Copertina
Autore Alexandre Dumas
Titolo Il corricolo
EdizioneColonnese, Napoli, 2004 [1950], Napoletana 7 , pag. 590, cop.fle., dim. 140x205x40 mm , Isbn 978-88-87501-58-2
OriginaleCorricolo [1841]
PrefazioneGino Doria
LettoreFlo Bertelli, 2005
Classe citta': Napoli , viaggi , classici francesi
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Indice

 Alessandro Dumas a Napoli                VII
 Introduzione                               1
      I. Osman e Zaida                      5
     II. I cavalli spettri                 14
    III. Chiaia                            24
     IV. Toledo                            38
      V. Otello                            47
     VI. Forcella                          55
    VII. Serata di gala                    77
   VIII. Il lazzarone                      90
     IX. Il lazzarone e l'inglese         101
      X. Re Nasone                        112
     XI. Aneddoti                         131
    XII. La bestia nera di re Nasone      142
   XIII. Altri aneddoti.                  150
    XIV. I Vardarelli                     160
     XV. La jettatura                     175
    XVI. Il principe di ***               182
   XVII. Il combattimento                 195
  XVIII. La benedizione paterna           206
    XIX. San Gennaro martire della Chiesa 219
     XX. San Gennaro e la sua corte       239
    XXI. Il miracolo                      246
   XXII. Sant'Antonio usurpatore          255
  XXIII. Il cappuccino di Resina          268
   XXIV. San Giuseppe                     284
    XXV. Villa Giordani                   302
   XXVI. Il Molo                          329
  XXVII. La tomba di Virgilio             334
 XXVIII. La grotta di Pozzuoli.
         La grotta del cane               356
   XXIX. La piazza del Mercato            364
    XXX. La chiesa del Carmine            368
   XXXI. Il matrimonio sul patibolo       388
  XXXII. Pozzuoli                         410
 XXXIII. Il Tartaro e i Campi Elisi       418
  XXXIV. Il golfo di Baia                 427
   XXXV. Una corrente d'aria.
         Le chiese di Napoli              436
  XXXVI. Una visita a Ercolano e a Pompei 446
 XXXVII. La via dei Sepolcri              455
XXXVIII. Piccoli affissi                  465
  XXXIX. Casa del Fauno                   473
     XL. Il gran mosaico                  481
    XLI. Visita al Museo di Napoli        493
   XLII. La bestia nera di re Ferdinando  502
  XLIII. L'albergo di Sant'Agata          511
   XLIV. Gli eredi di un grand'uomo       520
    XLV. Strada di Roma                   540
   XLVI. Gasparone                        556
  XLVII. Una visita a S.S. Gregorio XVI   567
 XLVIII. Come, partendo per Venezia,
         si arriva a Firenze              573

 

 

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Pagina 1

INTRODUZIONE



Corricolo è sinonimo di calessino; ma, dato che non esistono sinonimi perfetti, spieghiamo la differenza tra corricolo e calessino.

Il corricolo è una specie di tilbury primitivamente destinato a contenere una persona e ad esser tirato da un cavallo; vi si attaccano due cavalli e trasporta da 12 a 15 persone.

E non si creda che vada al passo, come il carretto trainato da buoi dei re franchi, o al trotto come il biroccino della regía; no, va di triplo galoppo; e il carro di Pluto che rapiva Proserpina sulle sponde del Simeto non era piú ratto del corricolo che solca le strade di Napoli facendo sprizzar scintille dal selciato di lava e sollevando nugoli di cenere.

Eppure un solo de' due cavalli tira veramente, ed è il timoniere. L'altro, detto bilancino, e che è attaccato di fianco, balza, caracolla; eccita il suo compagno, ed ecco tutto. Quale iddio gli ha concesso, come a Titiro, cotanto riposo? È il caso, è la provvidenza, è la fatalità: i cavalli, come gli uomini, hanno la loro stella.

Abbiamo detto che siffatto .cor tilbury, destinato a una persona, ne trasporta abitualmente dodici o quindici; ciò — lo comprendiamo bene — richiede una spiegazione. Un vecchio proverbio francese dice: «quando ce n'è per uno, ce n'è per due». Ma non conosco nessun proverbio in nessuna lingua che dica: «quando ce n'è per uno, ce n'è per quindici».

E invece per il corricolo è proprio così, tanto nelle civiltà progredite ogni cosa è distolta dalla sua primitiva destinazione!

È impossibile determinare con precisione come e in quanto tempo si sia formato, sul corricolo, tale agglomerato successivo d'individui. Contentiamoci, dunque, di dire come vi si mantenga.

Prima di tutto, e quasi sempre, un grosso monaco è seduto in mezzo e forma il centro dell'agglomerato umano che il corricolo trascina come uno di quei turbinii di anime che Dante vide, dietro un grande stendardo, nel primo cerchio dell'inferno. Il monaco sostiene su uno dei suoi ginocchi qualche fresca nutrice di Aversa o di Nettuno, e sull'altro qualche bella contadina di Bacoli o di Procida; ai due lati del monaco, fra le ruote e la cassa, si tengono in piedi i mariti di quelle signore. Dietro il monaco si rizza sulla punta dei piedi il proprietario o il conducente dell'equipaggio, che ha nella mano sinistra le redini e nella destra una lunga frusta con la quale imprime una eguale velocità all'andatura dei due cavalli. Alle spalle di costui si aggruppano, come gli staffieri delle buone famiglie, due o tre lazzaroni, che salgono, scendono, si succedono, si rinnovano, senza percepire alcun salario per la loro prestazione di servizio. Sulle due stanghe sono seduti due monelli raccolti sulla strada di Torre del Greco o di Pozzuoli, ciceroni in sopranumero delle antichità di Ercolano e di Pompei, guide brunite dei ruderi di Cuma e di Baia. Finalmente, sotto l'asse della vettura, fra le due ruote, in un reticolo a grosse maglie, che sbatte dall'alto in basso e dal lungo in largo, brulica qualcosa d'informe che ride, piange, grida, grugnisce; che si lagna, che canta, che sogghigna, ma che è impossibile distinguere nel polverone sollevato dagli zoccoli dei cavalli: sono tre o quattro bambini che appartengono non si sa a chi, che vanno non si sa dove, che vivono non si sa di che, che sono là non si sa come, e che vi restano non si sa perché.

Ora, mettete in colonna monaco, contadine, mariti, conducenti, lazzaroni, monelli e bambini: addizionate il tutto, aggiungendo il poppante dimenticato, e avrete il conto giusto. Totale:quindici persone.

Talvolta succede che il fantastico congegno, sovraccarico com'è, passa su una pietra smossa e si rovescia: allora tutta la carrozzata si sparge sugli orli della strada, ognuno lanciato secondo il suo maggiore o minore peso. Ma tutti si rialzano subito e dimenticano il loro accidente per occuparsi soltanto di quello del monaco: lo tastano, lo girano, lo rigirano, lo sollevano, l'interrogano. Se è ferito, il viaggio si sospende; il monaco viene trasportato, sostenuto, coccolato, coricato, vegliato. Il corricolo è posto in un angolo del cortile, i cavalli nella scuderia, e per quella giornata il viaggio è finito: pianti, lamenti, preci. Ma se, invece, il monaco è sano e salvo, tutti stanno bene: il frate risale al suo posto, la nutrice e la contadina ripigliano il loro; ognuno si sistema, si aggrappa, si stipa, e, al solo grido di incitamento del cocchiere, il corricolo riprende la sua corsa, rapido come la folgore e infaticabile come il tempo.

Ecco che cosa è il corricolo.

Ora, come mai il nome di una vettura è diventato il titolo di un libro? Il lettore lo saprà nel capitolo seguente.

D'altronde noi abbiamo un antecedente di questo genere, a cui nessuno piú di noi ha il diritto di appellarsi: ed è Le Spéronare.

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Pagina 14

II.
I CAVALLI SPETTRI



Ero stato raccomandato a Martino Zir come artista; avevo ammirato le sue gallerie di quadri, avevo esaltato il suo gabinetto di curiosità, e avevo aumentato la sua collezione d'autografi. Ne risultava che Martino Zir, al mio primo per quanto rapido passaggio, m'aveva posto un grande affetto; e la prova è, come si è detto altrove, che s'era disfatto in mio favore del suo cuoco Cama, di cui ho narrato la storia (vedi Le Spéronare), e che non aveva altro difetto che essere appassionato d'Orlando e non poter sopportare il mare; dal che derivava che, stando a terra, faceva pochissima cucina e, stando in mare, non ne faceva punto.

Con molto piacere, dunque, Martino Zir ci vide scendere alla porta del suo albergo dopo tre mesi d'assenza, durante i quali gli era pervenuta la voce della nostra morte.

Poiché la sua galleria si era aumentata d'alcuni quadri, il suo gabinetto arricchito d'alcune curiosità, e la sua collezione d'autografi aveva reclutato alcune firme, così fu giuocoforza, prima di tutto, ch'io percorressi la galleria, visitassi il gabinetto, sfogliassi gli autografi.

Dopo di che lo pregai di darmi un appartamento.

Intanto io non dovevo perdere il mio tempo a riposarmi. Ero a Napoli, è vero: ma ci stavo sotto un falso nome, e poiché da un momento all'altro il governo napoletano poteva scoprire il mio incognito e pregarmi di andare a Roma a vedere se il suo ministro ci fosse sempre, così urgeva ch'io visitassi Napoli il piú presto possibile.

Ora Napoli, a prescindere dai dintorni, si compone di tre strade in cui si va sempre e di cinquecento strade in cui non si va mai.

Le tre strade si chiamano Chiaia, Toledo e Forcella.

Le altre cinquecento non hanno nome: sono l'opera di Dedalo, il labirinto di Creta, con il minotauro in meno e i lazzaroni in piú.

Vi sono tre modi per visitare Napoli:

A piedi, in corricolo, in calesse.

A piedi, si passa dovunque.

In corricolo, si passa quasi dovunque.

In calesse, si passa soltanto per le strade di Chiaia, Toledo e Forcella.

Di camminare a piedi non m'andava a genio: a piedi si vedono troppe cose.

Di andare in calesse nemmeno: in calesse non se ne vedono abbastanza.

Rimaneva il corricolo, termine medio, giusto mezzo, anello intermedio che riuniva i due estremi.

Mi fermai dunque al corricolo.

Fatta la mia scelta, chiamai Martino Zir.

Martino Zir salì subito.

– Mio caro ospite – gli dissi – ho deciso nella mia saggezza di visitare Napoli in corricolo.

– Magnifico! - disse Martino – Il corricolo è una vettura nazionale che risale alla piú alta antichità. È la biga dei Romani e vedo con piacere che apprezzate il corricolo.

– Al piú alto grado, mio caro ospite. Soltanto vorrei sapere quanto è il nolo di un corricolo al mese.

– Non si noleggia a mese un corricolo – mi rispose Martino.

– Allora, a settimana.

– Non si noleggia a settimana un corricolo.

– Ebbene, a giornata.

– Non si noleggia a giornata un corricolo.

- Come si noleggia il corricolo?

- Ci si sale dentro quando passa e si dice: «Per un carlino». Finché il carlino dura, il cocchiere vi porta a spasso; consumato il carlino, vi sbarca. Volete ricominciare? Dite: «per un altro carlino»; il corricolo riparte, e così di seguito.

- Ma, mediante quel carlino, si va dove si vuole?

- No, si va dove il cavallo vuol andare. Il corricolo è come il pallone: non s'è trovato ancora il modo di dirigerlo.

- Ma allora, perché si va in corricolo?

- Per il piacere di andarci.

- Come! È per il loro piacere che quegli sciagurati si stipano in quindici in una vettura dove in due già si sta scomodi?

- Non per altra cosa.

- È originale!

- Ed è proprio così.

- Ma se io proponessi a un proprietario di corricoli di noleggiare uno dei suoi trabaccoli a mese, a settimana o a giornata?

- Rifiuterebbe.

- Perché?

- Non c'è l'abitudine.

- La prenderebbe.

- A Napoli non si prendono abitudini nuove: si conservano le vecchie.

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Pagina 24

III.
CHIAIA



Chiaia non è altro se non una strada, e quindi non può offrire di curioso piú di quanto ogni strada offra, cioè una lunga fila di edifici moderni piú o meno di cattivo gusto. Del resto Chiaia sotto questo punto di vista ha, come la strada di Rivoli a Parigi, un vantaggio: quello di presentare una sola linea di porte, di finestre e di pietre piú o meno felicemente collocate una sull'altra. La linea parallela è occupata dagli alberi tagliati a capanno della Villa Reale, di modo che a partire dal primo piano delle case, o meglio dei palazzi della riviera di Chiaia, si domina la parte di golfo di qua dal Castel dell'Ovo.

Ma se la riviera di Chiaia non è curiosa per suo conto, conduce a una parte delle curiosità di Napoli: è essa che mena al sepolcro di Virgilio, alla grotta del cane, al lago d'Agnano, a Pozzuoli, a Baia, al lago d'Averno e ai Campi Elisi.

Inoltre, e sopratutto, è la strada che ogni giorno, alle tre del pomeriggio in inverno e alle cinque in estate, diventa il corso dell'aristocrazia napoletana.

Abbandoniamo dunque la descrizione dei palazzi di Chiaia a qualche onesto architetto il quale ci dimostrerà che l'arte edilizia ha fatto grandi progressi da Michelangelo a noi, e diciamo qualche parola sull'aristocrazia napoletana.

I nobili di Napoli, come quelli di Venezia, non indicano mai la data di nascita della loro famiglia. Avranno forse una fine, ma certamente non hanno avuto mai principio. A sentirli, l'epoca piú florida delle loro casate era sotto gli imperatori romani: citano tranquillamente fra i loro avoli i Fabi, i Marcalli, gli Scipioni. Quelli che non vedono chiaro nella loro genealogia che fino al XII secolo sono della piccola nobiltà, della minutaglia dell'aristocrazia.

Come tutte le altre nobiltà europee, meno qualche eccezione, la nobiltà di Napoli è rovinata. Quando dico rovinata, si capisce che bisogna intendere la parola in un'accezione relativa, cioè che i piú ricchi sono poveri comparativamente a quanto lo erano i loro antenati.

Non vi sono a Napoli, del resto, quattro fortune che raggiungano 500.000 lire di rendita, venti che superino le 200.000, e cinquanta che ondeggino fra 100 e 150.000. Le rendite ordinarie sono da 5 a 10.000 ducati. La maggioranza dei martiri ha mille scudi di rendita, talvolta meno. Non parliamo poi dei debiti.

Ma la cosa curiosa è che bisogna esser prevenuti di tale differenza per accorgersene. In apparenza tutti hanno la medesima fortuna.

Ciò si deve al fatto che, in generale, ognuno vive nella propria vettura o nel proprio palco.

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Pagina 38

IV
TOLEDO



Toledo è la via di tutti; è la via dei ristoranti, dei caffé, delle botteghe; è l'arteria che alimenta e attraversa tutti i quartieri della città; è il fiume in cui vanno a confluire tutti i torrenti della folla. L'aristocrazia vi passa in carrozza, la borghesia vi vende le sue stoffe, il popolo vi fa la siesta. Per il nobile è una passeggiata, per il mercante un bazar, per il lazzarone un domicilio.

Toledo è anche il primo passo fatto da Napoli verso la civiltà moderna, secondo la intendono i nostri progressisti; è il legame che congiunge la città poetica alla città industriale; è un terreno neutro in cui si possono seguire con occhio curioso i resti del vecchio mondo che se ne va e la invasione del nuovo mondo che sopraggiunge. Accanto alla classica osteria con le tendine punteggiate di mosche, un galante pasticciere francese esibisce sua moglie, le sue brioches e i suoi babà. Di fronte a un rispettabile fabbricante di antichità a uso degli inglesi si pavoneggia un negoziante di fiammiferi chimici. Al disopra di un botteghino del lotto sorge un brillante salone di parrucchiere; infine, come ultimo tratto della caratteristica fusione che si sta operando, la strada di Toledo è selciata di lava come Ercolano e Pompei, ed è illuminata a gas come Londra e Parigi.

Tutto è degno di esser veduto in via Toledo; ma siccome è impossibile scrivere di tutto, così bisogna limitarsi a tre palazzi, che sono quanto essa offre di piú rilevante e di più notevole: il palazzo reale a un estremo, il palazzo di città all'altro estremo, e in mezzo il palazzo di Barbaia.

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Pagina 90

VIII
IL LAZZARONE



Abbiamo detto che c'erano a Napoli tre strade per le quali si transitava e cinquecento per le quali non si transitava; abbiamo tentato, alla meno peggio, di descrivere Chiaia, Toledo e Forcella; tentiamo ora di dare un'idea delle strade per cui non si passa. Sarà presto fatto.

Napoli è costruita ad anfiteatro: ne consegue che, ad eccezione dei lungomare come la Marinella, Santa Lucia e Mergellina, tutte le strade si svolgono su pendii così erti, che soltanto il corricolo, con il suo fantastico equipaggio, può superarle.

Aggiungiamo che in tali strade bazzicano solamente coloro che vi abitano; cosicché uno straniero o un indigeno che vi si smarrisca, in abito di panno, diventa immediatamente l'oggetto della curiosità generale.

Diciamo un abito di panno, perché esso ha un grande ascendente sul popolo napoletano. Colui che è vestito di panno acquista, per il fatto stesso di questa superiorità suntuaria, grandi privilegi aristocratici. Ritorneremo su questo argomento.

Perciò l'apparizione di qualche Cook o di qualche Bougainville è rara in queste regioni ignote, dove non v'è nulla da scoprire se non l'interno di ignobili case, sulla soglia o sul balconcino delle quali la nonna pettina la figlia, la figlia pettina il suo bambino, e il bambino pettina il cane. Il popolo napoletano è il popolo che si pettina di piú sulla terra: forse è condannato a questo esercizio da qualche sconosciuto verdetto, e subisce un supplizio analogo a quello che puniva le cinquanta figlie di Danao, con la differenza che costoro, piú versavano acqua nella loro botte, meno ve ne rimaneva.

Passammo in una cinquantina di siffatte strade senza notarvi alcuna differenza fra loro. Una sola ci parve presentare caratteri particolari: era la la via di Porta Capuana, larga e polverosa, pavimentata a ciottoli, e con rigagnoli in luogo di marciapiedi. È fiancheggiata a destra da alberi e a sinistra da una lunga fila di case, la cui fisionomia a prima vista non offre nulla di bizzarro; ma se il viaggiatore indiscreto spinge un po' piú a fondo le sue ricerche e si approssima a quelle case; se, nel passare, lancia uno sguardo nei vicoli ciechi e tortuosi che s'intersecano nell'inestricabile labirinto, sarà stupito nel vedere che quel singolare sobborgo, al pari dell'isola di Lesbo, è abitato soltanto da donne, le quali, vecchie o giovani, belle o brutte, di ogni età, di ogni paese, di ogni condizione, sono buttate lì alla rinfusa, sorvegliate come criminali, parcheggiate come gregge, braccate come bestie feroci. Ebbene: non sono gridi, bestemmie, lamenti che si odono, come ci si sarebbe aspettato, in questo pandemonio; sono, invece, canzoni gioconde, folli tarantelle, scoppi di risa da far dannare un anacoreta.

Tutto il resto è abitato da una popolazione che non si può definire, non si può descrivere, che fa non si sa che cosa, che vive non si sa come, che si crede molto al di sopra del lazzarone, e invece gli è molto inferiore.

Abbandoniamola, dunque, per passare al lazzarone.

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Pagina 219

XIX
SAN GENNARO MARTIRE DELLA CHIESA



San Gennaro non è un santo di creazione moderna; non è un patrono banale e volgare, che accetti le offerte di tutti i clienti, accordi la sua protezione al primo venuto e s'incarichi degl'interessi di tutti; il suo corpo non è stato ricomposto nelle catacombe a spese di altri martiri piú o meno sconosciuti, come quello di santa Filomena; il suo sangue non è sgorgato da un'immagine di pietra, come quello della Madonna dell'Arco; insomma gli altri santi hanno, sì, qualche miracolo nella loro vita — miracoli trasmessi a noi dalla tradizione e dalla storia —, mentre il miracolo di san Gennaro si è perpetuato fino ai giorni nostri e si rinnova due volte all'anno, per la maggior gloria della città di Napoli e la maggior confusione degli atei.

San Gennaro risale, per la sua origine, ai primi secoli della Chiesa. Vescovo, ha predicato la parola di Cristo e ha convertito al vero culto migliaia di pagani; martire, ha sopportato tutte le torture inventate dalla crudeltà dei suoi carnefici e ha sparso il suo sangue per la fede; innalzato al cielo, prima di lasciare questo mondo dove tanto aveva sofferto, ha rivolta a Dio una preghiera suprema per far cessare la persecuzione degl'imperatori.

Ma a ciò si limitano i suoi doveri di cristiano e la sua carità di cosmopolita.

Cittadino prima di tutto, san Gennaro non ama in realtà che la sua patria; la protegge contro ogni pericolo, la vendica di tutti i nemici: Civi, patrono, vindici, come dice una vecchia tradizione napoletana. Il mondo intero fosse minacciato da un secondo diluvio, e san Gennaro non alzerebbe neanche il mignolo per impedirlo; ma la minima goccia d'acqua possa nuocere ai raccolti della sua buona città, e san Gennaro muoverà cielo e terra per ricondurre il bel tempo.

San Gennaro non sarebbe esistito senza Napoli, né Napoli potrebbe esistere senza san Gennaro. É vero che non v'è città al mondo che piú volte di questa sia stata conquistata e dominata dallo straniero; ma, grazie all'intervento attivo e vigilante del suo protettore, i conquistatori sono spariti e Napoli è rimasta.

I Normanni hanno regnato su Napoli, ma san Gennaro li ha scacciati.

Gli Svevi hanno regnato su Napoli, ma san Gennaro li ha scacciati.

Gli Angioini hanno regnato su Napoli, ma san Gennaro li ha scacciati.

Gli Aragonesi hanno usurpato a loro volta il trono, ma san Gennaro li ha puniti.

Gli Spagnuoli hanno tiranneggiata Napoli, e san Gennaro li ha battuti.

Infine i Francesi hanno occupato Napoli, e san Gennaro li ha messi alla porta.

E chi sa che cosa farà san Gennaro per la sua patria!...

Quale che sia la dominazione, indigena o straniera, legittima o usurpatrice, equanime o dispotica, che grava su questo bel paese, v'è una credenza in fondo al cuore di ogni napoletano, credenza che li rende pazienti fino allo stoicismo: ed è che tutti i re e tutti i governi passeranno, e in sostanza non rimarranno se non il popolo e san Gennaro.

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