambiarono d'intensità e di tipologia, pur rimanendo parte integrante del sistema, come attesta il reiterato ricorso alla repressione militare. Tuttavia, fra il progetto totalitario e la realtà non vanno sottovalutate le discrepanze, le opposizoini sotterranee, i conflitti di potere, le trasformaioni sociali e culturali e la perdita di fiducia che hanno sempre caratterizzato i partiti e le società comuniste. Sopravvissuto a lungo solo formalmente, per dissolversi in pochi anni (dal 1989 al 1991) — salvo che in Cina, Corea del Nord, Laos, Cuba e Vietnam —, il sistema comunista è crollato. Quel "Vaticano moscovita" non era dunque così radicato come si era potuto immaginare, temere o auspicare. Forse, in un certo senso, non era nemmeno più comunista, e perdeva così tutt'a un tratto il suo "rivestimento"? Non spiega dunque in modo credibile ogni aspetto dell'unicità del fenomeno comunista nel XX secolo, anche se ne fu la forma dominante, allo stesso tempo istituzionalizzata, rappresentativa e immaginaria.


Comunismi, democrazie, fascismi

Occorrerebbe molto probabilmente andare ben oltre e dotarsi di una prospettiva storica sul lungo periodo. I comunismi nel XX secolo costituiscono solo uno degli aspetti di un vasto processo storico: al centro di una storia mondiale che sotto l'effetto della costruzione dello stato moderno, del capitalismo e della democrazia rappresentativa si va universalizzando, questo processo vede l'irruzione dei "subordinati" sulla scena politica come attori decisivi e, se non direttamente in corsa per l'esercizio del potere politico, chiamati almeno a parteciparvi. Ben prima che queste lotte assumessero la forma del movimento comunista internazionale, la retorica reazionaria un po' in tutto il mondo occidentale sperò di arginare la forza di quelle che vedeva solo come folle pericolose e incontrollabili. Lo stesso suffragio universale, oggi tanto celebrato, rappresentò spesso una minaccia per coloro la cui sorte era legata al perpetuarsi dell'ordine sociale. L'anticomunismo non fu solo il rigetto di un regime politico in cui la violenza giocò un ruolo chiave: fu molto spesso associato a diffidenza e ostilità nei riguardi del popolo e una concezione elitaria della democrazia, uno degli elementi fecondanti di quella che Peter Gay ha chiamato la cultura dell'odio. Il fascismo, nelle sue diverse manifestazioni nel XX secolo (Italia, Germania ecc.), ne estremizzò le logiche ideologiche fino al nazismo.

Al di là del movimento comunista internazionale, l'unità di questa storia dei comunismi con ogni probabilità non può essere concepita se non in relazione ai due grandi sistemi politici del XX secolo: il fascismo e la democrazia. Parlando del totalitarismo, si è soliti porre l'accento su ciò che accomuna stalinismo e nazismo: partito unico, ideologia unica, volontà di annientare la società civile, esercizio del potere con il terrore. Non si è altrettanto abituati a sottolineare ciò che differenzia il comunismo dai regimi fascisti e da quelli democratici: l'utopia di un potere politico effettivamente esercitato dalle classi popolari, dai gruppi più vasti della società, dai gruppi meno dotati di risorse materiali e culturali. Un'utopia, certo (e si vedrà perché), ma un'utopia agognata, parzialmente realizzata e al tempo stesso disattesa. In ogni caso un'utopia che, in forme diverse, nel XXI secolo potrebbe essere uno degli orizzonti della storia politica.

La politicizzazione delle classi popolari, punto cruciale della democrazia, è forse uno dei nodi principali della storia del comunismo: è l'esito d'una lunga vicenda conflittuale, della quale il comunismo non rappresentò che una modalità di soluzione, fondata sul fatto di credere in una teoria scientifica della storia, sulla creazione di un nuovo tipo di partito politico, sulla convinzione che la Rivoluzione, come lotta generalmente violenta e come rottura radicale, si sarebbe imposta. Questa fiducia nella legittimità di una via rivoluzionaria al cambiamento politico richiede che ci si interroghi sul suo statuto, il che induce a interrogarsi anche sulla violenza politica del XIX e XX secolo. La seduzione che il comunismo ha potuto esercitare su molti democratici, socialisti e non, su parecchi intellettuali più autonomi di quanto sia stato detto, su tanti operai che pure non furono comunisti, si inserisce anche nella ricerca di una rappresentanza politica democratica, che la democrazia rappresentativa realizza solo imperfettamente. L'analisi comparata del nazismo e dello stalinismo è dunque perfettamente legittima, ma fermarsi a quest'unica comparazione, lasciando in ombra e fuori dalla discussione il termine mancante (la democrazia), significa offrire un cattivo esempio di metodologia comparativa. Darsi come orizzonte di riflessione la diversità dei comunisti e dei comunismi, la pluralità delle motivazioni e delle speranze dei fondatori, pur studiandone la cappa di piombo che gradualmente ne limitò le possibilità, significa nello stesso tempo tentare di mettersi al riparo da una concezione eccessivamente ideologica e lasciare aperto il campo delle indagini, affinché le diverse sfaccettature della realtà che le scienze sociali prendono in considerazione abbiano diritto di cittadinanza.

Bernard Pudal, Michel Dreyfus, Bruno Groppo, Claudio Sergio Ingerflom, Roland Lew, Claude Pennetier, Serge Wolikow

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Comunismo e violenza
di Michel Dreyfus e Roland Lew



Dal 1917 al 1989 la violenza ha assunto, a più riprese, forme estreme in seno ai regimi che si rifacevano al comunismo: è, questo, un problema di fondo che va dibattuto. Se la violenza ha costituito un elemento importante della storia del comunismo, questa non basta a caratterizzare i sistemi che vi si richiamavano nella loro durata e nella loro diversità: più significativa è la persistenza dell'autoritarismo, di un sistema dittatoriale sotto varie forme, in particolare in URSS con il partito-stato, per sette decenni anche nei periodi meno repressivi. Stato autoritario e dittatura non sono, tuttavia, appannaggio del socialismo reale, ma, più fondamentalmente, una caratteristica di molte società nel XX secolo. È dunque opportuno interrogarsi sulla natura di questa violenza onnipresente, così variegata nelle sue forme, sui momenti in cui esplode, sulle classi, le categorie di popolazione, le istituzioni contro le quali viene rivolta, così come sulle ragioni che hanno permesso la persistenza dei sistemi autoritari: la violenza di massa è cominciata prima del 1917, prima dell'instaurazione del socialismo reale: si è protratta fin dopo la sua caduta. All'alba del XXI secolo, come mostra l'attualità, fa sempre parte del nostro mondo. Il problema è doppio: quello del ruolo della violenza nel secolo e quello delle forme specifiche della violenza, legate al comunismo reale. Si può dire, in altre parole, che esista una violenza specifica dei regimi del XX secolo? Questa domanda si ricollega al dibattito sul totalitarismo.


Il dibattito sul totalitarismo

La teoria del totalitarismo viene spesso associata alle idee espresse da Hannah Arendt nel 1951 e alle discussioni portate avanti dalla scienza politica anglosassone negli anni cinquanta; questo dibattito, ripreso poco dopo in Francia da Raymond Aron, è stato reso popolare soprattutto verso il 1980, e ripreso negli anni novanta. Questa nozione di totalitarismo non era nuova. Creato in Italia fin dal maggio 1923, questo termine viene infatti in primo luogo utilizzato per denunciare il fascismo, prima di essere ripreso nel giugno 1925 da Mussolini, che esaltava la "feroce volontà totalitaria". Nella seconda metà degli anni venti, l'ex primo ministro italiano Francesco Nitti avrebbe per primo istituito accostamenti fra la struttura del fascismo italiano e il bolscevismo; il primo impiego del termine totalitarismo per designare simultaneamente gli stati fascista e comunista sembra essere stato fatto in Gran Bretagna nel 1929. Viene in seguito utilizzato dai fascisti italiani, dai nazisti tedeschi, da diversi teorici di sinistra (Franz Borkenau, Rudolf Hilferding, Richard Lowenthäl, Franz Neumann), «per caratterizzare tutto ciò che sembra loro nuovo e specifico nel fascismo (o nel nazismo), al di fuori di ogni comparazione con il comunismo sovietico», come pure da correnti di pensiero situate all'estrema sinistra antistaliniana. Al centro della tematica totalitaria c'era una riflessione sulla tirannia moderna e, più specificamente, su ciò che era comune al nazismo e al comunismo, il fatto che la violenza esercitata contro altri sembrasse inseparabile dal funzionamento di questi regimi. Hannah Arendt ha spinto più lontano di tutti l'elaborazione teorica, sforzandosi di delucidare l'estrema violenza di questi regimi: lo sterminio razziale compiuto dai nazisti e ciò che le sembrava il nocciolo del totalitarismo, il sistema concentrazionario come modo di annientare l'avversario designato.

La teoria del totalitarismo fu a lungo il modello dominante di interpretazione dei regimi "estremisti" del secolo, un tentativo di spiegazione di ciò che avevano in comune e di ciò che li distingueva da tutti i precedenti regimi della storia. Dai suoi lontani inizi fino ai nostri giorni, questa teoria ha conosciuto numerose interpretazioni, opposizioni e contrasti, in particolare sulla questione delle esperienze storiche che compongono il totalitarismo: bisogna includervi tutti i fascismi e le dittature di destra - fra cui il fascismo italiano, che si richiama esplicitamente allo stato totalitario - o solo il nazismo, per via della sua logica di sterminio razziale? Il nazismo si spiega, fondamentalmente, come una reazione al comunismo? Bisogna ricondurre al totalitarismo il solo stalinismo o l'intera vicenda storica sovietica, leninismo e dopo-Stalin? L'URSS, o l'insieme dei paesi del socialismo reale? Hannah Arendt ne escludeva Lenin, così come la maggior parte dell'esperienza dell'Italia fascista, e considerava il nazismo come autenticamente totalitario solo a partire dal 1938; richiamò il "dispotismo illuminato" di Chruscëv e, nel 1956, ne escluse la Cina maoista, da altri autori considerata la perfetta incarnazione del totalitarismo. Raymond Aron limitava il totalitarismo della Germania e dell'URSS a determinati momenti della loro storia, pur istituendo una "differenza essenziale" fra questi due regimi «quali ne siano le loro somiglianze: in un caso, la conclusione è il campo di lavoro, nell'altro la camera a gas»; sembra che in seguito si sia interrogato su questa distinzione. La terribile crudeltà che il comunismo reale in più momenti della sua storia ha manifestato non può essere posta su un piano di identità con lo sterminio razziale." Il campo di concentramento, il gulag, questa atrocità che squalifica il potere che ne faccia uno strumento per il proprio funzionamento, non possono essere messi sullo stesso piano del campo di sterminio nazista. Auschwitz e la Kolyma, i due simboli più spaventosi dei regimi nazista e sovietico, non sono della stessa natura.

A partire dalla guerra fredda, la teoria del totalitarismo si è poi, a poco a poco, concentrata sui regimi comunisti, lasciando da parte il nazismo vinto, e divenendo un'arma ideologica della stessa guerra fredda. Utilizzato all'epoca essenzialmente da correnti di destra, questo concetto doveva essere più tardi reimpiegato da un pensiero di sinistra; negli anni cinquanta, era tuttavia stato difeso da una frangia dell'estrema sinistra antistaliniana proveniente dal trockijsmo, in particolare in Francia, dal gruppo Socialisme ou barbarie di Claude Lefort e Cornélius Castoriadis. Da parte sua, senza utilizzare il concetto di totalitarismo, David Rousset pubblica nel 1951 Pour la vérité sur les camps concentrationnaires, un testo che denuncia fra i primi i campi di lavoro sovietici.

Prima di divenire una sorta di monopolio, se non di vessillo, del pensiero di destra, la forza di questa teoria è stata quella di riflettere e di sforzarsi di lottare, negli anni trenta, contro tipi di regimi politici fino a quel tempo sconosciuti, che utilizzavano forme di tirannia originali e particolarmente terribili: questi regimi si fondavano su una violenza senza pari nella storia e su mezzi interamente nuovi per imporla. E, di fatto, stalinismo e nazismo presentano un certo numero di somiglianze: partito unico che cerca di controllare l'insieme degli aspetti della vita sociale e privata degli individui; ideologia ufficiale imposta a tutti attraverso il culto del capo; rifiuto della democrazia parlamentare; assenza di legalità, a tutto vantaggio di un regime eccezionale; terrore su larga scala; volontà di sopprimere ogni conflitto interno; centralizzazione della vita politica ed economica. Con questi mezzi, lo stato riesce anche a fare interiorizzare dagli individui il proprio ordine, approdando, in tal modo, a una forma di violenza estrema e raffinata.

Il punto cruciale di questa teoria, espressa da Hannah Arendt, si basa innanzitutto su una riflessione filosofica originale; deve molto all'intensità del suo impegno personale e intellettuale, all'insistenza che la Arendt impiega nel cogliere il carattere senza precedenti della rottura ideologica introdotta dal totalitarismo. Questa opera ricca, seducente, ma utilizzata - suo malgrado? - dalla guerra fredda, rivela tuttavia una debolezza che tutte le espressioni della scuola totalitaria riproducono: si limita a una visione dall'alto, ideologica, secondo la quale la società è ridotta a nulla, polverizzata; le masse sarebbero atomizzate davanti al potere totalitario. Questa visione dello strapotere del livello politico, dell'ideologia, dell'idea - c'è chi impiegherà il termine di ideocrazia - ignora completamente la realtà delle società in questione, in particolare tutto ciò che concerne la loro vita sociale; tace sulle condizioni economiche, sociali, culturali e religiose nelle quali queste società evolvono. Si limita ai discorsi dei loro dirigenti e alle analisi dei teorici. Al di là dell'idea e del discorso, non si interroga mai sulle concrete condizioni di vita di queste società. Per François Furet, il più recente difensore della teoria del totalitarismo in Francia, la storia del comunismo si riduce alla storia di un'illusione al di fuori di qualsiasi storia sociale: ciò è tanto più sorprendente in quanto, da due decenni, la storia sociale, in particolare quella dell'URSS, si è profondamente rinnovata.

Perciò la nozione di totalitarismo è stata respinta da numerosi storici, innanzitutto gli storici del sociale, che lavorano sulla Germania nazista o sui paesi del socialismo reale: la negazione, l'oblio della realtà di questa società dipendeva in primo luogo dalle pretese dei poteri totalitari, o dall'ignoranza dei pensatori ossessionati da questo pericolo, un pericolo reale. Le ricerche hanno contribuito a mettere in evidenza forme banali, talvolta sorprendenti, di funzionamento della società attraverso molteplici resistenze del sociale; hanno, soprattutto, restituito il complesso movimento della storia, laddove la scuola totalitaria si limitava a ciò che stava fuori dal mondo, fuori dalla storia. Di fronte al "pulviscolo sociale", il totalitarismo dall'alto sembrava così potente che questi regimi non potevano evolversi e incontrare la storia reale, in mancanza di una possibile contestazione interna. Per i fautori della scuola totalitaria, se tali regimi potevano essere distrutti dall'esterno - fu questo il caso del nazismo - erano però incapaci di cambiare da sé. Da qui due sorprese, dopo il 1953 e poi dopo il 1989/1991. Dopo la morte di Stalin, i cambiamenti furono, dapprima, negati. Davanti all'evidenza di un totalitarismo sempre brutale, ma che diveniva meno estremista e si decomponeva da solo, situazione incompatibile con le spiegazioni date in origine, gli approcci della scuola totalitaria si sono progressivamente modificati, e notevolmente indeboliti; si sono adattati di volta in volta e a posteriori alle tappe dell'evoluzione dei paesi dell'Est. Hanno così perduto il loro potere esplicativo e la forza di suggestione delle loro ipotesi iniziali; sono divenuti l'equivalente di ciò che, in altri tempi, era stata l'espressione "fascista": un termine vago e largamente diffuso, una sorta di ingiuria utilizzata comunemente, identificata con un regime o con un comportamento autoritario e intollerante. Dopo il 1991, con il crollo dell'URSS e dei regimi che si richiamavano al socialismo reale, il problema si pose con acutezza ancora maggiore: questo epilogo non era stato previsto da nessuno, e in particolare da coloro che difendevano la finzione di un sistema di dominio senza incrinature, incapace di evolversi.

Da un punto di vista scientifico, la nozione di totalitarismo non è più rigorosa, in particolare per quanto riguarda la violenza. Il nazismo si identifica con il mantenimento e il rafforzamento di un estremismo fino alla sua distruzione; non si può, invece, istituire un legame indissolubile fra violenza estrema - il gulag sterminatore - e l'insieme dei regimi comunisti. Bisogna cercare altrove, sul versante della storia sociale, e questo tanto più in quanto l'implosione dell'URSS, fra altre conseguenze, ha permesso l'apertura di molti archivi dell'Unione Sovietica, dell'Internazionale comunista e delle sue sezioni. Questo cambiamento modifica la ricerca storica sull'Unione Sovietica secondo proporzioni che non si possono ancora misurare: in un modo o nell'altro, lo spoglio di questi archivi determinerà un approfondimento della storia sociale dell'ex patria del socialismo, a scapito dell'approccio totalitario, essenzialmente ideologico.

Ma la questione aperta nei dibattiti sul periodo tra le due guerre rimane attuale: come spiegare la violenza propria del secolo, l'estremismo della crudeltà, lo sterminio dell'altro, il genocidio, i massacri di massa, che fanno del XX secolo uno dei più terribili periodi della storia? La sistematica violenza nei confronti di popolazioni ed etnie non è solo appannaggio del comunismo, del nazismo o delle varianti del fascismo: il genocidio dei popoli non è cessato, né nel 1945 né nel 1991. Dal genocidio degli armeni nel 1915 alla Cecenia oggi, l'estrema violenza è onnipresente; su un altro versante, Hiroshima simboleggia, in misura analoga, la capacità di annientamento di questo secolo. Più in generale, la storia del comunismo è indissociabile dall'esistenza di una violenza che ha avuto inizio nel 1914 e si protrae fino ai nostri giorni. Si tratta di una violenza nel secolo o di una violenza specifica del secolo?

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Politicizzazioni operaie e comunismo
di Bernard Pudal



Classe operaia e comunismo, questo è la coppia concettuale che cerchiamo qui di esaminare, non solo perché non è un buon modo di procedere quello di supporre una relazione necessaria fra queste due realtà, ma ancor più perché non è impossibile che si abbia almeno in parte a che fare con una "tradizione inventata". Che il comunismo abbia rivendicato, conformemente alla tradizione marxista-leninista, la propria relazione privilegiata con il mondo operaio, non c'è dubbio. Che il mondo operaio sia stato di frequente uno dei gruppi supporto del radicamento comunista, è innegabile. Ma è altrettanto vero che molti paesi in cui esisteva una classe operaia importante e organizzata non hanno affatto subito l'influenza del comunismo, mentre, al contrario, i paesi in cui il comunismo si è radicato in maniera autonoma e durevole (Russia, Cina, Vietnam, Cuba) si caratterizzano, appunto, per la relativa emarginazione del gruppo operaio e la rilevanza delle questioni contadina e nazionale. A Ovest, con l'eccezione di qualche caso notevole - la Francia soprattutto, e l'Italia - le varie classi operaie delle grandi nazioni occidentali hanno opposto al comunismo un tenace scetticismo. L'interpretazione di un tale divorzio non può essere che prudente.

Vero e proprio caso di imposizione di una problematica, che il movimento comunista internazionale non ha cessato di ribadire e che si è, in misura ora maggiore ora minore, imposta a molti analisti, la relazione necessaria fra comunismo e classe operaia è un pregiudizio. Che un tale preconcetto — il quale non fa che ratificare la rappresentazione dominante data dal comunismo di se stesso - sia stato, certo, scalfito da numerosi studi, ma non sia stato ancora preso in esame nei suoi fondamenti, indica forse che è legato a un altro apriorismo, più tenace, quello della relazione necessaria tra operai e movimento comunista. Ora, da una ventina d'anni, molteplici ricerche, aventi in comune il fatto di esaminare il gruppo operaio stesso, ci invitano a una inversione della prospettiva: non più partire dalle organizzazioni e nemmeno dai militanti o dagli elettorati, ma dai gruppi operai e dai loro specifici modi di vita, interrogandosi sui loro rapporti con il livello politico, parzialmente espressi e ritradotti dalle organizzazioni e dai movimenti che li rappresentavano.

Questa inversione della prospettiva, la si debba alla prospettiva costruzionista, inaugurata da E.P. Thompson (Inghilterra), alla storia della quotidianità (Germania), alla storia sociale e all'antropologia politica (Francia) o alla microstoria italiana, risulta dalla presa in considerazione delle "culture popolari", e porta a ridefinire le forme di politicizzazione operaia. Per saggiare la consistenza di questi ostacoli epistemologici, occorre dunque senz'altro cominciare ricordando a che punto sia la riflessione metodologica sui problemi posti dall'analisi delle classi popolari. Cercheremo, in un secondo tempo, di trarne qualche indicazione in relazione alla storia e alla sociologia del comunismo.


Questioni di metodo: operai, culture operaie e politicizzazione democratica

Le analisi delle classi popolari in senso ampio, al di là della loro varietà disciplinare e, più specificamente, in relazione alle loro culture, possono essere ricondotte, se si seguono Claude Grignon e Jean-Claude Passeron, a tre grandi famiglie, sottese da tre grandi posizioni tipiche. La prima posizione, al tempo stesso la più datata e la più ricorrente, altro non è che l'etnocentrismo di classe. Forma di razzismo di classe, «inteso come certezza, propria di una classe, di monopolizzare la definizione culturale dell'essere umano, vale a dire degli esseri che meritano di venir pienamente riconosciuti come tali», l'etnocentrismo di classe si manifesta in tutte le analisi delle classi popolari che tendono, in maggiore o minor misura, a ridurle alla lora animalità (le folle, le masse, il numero), a una natura violenta (classi pericolose, barbare), a un tipo di comportamento (l'autoritarismo operaio, l'imitazione, il consumo alienato). Il Popolo, "béte chose", scriveva Flaubert nel suo Dizionario dei luoghi comuni. Venuto a galla, assunto e teorizzato nel XIX secolo (il razzismo antipopolare era allora alleato con le teorie della degenerazione proprie dei darwinismi sociali), è oggi il più delle volte eufemizzato, alterato nella sua essenza, ripudiato, dunque più difficile da scoprire, ma altrettanto pregnante. La denigrazione delle élite operaie militanti ne costituisce una delle più frequenti riedizioni: accompagna tutti i tentativi compiuti da militanti operai per accedere alle posizioni di potere politico.

Analoga alla rottura operatasi in etnologia, è da una rottura con il razzismo antioperaio che deriva la seconda posizione, il relativismo culturale. Il suo principio: ogni gruppo sociale possiede il proprio irriducibile simbolismo o, se si vuole, il proprio dominio culturale. Le culture devono quindi essere descritte, non gerarchizzate. Il riconoscimento di un universo simbolico operaio relativamente autonomo va dissociato da tutti i populismi di matrice erudita o politica, che tendano ad attribuire dignità a una natura operaia: il più delle volte la loro fonte è un antintellettualismo da intellettuali in crisi, che peraltro sotto molti aspetti è solo una forma paradossale di disprezzo di classe nei confronti dei subordinati. Va da sé che fra questi intellettuali in crisi, portati alla critica, non si devono escludere a priori gli intellettuali organici (come Gramsci li definisce) della classe operaia, altrimenti detti militanti. L'operaismo comunista del XX secolo è, in tal modo, perfettamente compatibile con il disprezzo manifestato dai membri dell'apparato, per esempio sotto lo stalinismo, verso gli operai veri e propri, spesso poco disposti a giocare il ruolo che si tende a imporre loro.

La terza posizione, scaturita dalla teoria weberiana della legittimità, costringe a riflettere sul carattere "secondario" o "relativo" delle culture operaie, nella misura in cui mette l'accento sul contributo specifico che le rappresentazioni della legittimità portano all'esercizio e alla perpetuazione del potere. In una società stratificata in classi, oggettivamente e simbolicamente gerarchizzate, la cultura legittima non è altro che la cultura dominante, e l'analisi delle culture proprie delle diverse classi, non può tralasciare i rapporti sociali che si stringono nel contesto di una ineguaglianza di forze e di una gerarchia delle posizioni, poiché gli effetti di questi rapporti sono compresi nel significato dell'oggetto da descrivere. Fra gli operai, in tutti i comportamenti di autoesclusione, di ratifica della propria inferiorità, di incompetenza confessa, di impotenza e di rassegnazione si possono empiricamente identificare tali effetti derivanti dal riconoscimento di valori che li escludono. La teoria della legittimità, quando non è associata al relativismo culturale, scivola spesso verso svariate forme di miserabilismo che tendono a privilegiare il distanziamento nei confronti della cultura legittima, le incompetenze statutarie, gli handicap e i fenomeni di spossessamento.

Queste tre posizioni sottendono gli studi sulla politicizzazione operaia, poiché ognuna di esse induce a privilegiare un tipo di definizione della nozione di politicizzazione. Si possono allora distinguere gli studi che mettono l'accento sugli effetti di legittimità da quelli che tentino di ricostruire gli universi di senso politico specificamente operai.

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