Copertina
Autore Debórah Dwork
Titolo Nascere con la stella
SottotitoloI bambini ebrei nell'Europa nazista
EdizioneMarsilio, Venezia, 2005 [1994], Tascabili Saggi , pag. 418, ill., cop.fle., dim. 125x190x27 mm , Isbn 978-88-317-7127-6
OriginaleChildren with a star: Jewish youth in Nazi Europe [1991]
TraduttoreGiovanna Antongini
LettoreElisabetta Cavalli, 2005
Classe storia criminale , shoah , storia contemporanea , storia sociale
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Indice


    NASCERE CON LA STELLA

 11 Prefazione

 17 Parte prima. Il mondo riconoscibile

    19 A casa
    49 Nascosti
    91 Clandestini

139 Parte seconda. Un mondo con precedenti e senza analogie

    141 Campi di transito
    187 Ghetti

245 Parte terza. Il mondo irriconoscibile

    247 Campi di sterminio e di lavoro forzato

293 Parte quarta. Epilogo

    295 La mia guerra iniziò nel 1945

315 Parte quinta. Storia e memoria

    317 Cercare e ricercare

349 Note
374 Ringraziamenti
377 Bibliografia
396 Elenco delle illustrazioni
398 Glossario
400 Carta dell'Europa nel 1942
405 Indice tematico analitico

 

 

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Pagina 11

PREFAZIONE



Questo libro parla di bambini. È la storia di coloro il cui destino iniziò con l'essere nati ebrei, il cui fato fu segnato dalla sventura di essere europei durante il periodo nazista e, per quel ridotto numero che sopravvisse, la cui sorte continuò ad essere difficile anche quando la guerra ebbe fine. Nascere con la stella è la storia sociale del quotidiano dei giovani ebrei nell'Europa occupata dai nazisti, l'analisi della qualità della loro vita di ogni giorno. Tratta dell'ordinario, del carattere straordinario dell'ordinario, che traspare e viene messo in luce dai particolari delle stesse storie di vita; quelle schegge dell'esistenza umana che sfuggono ad affermazioni generiche come, «morirono di fame, morirono di freddo, morirono per una serie di comuni malattie infettive». La realtà era fatta di ben altro, e quanto vedremo è la sostanza, la struttura dei modelli di vita che i giovani ebrei sperimentarono durante la guerra.

Quali furono le diverse esperienze che essi affrontarono nell'Europa nazista? Nei ghetti, nei campi di lavoro forzato, nei centri di sterminio vissero sotto il diretto controllo dei tedeschi. Nascosti, invisibili (in soffitte, ripostigli, conventi di clausura) o visibili (adottati da non ebrei, nelle sedi di ordini religiosi o orfanotrofi cristiani; in fuga senza documenti o con documenti falsi che li facevano passare da cristiani) condussero un'esistenza da emarginati. Nascere con la stella è organizzato sulla base di questi prevalenti modelli di esistenza; perciò i capitoli si intitolano A casa, Nascosti, Campi di transito e così via. L'intenzione presente in ogni capitolo è far luce e analizzare i fatti comuni, di tutti i giorni: l'istruzione e le occupazioni, come si procuravano abiti, cibo, combustibile, chi erano i loro compagni, se erano o meno separati da fratelli, sorelle, genitori, chi (se vi era qualcuno) ne aveva la responsabilità. Si terrà conto di sentimenti e impressioni di quel periodo ricordati da persone oggi in età matura, di percezioni registrate in diari o disegni e, per coloro che sopravvissero, verrà valutata l'influenza che essi credono la guerra abbia avuto sulla loro vita. Scrivendo sotto l'incubo di quella catastrofe, è forse opportuno sottolineare che sebbene la stragrande maggioranza (quasi il 90 per cento) delle persone oggetto di questo studio sia stata uccisa, non parleremo della macchina di sterminio ma delle circostanze e delle condizioni della loro vita.

L'accurata ricostruzione e l'attenta analisi dei comuni modelli di vita forniscono allo storico una serie di indicazioni sul grado di osservanza religiosa, affiliazione politica della famiglia, sesso, età, cultura e classe sociale che aiutano a individuare le percezioni dei giovani sui cambiamenti che la guerra portò al loro modo di vivere e, entro certi limiti, inquadrano la loro sorte nell'era nazista. È ovvio, per dare un esempio, che l'esperienza di un bambino di sei anni sia stata diversa da quella di un ragazzo sedicenne – nascosti, «in adozione» o nei campi di transito; meno ovvio, come vedremo, che la sicurezza di un luogo dove nascondersi dipendesse non dal livello economico di una famiglia ma dalla rete di contatti con persone al di fuori della comunità ebraica. Inoltre, secondo quanto dichiarato da membri di organizzazioni clandestine di assistenza, se era relativamente facile trovare una sistemazione per una bambina di tre anni, non lo era affatto per un maschio al di sopra dei dodici. Nei campi di lavoro forzato la situazione fu chiaramente all'opposto. La giovane età costituì una garanzia di morte. Meno giovane era un ragazzo, più maturo e robusto il suo aspetto, maggiori furono le possibilità di venire assegnato a qualche lavoro.

Non è possibile svolgere una ricerca sui giovani senza includere gli adulti che se ne assunsero la responsabilità. Uno studio sulla gioventù vittima della politica genocida nazista porta a occuparsi anche di quei gruppi, clandestini o «legali», nati con lo specifico scopo di proteggerla. In ogni paese d'Europa vi furono persone che agirono individualmente o all'interno di reti coordinate per salvare i giovani ebrei, e la loro storia è parte integrante, seppure in secondo piano, di questo libro. È doveroso ricordare che mentre si è parlato molto della resistenza armata, i gruppi di assistenza ai giovani non sono mai stati inclusi nella storia ufficiale, riconosciuta e legittimata; molti di quei resistenti erano donne che dopo la guerra scomparvero dalla vita pubblica, non cercarono pubblicità e lasciarono scarse testimonianze del loro lavoro. Ricostruire la storia delle organizzazioni di salvezza e soccorso, soggetto troppo a lungo rimasto in ombra, riconoscere l'intelligenza e il coraggio di chi vi prese parte, è il secondo scopo di questo libro.

Nascere con la stella è la storia dell'essenza e la sostanza – l'anomala e tragica dimensione – del quotidiano dei giovani ebrei sotto il dominio nazista. Il nostro fine è tentare di comprendere, nell'ambito di circostanze diverse, come vissero quei ragazzi. Che cosa, esattamente, accadde loro? Che facevano durante il giorno? Quali erano le loro speranze, paure, pensieri, riflessioni, sogni o incubi? Come affrontarono, compresero e percepirono la realtà in cui vennero immessi a forza?


Perché ritengo tutto ciò importante? Se questo libro riuscirà a migliorare, ad acuire la nostra comprensione della gioventù in una situazione traumatica creata da un sistema politico e ad ampliare i confini delle tradizionali argomentazioni sull'età giovanile, sarà già sufficiente giustificazione per il mio lavoro. Tuttavia l'analisi della storia della gioventù ebrea nell'Europa occupata dai nazisti va ben oltre. Innanzitutto, prendendo in considerazione i membri più vulnerabili della società, quelli senza potere, risorse o conoscenze, si fa luce sul funzionamento della società europea degli anni di guerra o, più esattamente, su come i tedeschi strinsero il cappio e come le vittime ebree e i loro vicini gentili reagirono. Se l'approvazione di ogni nuova legge discriminatoria colpì l'intera collettività ebraica, chi specialmente ne soffrì fu la parte più debole, i giovani; la vita giovanile, in quanto sottocultura della società dominante venne particolarmente colpita dalla sempre crescente pressione della persecuzione nazista. Cogliere l'entità di questo fenomeno conduce a una diversa e forse più sensibile percezione della storia europea degli anni hitleriani, un approccio che meglio di ogni altro chiarisce e cristallizza l'orrore e la malvagità del genocidio degli ebrei d'Europa. Il nostro rifiuto di accettare lo sterminio di giovani è emotivamente distante dall'incomprensione del genocidio di adulti. Quando si è di fronte al massacro di innocenti, domande come, «Perché avete permesso che ciò vi accadesse?» vanno interpretate per quello che sono: incoerenti e irrilevanti. Gli adulti non vengono mai considerati del tutto impotenti, sarebbe una contraddizione al nostro modo di pensare, all'immagine archetipa di cos'è un adulto. Ma nel caso dei più giovani siamo senza schermi, essi sono, o si suppone siano, impotenti e dipendenti. In questo caso non è più possibile accusare le vittime e gettare la colpa su di loro.

Analogamente, molte asserzioni stereotipe cui viene fatto comunemente ricorso in relazione al giudeocidio si spogliano di pretese validità per rivelare la loro vera natura: null'altro che ipocrisie di comodo. Affermazioni come «gli ebrei stavano tra di loro», «gli ebrei non si assimilavano alla cultura generale», «gli ebrei erano un'evidente presenza di sinistra», «gli ebrei ostentavano la loro ricchezza», «gli ebrei erano in proporzione eccessiva nelle attività bancarie, nelle professioni e nelle arti» non sono che pretesti mascherati per giustificare e in qualche modo trovare una motivazione al genocidio. Ma la persecuzione dei giovani elimina in blocco queste assurdità. Se anche quei pretesti avessero avuto senso – e non lo avevano – restano assurdi e incongrui per legittimare il maltrattamento contro dei giovani. Quando la vittima era un bambino, chi lo vedeva portar via dalle SS, dalla polizia francese o dai gendarmi ungheresi, non poteva certo dire a se stesso per spiegare su basi razionali ciò cui aveva assistito, «mi domando cosa ha fatto per provocare le autorità», poiché è evidente che un neonato o un bambino di tre o sei anni non potrebbe in alcun modo averlo fatto.

Eliminate tutte le giustificazioni, le razionalizzazioni e i luoghi comuni rimane la fondamentale essenza del genocidio: l'ideologia del diverso. Attraverso l'esperienza dei giovani, il fenomeno della persecuzione si disseziona e lascia a nudo l'universale sostanza del sistema concettuale che conduce a percepire l'altro come alieno. Un'ideologia applicabile non solo all'Europa degli anni 1933-45 ma più in generale al particolare modo con cui gli esseri umani si tormentano e calpestano l'un l'altro. La storia dei giovani ebrei nell'Europa nazista ci racconta, dalla loro prospettiva, come essi diventarono stranieri nei loro stessi paesi, come venne negato loro rispetto, sottratto ogni diritto e, infine, assegnata la sorte di essere uccisi. Come accadde che essi, un tempo parte della struttura della società, del corpo politico, ne siano stati separati a forza, estirpati? Nascere con la stella intende analizzare questo processo attraverso l'esperienza e la voce di quegli stessi giovani.

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Pagina 91

3.
CLANDESTINI



Nel capitolo precedente abbiamo preso in esame il ruolo degli adulti (genitori veri e putativi, attivisti della resistenza) che decisero e agirono in favore dei più giovani. Ma, una cosa era salvare qualcuno, e tutt'altra essere il qualcuno che veniva salvato. Nascondere quei giovani fu un'impresa estremamente complicata, ma vivere nascosti lo fu ancor di più. I problemi dei resistenti o delle famiglie «adottive» furono d'ordine pratico, non erano in gioco personali convinzioni, principi o credenze religiose. Agirono in tal modo perché lo ritennero giusto, si assunsero la responsabilità di quei giovani con generosità d'animo e in piena coscienza. Coloro che abbisognavano d'aiuto erano lì, la loro effettiva e materiale presenza giustificò e diede senso a quanto fecero; esistevano tradizioni e archetipi su cui basarsi per convalidare e rafforzare decisioni e soluzioni. Scelte e comportamenti degli operatori clandestini così come di coloro che accolsero i bambini ebrei rientrano infatti nel modello di carità eroica di tradizione cristiano occidentale; chi si dedicò alla salvezza della vita giovanile fu una splendida (e, per una volta tanto, filosemita) variante degli antichi paladini che animati da spirito cavalleresco prestavano giuramento di salvaguardare vedove e proteggere bambini.

Ma i giovani ebrei non poterono ricorrere ad alcun valido modello che spiegasse la loro situazione; né la tradizione né il patrimonio culturale li aiutarono a farsi una ragione della loro posizione di vittime. Mai la persecuzione degli ebrei era giunta a tanto, e il più vicino paragone attingibile alla storia era il proposito degli egiziani di uccidere tutti i minori maschi; la storia di Mosè che grazie all'astuzia della sorella Miriam sopravvisse insieme alla sua famiglia. I giovani nell'Europa occupata dai nazisti non ebbero pari opportunità, e dovettero far fronte al futuro senza guida né riferimenti.

In questo capitolo si parlerà dunque della loro esperienza personale. Cosa significò per loro vivere nascosti e invisibili, come Anna Frank, o nascosti ma visibili, come Ivan Buchwald? Che facevano durante il giorno? Con chi giocavano? Quali erano le loro speranze e timori, doveri e compiti, occupazioni e preoccupazioni? Ogni tipo di esperienza, l'aver vissuto nascosti (e invisibili) o «da nascosti» (ma visibili) fu comunque problematica, ma la prima in modo più evidente, più diretto e più brutale. Vivere nascosti significò troncare tutti, o quasi tutti, i legami con la società; in una soffitta di città o in una conigliera nella foresta, essi si trovarono letteralmente segregati dal pericolo mortale che il resto del mondo rappresentò. Fu loro negata persino quella sfera ristretta cui la vita giovanile si era ridotta con la separazione dai precedenti compagni di gioco non ebrei, il bando dagli abituali ambienti, scuola, cinema, parchi. Marchiati e isolati dalla Stella di David come «altri», «stranieri» e, infine, scacciati dalle loro stesse case, costretti ad abbandonare i pochi amici rimasti e spesso anche le famiglie, essi iniziarono una nuova e quanto mai alienata esistenza emarginata da ogni comunità, senza modo né mezzi per accedere a beni o servizi (cibo, vestiti, scarpe, medicine, libri, cure mediche e dentistiche). Marco Anav, un ebreo romano che nel 1944 visse con la famiglia nascosto nell'abitazione di un amico cattolico, ripensando a quel periodo afferma: «Ora, a cinquantun'anni, posso dire che il lato peggiore del vivere nascosto fu la mancanza di libertà; il fatto d'essere confinati, d'essere rinchiusi in una stanzetta più piccola di quella in cui stiamo ora: il fatto che quando uno bussava – dovevi bussare uno, due, tre, perché se sentivi uno o due colpi significava qualcos'altro – "Silenzio ragazzi, state quieti!"» Anche le più elementari necessità umane, lavarsi o andare al gabinetto, si potevano soddisfare solo con estreme precauzioni e in date ore. Moishe Kobylanski e i suoi trovarono un nascondiglio in campagna nei pressi del loro villaggio, Gruszwica in Ucraina, e dalla fine del 1942 sino a maggio o giugno del 1943 vissero rintanati nel pagliaio di una porcilaia. «Le attrezzature sanitarie erano ottime. Non avevi che da andare là in fondo dall'altra parte e avvolgere il tutto con la paglia. E quando uscivo a caccia di cibo, lo portavo fuori, e diventavo matto per trovare un posto dove buttarlo». A Moishe spettava il compito di procacciare il cibo e insieme di liberarsi degli escrementi della famiglia. «Con l'urina era facile, stava in una bottiglia, e non appena all'esterno la rovesciavo. Non era un problema. La materia fecale fu un problema. Andavo dov'era il letamaio del bestiame, un posto l'avevo trovato, e cercavo di nasconderla lì. Ma come mimetizzare escrementi umani con letame animale? Era inutile. Ero sempre preoccupato perché potevo lasciare tracce della nostra presenza». Stare nascosti insomma equivaleva alla condanna alla prigionia in una speciale cella di rigore, e questo non perché egli avesse commesso un crimine ma perché tutti gli altri agivano in modo criminale.

Sebbene l'esperienza di ognuno sia da considerarsi unica, alcuni aspetti del vivere nascosti furono grosso modo simili. In primo luogo, la fondamentale incapacità di afferrare i motivi che avevano portato a quello stato di fatto e, di conseguenza, la costante paura e tensione. Nessuna precedente cognizione aveva preparato i giovani a questa nuova esistenza, essi capivano che i tedeschi e i loro alleati erano pericolosi ma l'esatta natura del pericolo implicato sfuggiva alla loro comprensione. E ciò valeva in special modo per i più piccoli che tendevano a percepire quella minaccia come un'indefinita insicurezza piuttosto che una specifica e globale calamità. «Perché devo nascondermi?» era la domanda di fondo. Non ottenendo risposte convincenti (di fatto non esistevano spiegazioni razionali o persuasive), ma solo la confusa (o netta) sensazione che così facendo si sarebbero salvati, crebbe in loro un gran senso di ansia e trepidazione. Non capivano perché dovessero essere costretti a lasciare le loro case, le famiglie, gli amici; non erano in grado di distinguere tra quanto era sicuro e quanto invece pericoloso. Proprio ciò che in precedenza aveva rappresentato sicurezza doveva ora essere lasciato, abbandonato. Di cosa fidarsi, dove trovare protezione?

Judith Ehrmann-Denes non aveva ancora quattro anni quando con la madre e il fratello di diciotto mesi andò a vivere nascosta. A Budapest, all'inizio della primavera 1944, una domenica pomeriggio uscirono come d'abitudine per far visita a parenti. Quando tornarono, trovarono la portiera, «una signora tanto, tanto simpatica», ad aspettarli nel cortile. «Ci disse, "Non entrate, non entrate! Ci sono i nazisti". I nazisti ungheresi... Le Croci Frecciate... Erano lì e portavano via tutti gli ebrei abitanti nella casa. Così, quella sera stessa andammo da un gentile, amico di mio padre... Vivevamo da loro, e io non riuscivo a capire perché non tornavamo a casa nostra. Stavamo là... ricordo che ci stavo ma non capivo. Ricordo la costante ansietà che trapelava da mia madre, che naturalmente era angosciata ventiquattro ore al giorno... L'ansia, questa è la sola cosa che rammento. E pensavo che la vita fosse quella. Che può capire una bambina di tre anni? Così andavano le cose. Si viveva perennemente nell'angoscia e nel timore».

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Pagina 141

4.
CAMPI DI TRANSITO



Il 1° luglio 1944 Frieda Menco-Brommet, i suoi genitori, lo zio materno e la famiglia di quest'ultimo furono arrestati dalla Gestapo. Per due anni erano vissuti nascosti in casa di cattolici a Warmond in Olanda; un favore per cui i Brommet avevano pagato, cedendo persino le loro tessere annonarie valide sul mercato nero che (essi stessi allora lo ignoravano) erano state fornite gratuitamente dalla locale resistenza clandestina. Nel tempo la situazione si era andata deteriorando e si fece via via sempre più difficile e disperata, finché un giorno gli ospiti, «uscirono con la proposta che qualcuno di loro conoscenza avrebbe potuto portarci in Svizzera. Mio padre decise che avremmo fatto così», ricorda Frieda Brommet. Ma l'ultima rata del pagamento che versarono per quel passaggio verso la Svizzera risultò essere il prezzo del biglietto per il carcere di Amsterdam. «Quando ricevettero tutti i soldi... i tedeschi vennero a prenderci». Anche il padrone di casa fu arrestato, «ma poté tornare a casa immediatamente, così capimmo che era stato lui a tradirci». I Brommet passarono tre notti in prigione prima di essere mandati a Westerbork, il campo di transito olandese sito nella provincia nord-orientale del Drente.

«Tre giorni in carcere e poi andammo a Westerbork, e Westerbork per noi fu meraviglioso. In un certo senso, quando venimmo catturati, ci fu minor tensione perché non potevano più prenderci, perché eravamo presi». Rei di aver tentato di nascondersi, vennero assegnati alla baracca di punizione, «là ci fecero vestire con grembiali, blu scuro, e un fazzoletto rosso». Frieda Brommet aveva quattordici anni nel 1940 quando i tedeschi invasero l'Olanda, e diciotto al momento del trasporto a Westerbork. «Avevo i capelli scuri, lunghi, e quel grembiale mi stava benissimo. Là c'erano molti uomini e cibo sufficiente, dunque per noi era meraviglioso».

A nove anni, la metà di quanti ne aveva Frieda, nel 1943 Esther Levi fu internata a Westerbork insieme ai familiari. Benché sotto molti aspetti le due famiglie e l'ambiente di provenienza fossero assai diversi, anche per lei la prima impressione della vita nel campo di transito fu eccitante e tutt'altro che negativa. Esther era nata a Francoforte sul Meno nel 1934, suo padre commerciava in diamanti, oro e argento, la madre era la tipica casalinga vecchio stile. «In Germania abitavamo un'enorme casa a tre piani. I miei nonni stavano a pianterreno. Avevano cinque figli, due di loro sposati, e ogni coppia sposata viveva in uno dei piani superiori. [Per quanto ricordo, e per quanto mi raccontò un cugino più grande] i rapporti tra parenti erano molto stretti; facevano ogni cosa insieme. Provengo da una famiglia ebrea molto religiosa, osservante, ortodossa... Mia madre usava portare la shaytel [parrucca] e persino [quando ci trasferimmo] ad Amsterdam tenevamo in casa un Sefer Torah [rotolo o "Libro della Legge"]. Tutta la famiglia era davvero molto pia».

La famiglia estesa al completo si spostò ad Amsterdam nel 1937-38 e lì seguitò a condurre la vita di prima; il fratello Alfred nacque nel 1936, la sorella Bertie nel 1938 e la più piccola, Fanny, nel 1942. Nel 1943 tutti e sei furono deportati a Westerbork dove per Esther vivere in una comunità ebraica fu un'inattesa rivelazione.

Nel campo, per la prima volta, constatai che esistevano altri tipi di persone. Quand'ero una bambina di quattro o sei anni andavo in giro con i paraocchi. Non facevo che seguire quella via delimitata: andare ogni mattina con mio padre alla shul [sinagoga], sempre a imparare la Torah, prendere lezioni di ebraismo, e così via. Questo era quanto facevo da piccola. Poi andai a scuola, la Palach, anche questa una scuola di osservanza ebraica, dunque di nuovo quell'identico stretto sentiero: religioso. Non che avessi qualcosa da obiettare. A quel tempo era così, semplicemente si andava avanti... e tutti i nostri amici e conoscenti seguivano la stessa via, dunque vivevo in una specie di ghetto. Al momento che la lasci, è differente, ma sinché segui quella strada si hanno i paraocchi.

Non conoscevo nient'altro. E solo quando arrivai nel campo vidi che esisteva un altro genere di persone, gente che si comportava da ebreo in modo differente. Allora pensai, «To' queste persone non fanno questo, o quello. Non osservano il Shabbat [per esempio]». Lo scoprii solo là. Sapevo che in questo mondo c'erano altri tipi di persone, naturalmente. Ma cosa facevano, e in che modo lo sperimentai solo nel campo.

Per la verità ciò che pensai fu, «To', ma esistono cose del genere?». Ero entrata in un mondo completamente diverso, davvero in un mondo del tutto differente, perché avevo a che fare con altri giovani che incontravo ogni giorno e che erano molto diversi. Quella fu per me una grande rivelazione.

Posso dire che di gran lunga quella fu veramente l'esperienza che mi colpì maggiormente, mi resi conto che esistevano altri [modi di vivere].

Per Frieda Menco-Brommet, rimasta nascosta e invisibile per due anni, ed Esther Levi, abituata a un'esistenza protetta, la vita a Westerbork rappresentò, per lo meno all'inizio, l'espansione dei confini del mondo precedente. E trovarsi in quel luogo non sembrò loro triste, né deprimente; ambedue avevano accanto i familiari e quella struttura intatta permise alle due ragazze di apprezzare quel poco di cui era possibile godere: la libertà di conoscere persone nuove. Tuttavia, per la maggioranza dei giovani la vita nei campi fu un'esperienza molto più complessa, l'inizio di un processo di adattamento a un universo per il quale non esistevano paragoni né analogie. E in quel mondo essi presero a vivere un'esistenza divisa in due, dissociata, mantenendo esteriormente normali modelli di vita giovanile e al tempo stesso distaccandosi dalla sfera sicura e razionalmente ordinata che avevano conosciuto. Una condizione schizofrenica: condividere il miraggio della stabilità e al contempo assimilare la dissoluzione dei principi su cui quell'ordine si era basato.

«Quando arrivammo a Westerbork era buio – racconta Irene Butter-Hasenberg –. Ricordo che dovemmo superare varie procedure. Ci esaminarono la testa per eliminare i pidocchi e ognuno doveva togliersi tutti i vestiti per essere visitato da un dottore. Ricordo che mi sentivo molto spaventata perché era la prima volta nella mia vita che vedevo persone nude e là tutti lo erano, solo una massa di corpi nudi. Mi sembrò molto strano». Irene aveva dodici anni e mezzo, e quel sistema istituzionalizzato di smistare, vagliare e selezionare le parve mostruoso. «Era notte tarda, ed era stata una giornata terribile, e vi erano persone di ogni età, e gente malata. Uomini e donne stavano separati. Ci volle molto tempo, tutti in fila». Nessuna delle sue precedenti esperienze l'aveva preparata a un simile sistema di irreggimentazione e spersonalizzazione; all'improvviso, era diventata un anonimo corpo nudo esplorato, punzecchiato e spinto da una fila all'altra. «Rasavano i capelli a tutte le persone che avevano i pidocchi. Quella è una cosa di cui ho sempre avuto terrore: che mi trovassero i pidocchi, e avrei perso tutti i miei capelli. Era così degradante e umiliante trovarsi senza capelli. Rasavano la gente, ed era una cosa terribile. Non si riconosce più una persona senza capelli».

Da un giorno all'altro, Irene Hasenberg perse struttura e contesto del quotidiano, le abitudini domestiche furono distrutte, sradicate, e insieme ai familiari venne immessa a forza nella vita istituzionale del campo di transito. «Infine ci fecero marciare dentro una baracca, ci assegnarono i letti e ci sistemammo per dormire. Quattro di noi [mia madre, mio padre, mio fratello ed io] eravamo in una stessa baracca, metà maschi e metà femmine. Quelle baracche erano molto deprimenti, tristi, quasi solo letti, tre letti uno sopra l'altro, una specie di reti metalliche simili a cuccette, ma di metallo, e i materassi... Questo era tutto ciò che avevamo».

Come Frieda, Ivan Buchwald era vissuto nascosto ed era stato tradito; egli però aveva cinque anni, era completamente solo e l'esperienza del campo di transito fu per lui un incubo. Prima di allora aveva abitato da clandestino presso una zia, Ersi Kellner sposata a un non ebreo, nella sua città natale di Novi Sad in Iugoslavia, ma qualcuno «riferì alle autorità che mi trovavo lì, che c'era un bambino ebreo nascosto».

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Pagina 235

Nei ghetti stabili, la fame fu un problema per tutti (o quasi) poiché la razione ufficiale non bastava per mantenersi in vita. Racconta Hanna Sztarkman, «ricordo che camminando per strada vedevo quei piccoli dal ventre gonfio per la fame. La gente moriva di fame. Noi eravamo tra i pochi fortunati, non soffrivamo la fame grazie al lavoro di mia madre, e mio fratello lavorava. C'era sempre qualcosa da mangiare, noi non morivamo di fame. Ma si potevano vedere bambini dal ventre gonfio stesi per strada. Diventò un fatto comune». Fame e carestia furono le costanti della vita nel ghetto, dettarono salute o malattia e, in una dimensione che oggi – mezzo secolo dopo – possiamo solo vagamente afferrare, prescrissero e circoscrissero i comportamenti. Come spiega Sara Grossman-Weil:

I bambini venivano portati nel ghetto [di Lódz] e non riuscivano a camminare per mancanza di nutrizione. Proprio non riuscivano a camminare. Questo dimostra quanto la fame imperversasse. Questo fu a quanto la malnutrizione ci condusse. Eravamo costantemente alla ricerca di cibo, di qualche briciola. Non ci si azzardava a lasciare una briciola sul tavolo. Si sarebbe messo in bocca qualunque cosa.

Credo che nulla faccia soffrire quanto la fame. Si diventa selvaggi. Non si è più responsabili di ciò che si dice o fa. Diventi un animale nel pieno senso della parola. Depredi gli altri. Rubi. Così ti trasforma la fame. Non sei più un essere umano.

Pian piano, i tedeschi stavano raggiungendo il loro scopo. Penso che ci abbiano fatto patire la fame, non perché non vi era cibo a sufficienza, ma perché questo era il loro metodo per demoralizzarci, per degradarci, per torturarci. Questi erano i loro metodi, e applicarono quei metodi scrupolosamente.

Perciò vi erano un'infinità, moltissime morti ogni giorno. Moltissimi malati per i quali non esistevano medicine, né assistenza, né rimedi. Ci limitavamo a stare lì, a giacere lì, e la fine si avvicinava.

Ignoravo che il nutrimento, il cibo, non solo è importante per soddisfare la fame, ma per quanto fa per il tuo corpo. Si è impediti a camminare, muoversi, vedere, udire. Ogni senso non è più acuto né preciso come dovrebbe essere. Questo era quanto accadeva nel ghetto...

Eravamo tanto avviliti, tanto disumanizzati, eravamo così sconfortati, così ossessionati di soddisfare quella terribile fame che in realtà null'altro contava. Non vi era altro argomento di conversazione — ammesso che vi fosse conversazione. Nessuna forma di socializzazione per così dire. Niente per cui valesse la pena di vivere, solo la tenue speranza che forse il domani sarebbe stato migliore dell'oggi.


Il contrabbando fu una necessità di fatto nel mondo del ghetto. Il commercio «illegale» (nei ghetti dell'Europa orientale, consumare quel minimo di cibo per non morire era diventata un'azione illegale), costituì l'unico mezzo per procurarsi la quantità di cibo sufficiente al sostentamento quotidiano, e infatti la gran parte dei generi alimentari disponibili nel ghetto di Varsavia veniva contrabbandata dal settore ariano della città per essere poi venduta al mercato nero. Organizzato in circuiti sempre più numerosi, questo traffico si svolse in genere sotto forma di imprese a vasto raggio gestite da adulti; rischiavano la morte ma il profitto economico era enorme per chiunque ne facesse parte: venditori, fornitori, e per quanti era necessario corrompere – sentinelle tedesche, poliziotti polacchi ed ebrei, custodi dei vari caseggiati attraverso i quali la merce transitava e così via. I giovani si arrangiavano con minimi commerci illegali che non procuravano certo grandi guadagni. Uscendo furtivamente attraverso brecce e varchi dei muri, chiedevano l'elemosina e acquistavano generi alimentari a prezzi molto più bassi rispetto a quelli del quartiere ebraico, poi con il cibo tornavano a casa nel ghetto. Divennero così il sostegno della famiglia, e il contrabbando si trasformò per loro in un'occupazione comune. Nel maggio 1942, la prigione ebraica sita in via Gesia ospitò 1.300 prigionieri, «per lo più contrabbandieri e molti di loro giovani». Essi rappresentavano una cifra irrisoria rispetto alla dimensione globale del fenomeno: quei pochi che venivano catturati mentre molti riuscivano a sfuggire, e inoltre, in quel caso la punizione era stata il carcere ma per tanti altri vi fu l'esecuzione immediata. Va tenuto anche conto che la popolazione del ghetto mutò molto più rapidamente che in una normale comunità; l'afflusso di rifugiati e deportati, l'elevato tasso di mortalità e le retate per i lavori forzati mantennero l'indice demografico in costante fluttuazione. La cifra del maggio 1942 riflette dunque solo lo stato di fatto di quel momento; con ogni probabilità tre mesi prima i giovani imprigionati per contrabbando nel carcere di via Gesia sarebbero stati un gruppo del tutto diverso. In breve, sebbene non sia possibile quantificare esattamente quanto diffusa fosse la pratica di procurare il cibo per sé e per i familiari, né quanto comune l'evasione dalle mura del ghetto, è provato che almeno qualche centinaio di giovani nella sola Varsavia mantenne i propri cari in questo modo. Questa fu per loro la vita nei ghetti stabili dell'Europa dell'est. Mietek Eichel aveva nove anni quando i tedeschi occuparono la Polonia e circa dodici quando insieme al fratello intraprese l'attività di contrabbandiere. Così scrive nella testimonianza che rese poco dopo la guerra di fronte alla Commissione storica di Lublino: «All'inizio la vita costava poco. Ma poi i prezzi salirono alle stelle, e non c'era un modo legale per procurarsi il cibo. La gente moriva di fame». Scoppiarono epidemie di tifo, «mio padre, mia madre e mia sorella si ammalarono tutti insieme. C'eravamo solo mio fratello ed io per curarli». La famiglia fece in modo di tener nascosta la malattia (benché questo fosse vietato dalla legge del campo) per sfuggire alle misure punitive cui sarebbe incorsa se le autorità ne fossero venute a conoscenza; chiunque fosse affetto da tifo doveva essere inviato all'ospedale e l'intero caseggiato veniva messo in quarantena. Per l'insieme dei familiari questo rappresentava una grossa perdita sia per la sospensione dal lavoro sia per il fatto che biancheria e abiti erano sottoposti a disinfezioni con sistemi tanto radicali da renderli inutilizzabili, o addirittura venivano bruciati. I due fratelli si procurarono segretamente le medicine necessarie.

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Per i giovani e le loro famiglie, il viaggio verso l'«ignota destinazione» cui furono deportati rappresentò l'introduzione all'inferno dove stavano per entrare. Per quanto terribili fossero state le loro esperienze nei nascondigli, nei campi di transito o nei ghetti, quello era un inedito stadio di sofferenza. Gli stessi vagoni bestiame furono l'anticamera di Auschwitz; rinchiusi per interminabili giorni in carri piombati destinati al trasporto degli animali, con due finestrini muniti di sbarre per luce e aria, acqua e cibo scarsi e nessuna attrezzatura igienica, ebrei giovani e adulti raggiunsero i cancelli di Auschwitz. Sherry Weiss-Rosenfeld aveva da poco compiuto quindici anni alla fine di maggio del 1944 quando insieme agli zii con cui viveva a Kolozsvàr venne deportata ad Auschwitz dalla fabbrica di mattoni sita ai margini della città dove erano stati concentrati. «Ci spinsero là dentro attraverso le passerelle finché fu pieno da scoppiare. Ognuno stava in piedi con i bagagli in mano e i gendarmi continuavano a spingere dentro altra gente. Eravamo circa un centinaio di persone in quel carro bestiame... e la sola finestra che avevamo era un quadratino». Fu un viaggio orribile, terribile. «Eravamo lì, con abiti e fagotti, senza servizi per lavarsi, né cibo, né gabinetti. Rammento che l'unica volta in cui abbiamo avuto dell'acqua, fu quando scoppiò un temporale. Le tavole del vagone non erano del tutto connesse e fu il giubilo generale perché la pioggia filtrò attraverso». Essa non ricorda di aver mangiato né usato il bidone che fungeva da bugliolo; in lei quel viaggio è rimasto come un incubo attraversato «entrando e uscendo da una sorta di sonno comatoso. Rammento che in qualche modo ci sedemmo ed io caddi in un dormiveglia». L'unica altra cosa che ricorda in modo preciso è che era stato ordinato di cucire una stella gialla con apposto nome e indirizzo su ogni capo d'abbigliamento che possedevano, «cosicché scesi dal treno avremmo potuto recuperarli». Ripensandoci, non vi era motivo per farlo, «di fatto non fu che un'altra forma di tortura», ma in quel momento sembrò loro estremamente importante. «Ebbene, se il caos – penso che non esista una parola appropriata per descrivere ciò che succedeva in quel vagone. Immagina un centinaio di persone che rovista nei bagagli tirando fuori abiti e altri indumenti per mettervi sopra il proprio nome. Per quale motivo? Nessuno ebbe indietro nulla».

Le impressioni di Alexander Ehrmann sul tragitto compiuto insieme ai familiari dal ghetto di Sàtoraljaújhely sono, al contrario di quelle di Sherry, molto puntuali. Egli fu infatti pienamente conscio delle condizioni materiali, dentro e fuori il carro bestiame. Gli Ehrmann, come chiunque altro, ignoravano la loro destinazione ma quella regione e i percorsi ferroviari erano loro noti, così tentarono ansiosamente di individuare le diverse stazioni per immaginare la meta finale. Vedendo che il treno proseguiva verso nord, dedussero che si stava dirigendo verso il confine. «Ci avevano portato in Polonia e pensavamo che forse ci avrebbero condotti a una fabbrica polacca». Alexander non era più un ragazzo, aveva compiuto diciott'anni il mese prima, e osservò attentamente i compagni di prigionia: due simpatiche giovani di sua conoscenza con cui chiacchierò, e suo padre, uomo profondamente pio e tanto amato; il contrasto era reso ancor più bizzarro dalla situazione.

Sul treno non esistevano servizi. C'erano due finestrini con inferriate. La porta era sbarrata dall'esterno...

Sedevo accanto a mio padre. Alla mia destra c'erano due ragazze che conoscevo; conoscevo i loro genitori. Il padre non stava con loro perché era nell'esercito. Con loro c'era la madre. Le conoscevo da quando frequentavo la scuola a Sàtoraljaújhely. Mio fratello, mia madre e le mie due sorelle sedevano di fronte a noi (non c'era corridoio) e accanto a loro un'altra conoscente, una zitella della nostra città. Lei era quel tipo di intellettuale, per spiegarmi, che indossa vestiti con un dragone ricamato sulla schiena. «Posso andare alla finestra?». Chiese, «Vorrei godere della vista». La guardai e mi dissi, «Tipica ebrea ungherese. Non sappiamo dove stiamo andando, e ovunque andiamo avremo tsores [guai] e lei vuole vedere il panorama».

Viaggiando, si fece buio, venne sera. Sentii di aver bisogno, come fare? Qualcuno mise a disposizione un recipiente vuoto. Appesero un cappotto che fungeva da tenda. Anche noi avevamo un vaso. In fretta appendemmo i cappotti. In breve tempo in ogni angolo del vagone vennero sistemati ripari, tirati fuori dei recipienti e la gente prese a usarli.

Accanto a me sedevano quelle due ragazze mie coetanee. Tentavo di mantenere la conversazione su un tono leggero. E a nemmeno tre passi da me c'era quell'area privata. Vi era sempre dentro qualcuno che ne faceva uso. Nello stesso tempo vedevo mio padre. Stava pregando. E mi domandai, «Dove stiamo andando? Che succederà? Quanto è importante restare attaccato alla religione? Pregare è importante? Sì è importante». Mio padre mi guardò e iniziai anch'io a pregare. Volevo fargli piacere. Così cominciai a pregare domandandomi, «A che sta pensando mio padre?». Stavamo andando, Dio solo sapeva dove, forse verso la morte, e io badavo alle ragazze, a chiacchierare con loro. E subito dopo pensai, ma non sto facendo nulla, solo conversazione. Ma forse avrei dovuto invece parlare con mio padre e farmi insegnare a pregare, invece di parlare con le ragazze.

Questo genere di dubbi e interrogativi non conosceva confini nazionali o sessuali. Il 3 settembre 1944 Frieda Menco-Brommet venne deportata con i genitori dal campo di transito di Westerbork, dove poche settimane prima aveva festeggiato il suo diciannovesimo compleanno. Era l'ultimo trasporto dall'Olanda e nel loro stesso vagone salì un uomo che Frieda aveva conosciuto a Westerbork. «Quell'uomo (penso avesse una quarantina d'anni ma a me sembrava vecchio quanto Matusalemme) era pazzo di me e mi faceva dei ritratti tutto il giorno... Dunque, stavamo seduti nel vagone. E i miei genitori sedevano l'uno accanto all'altro. E anch'io ero in quel vagone. Stavo seduta accanto a quell'uomo nel carro bestiame. Tre giorni e tre notti restammo così seduti, e credo che sia solo dopo vent'anni che mi liberai dal senso di colpa per non essermi messa accanto a mio padre». Le condizioni erano terribili per tutti, ma per le persone più anziane e deboli il carico di ansie, tensioni e prove fisiche andò oltre quanto potevano sopportare. Andràs Garzó, che aveva all'epoca dodici anni e mezzo, ricorda, «vi erano circa ottanta persone per vagone nel nostro trasporto da Debrecen. Molti morirono o impazzirono. Non so chi fossero, ma ricordo molto chiaramente che così avvenne. Il trasporto durò cinque giorni».

Se i carri bestiame furono per loro l'introduzione alle sofferenze di Auschwitz, non li prepararono affatto a quanto avrebbero subito. Nulla poteva dare ai giovani o agli adulti l'idea di quell'inferno. Emilio Foà, nato a Rivarolo Mantovano in provincia di Mantova, prima di giungervi non avrebbe mai immaginato che potesse esistere un luogo come Auschwitz. Emilio, diciassettenne, e il padre, ancora giovane ma prematuramente incanutito, avevano progettato di unirsi ai partigiani sulle colline attorno a Parma e così nel dicembre 1943 erano venuti in contatto con la resistenza. Il mese seguente furono catturati e imprigionati in una casa di cura di Mantova per ebrei anziani trasformata in sedicente centro di detenzione ma che di fatto fu un campo di transito; da lì quasi due terzi dei prigionieri furono deportati ad Auschwitz. Il 4 aprile un convoglio proveniente da Fossoli, il principale campo di concentramento italiano, e diretto in Polonia, transitò per Mantova. I tedeschi aggiunsero un altro vagone, e i due Foà vi vennero fatti salire; «ci deportarono per destinazione ignota». Sei giorni dopo, il 10 aprile, giunsero ad Auschwitz. A quel tempo il giovane Foà non sapeva ancora cosa quel nome significasse. «L'arrivo è scioccante, è terribile scendere dal vagone e vedere le SS coi mitra puntati, i cani lupo, vedere i deportati con i capelli tagliati a zero, con i vestiti a righe, è scioccante, è terribile».

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