Copertina
Autore Marc Durin-Valois
Titolo Chamelle
EdizioneVoland, Roma, 2003, confini 13 , pag. 136, cop.fle., dim. 143x205x10 mm , Isbn 978-88-88700-28-1
OriginaleChamelle [2002]
TraduttoreAnna Maria Lauretti
LettoreAngela Razzini, 2004
Classe narrativa francese
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Pagina 7

Se il vento alza in lontananza la sabbia facendone volute, significa che presto l'acqua mancherà ovunque.

Questo vento caldo non era mai giunto fin qui. Più lontano, verso ovest, sì. Era arrivato. Avevamo visto uomini errare come spettri rinsecchiti, le labbra e la lingua così bianche che sembrava vomitassero latte. Ma qui, in dodici anni, mai.

Uno dei piccoli ha preso un gran cucchiaio di legno e lo sbatte contro il bidone, in alto e in basso. Tic toc, tic toc. Sulla cima di una duna di terra rossa, Mouna e i bambini si sono messi a ballare. Non ho voglia di raggiungerli.

- Vieni, Pouzzi? - mi grida la piccola.

I ragazzini circondano la madre che si dondola a piedi nudi. Il sole tramonta in lontananza, nascondendosi tra le alture che si snodano all'orizzonte e illuminano di arancio la brulla savana. Un ramoscello di spini vola via, sollevato dalla polvere densa. Corre, all'altezza delle caviglie, sull'erba secca e su un terreno spaccato in zolle.

Questo vento forte e caldo non mi dice niente di buono. La stagione secca doveva essere finita da almeno venti giorni.

Due nostri vicini arrivano senza fretta. Si mettono a ballare anche loro, aggiungendo le lunghe sagome a quelle dei bambini. In controluce, somigliano a un grande insetto scuro che agita le antenne anellate sulla cresta della duna.

- Unisciti a noi! - mi chiama a sua volta Mouna.

Faccio segno di no con la testa.

Uno dopo l'altro, i pozzi si prosciugano. La sorgente accanto a cui è insediato il villaggio non dà più niente. Si cerca l'acqua in tutte le direzioni. Oggi, con Chamelle, ho percorso la savana a sud. Mi ci sono volute più di quattro ore per trovare un pozzo e tornare indietro. Ma l'acqua era grigia. Il secchio grattava il fondo. Domani, in quel punto, sarà tutto secco.

Ormai gli uomini passano senza più fermarsi al villaggio. Fuggono l'ovest, proseguono sulla loro strada senza rallentare, stravolti, circondati da bambini e, a volte, da qualche animale. Chi è senza cammelli non andrà lontano. Scacciamo alcuni clan a grandi gesti, coi pugni tesi. Quando si tratta di famiglie amiche, gli offriamo un po' di tè zuccherato. Quando possiamo. Del resto, non chiedono di più. Sanno perfettamente che non abbiamo granché.

Dall'inizio della stagione secca, non ho più alunni. Ho sistemato in una capanna la lavagna e una manciata di gessetti. Mi sono tenuto uno dei pochi quaderni. Scrivo piccolissimo, risparmio le pagine. Non uso ancora le penne che mi ha venduto l'anno scorso un nomade di passaggio. Per ora mi servo di un pennello duro. Lo intingo in un inchiostro molto scuro che faccio con escrementi di pecora. Lo uso anche oggi.

Perfino i bambini del villaggio hanno abbandonato la scuola. Non hanno più tempo. Anche loro cercano l'acqua. Fino a poco fa mi portavano datteri, fagioli, fave. È successo che mi ringraziassero con una gallina - ma il piccolo Kizou, mangiandola, ha rischiato di morire - e addirittura con una capra che abbiamo chiamato Imì. Oggi avrebbero grosse difficoltà a pagarmi.

Qui non viene più nessuno. Restano solo queste ombre, i cui contorni sprofondano nelle lontane immensità gialle.

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Pagina 16

Siamo partiti nella notte dipinta di azzurro.

Chamelle apre la strada, io le cammino a fianco. È carica, ma non troppo. Un po' d'acqua, un po' di cibo, tutto qua. Non bisogna affaticarla.

Mouna porta sulla schiena il piccolo Kizou, addormentato. Seguono le capre condotte da Ravil. Non appena una s'allontana o rallenta per brucare l'erba gialla, il ragazzino grida e il bastone si abbatte con un colpo secco. Shasha ha tenuto il suo vestito rosso. Nessuno ha avuto il coraggio di farglielo togliere. Accompagna la piccola capra Imì passandole le dita sulla schiena. O parlandole di tanto in tanto all'orecchio. Le pecore sono guidate da Ako. Con la stanchezza, il suo sguardo diventa sempre più fisso.

A seguire c'è la famiglia di Assambò che alla fine ha deciso di partire con noi. L'ordine di marcia è simile: prima lui e il cammello, poi le sei capre, i tre bambini piccoli, e infine Salimah. Non possiedono pecore.

Ho fatto un calcolo rapido. Procedendo a passo accelerato, dovremmo raggiungere la sorgente verso sera. Berremo laggiù, in abbondanza, prima di affrontare il deserto. Bisognerà camminare senza fermarsi per tre giorni, fino a una riserva d'acqua di cui mi hanno parlato, prima di iniziare la seconda parte del cammino, che durerà quattro giorni circa. Dovremmo raggiungere, sani e salvi, la regione dei laghi dopo altri tre. Durante il viaggio qualche pecora morirà. Sarà impossibile evitarlo.


Sono ormai parecchie ore che abbiamo lasciato il villaggio. L'alba si è levata. Adesso, di fronte a noi, il sole emerge per due terzi, infiamma il cielo e annerisce il terreno che ci si apre davanti. È una palla arancio cangiante, dai contorni indecisi, la cui morsa sugli occhi resta sopportabile finché le nuvole, come garze di panno sospese in aria, filtreranno la luce. Ma entro un'ora al massimo, si dovrà camminare a occhi bassi con la testa avvolta nei turbanti.

La savana, immensa e desolata, dorme ancora. L'umidità della notte fugge in un vapore nebbioso che corre sulle superfici screpolate. Di tanto in tanto si sentono alcuni grilli, nascosti tra l'erba o tra gli arbusti secchi, accompagnare il nostro passaggio col loro canto. E poi le capre e le pecore che belano, non si sa bene perché. E in sottofondo l'incessante passo sordo degli uomini, dei cammelli e delle bestie.

Ho spiegato ad Assambò che è meglio partire il più presto possibile, approfittando della dolcezza della notte.

- Le stelle illuminano il cammino, non c'è alcun rischio di perdersi. E ci muoveremo rapidamente.

Così è stato.

La strada si riconosce facilmente tra le dune di terra imbiancate, le acacie come grandi uccelli neri accovacciati e le rocce tonde dai riflessi metallici. I bambini sono stanchi per la mancanza di sonno, ma lo sarebbero di più sotto il sole. Le capre marciano senza fatica nella penombra. Tra qualche ora ci riposeremo sotto le grandi palme che bagnano d'ombra i dintorni della sorgente. Ho fatto l'unica scelta sensata. Assambò lo sa, lui che fin dalla partenza si affida a me senza riserve.

Gli altri si rovinano con le proprie mani. Come spiegare loro che per tanto tempo ho insegnato i meandri della geografia, il lento movimento dei continenti, il rigore delle stagioni, i giochi sottili dei venti e i capricci delle piogge? Oo queste cose le so, confortato da quattordici anni di vita a contatto con le savane talvolta verdi talaltre secche. So che tutta la regione, sud compreso, non ha più acqua. Perché non mi hanno dato retta? Di sicuro a causa della diffidenza nei confronti di uomini vissuti in città. O di chi sa leggere. Oppure tutte e due le cose insieme. Ignoranti, agiscono da ignoranti. Non posso volergliene.

- Ako ha perso qualcosa! - grida Ravil.

Immobilizzo con difficoltà Chamelle che, cocciuta, vuole proseguire il cammino a dispetto di tutti. Mi accorgo allora che il convoglio si è scisso in due. A una trentina di metri, Ako si è fermato. Ha bloccato così, di colpo, le pecore seguite dalla famiglia e dalle bestie di Assambò.

- Che fai? - gli dico voltandomi.

Non mi sente e cerca qualcosa per terra, preoccupato. Intanto, approfittando della fermata, Kizou fa pipì accoccolato sul bordo della strada, con gli occhi chiusi, ancora addormentato.

- Ako, riprendi il cammino!

- Ho perso la mia scultura.

Ha l'aria smarrita. Cerca di nuovo tra le sue cose, poi tra l'erba, fa qualche passo lì attorno.

- Non c'è tempo, Ako! - interviene a sua volta Mouna.

- Te ne comprerò un'altra - gli promette Assambò che, dietro, pazienta accanto al proprio cammello.

Ma il piccolo scuote la testa, teso. Guarda ancora per terra.

- Era il volto del profeta - dice con voce inquieta rimettendo il fagotto all'estremità del bastone.

E il convoglio riprende la sua strada.

Ako ha appena dieci anni. Alto, il cranio rasato per via dei pidocchi, la pelle scura, cammina a torso nudo, con un pezzo di stoffa sulla testa. È magro, flessuoso e agile come un gatto. Ha un rigonfiamento tra la base del naso e il labbro superiore che gli dà, a seconda dell'angolazione, un'aria timida o imbronciata. È il più imprevedibile dei quattro figli. È nato con un'ansia indefinita. Ravil, più grande di lui di due anni, a volte ha la stessa espressione. Ma lui dà alle cose il giusto valore. In ogni modo, sono ragazzi che non fanno a botte, non rubano. Li abbiamo educati bene. Non hanno mai saltato né le preghiere, né - per forza di cose - la scuola. Sanno leggere e contare. Questo offre loro un'opportunità per il futuro.

Il sapere dà un valore alla pelle. L'ho sempre detto.

Chi si è beffato di me se ne pentirà. Questa vendetta terrificante, però, non mi rallegra.

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Pagina 38

Tutto era pronto perché levassimo le tende il giorno dopo. La prima sorgente non era molto lontana: tre o quattro ore al massimo di cammino. Il soldato Lassong ci avrebbe aspettato laggiù a metà giornata, l'aveva promesso.

Del resto, venne da noi poco dopo la partenza di Janja: verificò le nostre bardature, apprezzò la bellezza di Chamelle, fece qualche complimento a Salimah di cui sbirciò discretamente i seni, si complimentò della buona condizione di capre e pecore. Prese Kizou sulle ginocchia, lo fece ridere e ballare al sole, i suoi capelli neri apparivano quasi bianchi per la luce.

- Stà attento ai loro occhi - mi disse allora.

Lo guardai, sbalordito, senza capire.

- Da queste parti - spiegò - alcuni banditi a volte rubano gli occhi dei bambini. Poi li vendono ai bianchi.

Non avevo mai sentito una tale mostruosità. Mouna allora comparve, e tuonò:

- Nessuno prenderà gli occhi dei bambini...

- È per questo che vi dico di fare attenzione - rispose lui tranquillamente salutandoci.

La sera, accompagnato da Assambò, decisi di provare ancora una volta a comprare una bussola. Temevo che ci saremmo persi nel deserto anche se potevamo orientarci facilmente nella notte serena, guardando le stelle.

Attorno al pozzo sorvegliato dai soldati era sistemato un accampamento di fortuna, che riuniva parecchie centinaia di persone. Puzzava di miseria, sudore ed escrementi. I militari vi mantenevano l'ordine col calcio delle armi. Davanti alle tende, intere famiglie sedute aspettavano o discutevano. Ci si scambiava un po' di tutto. Le voci si rincorrevano. Alla frontiera, si diceva, l'esercito aveva massacrato più di centocinquanta famiglie per timore di un'infiltrazione di ribelli. Ma le altre erano passate senza difficoltà. La guerra, la carestia e la siccità avevano ucciso ancora troppo poco perché ci s'interessasse della nostra sorte. Io non ascoltavo più. Volevo una bussola, e basta.

Domandavo qua e là. Assambò faceva lo stesso da un'altra parte. Ci guardavano alternativamente con odio o con un'aria da mendicanti perché sapevano che possedevamo cammelli e capre. Poi la fortuna mi arrise. Un militare mi vendette una bussola color cachi che tirò miracolosamente fuori dalla sua tasca. Felice del mio successo tornai da Assambò, dall'altro lato dell'accampamento.

- Finalmente l'ho trovata - gli dissi sorridendo.

Ma lui guardava dietro di me con gli occhi spalancati, come se avesse visto un fantasma. Temendo un pericolo, sobbalzai, mi voltai bruscamente, e vidi la jeep sulla quale qualche ora prima era salito Janja. La vettura tornava con gli stessi tre militari a bordo.

Il posto di Janja era vuoto.

- Se ne sono sbarazzati - mi sussurrò Assambò, terrorizzato.

- Domani Lassong farà lo stesso con noi. Ci ruberà tutto, poi ci abbandonerà o ci ucciderà - aggiunse con la voce strozzata.

Riflettei in silenzio. Anche se non cadiamo nella sua trappola domani, Lassong prima o poi troverà il modo di prenderci. E forse, persino - e un lungo brivido mi percorse la schiena - di vendere gli occhi dei bambini.

- Non abbiamo scelta, bisogna fuggire stanotte - gli risposi, con lo stomaco stretto dalla paura e dalla nausea.

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Pagina 50

Il quarto giorno, col sole nel punto più alto, arriviamo finalmente al primo segno indicato sulla mappa.

Ma non c'è niente.

Abbiamo cercato, sì, siamo saliti su un piccolo cumulo di sabbia a scrutare l'orizzonte, abbiamo proseguito ancora per una, poi due ore buone di cammino, non c'è alcuna fonte nei dintorni.

Lassong ha mentito. Qui non c'è acqua.

Il sole è al suo zenit, bisogna fermarsi, bere un po', mangiare. Alla fine troviamo un'acacia, ma l'ombra è piccola, striminzita. Ci stringiamo ai bambini, rannicchiati vicino al tronco. Le gambe però bruciano, o una spalla, o una parte del viso, o tutte e tre le cose insieme. Bisogna cambiare posizione secondo i raggi, i rami dell'albero, i corpi altrui. Mouna e Salimah tirano fuori quel che resta delle focacce di miglio. Nessuno mangia molto, bisogna forzare anche i bambini. La fame non è un problema. In caso di bisogno, si potrà sempre uccidere una pecora. E poi viene l'acqua e le mani si tendono, a turno, per ultimo io che lecco a piccoli colpi di lingua le pareti calde del bicchiere di terracotta. Dio, che sete. La lingua è come un pezzo di carne secca nella bocca, parlare è difficile. Agli angoli delle labbra si forma la solita pasta, si appiccica, s'indurisce. La togliamo con le dita e si trasforma in grumi che rotolano sulla pelle. Attorno a noi le mosche. Gli insetti non ci mollano, pidocchi, tafani, zecche che bevono, e che pizzicano, e prudono, e fanno grattare, e si rintanano tra le pieghe segrete della carne, vanno tra i capelli, sotto le braccia, sul sesso, nell'incavo delle cosce, intorno all'ano, e fanno diventare pazzi gli uomini, i bambini, le donne, e anche le capre che strofinano il collo contro la sabbia belando furiosamente. Con il sole, le labbra si spaccano come frutti maturi.

Nonostante Mouna abbia spalmato di continuo la faccia dei bambini di un burro terribilmente puzzolente fatto col latte di Chamelle, non ha sortito nessun risultato. I bambini si leccano il contorno delle labbra, che appare ormai come una corteccia rotta e screpolata, da cui cola un sangue che si secca in piccole placche rosse. Fa un male terribile e viene voglia di strapparsi le labbra con le unghie. Tutte le parti del corpo esposte soffrono così: gli occhi, iniettati di sangue, con il pus agli angoli, la pelle, bruciata e dolorante, e soprattutto i piedi. La sabbia sfrega, raschia e liscia, assottiglia, gratta e lima, spazzola e grattugia senza tregua la pelle corrosa che si fa via via più fina, si arrossa e si rompe tra le dita, sotto la pianta, sui talloni.

I sandali diventano insopportabili, ma è impossibile andare a piedi nudi. Dio, Dio. L'emorragia di Mouna è ripresa più forte, o non è mai cessata. Su entrambe le gambe adesso scorrono fili di sangue che non si seccano. Di tanto in tanto, con un pezzo di stoffa scura, si asciuga le caviglie. Ma quei pezzi di vita che fuggono cominciano a mancarle. Ha il fiato corto, il colorito grigio, è caduta due volte. Se continuiamo così, non si risolleverà. Salimah le ha dato certe piante che, pare, addensano il sangue e arrestano le emorragie. Ma bisogna avere il tempo di riscaldare l'infuso, poi di berlo ogni due ore per una giornata o almeno per una notte intera. E soprattutto cessare ogni sforzo.

- Mouna non ce la fa più - dico a mezza voce ad Assambò. - Bisogna fermarsi.

Mi scruta un istante. Se lo aspettava. Senza dubbio con Salimah ha considerato questa possibilità.

- Bisogna continuare - risponde lui, senza guardarmi.

- Non ce la fa più.

- Bisogna continuare. Non abbiamo scelta. Altrimenti moriremo tutti.

Esito un istante.

- Allora vai avanti. Ti raggiungerò appena possibile.

È quello che voleva. Scuote la testa, mi dà una pacca sulla spalla, un po' preoccupato. Perché fino ad allora rutto pesava su di me.

- Dio sia con te - mi dice sorridendo. È l'ultima immagine che ho di lui.

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Pagina 84

Nel frattempo, quel giorno è arrivata la più grande luce di speranza dalla nostra fuga dalle Pietre Piatte. Ha preso la forma di un bivacco che dapprima ho osservato a lungo dall'alto di una duna. Temevo una nuova trappola, banditi, soldati. Ma le vetture, due jeep bianche, la grande tenda beige, e qualche civile che camminava senza fretta nei dintorni non mi sono sembrati minacciosi. Malgrado tutto ho esitato parecchio. Dalla nostra partenza, le poche anime incontrate ci avevano portato soprattutto distruzione e dolore. Come in ogni situazione tesa in cui la vita e la morte paiono camminare in senso inverso su un medesimo filo sottile, la prima regola di prudenza era evitare il contatto umano. Ma da un po' la solitudine era diventata quasi più minacciosa.

Alla fine decisi di avanzare. Non avevamo molta scelta.

Ci hanno visto da lontano, ci aspettano, in piedi sulla pista. Sono solo in cinque, due appartenenti a clan sconosciuti, una donna bianca, e poi due soldati armati che devono assicurare la loro protezione. Questi non li avevo individuati, erano assopiti in una delle auto. Si avvicinano senza fretta. Ci vengono tese bottiglie d'acqua, di plastica, che scoliamo in silenzio. Dall'alto del cammello, Shasha succhia la sua con sibili di aspirazione. Attorno a noi, facce attente. Eco regolare dell'acqua che si svuota a sorsi nel fondo delle nostre gole. Abbiamo ancora sete. Non ci vengono offerte altre bottiglie. Solamente focacce in un involucro trasparente. Mouna dice a voce bassa che prima sarebbe meglio assaggiarle. Un po' diffidenti, le teniamo in mano senza toccarle.

Osservano le nostre membra smagrite, secche come lunghi bastoni anneriti, i nostri occhi vuoti, la pelle grigia e spaccata. Senza dubbio somigliamo a fantasmi spuntati dal terreno sabbioso. Nello sguardo degli uomini, leggo la credenza vaga ma sempre incombente negli spiriti. I soldati sono indifferenti. Il viso della donna bianca rabbrividisce. Ma è una compassione troppo ambiziosa che ci attraversa e va ben oltre noi, verso una montagna scura di cui non siamo che l'infima parte. E, in un movimento circolare, l'ampiezza della macchia la riconduce indefinitamente a lei, come se la montagna non le rinviasse in fondo che il proprio riflesso segnato dalla stessa compassione stereotipata e impotente. È una donna di bassa statura, vestita semplicemente, pantaloncini, una polo grigia con una sigla blu e bianca al centro, identica a quella sulle auto. Ha molto caldo. Non so darle un'età. Al suo fianco un interprete.

- Lei vuole sapere dove sono gli altri - dice questi.

- Non lo so. Noi viaggiamo soli. Ma ce ne sono avanti, e forse dietro.

Fa una smorfia, scambia qualche parola con la donna, si gira ancora verso di me.

- Non abbiamo visto nessuno. Dove sono potuti andare secondo te?

- Alcune tracce puntavano a est, verso la frontiera.

Traduce alla donna bianca che si anima, parla in modo loquace, impaziente. In lontananza, la polvere di un'altra macchina che cresce.

- In che punto hai visto le tracce partire verso est?

- A quattro o cinque giorni da qui - dico facendo accovacciare Chamelle, senza mai distogliere gli occhi dal veicolo che si avvicina.

A terra, la bestia si sfrega le narici contro il suolo gridando sordamente. Mouna è venuta a togliere Kizou dalla mia schiena e lo culla con dolcezza. Shasha scende precipitosamente dal cammello e guarda il gruppo con occhi assenti.

- Hai ancora acqua?

Ce ne portano. Una bottiglia a testa. Shasha non riesce ad aprirla, si ingegna in silenzio. La donna va da lei, s'accovaccia, toglie il tappo con un gesto preciso, tende la bottiglia verso la piccola che si mette a bere a lunghe e sonore sorsate, lo sguardo immerso in quello della donna che sorride. Arriva un'automobile che riconosco. È quella che avevamo visto prima d'arrivare alle Pietre Piatte, parcheggiata da una parte, in cima a una duna di terra. Sono in tre a uscire dal veicolo. Uno va dietro, prende la videocamera, viene verso di noi a piccole falcate.

- Sono giornalisti. Li conosciamo, non avete niente da temere - mi rassicura l'interprete.

L'uomo con la videocamera gira intorno a Mouna. Accanto a lui, i suoi compagni si danno da fare in mezzo a lunghi cavi neri.

- Non ti preoccupare, mamma, non fa male! - grida Shasha con tono raSSIcurante.

A disagio, Mouna abbassa la testa. Le ho parlato della videocamera, delle televisioni, di tutte queste cose. Eppure non sa quale atteggiamento adottare. Deve cercare di sorridere, nascondere la sua miseria? Sa bene che molti, nell'osservare la disgrazia altrui, provano un'intensa soddisfazione per la propria esistenza, magari di una mediocrità incredibile. Mouna ha il suo orgoglio, non vuole dare, lei che non ha niente, un senso di piacere supplementare a chi ha già tutto. Ma il reportage può anche provocare un moto spontaneo di generosità. La cosa migliore sarebbe allora offrire un aspetto disperato dimenticando le bottiglie d'acqua ricevute poco prima. Potendo scegliere, preferisce ancora mostrarsi distante, quasi indifferente. La contemplo. Anche in quest'atteggiamento non c'è niente di vero. Qualsiasi immagine venga isolata, si svuota di sostanza come una conchiglia staccata da uno scoglio. E muore. La verità è nello scorrimento continuo del tempo, questo fiume denso e caldo di contraddizioni che pullula di ponti verso il sacro. Non in questi riflessi morti che imprigionano e cesellano gli stranieri. Siamo mille anni avanti a loro.

Gli uomini si danno da fare attorno a Mouna e al piccolo. Dispensano sorrisi, li incoraggiano in una lingua affascinante e incomprensibile. Ma il loro sguardo resta professionale, non c'è posto per i sentimenti. È come se tra loro e noi si formasse uno schermo composto d'ombre, luci e colori, che ci separa e li protegge. Del resto, vengono a sapere che forse i rifugiati sono andati verso est? Ripongono in fretta il loro materiale, partono verso gli spazi infiniti dietro di noi, senza più vederci. La loro partenza diffonde nel bivacco una gran calma un po' imbarazzata.

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