Autore Réjean Ducharme
Titolo Inghiottita
EdizioneLa Nuova Frontiera, Roma, 2018, Il basilisco , pag. 336, cop.fle., dim. 13,8x21x2,5 cm , Isbn 978-88-8373-328-4
OriginaleL'avalée des avalés
EdizioneGallimard, Paris, 1966
TraduttoreAlice da Coseggio
LettoreAngela Razzini, 2019
Classe narrativa canadese












 

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Tutto m'inghiotte. Quando ho gli occhi chiusi, è il mio ventre che m'inghiotte, è nel mio ventre che soffoco. Quando ho gli occhi aperti, è ciò che vedo che m'inghiotte, è nel ventre di ciò che vedo che soffoco. M'inghiotte il fiume troppo grande, il cielo troppo alto, i fiori troppo fragili, le farfalle troppo timorose, il volto troppo bello di mia madre. Il volto di mia madre è bello per niente. Se fosse brutto, sarebbe brutto per niente. I volti, belli o brutti, non servono a niente. Guardiamo un volto, una farfalla, un fiore, e questo ci tormenta, poi ci irrita. A lasciar fare, si finisce per disperare. Non dovrebbero esserci né volti, né farfalle, né fiori. Che abbia gli occhi aperti o chiusi, sono inglobata: d'un tratto non c'è più abbastanza aria, il cuore si stringe, la paura mi afferra.

D'estate gli alberi sono vestiti. D'inverno gli alberi sono nudi come vermi. Si dice che i morti mangino i piscialletto dalla radice. Il giardiniere ha trovato due vecchie botti nel granaio. Sapete cosa ne ha fatto? Le ha segate in due per farne quattro secchi. Ne ha messo uno sulla spiaggia e tre nel campo. Quando piove, la pioggia ci rimane intrappolata dentro. Quando hanno sete, gli uccelli smettono di volare e ci vanno a bere.

Sono sola e ho paura. Quando ho fame, mangio i piscialletto dalla radice e passa tutto. Quando ho sete, tuffo la faccia in uno dei secchi e aspiro. I capelli rotolano nell'acqua. Aspiro e passa tutto: non ho più sete, è come se non avessi mai avuto sete. Sarebbe bello avere tanta sete quant'è l'acqua di un fiume. Ma beviamo un bicchier d'acqua e non abbiamo più sete. D'inverno, quando ho freddo, entro e mi metto il mio grosso maglione blu. Esco di nuovo, ricomincio a giocare nella neve, e non ho più freddo. D'estate, quando ho caldo, mi tolgo il vestito. Il vestito non si appiccica più alla pelle e io sto bene, e mi metto a correre. Corriamo nella sabbia. Corriamo, corriamo. Poi abbiamo meno voglia di correre. Siamo stufi di correre. Ci fermiamo, ci sediamo e sotterriamo le gambe. Ci sdraiamo e sotterriamo tutto il corpo. Poi siamo stanchi di giocare nella sabbia. Non sappiamo più cosa fare. Ci guardiamo attorno come a cercare. Guardiamo, guardiamo. Non vediamo niente di bello. Se stiamo attenti a quando si guarda così, ci accorgiamo che quello che guardiamo ci fa male, che siamo soli e abbiamo paura. Non c'è niente da fare contro la solitudine e la paura. Nulla può aiutare. La fame e la sete hanno i piscialletto e l'acqua piovana. La solitudine e la paura non hanno niente. Più si cerca di calmarle, più quelle si dimenano, gridano, bruciano. L'azzurro crolla, i continenti sprofondano: restiamo nel vuoto, soli.

Sono sola. Mi basta chiudere gli occhi per accorgermene. Quando vogliamo sapere dove siamo, chiudiamo gli occhi. Siamo lì dove siamo quando abbiamo gli occhi chiusi: nel buio e nel vuoto. Ci sono mia madre, mio padre, mio fratello Christian, Constance Chlore. Ma loro non sono lì dove sono io quando ho gli occhi chiusi. Lì dove sono io quando ho gli occhi chiusi, non c'è nessuno, ci sono sempre e solo io. Non bisogna curarsi degli altri: loro stanno da un'altra parte. Quando parlo o gioco con gli altri, so benissimo che loro sono lì fuori, che non possono entrare dove sono io e che io non posso entrare dove sono loro. So benissimo che appena le loro voci non m'impediranno più di sentire il mio silenzio, mi riprenderanno la solitudine e la paura. Non bisogna curarsi di quel che avviene sulla superficie della terra e sulla superficie dell'acqua. Non cambia nulla di ciò che avviene nel buio e nel vuoto, lì dove siamo. Nel buio e nel vuoto non succede niente. Si aspetta, sempre. Si aspetta di fare qualcosa perché passi, per uscirne. Gli altri, sono una cosa lontana. Gli altri, come le farfalle, fuggono via. Una farfalla è lontana, lontana come il firmamento, anche quando la teniamo in mano. Non bisogna curarsi delle farfalle. Si soffre per niente. Ci sono solo io qui.

Mio padre è ebreo, e mia madre cattolica. La famiglia va male, non naviga a gonfie vele, non è una famiglia con il vento in poppa. Quando si sono sposati, si sono accordati su una specie di spartizione dei bambini che sarebbero venuti. Hanno perfino firmato un contratto a tal proposito, davanti al notaio e davanti a testimoni. Lo so: ascolto dal buco della serratura quando litigano. Secondo il loro compromesso, il primo rampollo va ai cattolici, il secondo agli ebrei, il terzo ai cattolici, il quarto agli ebrei, e così via fino al trentunesimo. Come primo rampollo, Christian è della signora Einberg, e la signora Einberg lo porta a messa. Seconda e ultima rampolla, io sono del signor Einberg, e il signor Einberg mi porta in sinagoga. Ci possiedono. Sono sicuri di possederci. Ci possiedono, ci sorvegliano. La signora Einberg ha Christian e lo sorveglia. Il signor Einberg ha me e sorveglia me. Ci ho messo un po' di tempo per capirlo. Non sembra difficile da capire, ma quando ero più piccola mi sembrava che non avesse senso, che fosse impossibile che i miei genitori potessero non amarsi e non amarci come io amavo loro.

Il signor Einberg vede di cattivo occhio che il suo avere giochi con l'avere della signora Einberg. Sta sui carboni ardenti quando io e Christian giochiamo insieme. Pensa che la signora Einberg si serva di Christian per mettere le mani su di me, per sedurmi e per rubarmi. La signora Einberg dice che io sono sua figlia allo stesso titolo di Christian, che una madre ha bisogno di tutti i suoi figli, che un bambino ha bisogno della sua sorellina e che una bambina ha bisogno del suo fratellone. Io faccio finta di stare al gioco che il signor Einberg pretende che stia giocando la signora Einberg. E questo lo fa arrabbiare. Si lancia all'assalto della signora Einberg. Litigano continuamente. Li guardo fare di nascosto. Li guardo urlarsi addosso. Li guardo odiarsi, odiarsi con quanto di brutto possono avere negli occhi e nel cuore. Più si urlano in faccia, più si odiano. Più si odiano, e più soffrono. Dopo un quarto d'ora si odiano a tal punto che posso vederli torcersi come vermi sulla brace, posso sentire i loro denti digrignare e le loro tempie pulsare. Mi piace. A volte mi piace così tanto che non riesco a trattenermi dal ridere. Odiatevi, branco di buffoni! Fatevi male, voglio vedervi soffrire un po'! Contorcetevi un po' così io rido!

Hanno mandato Christian lontano da me. Che onore! Lo hanno messo in una busta e spedito a un campo scout. Vai a fare delle B.A., Christian, lontano dalla tua velenosa sorellina! Quando arrivano le vacanze non c'è scampo: uno di noi due deve partire. Se non spediscono me in giro con il coro, Christian è spedito a un campo scout. La signora Einberg non è d'accordo. Ma lasciali in pace questi ragazzi, razza di folle! Il signor Einberg, signore delle partenze, non ne vuol sapere, tiene duro. Se non mandi il tuo moccioso a fare delle B.A., io mando la mia a fare delle scale! I viaggi deformano la gioventù! grida lei. I viaggi formano la gioventù! grida lui.

Io sono solo una femmina. Einberg mi ha, ma non è contento di avermi. È geloso dell'altro. Preferirebbe avere Christian. Una femmina non va bene, non vale niente. Che me ne frega! Che si arrangino! Aspetto che Christian ritorni. Lui non fa mai niente di cattivo. Non dice mai niente di brutto. Tutto ciò che fa e tutto ciò che dice è dolce, dolce e triste come un fiore, come l'acqua, come tutto ciò che è tranquillo e lascia tranquilli. Christian è dolce come una cosa. Ci sono le cose, gli animali e gli uomini. Vaccata d'una vaccata! Vero?

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A che pro oppormi, gridare, ribellarmi, distruggere? Mi sto cercando, come dice il dottore. A che pro? Più mi scavo dentro, più mi deterioro. Mi sto cercando dentro un nodo, e a quel nodo non arriverò mai. So che non c'è. Ambivo a rifare il caos dentro di me, a riprendere tutto da zero. Ho paura che arrivando a zero non ci sia più niente da riprendere. Mi sto cercando, come dice il dottore. Non vuol dire un granché. Sono viva. Non so cosa si debba fare quando si è vivi. Ho la vita. Non so proprio cosa devo farne. Non so che fare. Ho brancolato e brancolato. Non sono arrivata a niente. Sono arrivata in un paese dove mi annoio a morte. Uccidersi, brancolare o lasciarsi andare. Quando uno ci tiene a essere la legge della propria vita, uccidersi, brancolare e lasciarsi andare non valgono. Avevo voglia di lasciarmi morire, così per fare, per svagarmi. Per farmi un'anima mi sono distrutta il cuore, ho bruciato tutto quello che avevo di spontaneo. Ho dato solo qualche colpo di scure all'orologio e già quello non funziona più, già sono malata, già rimpiango amaramente, già vorrei poter raddrizzare tutto, rinsaldare tutto, riparare tutto, già mi piacerebbe ritrovare tutte le viti. Sicuramente mi ristabilirò. Ma non potrò ritornare indietro. Che i colpi di scure siano dieci o mille, non si può tornare indietro con un solo colpo di scure. È una cosa che mi gela di paura. Quando nasciamo, funzioniamo. Se ci lasciamo andare per tutta la vita, continuiamo a funzionare per tutta la vita. Il motore che mi fa funzionare sfugge alla mia intelligenza e alla mia volontà. E questo mi irrita. Armata di scure, apro il motore. Mi lustro gli occhi, studio, capisco. La scintilla fa esplodere la benzina. Per la forza dell'esplosione, il pistone affonda giù. Affondando, il pistone aziona l'albero a gomiti. L'albero a gomiti fa girare l'albero, e il differenziale trasmette il movimento dell'albero alla ruota. È l'uovo di Colombo. Ma ci penso: questo motore non mi obbedisce. Se gli parlo, non mi ascolta. Fa sempre di testa sua. Se non obbedisce a me, a chi altro obbedisce? Non lascerò che queste forze conducano le danze nella mia vita. Un colpo di scure dopo l'altro rompo la scintilla, la benzina, il pistone, l'albero a gomiti, l'albero e il differenziale. Questa ruota girerà solo come voglio io! Appoggio la spalla alla ruota e spingo. Non andremo lontano, Bérénice, ma andremo a modo nostro, coi nostri mezzi. Mi affatico, mi ammalo. Fanno venire il dottore. Il dottore dice che rimetterà il motore in marcia ma che non funzionerà mai più come un motore che si è lasciato in pace. Non potrò mai più credere. Finiti gli ingranaggi e le molle dei miei sentimenti. Non credo in nessuno. Non credo in niente. Ho solo la ruota e la volontà.

Bando ai massacri! Le forze straniere che mi dirigono non hanno solo la loro odiosa onnipotenza, hanno anche della tenerezza. Non si limitano a prendere per la gola. A volte prendono anche per il collo. Lasciale fare. Disinnesta. Molla la presa. Chi sa dove ti portano? Non hai voglia di sorprese e di scoperte? Nulla è meno sorprendente, nulla è più noioso dei paesi che noi stessi creiamo. Lasciale prenderti, sorprenderti, condurti in incognito. Chi si cerca, non trova nulla. Chi si cerca, cerca qualcuno di diverso da sé in se stesso. Se va fino in fondo trova un protozoo. Al di là del protozoo, è la materia. Al di là della materia, il nulla. L'uomo si è sviluppato a partire da un protozoo. Non si può seriamente voler riprendere tutto da capo senza ridiventare senza vita. Ma prima, bisogna ridiventare scimmia, sauro, trilobite, protozoo. A vedermi giacere su questo letto, immobile, non facendo altro che lasciare il cuore battere e i polmoni fissare l'aria, verrebbe da credere che io abbia raggiunto l'ultimo stadio dell'evoluzione delle specie al contrario, che non sia lontana dal nodo, delle famose origini: la morte, l'inerte, il vuoto, il nulla,

Il mio dottore è tanto ferrato in psichiatria che in endocrinologia. Con il suo cacciavite a pillole, traffica nella mia testa, nel mio radiatore. Pulisce le candele della mia ghiandola tiroidea. Mi dice che la pompa del mio radiatore non aspira più, che la deve smontare. Si prende gioco di me. E io mi prendo gioco di lui. Ci facciamo ridere. Da quando mi rappezza, non è che la vita mi sembri più interessante, ma meno impossibile. Parliamo dei motori a scoppio. To be or not to be. Ancora una volta, senza crederci, per niente, per spasso della cosa, ho scelto di vivere. Me lo riprometto.

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I malati si vegliano. Gattamammona mi veglia. Non è che sia vigile vigile. Spesso è sulla luna. Gira bruscamente la testa. Vede che la guardo, che lascio la sua bellezza giocarmi nelle idee. Ha l'aria sorpresa. Pensava che dormissi. La sorpresa le passa, mi sorride, mi mette la mano sulla fronte.

«Salve, scimmietta!»

Sorride, tutta impacciata. Fa bene a essere impacciata. Mi ero ripromessa di ignorare la sua presenza. Per un mese ho fatto finta di non vederla. Ed ecco che ora la guardo, dritto negli occhi; ecco che non ho distolto lo sguardo.

«Cosa vedo! Cosa devo pensare? Mi vedi, o fai soltanto finta? Sarà mica che ti degni di notare la mia presenza? O è solo un altro trucchetto per farmi parlare a vuoto? Vedo una luce nei tuoi occhi. Per caso una brace ti cova in fondo a quella testa fredda? Presto, bisogna soffiarci sopra!»

Non avendo la meglio sulla sua aria contenta con le mie smorfie più astiose, le volto la schiena. Lei si alza, si china su di me, mi prende per i gomiti. E piano piano e tiepidamente, a piccoli colpi, mi soffia nell'orecchio. D'un tratto è fatta! Sono fregata. Perdo la testa. D'un tratto in me è la rottura delle chiuse, l'esplosione delle dighe e degli sbarramenti. Lo so che questa donna è falsa; me lo dico, me lo ripeto, ma è inutile. Presa da un grande abbaglio, dimentico tutto, perdo tutto. Precipito da tutte le mie cime, mi schianto. Mi manca il terreno sotto i piedi, ruzzolo. Tutto mi scivola tra le dita. D'un tratto, quasi mossa da un'esplosione vulcanica, mi giro, mi raddrizzo, mi lancio, mi getto nelle sue braccia, mi aggrappo al suo collo. Lei mi stringe con forza, senza dire nulla. Passano lunghi minuti. Il silenzio è così completo, così fitto, così ricco che, come sott'acqua, non riesco più a respirare. Ho caldo, un caldo delizioso, talmente caldo che ho l'impressione di fondere, di evaporare.

«Non muoverti! Non dire niente. Ti voglio bene. Stai. Stai qui. Stai così.» Le ripeto le stesse parole, cento volte. Devo parlare. Ho così tante parole in gola che soffoco. Con un unico gesto e un unico movimento, mi strappa dal letto e mi lancia fino al soffitto. Mi agita tra sue braccia tese, come un trofeo. Ride. Mi fa scendere e mi trascina nella più buffa delle danze, nel più assordante dei girotondi. Giriamo a tutta birra sul parquet come mille trottole. Giriamo così veloce da riempire di piedi il parquet, di piedi la superficie del paese. I quattromila muri della camera trottolano alla velocità del carro di Fetonte. I mobili e le cassettiere si sovrappongono, si mischiano, diventano gassosi, si trasformano in orizzonti volteggianti, si fondono in un vortice di nebbia. Lei ride. Ah! quanto ride! Infine, senza più forze, ci fermiamo. Dopo aver barcollato e tentennato, si lascia cadere lunga distesa in mezzo al pavimento. Supine, tenendoci la pancia, sbuffiamo come due locomotive. Lei si fa seria. Prende un'aria compassata. Piange.

«Chiunque tu sia, tesoro mio, ti voglio bene. Sappilo! Chiunque tu divenga, tesoro mio, resterai sempre la mia bambina, avrai sempre diritto a me. Ovunque ti debba trascinare la tua corsa verso la felicità, sappi che io sarò a ogni curva della strada, che in fondo a ogni vicolo cieco ti aspetterò a braccia aperte. Ricordati che ti voglio bene, ti supplico.»

Si rialza. Mi tende la mano per aiutarmi ad alzarmi. Trovo ridicolo quello che ha appena detto. Ma cosa non si perdonerebbe a qualcosa di bello come lei?

«Dormi ora...»

Voglio che si stenda con me. Non so come dirglielo.

«Devi essere stanca...» le dico, ipocritamente. «È più di un mese che passi le tue notti a vegliarmi... Vieni. Stenditi un po' vicino a me. Guarda: ti ho fatto un posto bello grande.»

All'inizio non vuole. Io insisto. Supplico. Infine accetta. Vederla piangere mi fa piangere. Ho un nodo in gola. Mi prude il naso. Ho gli occhi pieni di lacrime. Sdraiata lì, vicina vicina nel mio letto, mi dà l'impressione di lasciare che mi appartenga, di lasciare che la possieda. Sdraiata al posto delle bambole che ho avuto, mi dà l'impressione di essere la mia bambola, di essere tutta mia. Da dove sono non la vedo abbastanza bene, non godo abbastanza della sua presenza. Mi alzo e vado a mettermi in ginocchio vicino al suo ventre. La vista è migliore. La vedo come volevo vederla, l'ho come volevo averla. A vederla stesa sotto di me nel mio letto, nella nave della mia paura e dei miei incubi, ho la violenta sensazione di prenderla, di tenerla, di averla nell'anima. Sono un paese. Lei è nel paese che io sono, come l'isola è nell'acqua. Voglio toccarla. Voglio afferrare, prendere con le mie mani. Voglio percorrerla con la mano, dalla testa ai piedi.

«Dammi la mano.»

«Per farne cosa?» domanda, con un tono canzonatorio che mi fa arrossire della mia gravità.

«Per guardarla.»

«È buio pesto. Non vedrai granché. Vuoi che accenda?»

«No! Non accendere. Niente accensione!»

Ascolto quello che dico come se fosse qualcun altro a parlare. Lei mi tende una mano, presentandomi il dorso, la parte scura, la parte che forma il pugno, la parte che si vede quando la mano è chiusa.

«Non hai sentimenti. Chi ha sentimenti offre il bianco della mano, la parte che si scopre quando si apre il pugno, la parte la più morbida, la meno ossuta, la più segreta. Tu mi offri la mano che si ha quando si vuol dare un manrovescio.»

«Ho delle brutte maniere.»

Le prendo la mano, il bel grappolo di dita con la testa di diamanti rosa. Stringo nel pugno una di quelle dita fine e flessibili come erba. Mi sposto, vado ad accovacciarmi a fianco al suo viso. Con il dito, con un gessetto immaginario, traccio la linea del ponte dei suoi occhi chiusi, della baia della sua fronte, dell'arco ad ansa della sua mascella, della cresta del suo naso.

«Sei bella, sai. Non c'è niente di più bello di te. Sei più bella di un albero.»

Lei fa un piccolo sorriso, emette dal naso un piccolo sospiro disilluso. Mi sdraio sul suo petto e le chiedo di mettermi le mani sugli occhi. Lei posa i palmi freddi sui miei occhi bollenti.

«Appoggia più forte. Vedrai: è divertente.»

Stringe un po'. Allora muovo le palpebre e le domando a cosa la fa pensare.

«A cosa dovrebbe farmi pensare?»

«Quando stringiamo un bruco nel pugno, lui si agita; e fa lo stesso solletico.»

«Che schifo!» grida con il petto tutto tremante.

Faccio scivolare il viso fino al suo ventre. È molle, come neve. Come neve calda. Peso sul suo ventre con la faccia, molto forte, da rompermi il naso.

Lei incrocia le mani sulla mia nuca.

«Non sei più sola, tesoro mio. Dormi ora. Dormi. Dormi.»

«Se lo dici tu. Perché dormire? Perché il pallore della vita ritorni più in fretta?»

«Il pallore della vita?...» ride.

Stiamo in silenzio. L'amore mi ha fecondata. L'amore mi circola nelle vene. E fino all'alba, a ogni battito del cuore, rischio quasi di morire.

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Con la testa coronata di filatteri, preghiamo mattino e sera. È la santità. Non è divertente. Arriviamo a New York come balene in un acquario: senza posto. Arriviamo da Zio come tonni in una scatola di sardine sott'olio. Nella nona gabbia del colombario prismatico a dieci gabbie in cui ha appollaiato la sua nidiata non c'è posto. Come si chiamano, alunna Einberg, quelli che vivono negli iglù? Si chiamano eschimesi, signorina. Come si chiamano, alunna Einberg, quelli che vivono negli appartamenti? Non li chiamiamo, signorina, non ne vale la pena. Sono esseri umani, alunna Einberg, uomini! Lei vuole darmela a bere, signorina, vuole darmela a bere. I miei cugini portano lo zucchetto, come i vescovi. E si tolgono il loro zucchetto multicolore solo per dormire. In cima alle loro tempie rasate, lasciano crescere ciuffi di peli caudali e ridicoli. Zio non fa vivere la sua famiglia in cima a questo colombario perché è povero. No. È molto ricco. La fa vivere in cima a questo colombario per santità. Se sei santo, devi sembrare povero. Quelli che, per sentito dire, dubitano della santità di Zio e della sua nidiata, basta che vengano a vedere. La lunga barba tarlata di Zio e le tempie a coda dei suoi figli sono categoriche, mettono fine a ogni discussione. Per me, santi o meno, sono scimmie. Sono elefanti! Sono conigli! Sono maiali! Io sono volgare. Da quando vivo santamente, non sono volgare per golosità, ma per ascetismo.

Zio, Zia, i due cugini e le due cugine ci ricevono con la più grande cordialità. Ci stritolano le mani. Sono felicissimi di conoscerci.

«Glad to know you. Hope you'll like it here. Come on. Let me show you your room.»

Sono gentili da morire. Sono felici da morire. Sono felici da morire perché sono santi da morire. Sono santi da morire perché sono ospitali da morire. Qui dentro bisogna entrare come si entra in un fiume di coccodrilli, come si entra in una palude di ippopotami. Già dalla soglia puoi vedere i loro cuori aprire enormi fauci armate di spade, una benna automatica fatta per mangiarti vivo. Entrando qui io mi sono chiusa, come un'ostrica in pericolo. Sono troppo gentili. E poi non mi fido del contatto. Un contatto è una crepa, una disponibilità offerta alla menzogna, alla delusione, all'amarezza. Il mio atteggiamento nei confronti dei miei cugini è di una leggera animosità diluita da un grande cruccio d'indifferenza. Ho dei cugini per niente. I miei cugini sono là per niente. Non voglio sapere niente, avere niente. Cugini cari, fate come se non esisteste.

Imparo l'ebraico. È obbligatorio. È molto eccitante. Quando saprò l'ebraico, Zio mi ricompenserà. Mi farà l'onore d'iscrivermi, come sua moglie, i suoi figli, le sue figlie e Constance Chlore, nella lista di chi ha l'onore di leggere dei passaggi della Bibbia ad alta voce prima del pranzo.

La camera che ci hanno dato è una camera famosa. Da sempre riservata alla filantropia, è abitata da fantasmi di ragazzi uno più malato e più triste dell'altro. Le ultime due ragazze alloggiate in questa camera, due sorelle figlie di ubriaconi, hanno fatto una tragica fine. Un mattino le hanno trovate morte, con la bocca come mangiata, le labbra come rosicchiate, grattugiate, che sanguinavano fino al naso e al mento. In un momento di disperazione, avevano rotto silenziosamente il vetro inferiore della finestra a ghigliottina e, masticandolo senza rumore, una scheggia dopo l'altra, l'avevano mangiato tutto. Zio vede di cattivo occhio che io legga Omero e Virgilio, quel turco e quell'italiano. Ma la sua irritazione non fa che eccitare gli appetiti ombrosi che hanno risvegliato in me lui e i suoi ippopocriti.

Nondimeno questa notte, ora, con le gambe contro le gambette fredde di Constante Chlore, mi sento calma, carina, sdolcinata, quasi felice. Mi oppongo! Non ho il diritto di sentirmi quasi felice! È ridicolo! È illogico! Cosa? Sarei addirittura felice... dopo tutto quello che mi hanno fatto! Butto via questi sentimenti ridicoli e illogici. Richiamo indietro con tutte le mie forze l'odio e la disperazione. Nel cuore di una brutta come me, di una che hanno messo al mondo solo per soffrire come me, trovano posto solo odio e disperazione. Bisogna che mi rimetta in fretta a piangere e a digrignare i denti! Mi hanno rubato mio fratello! Mi hanno rubato mia madre! Mi hanno rubato la mia isola! Mi hanno esiliata! Mi hanno messa in gabbia con degli ippopocriti.

«Noi ce ne freghiamo di tutto questo» mi risponde la mia voce. «Noi stasera siamo quasi felici, con le gambe contro le gambette fredde di Constance Chlore.»

Non è vero! Cos'altro mi hanno fatto? Oh Satana, fa che me lo ricordi!... Riprenderò loro quello che mi hanno preso! Le mie forze stanno prendendo forma... Sento ali crescere a spese del mio corpo, allargarsi, gonfiarsi secondo i capricci del vento e strapparmi dal suolo. Mi rendo libera. Mi crescono anche gli artigli. Escono già dalla punta delle dita, facendo scoppiare attorno al loro avorio quella brutta e vile muta che è la pelle. Mi piegano già le dita, mi tirano le mani. Presto potrò guardare il sole in faccia senza restarne abbagliata, come un'aquila. Strano il sogno che sto facendo... Sono in un enorme tempio ipostilo. Sono in fondo a un lungo chiostro con volte così alte da farmi girare la testa. Gattamammona tiene in mano un serpente giallo e nero che sibila di rabbia. Mi annoda il serpente alle reni e questo si trasforma in una cintura di sassi ghiacciati. D'un tratto, come per un'investitura, sono inginocchiata e lei mi tocca la spalla con il piatto di una pesante spada. Come i sassi, anche la spada è ghiacciata. Mi giro. Il vetro inferiore della finestra è rotto e il vento soffia la neve fin sulle mie coperte. Ecco di nuovo Gattamammona. Mi dà il seno. Il latte è meravigliosamente caldo. Il seno si trasforma in una boccia di cristallo stretta dalle dita uncinate di una strega. All'interno della boccia mi tuffo in una foresta profonda dove corre un essere orrendo che, pur essendo senza testa e senza braccia, ride da farmi scoppiare le orecchie e mi accarezza la fronte con la punta delle dita.

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