Autore Dennis Duncan
Titolo Indice, Storia dell'
SottotitoloDai manoscritti a Google, l'avventurosa storia di come abbiamo imparato a orientarci nel sapere
EdizioneUtet, Milano, 2022 , pag. 336, ill., cop.rig.sov., dim. 15,5x23x2,8 cm , Isbn 978-88-511-9886-2
OriginaleIndex, A History of the. A Bookish Adventure [2021]
TraduttoreChiara Baffa
LettoreGiorgio Crepe, 2022
Classe libri , storia letteraria , scrittura-lettura












 

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Indice


    Introduzione                                  9

1.  Questione di procedura
    Sull'ordine alfabetico                       25

2.  Le nascite dell'indice
    Predicare e insegnare                        53

3.  Che fine avremmo fatto senza di lui?
    Il miracolo del numero di pagina             89

4.  La mappa o il territorio
    L'indice sotto accusa                       117

5.  «Nessun dannatissimo Tory
    deve scrivere l'indice della mia Storia!»
    Bisticci in ultima pagina                   139

6.  L'indice in narrativa
    La complessa arte di dare un nome           171

7.  «La chiave di volta della conoscenza»
    L'indice universale                         203

8.  Ludmilla e Lotaria
    L'indice nell'era della ricerca             229

    Epilogo
    Archivi di lettura                          259


    Ringraziamenti                              269
    Note                                        273
    Indice delle illustrazioni e
        referenze fotografiche                  289
    Appendice. Un indice analitico
        generato dal computer                   293
    Indice analitico                            299


 

 

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Pagina 9

Introduzione



                            Io per me venero colui che ha inventato gl'indici
                            [...] quell'ignoto operaio del pensiero che, primo,
                            mise a nudo i nervi e le arterie d'un libro.

                                         ISAAC D'ISRAELI, Literary Miscellanies



È difficile immaginare di lavorare con la scrittura - che sia un saggio, una lezione, una relazione, un sermone - senza avere la possibilità di trovare quello che ci serve in modo semplice e rapido: senza, cioè, l'aiuto di un buon indice analitico. Questo, naturalmente, è un vantaggio di cui può usufruire anche chi non si guadagna da vivere scrivendo, perché interessa anche altre discipline e, più in generale, la dimensione quotidiana di ognuno di noi: i primi indici, infatti, comparvero negli statuti legali, nei testi di medicina e nei libri di ricette. L'umile indice che troviamo al termine di un libro è una di quelle invenzioni così riuscite, così integrate nelle nostre pratiche quotidiane, da risultare spesso invisibile. Ma, come ogni ritrovato tecnologico, anche l'indice analitico ha una sua storia: una storia che per quasi ottocento anni è stata intimamente legata a una forma del libro in particolare: il codice, un fascio di fogli ripiegati e cuciti lungo la costa. Ora, tuttavia, ha fatto il suo ingresso nell'era digitale come tecnologia di base, indispensabile per la lettura online. Del resto, la prima pagina web della storia è stata un indice. Per quanto riguarda i motori di ricerca, vere e proprie rampe di lancio per la nostra navigazione in internet, Matt Cutts, un ingegnere informatico che lavora per Google, afferma che «la prima cosa da capire è che quando si effettua una ricerca su Google, non si sta davvero facendo una ricerca su tutta la rete, ma su un'indicizzazione della rete operata da Google». Nel presente è l'indice a ordinare le nostre vite, e questo libro traccerà il suo bizzarro percorso dai monasteri e dalle università europee del XIII secolo ai palazzi di vetro e acciaio della Silicon Valley dei giorni nostri.

La storia dell'indice è di fatto un racconto che parla del tempo e della conoscenza, e del rapporto che esiste tra i due. È la storia del nostro crescente bisogno di avere accesso alle informazioni in modo rapido, e di un altro bisogno parallelo, che vorrebbe i contenuti di un testo divisi in unità di cui fruire singolarmente: questa disciplina si chiama informatica, e l'indice è un elemento fondamentale della sua architettura. Ma l'evoluzione dell'indice ci offre anche la possibilità di tracciare una piccola storia della lettura. Ha a che fare con l'ascesa delle università e l'avvento della stampa, con la filologia illuminista e i sistemi a scheda perforata, con la diffusione del numero di pagina e dell'hashtag. È più di una semplice struttura di dati. Perfino oggi, nonostante le incursioni delle intelligenze artificiali, l'indice analitico di un libro rimane prima di tutto il lavoro di indicizzatori in carne e ossa, professionisti il cui compito è mediare tra l'autore e il lettore.

In quanto prodotto dell'uomo, l'indice ha avuto ripercussioni sull'uomo stesso: per esempio ha salvato un eretico dal rogo e ha impedito a un politico di ricoprire una carica prestigiosa. È naturale che questa attività abbia attratto persone che nutrivano un particolare interesse per i libri, e la lista di indicizzatori letterari include Lewis Carroll, Virginia Woolf, Alexander Pope e Vladimir Nabokov. Compilare indici, storicamente, non è certo la professione più affascinante o redditizia; basti pensare a Thomas Macaulay, che si lamentava del fatto che Samuel Johnson, pur essendo l'autore più illustre della sua epoca, passasse le sue giornate tra «libellisti e compilatori di indici morti di farne». L'avesse saputo, Johnson si sarebbe almeno potuto consolare con il pensiero che anche gli scrittori più rilevanti di altre epoche facevano parte di quella compagnia di compilatori, e che, malgrado non se ne decantassero le lodi, lo strumento che stavano sperimentando sarebbe stato fondamentale per l'esperienza dei lettori all'alba del millennio successivo.


Ma cosa intendiamo per indice? Nell'accezione più generale, un indice è un sistema che serve a risparmiare tempo, qualcosa che ci dice dove possiamo trovare ciò che cerchiamo.

[...]

Non è difficile capire per quale motivo l'indice sia un'invenzione dell'epoca dei codici e non di quella dei rotoli. È in tutto e per tutto uno strumento ad accesso casuale, e in quanto tale si basa su una forma libro che può essere aperta con la stessa facilità a metà, all'inizio o alla fine. Il codice è il supporto grazie al quale l'indice acquista il suo senso.

In più, a differenza del sommario, l'indice senza puntatori è utile più o meno quanto una bicicletta senza ruote. Non consente né di individuare un punto in cui aprire il libro, né di farsi un'idea dell'argomento trattato. Questo accade perché l'indice funziona in base a un meccanismo di arbitrarietà. Il suo principale elemento innovativo risiede nella separazione tra struttura dell'opera e struttura dell'esposizione dei contenuti. L'ordine di un indice predilige il lettore, non il testo: se sappiamo cosa vogliamo trovare, le lettere dell'alfabeto ci forniscono un sistema universale e indipendente dal testo in cui fare la nostra ricerca. (Potremmo persino dire che gran parte degli indici è doppiamente arbitraria, dal momento che l'indicatore più diffuso - il numero di pagina - non ha un legame intrinseco con l'opera o con il suo argomento, ma solo con il suo supporto, il libro.)

E così, anche se di tanto in tanto potrebbe fare capolino qualche sommario, questo libro parla dell'indice analitico, di quell'elenco in ordine alfabetico che scompone un libro nei suoi vari elementi, personaggi, temi o perfino singole parole; uno strumento tecnologico - un accessorio - mirato a velocizzare una precisa modalità di lettura che gli studiosi chiamano "lettura a campione", pensata per chi, come l'imperatore Tito, dispone di troppo poco tempo per leggere un libro dall'inizio.

[...]

Con l'avvento della digitalizzazione, la possibilità di cercare una data parola o frase è andata ben oltre un singolo testo: si è integrata nel software degli eReader. Qualsiasi cosa stiamo leggendo, se sappiamo cosa cercare possiamo sempre digitare Ctrl+F e scrivere: «Questo è un altro dei trionfi della nostra civiltà, pensò Peter Walsh».

Allo stesso tempo, l'ubiquità dei motori di ricerca ha dato luogo a un senso di ansia diffusa: la ricerca è diventata un sistema abituale, una modalità di lettura e di apprendimento che sta soppiantando i suoi predecessori, portando con sé tutta una serie di catastrofiche conseguenze. A quanto pare starebbe modificando la nostra mente, peggiorando la nostra facoltà di concentrazione ed erodendo la nostra capacità di memorizzare. Lo scrittore Will Self ha dichiarato che il vero romanzo è morto perché non avremmo più la pazienza necessaria per leggerlo. Viviamo nell'Epoca della Distrazione, ed è colpa dei motori di ricerca. Qualche anno fa, un articolo dell'"Atlantic" che ebbe molta risonanza si poneva un dubbio: «Google ci sta facendo diventare stupidi?», e sosteneva, con convinzione, che fosse proprio così.

Ma ampliando la prospettiva ci renderemo conto che si tratta solo della manifestazione più recente di una vecchia malattia. La storia dell'indice è piena di simili timori - che nessuno saprà più leggere come si deve, che la lettura a campione prenderà il posto di un rapporto più continuativo con i libri, che faremo delle nuove domande, inventeremo un nuovo modo di studiare, dimenticheremo come si legge un testo con attenzione, diventeremo deplorevolmente, irrimediabilmente distratti - e tutto a causa di quello strumento infernale, l'indice analitico. Durante la Restaurazione, gli scrittori che inzeppavano le loro opere di inutili citazioni venivano chiamati «setacciatori di indici», mentre Galileo si lagnava dei filosofi da salotto che, «per acquistar le notizie de gli effetti di natura, e' non vadano su barche o intorno a balestre e artiglierie, ma si ritirano in studio a scartabellar gl'indici e i repertori per trovar se Aristotile ne ha detto niente». L'indice analitico: dal XVII secolo in prima linea contro la curiosità sperimentale.

Eppure, nonostante siano passati ormai quattro secoli, il cielo non ci è caduto sulla testa. L'indice ha resistito, ma come lui hanno resistito anche i lettori, gli studiosi, gli inventori. Il modo in cui leggiamo (o forse dovremmo dire i modi in cui leggiamo, visto che ogni persona, ogni giorno, legge in molte maniere differenti: romanzi, quotidiani, menu, indicazioni stradali richiedono tutti un livello di attenzione diverso) magari non è lo stesso di vent'anni fa. Ma anche allora il nostro modo di leggere non era lo stesso della generazione, per dirne una, di Virginia Woolf, o di una famiglia del XVIII secolo, o dell'epoca delle prime macchine da stampa. Non esiste un ideale platonico di lettura (che tra l'altro, come vedremo, per Platone era qualcosa di tutt'altro che ideale). Quella che consideriamo la norma è sempre stata la risposta a tutta una serie di circostanze storiche, e ogni cambiamento nello scenario sociale e tecnologico ha prodotto un'evoluzione nel significato del concetto di "lettura". Non evolvere come lettori - ovvero sperare che, come società, la nostra esperienza di lettura abbia ancora la stessa intensità, per esempio, di quella di un frate di un monastero dell'XI secolo, isolato da tutto insieme alla sua biblioteca di cinque o sei volumi - è assurdo quanto lamentarsi che una farfalla non sia abbastanza bella. Il suo aspetto, così come il modo in cui leggiamo, dipende da un processo di adattamento all'ambiente circostante.

Questa storia dell'indice analitico, quindi, non si limiterà a raccontare i progressivi miglioramenti di uno strumento di tecnologia testuale apparentemente innocuo. Dimostrerà anche che l'indice si è modificato in base ad altri mutamenti nell'ecosistema della lettura - la nascita del romanzo, delle riviste da bar o delle pubblicazioni scientifiche - e a come i lettori, e il modo di leggere, siano cambiati con loro. E mostrerà come l'indice ha spesso fatto da capro espiatorio per chi aveva investito nelle modalità di lettura precedenti. Illustrerà inoltre le relative fortune dei due tipi di indicizzazione, quella per parola (nota anche come lista delle «concordanze») e quella per soggetto: la prima segue pedissequamente il testo di riferimento, mentre la seconda si divide tra la fedeltà all'opera e quella alla comunità di lettori che ne usufruiranno. Pur essendo nate entrambe nel Medioevo, l'indicizzazione per soggetto è diventata sempre più diffusa, tanto che a metà del XIX secolo lord Campbell si vantava di aver tentato di renderla obbligatoria per ogni nuova uscita editoriale. Le concordanze, al contrario, sono rimaste uno strumento per specialisti per tutto il millennio scorso, per poi salire alla ribalta dopo l'avvento dell'informatica moderna. Tuttavia, nonostante la nostra dipendenza dagli strumenti di ricerca digitali, dalle barre di ricerca e dal Ctrl+F, spero che questo libro dimostri che c'è ancora vita - proprio così: vita - nel vecchio indice per soggetto, compilato da indicizzatori in carne e ossa. In tal senso, prima di iniziare, vorrei parlare di due esempi che serviranno a chiarire la distinzione che ho provato a descrivere.

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Pagina 52

2
Le nascite dell'indice
Predicare e insegnare



                            Ma dopo essere passato dalle scuole ai chiostri, vi
                            siete trasformato in un uomo incolto che disprezza
                            le lettere, e avete smesso di dedicarvi sia alle
                            letture che all'insegnamento.

                                                            ALEXANDER OF ASHBY,
                                                De artificioso modo praedicandi



«Ky bien pense bien poet dire.» Un verso che mette in pratica esattamente ciò che predica: è difficile renderlo in un'altra lingua senza disturbare il ritmo, la sintesi e la chiarezza del pensiero che esprime. "Chi pensa bene parla bene", forse. Dovremo accontentarci di questa versione. Si tratta dell'incipit del lungo poema Chasteau d'amour ("Castello d'amore"), in cui l'idea cristiana di redenzione viene rielaborata in chiave cortese: la crocifissione diventa un'allegoria di principi e principesse e viene raccontata con eleganti distici rimati in lingua anglo-normanna. Il poema risale alla prima metà del XIII secolo, e il suo autore è Robert Grosseteste , che possiamo vedere in una delle miniature del manoscritto conservato al Lambeth Palace. È seduto sulla sinistra, il lungo indice disteso nel classico gesto del racconta-storie. Forse è proprio questo il poema che sta declamando al pubblico ai suoi piedi. Di certo sembrano tutti conquistati: le donne si stringono il petto, un uomo alza una mano per lo stupore (o forse cerca di fare una domanda). L'ascoltatore sulla destra guarda adorante verso l'alto, dove incontra lo sguardo di Grosseteste. Solo un grande pellicano accovacciato tra gli alberi rompe l'incanto, a simboleggiare forse il pubblico più indisciplinato, e infatti il suo sguardo insolente si posa ostinatamente lontano dal palco. Ma si va via via cancellando, i colori sbiadiscono e i bordi originali rossi e dorati riemergono come un'ammonizione, come se il manoscritto volesse punirlo per il peccato della disattenzione.

Chi pensa bene parla bene: un bell'adagio che potrebbe tornare utile a chiunque voglia tenere delle lezioni, per esempio, o a un predicatore. E di fatto potrebbe essere un epitaffio perfetto per lo stesso Grosseteste, uno dei grandi spiriti eclettici del Medioevo inglese, un uomo che fu, all'epoca, sia insegnante che predicatore, rettore a Oxford e vescovo di Lincoln (da qui la mitra e il pastorale che si vedono nella miniatura). Un poeta, naturalmente, ma anche uno statista, un matematico e un riformatore religioso. Tradusse Aristotele dal greco, fu il primo a sostenere che gli arcobaleni fossero prodotti dalla rifrazione della luce, e immaginò la nascita dell'universo come una sfera luminescente in espansione, prendendo la scienza e le Scritture e unendole in una specie di teoria del Big Bang che però lasciava a Dio l'onore di dare il via al tutto con il suo «Sia fatta la luce». C'è poco da stupirsi quindi se Grosseteste sentì il bisogno di architettare un metodo per mettere ordine nell'immenso bacino delle sue letture. Il grande indice - o Tabula - di Grosseteste salva il cosmo dal caos catalogando i concetti che il suo autore incontra, sia in opere patristiche che pagane, associando idee simili e compilandone gli indicatori per la consultazione. Una mente enciclopedica ha bisogno di un indice enciclopedico che le consenta di organizzarsi.

La necessità, dunque, aguzza l'ingegno. Ma sarebbe un errore considerare Grosseteste come un uomo fuori dal suo tempo, isolato dalla cultura dell'epoca. La necessità che dà origine alla Tabula non è un suo appannaggio; piuttosto bisognerebbe considerarla una declinazione di un bisogno che sta sorgendo in tutta la sfera in cui opera. Nel XIII secolo gli strumenti per la compilazione degli indici - il codice e l'ordine alfabetico - erano già conosciuti da tempo. La scintilla che li metterà insieme arriverà da due declinazioni del buon parlare: l'insegnamento e la predicazione. Nel tardo Medioevo entrambe le attività acquisirono nuova importanza grazie all'avvento di due nuove istituzioni: le università e gli ordini mendicanti, i frati - domenicani e francescani - che vivevano e predicavano in mezzo al popolo. In queste istituzioni c'era una domanda crescente per nuovi e più efficienti modi di leggere - di usare i libri - per veicolare i rispettivi mezzi di espressione orale: la lezione e il sermone. Stiamo per assistere alla nascita dell'indice, o meglio alle nascite dell'indice, due versioni della stessa idea che vedono la luce in contemporanea, una a Oxford, l'altra a Parigi. Osservate insieme, saranno forse in grado di dirci qualcosa sull'indice nel nostro presente, il XXI secolo, l'Epoca della Ricerca. Insieme tracciano le coordinate con le quali siamo abituati a pensare all'indicizzazione: parola e concetto; concordanza e indice per soggetto; specifico e universale.

Grosseteste, naturalmente, rappresenta l'universale. La sua ambiziosa Tabula è un tentativo di ridurre l'intera conoscenza, sia quella dei padri della Chiesa (Agostino, Girolamo, Isidoro) che quella di una tradizione precedente, non cristiana (Aristotele, Tolomeo, Boezio), in un unico strumento, un luogo in cui i concetti non sono strettamente connotati e saltano fuori in maniera arbitraria. Si tratta di quello che oggi chiamiamo indice per soggetto, un indice per idee, e in quanto tale è sensibile al gioco dei sinonimi, in grado di identificare un concetto anche quando il testo non lo cita espressamente. È quindi anche un indice soggettivo, il lavoro di un lettore in particolare, che pensa e analizza il testo in un certo modo. I concetti sono sfuggenti: quando diciamo che un testo parla di qualcosa stiamo già operando una scelta; per esempio, la storia dell'Arca di Noè potrebbe parlare del perdono, o della rabbia, o della pioggia, a seconda del nostro punto di vista.

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Pagina 61

Ascoltare, leggere, imparare e digerire. Un programma specifico e dettagliato. Dopotutto, in che modo leggiamo di solito? Qualche pagina nel tragitto in autobus verso il lavoro, o in pausa pranzo, cercando di ignorare lo squillo dei cellulari, oppure prima che il sonno ci accompagni alla fine della nostra giornata. Nella maggior parte dei casi, leggiamo quando possiamo. Leggiamo negli intervalli, mentre cerchiamo di incastrare il lavoro, la famiglia, la vita nello spazio angusto del giorno. Ma nell'ascoltare, leggere, imparare e digerire è implicita un'idea di pazienza, di lentezza, un senso di abbondanza di tempo, o comunque un'idea di lettura - quantomeno intesa in senso spirituale - come di un'attività che esula dalla nostra normale amministrazione del tempo. È la suggestione di una dimensione temporale antica. Come leggeremmo se non avessimo famiglia e lavoro, se non prendessimo i mezzi pubblici e non avessimo a disposizione nessun altro tipo di intrattenimento, [...]

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Pagina 90

Il sermone fu scritto da Werner Rolevinck, un monaco della certosa di Colonia. Rolevinck è ricordato per aver scritto il Fasciculus temporum, una storia del mondo dal primo giorno della Creazione all'attualità, che nel suo caso era il 3 maggio 1481, data in cui, ci informa l'autore, il sultano dell'impero ottomano Maometto II andò all'inferno per le sue scelleratezze contro la cristianità. Ma il lungo e complesso Fasciculus era ancora in fase di redazione quando Rolevinck firmò questo breve sermone, che doveva essere recitato in occasione della Presentazione della Beata Vergine Maria, il 21 novembre. Se devo essere onesto, però, non sono né Rolevinck né il contenuto della sua omelia a rendere speciale questo libro ai miei occhi. Si tratta di qualcos'altro, qualcosa che ha a che fare con il volume in sé e che si trova su questa pagina, in mezzo alla colonna bianca del margine destro: un'unica lettera solitaria, una J maiuscola.

L'inchiostro ha sbavato leggermente, forse perché la pressione della stampatrice era eccessiva e dunque la lettera risulta poco leggibile, senza il livello di precisione e chiarezza dei caratteri gotici del blocco di testo principale. Ma la sua generale mancanza di nitidezza mi fa amare questa J ancora di più. La preferisco così - una tipo di carattere, diciamo - che non come l'altra J (cristallina, stampa impeccabile) alla sua sinistra, nel corpo del testo, all'inizio del nome Joachim. La nostra J a margine non ha niente a che fare con Joachim; è una semplice coincidenza che si trovino fianco a fianco. Per dirla tutta, la nostra J non è nemmeno una vera J. Si trova lì in veste di numerale - 1 - e annuncia che quella è la prima carta del libro: si tratta del primo numero di pagina che sia mai stato stampato. Un'innovazione che rivoluzionerà il modo in cui utilizziamo i libri e finirà per diventare un mezzo così ordinario da rischiare quasi di diventare invisibile, nascosto in piena vista ai margini di ogni pagina.

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Pagina 114

Benché l'indice fosse ormai diffuso da secoli, il numero di pagina stampato diede un impulso decisivo alla sua diffusione. Dopo Gutenberg, l'indice cominciò ad apparire in opere di ogni tipo: manuali religiosi, di storia o di giurisprudenza, come abbiamo già visto, ma anche testi di medicina e matematica, libri di favole e canzonieri. Nel grande poema epico di Ludovico Ariosto , l' Orlando Furioso (1516), c'è un momento in cui il cavaliere inglese Astolfo - il quale molti capitoli prima aveva ricevuto in dono da una fata generosa un libro di incantesimi - si ritrova in un castello stregato. Astolfo, imperturbabile, sa bene cosa fare:

all'indice ricorse, e vide tosto

a quante carte era il rimedio posto. (22.16)

All'epoca di Ariosto, perfino i libri di incantesimi avevano un indice di tutto rispetto.

Con la diffusione dell'indice aumentò anche il grado di raffinatezza dello strumento, e gli indici della metà del XVI secolo, opera di illustri indicizzatori come Theodor Zwinger a Basilea o Conrad Gessner a Zurigo, raggiunsero dei livelli di precisione che ancora oggi restano insuperati. Esaltando l'importanza dell'indice per l'erudizione, Gessner lo paragona alla macchina da stampa, mettendolo subito dopo la fantastica invenzione di Gutenberg in una lista di strumenti rivoluzionari:

È ormai generalmente accettato che sia necessario compilare dei lunghi indici, rigorosamente in ordine alfabetico, specialmente nel caso di volumi corposi e complessi, e che tali indici siano di enorme utilità per gli studenti, secondi solo alla divina invenzione dei caratteri mobili per la stampa dei libri. [...] Credo davvero che, essendo tanto corta la vita di cui disponiamo, gli indici dei libri debbano essere considerati assolutamente necessari da coloro che siano impegnati in qualsivoglia studio.

Ciononostante, Gessner esorta alla cautela nell'utilizzo di questi strumenti. In un passaggio piuttosto curioso, suggerisce addirittura che ci sia un modo giusto e un modo sbagliato di usare un indice:

A dispetto dell'incuria di alcuni che si affidano esclusivamente agli indici [...] senza leggere il testo completo così com'è stato pensato dal suo autore, nell'ordine giusto e con metodo, la qualità di quei libri non deve risultarne in alcun modo compromessa, e uno strumento tanto pratico e straordinario non deve essere sminuito o biasimato solo perché uomini ignoranti o disonesti ne hanno fatto un cattivo uso.

La reputazione dell'indice è stata macchiata da «uomini ignoranti o disonesti» che lo usano al posto del testo stesso. Gessner lava subito l'indice da qualsiasi colpa; altri, come vedremo nel prossimo capitolo - nelle pagine o nei loc che seguono - non saranno così generosi.

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Pagina 136

[...] Il filosofo racconta di un mito egizio sul dio inventore Theuth: è grazie a lui, dice Socrate, che abbiamo l'aritmetica, la geometria, l'astronomia, la dama e i dadi. Ma la sua creazione più importante è senza dubbio la scrittura. Un giorno, Theuth portò tutte le sue invenzioni da Thamus, re degli dèi, sperando che gli consentisse di condividerle con il popolo egizio. Thamus le osservò una per una, lodandone alcune e mettendone da parte altre. Quando arrivò alla scrittura, Theuth intervenne per spiegare: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché è stata inventata come farmaco per la sapienza e per la memoria». Ma Thamus non sembra colpito, e la sua risposta è alquanto raggelante:

O Theuth, sommo esperto di tecniche, altro è la capacità di concepire una tecnica, altro è giudicare il danno e il vantaggio che essa areca a chi la adopererà. Quello che tu, in qualità di padre delle lettere dell'alfabeto, ora dici per affetto nei loro confronti, è il contrario di ciò che esse sono in grado di fare. Perché indurranno l'oblio nelle anime di quanti le avranno apprese, per mancanza di esercizio della memoria; infatti affidandosi alla scrittura, essi richiameranno alla mente non più attingendo all'interno di se stessi, ma a segni esterni. E così hai trovato un farmaco non per la memoria, ma per richiamare la memoria. E procuri agli allievi non la sapienza vera, ma la sua apparenza, perché, avendo orecchiato molto grazie a te, ma essendo privi di insegnamento, sembreranno onniscienti e saranno invece per lo più ignoranti e insopportabili da frequentare, perché apparentemente sapienti ma non veramente dotti.

Per Socrate, questo mito rappresenta l'idea che la scrittura sia la sorella povera dell'oratoria.

[...]

Non ho portato l'esempio del Fedro per prenderlo in giro, ma perché è una sorta di archetipo dei nostri sospetti e dei nostri dubbi sull'informatica. Queste paure sono vecchie quanto la scrittura, e non sono certo frutto di ingenuità: Socrate è forse l'interlocutore più intelligente e arguto con cui si possa sperare di avere una conversazione. Eppure, anche se possiamo apprezzare la logica delle sue argomentazioni, chi tra di noi potrà mai pensare che, nei campi dell'istruzione e dell'erudizione, le cose siano andate in rovina dopo l'avvento della scrittura? Leggendo la storia di Theuth è facile ritrovarsi a provare una certa resistenza, un'incapacità di accettare lo scetticismo sul valore della scrittura. Forse percepiamo che il concetto di apprendimento è adattabile, e che si evolve a seconda della tecnologia della sua epoca; che quello che un tempo poteva sembrare uno svilimento, il tradimento di un ideale, potrà in seguito essere visto come essenziale, e diventare un ideale a sua volta; che l'erudizione, lungi dall'essere immutabile e senza tempo, è cangiante e accidentale, e che le domande che poniamo come studiosi dipendono molto dagli strumenti in nostro possesso.

Nei primi due secoli dall'avvento della stampa, il ruolo dell'indice è rimasto sospeso tra due campi: quello di chi, seguendo l'esempio illustre di Socrate, vedeva la rapida diffusione di ogni nuovo strumento con uno sguardo di triste esasperazione, e quello di chi, come Fedro, era ben felice di potersene avvalere. Ma con i bastian contrari non abbiamo ancora finito. Nel prossimo capitolo vedremo come la questione sia diventata scottante, e come l'idea di uno «studio basato sugli indici» sia stata messa alla gogna nei caffè del tardo XVII secolo. Ma scopriremo anche che i sapientoni hanno perso, e le loro stoccate all'indice sono servite soltanto a rinsaldare il suo ruolo di elemento indispensabile nella nuova concezione illuministica del sapere.

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Pagina 180

È una passione che durerà per il resto della sua vita. Nel 1889, vari decenni dopo lo straordinario successo dei libri di Alice, Carroll pubblica il suo ultimo romanzo, Sylvie e Bruno , che verrà stroncato dalla critica. Passando senza grande coerenza dall'Inghilterra vittoriana a un regno chiamato Paese delle Fate, il romanzo unisce il dramma a sfondo sociale ad alcuni aspetti cari a Carroll come la poesia nonsense e i giochi di logica. È anche una riflessione piuttosto melensa sulla morte, sull'innocenza dell'infanzia e sulla fede cristiana - una combinazione tipica della produzione del tardo XIX secolo. Ma c'è una caratteristica in particolare che rende Sylvie e Bruno una vera e propria mosca bianca nel panorama letterario: si tratta, infatti, di un romanzo provvisto di indice.

Com'era da aspettarsi, le voci dell'indice di Sylvie e Bruno sono decisamente stravaganti. «Letto, motivi per non andarci mai, II.141» e «Uova, come comprarle, II.196»; «Felicità, eccessiva, come tenerla a bada, I.159» e «Sobrietà, estrema, gli svantaggi della, I.140». Ci si ritrova lo stesso diletto, la stessa sintassi ingarbugliata dagli effetti comici, degli articoli del "Rectory Magazine". Carroll sta, per così dire, ripetendo un gioco che ha inventato in privato quarant'anni prima, benché questa nuova versione sia decisamente più sofisticata. Come gran parte delle sue trovate di logica, l'indice di Carroll prende in giro le imprecise, farraginose regole della vita di tutti i giorni - in questo caso, la sintassi usata negli indici - portandole all'assurdo, come nel caso della ridondante e grottescamente pedante seconda virgola di «Panorama, ammirano il, piccoli uomini».

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Mentre venivano pubblicate le edizioni curate da Pope - della poesia di Omero, dei drammi di Shakespeare - stava nascendo anche un'altra forma letteraria in lingua inglese: il romanzo, un mezzo in grado di rappresentare le vicende e i particolari dell'epica così come l'interiorità dell'opera teatrale. Dopo i primi successi come Robinson Crusoe di Daniel Defoe (1719) e I viaggi di Gulliver di Swift (1726), il caso editoriale degli anni quaranta del XVIII secolo fu uno stampatore di nome Samuel Richardson. I suoi tre grandi romanzi, Pamela (1740), Clarissa (1748) e Charles Grandison (1753) adottavano la forma epistolare - una raccolta di lettere private che nella finzione narrativa erano state riscoperte e preparate per la pubblicazione - per raccontare le fatiche delle eroine e degli eroi ai quali erano intitolati. Tutti e tre i romanzi furono dei grandi successi. Nel caso di Clarissa, il capolavoro fra i tre, non si trattò soltanto di un libro molto conosciuto, ma anche di un volume mastodontico. Nella sua prima versione contava poco meno di un milione di parole, in sette volumi; nel giro di tre anni, tuttavia, Richardson fece uscire una nuova edizione ampliata, aggiungendo diverse centinaia di pagine al numero totale. Resta una pietra miliare della prima forma romanzo, ma è anche l'incubo degli studenti di letteratura inglese che se lo ritrovano nella lista dei libri da leggere prima che inizino le lezioni.

[...]

L'indice di Clarissa è un artefatto piuttosto curioso. Con le sue ottantacinque pagine, è senza dubbio proporzionato a un romanzo così imponente. Perfino il titolo ha un respiro richardsoniano: «Una Raccolta di Sentimenti Morali ed Educativi, Avvertimenti, Aforismi, Riflessioni e Osservazioni contenuti nella Storia di Clarissa e che si presume possano essere di Generale Utilità e Servizio, disposti in Ordine Adeguato». Le voci erano suddivise secondo una serie di categorie - insiemi di argomenti correlati come «Dovere, Obbedienza», «Mezzana. Donna Dissoluta» o «Spirito. Talento. Conversazione» - che a loro volta sono disposte in ordine alfabetico.

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Cosa intendiamo quando parliamo del XIX secolo e dei decenni precedenti come dell'Era industriale? Forse pensiamo a un cambiamento nelle tecniche di produzione: nuovi materiali, ghisa e acciaio; l'utilizzo del vapore come fonte di energia e la meccanizzazione dell'industria manifatturiera; una riorganizzazione del lavoro nelle fabbriche che divideva gli operai specializzati da quelli generici. Ma anche, forse, a una nuova concezione della portata dei progetti: alcune opere ingegneristiche - la ferrovia di Brunel, il sistema fognario di Bazalgette - sono considerate ancora oggi esempi dell'ottimismo e dell'ambizione del tempo. Accostare qualsiasi tipo di indice a conquiste così epocali denoterebbe certo una disperata mancanza di obiettività, di senso delle proporzioni. Eppure è esattamente quello che fece il sacerdote-editore Jacques-Paul Migne nel 1865. Certo, bisogna ammettere che il traguardo raggiunto era a tutti gli effetti straordinario, e comportò - proprio come quei progetti ingegneristici su vasta scala - l'impiego di un'enorme forza lavoro. La sua Patrologia Latina, pubblicata tra il 1841 e il 1855, era una raccolta completa degli scritti dei Padri della Chiesa. Il testo principale occupava 217 volumi, a cominciare da Tertulliano nel III secolo, passando poi per sant'Agostino, Beda e altre centinaia di autori, fino ad arrivare agli inizi del XII secolo con papa Innocenzo III.

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I quattro volumi di indici hanno anch'essi una lunga prefazione, nella quale Migne assume un tono comprensibilmente pomposo. Con fare entusiasta, per prima cosa descrive il processo di redazione degli indici. È un passaggio che vorrebbe affrontare il tema dell'industrializzazione del lavoro, ma che in qualche modo parla anche dei frati del Saint Jacques che compilarono le prime concordanze della Bibbia. Migne parla di «più di cinquanta uomini all'opera sugli indici per più di dieci anni, per il misero compenso di 1.000 franchi l'anno»?

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Ludmilla e Lotaria
L'indice nell'era della ricerca



                            Dov'è finita la conoscenza che abbiamo perso
                            nell'informazione?

                                          T.S. ELIOT, Cori da "La Rocca"



Tra le narrazioni sincopate di Se una notte d'inverno un viaggiatore di Calvino - il romanzo che ruota attorno a difetti di stampa e rilegature sbagliate - c'è la storia di Silas Flannery, uno scrittore ossessionato da una bellissima e idealizzata lettrice, Ludmilla. Un giorno, Flannery riceve la visita della gemella di Ludmilla, Lotaria. Per l'innamorato Flannery è un vero shock. Ludmilla, l'indiscussa eroina di Se una notte d'inverno, riflette sul processo creativo mediante un immaginario di frutti e natura - un autore, per esempio, è una pianta di zucca pronta a offrire il succoso prodotto dei suoi tralci - e l'amore di Flannery per lei, naturalmente, non fa che crescere. Ma se Ludmilla è soave, la sua gemella è piuttosto brusca, e il modo di leggere di Lotaria sembra mandare in corto circuito la dimensione erotica del rapporto tra autore e lettore. Mentre Flannery vede la scrittura come qualcosa di seduttivo, un atto di devozione cortese diretto al lettore, Lotaria è immune al suo approccio. Lei, di fatto, non legge i libri, ma li analizza. O, piuttosto, li inserisce in un dispositivo che li «legge» al posto suo ed elabora una serie di dati che la informano di tutto ciò che c'è da sapere. Quando Flannery chiede a Lotaria se ha letto i romanzi - i suoi romanzi - che le ha prestato, lei si scusa e dice che non ne ha avuto la possibilità: non ha avuto accesso al suo elaboratore elettronico.

[...]

Se una notte d'inverno un viaggiatore uscì nel 1979, in un momento in cui le concordanze generate dagli elaboratori e le statistiche di frequenza delle parole cominciavano a sconfinare nella critica letteraria, e in cui la carta, supporto per eccellenza dell'indicizzatore professionista per sette secoli, stava per smaterializzarsi in byte di dati. Parla del suo specifico contesto tecnologico, riflettendo le ansie diffuse per l'irruzione dell'elaborazione dati nella sfera letteraria della fine del XX secolo. Ma queste ansie non sono altro che iterazioni di vecchi timori: sono le stesse preoccupazioni dei classicisti del Christ Church che urlavano il proprio disprezzo al dottor Bentley e alla sua «conoscenza alfabetica», o dello stesso Socrate, che avvertiva Fedro che la scrittura causava disattenzione e «non la sapienza vera, ma la sua apparenza». La nostra diffidenza per le macchine da lettura richiama un'antica avversione per la mediazione. I timori contemporanei sulla scatola nera dell'algoritmo di Google - ovvero che i risultati delle nostre ricerche non siano ideologicamente incontaminati, ma che possano manifestare una faziosità che ci mette a disagio, amplificando alcune voci e silenziandone altre - riecheggiano gli autori di pamphlet del XVIII secolo che scoprirono che John Oldmixon faceva propaganda anti-Tory nell'indice della storia di Echard. Quando Donald Trump scrive su Twitter che «Google e altri mettono a tacere le voci dei Conservatori [...] e controllano quello che vediamo», sta solo - senza nemmeno saperlo - buttando un'antica paranoia nella mischia digitale, la versione repubblicana del XXI secolo del «Nessun dannatissimo Tory deve scrivere l'indice della mia Storia!» di Macaulay. Va detto però che il motore di ricerca fu presto scagionato dalle accuse. Ma avvicinandoci al presente e osservando l'entrata in scena degli elaboratori nella pratica della compilazione di indici, sembra che tutta una serie di vecchi dubbi - sulla lettura e l'attenzione, sul rapporto tra fatica e convenienza, sull'esperienza diretta o mediata - siano tornati alla ribalta dopo secoli di latitanza. Un po' di prospettiva storica, credo, farà bene ai nostri nervi.

Con questo non voglio dire che niente è cambiato. Se apriamo il vaso di Pandora delle stringhe di ricerca che usiamo per navigare nei documenti digitali, troveremo qualcosa di non troppo diverso dall'elaboratore di Lotaria, in cui le unità di base non sono concetti ma lettere. L'indice per soggetto ha dominato i primi capitoli di questa storia; al contrario il nostro XXI secolo, l'Epoca della Ricerca, è a tutti gli effetti un'era di concordanze automatiche. Tuttavia, proprio come internet alla fine non ha ucciso il libro stampato, gli indici per soggetto e i loro compilatori hanno ancora un ruolo nelle nostre vite di lettori. I professionisti dell'indicizzazione esistono da circa un secolo prima della macchina da stampa - gli archivi papali testimoniano che fin dagli anni venti del XIV secolo l'indicizzazione era un lavoro retribuito - e l'avvento del personal computer, lungi dal suonare la campana a morto per questo mestiere, ha segnato un gradito cambiamento nella pratica della compilazione. I computer si sono incaricati dei compiti più umili, liberando preziose risorse intellettuali, ma soprattutto hanno introdotto un metodo nuovo e più funzionale per il modesto compilatore di indici per soggetto.

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