Copertina
Autore Umberto Eco
Titolo La misteriosa fiamma della regina Loana
SottotitoloRomanzo illustrato
EdizioneBompiani, Milano, 2004, , pag. 456, cop.ril.sov., dim. 145x217x33 mm , Isbn 978-88-452-1425-7
LettoreRenato di Stefano, 2004
Classe narrativa italiana , storia sociale , illustrazione , libri , collezionismo
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Indice


PARTE PRIMA
L'incidente

 1. Il più crudele dei mesi               7
 2. Il fruscio che fan le foglie         31
 3. Forse qualcuno ti disfiorerà         48
 4. Solo me ne vo per la città           66

PARTE SECONDA
Una memoria di carta

 5. Il tesoro di Clarabella              83
 6. Il Nuovissimo Melzi                  92
 7. Otto giorni in una soffitta         118
 8. Quando la radio                     160
 9. Ma Pippo non lo sa                  178
10. La torre dell'alchimista            211
11. Lassù a Capocabana                  225
12. Adesso viene il bello               255
13. Signorinella pallida                270
14. L'albergo delle tre rose            292

PARTE TERZA

15. Alfine sei tornata, amica bruma!    299
16. Fischia il vento                    323
17. Il giovane provveduto               376
18. Bella tu sei qual sole              402

Fonti delle citazioni e
      delle illustrazioni               447

 

 

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Pagina 7

1. IL PIÙ CRUDELE DEI MESI


"E lei come si chiama?"

"Aspetti, ce l'ho sulla punta della lingua."


Tutto è cominciato così.

Mi ero come risvegliato da un lungo sonno, e però ero ancora sospeso in un grigio lattiginoso. Oppure, non ero sveglio ma stavo sognando. Era uno strano sogno, privo di immagini, popolato di suoni. Come se non vedessi, ma udissi voci che mi raccontavano che cosa dovessi vedere. E mi raccontavano che non vedevo ancora nulla, salvo un fumigare lungo i canali, dove il paesaggio si dissolveva. Bruges, mi ero detto, ero a Bruges, ero mai stato a Bruges la morta? Dove la nebbia fluttua tra le torri come l'incenso che sogna? Una città grigia, triste come una tomba fiorita di crisantemi dove la bruma pende slabbrata dalle facciate come un arazzo...

La mia anima detergeva i vetri del tram per annegarsi nella nebbia mobile dei fanali. Nebbia, mia incontaminata sorella... Una nebbia spessa, opaca, che avviluppava i rumori, e faceva sorgere fantasmi senza forma... Alla fine arrivavo a un baratro immenso e vedevo una figura altissima avvolta in un sudario, la faccia del candore immacolato della neve. Mi chiamo Arthur Gordon Pym.

Masticavo la nebbia. I fantasmi passavano, mi sfioravano, si dileguavano. Le lampadine lontano luccicavano come i fuochi fatui in un camposanto...

Qualcuno cammina al mio fianco senza rumore, come se avesse i piedi nudi, cammina senza tacchi, senza scarpe, senza sandali, una falda di nebbia mi striscia su la gota, una frotta di ubriachi urla laggiù, in fondo al traghetto. Il traghetto? Non lo dico io, sono le voci.

La nebbia arriva su piccole zampe di gatto... C'era una nebbia che sembrava che il mondo l'avessero tolto.

Eppure ogni tanto era come se aprissi gli occhi, e vedessi dei lampi. Sentivo delle voci: "Non è coma vero e proprio, signora... No, non pensi all'encefalogramma piatto, per carità... C'è reattività..."

Qualcuno mi proiettava una luce negli occhi, ma dopo la luce era di nuovo il buio. Sentivo la puntura di uno spillo, da qualche parte. "Vede, c'è motilità..."

Maigret si immerge in una nebbia talmente fitta che non vede neppure dove mette i piedi... La nebbia pullula di forme umane, brulica di una vita intensa e misteriosa. Maigret? Elementare, caro Watson, sono dieci piccoli indiani, è nella nebbia che scompare il mastino dei Baskerville.

La cortina di vapori grigi andava a poco a poco perdendo le sfumature grigiastre, il calore dell'acqua era divenuto fortissimo, e la sfumatura di latte più intensa... Poi siamo stati trascinati nelle fauci della cateratta dove un baratro immane si spalancava per inghiottirci.

Sentivo gente che parlava attorno a me, volevo gridare e avvertirli che ero lì. C'era un ronzio continuo, come se fossi divorato da macchine celibi dai denti acuminati. Ero nella colonia penale. Sentivo un peso sulla testa, come se mi avessero infilato la maschera di ferro. Mi pareva di vedere luci azzurre.

"C'è asimmetria dei diametri pupillari."

Avevo frammenti di pensieri, certo mi stavo svegliando ma non potevo muovermi. Se solo potessi stare sveglio. Ho dormito di nuovo? Ore, giorni, secoli?

Era tornata la nebbia, le voci nella nebbia, le voci sulla nebbia. Seltsam, im Nebel zu wandern! Che lingua è? Mi sembrava di nuotare nel mare, mi sentivo vicino alla spiaggia ma non ce la facevo a raggiungerla. Nessuno mi vedeva e la marea mi riportava via.

Per piacere ditemi qualcosa, per piacere toccatemi. Ho avvertito una mano sulla fronte. Che sollievo. Un'altra voce: "Signora, ci sono storie di pazienti che si svegliano di colpo e se ne vanno via con le loro gambe."

Qualcuno mi disturbava con una luce intermittente, con il vibrare di un diapason, era come se mi avessero posto sotto il naso un vasetto di senape, poi uno spicchio d'aglio. La terra ha un odore di funghi.

Altre voci, ma queste da dentro: lunghi lamenti di vaporiera, preti nella nebbia informi che vanno in riga a San Michele in Bosco.

Il cielo è di cenere. Nebbia su per il fiume, nebbia giù per il fiume, nebbia che morde le mani della piccola fiammiferaia. I passanti dai ponti dell'Isola dei Cani guardano un infimo cielo di nebbia, avvolti essi stessi nella nebbia come in una mongolfiera sospesa sotto la nebbia bruna, ch'io non credea che morte tanta n'avesse disfatta. Odore di stazione e fuliggine.

Un'altra luce, più leggera. Mi sembra di intendere, attraverso la nebbia, il suono delle cornamuse scozzesi che si rinnova nella brughiera.

Altro lungo sonno, forse. Poi una schiarita, sembra d'essere in un bicchiere di acqua e anice...





Lui era davanti a me, anche se lo vedevo ancora come un'ombra. Mi sentivo la testa arruffata, come se mi fossi svegliato dopo aver bevuto troppo. Credo di aver mormorato qualcosa a fatica, come se incominciassi a parlare in quel momento per la prima volta: "Posco reposco flagito reggono l'infinito futuro? Cujus regio ejus religio... è la pace di Augusta o la defenestrazione di Praga?" e poi "Nebbia anche sul tratto appenninico dell'Autosole tra Roncobilaccio e Barberino del Mugello..."

Mi ha sorriso con comprensione: "Ma ora apra bene gli occhi e provi a guardarsi intorno. Capisce dove siamo?" Ora lo vedevo meglio, aveva un camice - come si dice? - bianco. Ho girato lo sguardo, e riuscivo a muovere anche la testa: la stanza era sobria e pulita, pochi mobiletti di metallo e colori chiari, io ero a letto, con una cannula infilata nel braccio. Dalla finestra, tra le veneziane abbassate, passava una lama di sole, primavera d'intorno brilla nell'aria e per i campi esulta. Ho sussurrato: "Siamo... in un ospedale e lei... lei è un dottore. Sono stato male?"

"Sì, è stato male, poi le spiego. Ma ora ha ripreso conoscenza. Coraggio. Sono il dottor Gratarolo. Scusi se le faccio qualche domanda. Quante dita le sto mostrando?"

"Quella è una mano e quelle sono dita. E sono quattro. Sono quattro?"

"Certo. E quanto fa sei per sei?"

"Trentasei, è ovvio." I pensieri mi rimbombavano in testa ma venivano quasi da soli. "La somma delle aree dei quadrati... costruiti sui cateti... è pari all'area del quadrato costruito sull'ipotenusa."

"Complimenti. Credo sia il teorema di Pitagora, ma al liceo avevo sei in matematica..."

"Pitagora di Samo. Gli elementi di Eudide. La disperata solitudine delle parallele che non s'incontrano mai."

"Sembra che la sua memoria sia in ottimo stato. A proposito, e lei come si chiama?"


Ecco, lì ho esitato. Eppure ce l'avevo sulla punta della lingua. Dopo un attimo ho risposto nel modo più ovvio.

"Mi chiamo Arthur Gordon Pym."

"Lei non si chiama così."

Certamente Gordon Pym era un altro. Lui non è più tornato. Ho cercato di venire a patti col dottore.

"Chiamatemi... Ismaele?"

"No, lei non si chiama Ismaele. Faccia uno sforzo."

Una parola. Come sbattere contro un muro. A dire Euclide o Ismaele mi veniva facile come dire ambarabà cicci coccò tre civette sul comò. A dire chi ero era invece come voltarsi indietro ed ecco il muro. No, non un muro, cercavo di spiegare: "Non è che senta qualcosa di solido, è come andare nella nebbia."

"Com'è la nebbia?" ha chiesto.

"La nebbia agli irti colli piovigginando sale e sotto il maestrale urla e biancheggia il mar... Com'è la nebbia?"

"Non mi metta in imbarazzo, sono solo un dottore. E poi siamo in aprile, non gliela posso far vedere. Oggi è il 25 aprile."

"Aprile è il più crudele dei mesi."

"Non sono molto colto ma credo sia una citazione. Poteva dire che oggi è il giorno della Liberazione. Sa in che anno siamo?"

"Di sicuro è dopo la scoperta dell'America..."

"Non si ricorda una data, una data qualsiasi prima... del suo risveglio?"

"Qualsiasi? Millenovecentoquarantacinque, fine della seconda guerra mondiale."

"Troppo poco. No, oggi è il 25 aprile 1991. Lei è nato, mi pare, alla fine del 1931, ed ecco perché ora va per i sessant'anni."

"Cinquantanove e mezzo, neppure."

"Ottimo per quanto riguarda le capacità di calcolo. Vede, lei ha avuto, come dire, un incidente. Ne è uscito vivo, congratulazioni. Ma evidentemente c'è qualcosa che ancora non va. Una piccola forma di amnesia retrograda. Non si preoccupi, talora durano poco. Sia gentile, risponda ancora a qualche domanda. Lei è sposato?"

"Me lo dica lei."

"Sì, è sposato, con una amabilissima signora che si chiama Paola, e che l'ha assistita giorno e notte, solo ieri sera l'ho obbligata ad andare a casa, altrimenti crollava. Ora che lei si è svegliato la chiamo, ma dovrò prepararla, e prima dobbiamo ancora fare altri controlli."

"E se poi la scambio per un cappello?"

"Come dice?"

"C'è un uomo che scambiò sua moglie per un cappello."

"Ah il libro di Sacks. Un caso famoso. Vedo che lei è un lettore aggiornato. Ma non è il caso suo, altrimenti avrebbe già scambiato me per una stufa. Non si preoccupi, forse non la riconoscerà ma non la scambierà per un cappello. Torniamo a lei. Dunque, lei si chiama Giambattista Bodoni. Questo le dice niente?"

Ora la mia memoria volava come un aliante tra monti e valli, per l'orizzonte interminato. "Giambattista Bodoni era un celebre tipografo. Ma sono sicuro che non sono io. Io potrei anche essere Napoleone e sarebbe come Bodoni."

"Perché ha detto Napoleone?"

"Perché Bodoni era di epoca napoleonica, più o meno. Napoleone Bonaparte, nato in Corsica, primo console, sposa Giuseppina, diventa imperatore, conquista mezza Europa, perde a Waterloo, muore a Sant'Elena, cinque maggio 1821, ei fu siccome immobile."

"Dovrò tornare da lei con un'enciclopedia, ma per quanto ricordo lei ricorda bene. Però non ricorda chi è."

"E grave?"

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Pagina 22

Accarezzavo i bambini e sentivo il loro odore, senza poterlo definire, salvo che era molto tenero. Mi veniva soltanto in mente che ci sono profumi freschi come carni di bimbi. E infatti la mia testa non era vuota, vi vorticavano memorie non mie, la marchesa uscì alle cinque nel mezzo del cammin di nostra vita, Ernesto Sabato e la donzelletta vien dalla campagna, Abramo generò Isacco Isacco generò Giacobbe Giacobbe generò Giuda e Rocco i suoi fratelli, il campanile batte la mezzanotte santa e fu allora che vidi il pendolo, sul ramo del lago di Como dormono gli uccelli dalle lunghe ali, monsieurs les anglais je me suis couché de bonne heure, qui si fa l'Italia o si uccide un uomo morto, tu quoque alea, soldato che scappa arrestati sei bello, fratelli d'Italia ancora uno sforzo, l'aratro che traccia il solco è buono per un'altra volta, l'Italia è fatta ma non s'arrende, combatteremo all'ombra ed è subito sera, tre donne intorno al cor e senza vento, l'inconscia zagaglia barbara a cui tendevi la pargoletta mano, non chiedere la parola impazzita di luce, dall'Alpi alle Piramidi andò in guerra e mise l'elmo, fresche le mie parole nella sera pei quei quattro scherzucci da dozzina, sempre libera sull'ali dorate, addio monti sorgenti dall'acque ma il mio nome è Lucia, o Valentino Valentino storno, Guido io vorrei che al ciel si scoloraro, conobbi il tremolar l'arme gli amori, de la musique où marchent des colombes, fresca e chiara è la notte e il capitano, m'illumino pio bove, benché il parlar sia indarno li ho visti a Pontida, settembre andiamo dove fioriscono i limoni, qui comincia l'avventura del Pelide Achille, tintarella di luna dimmi che fai, in principio la terra era siccome immobile, Licht mehr Licht über alles, contessa cos'è mai la vita? tre civette sul comò. Nomi, nomi, nomi, Angelo Dall'Oca Bianca, Lord Brummell, Pindaro, Flaubert, Disraeli, Remigio Zena, Giurassico, Fattori, Straparola e le piacevoli notti, la Pompadour, Smith & Wesson, Rosa Luxemburg, Zeno Cosini, Palma il Vecchio, Archaopterix, Ciceruacchio, Matteo Marco Luca Giovanni, Pinocchio, Justine, Maria Goretti, Taide puttana dall'unghie merdose, Osteoporosi, Saint Honoré, Bacta Ecbatana Persepoli Susa Arbela, Alessandro e il nodo gordiano.

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Pagina 25

Gratarolo mi ha dato della carta e una penna. Scriva, mi ha detto. "Che diavolo devo scrivere?" ho scritto, e mi pareva di non aver mai fatto altro, il pennarello era soffice e scorreva bene sulla carta. "Scriva quello che le viene in mente," ha detto Gratarolo.

Mente? Ho scritto: amor che nella mente mi ragiona, l'amor che muove il sole e l'altre stelle, meglio sole che male accompagnate, spesso il male di vivere ho incontrato, ahi vita ahi vita mia ahi core di questo core, al cuore non si comanda, De Amicis, dagli amici mi guardi Iddio, o Dio del ciel se fossi una rondinella, s'i fossi foco arderei 'l mondo, vivere ardendo e non sentire il male, male non fare paura non avere, la paura fa novanta ottanta settanta milleottocentosessanta, la spedizione dei Mille, mille e non più mille, le meraviglie del Duemila, è del poeta il fin la maraviglia.

"Scrivi qualcosa della tua vita," ha detto Paola. "Che cosa facevi a vent'anni?" Ho scritto: "Avevo vent'anni. Non permetterei a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita." Il dottore mi ha domandato quale fosse stata la prima cosa che mi era venuta in mente quando mi ero risvegliato. Ho scritto: "Quando Gregor Samsa si svegliò una mattina si trovò trasformato nel suo letto in un immenso insetto."

"Forse basta così, dottore," ha detto Paola. "Non lo lasci troppo andare con queste catene associative, altrimenti mi diventa matto."

"Già, perché ora vi sembro sano?"

Quasi di colpo Gratarolo mi ha ingiunto: "E adesso firmi, senza pensarci, come fosse un assegno."

Senza pensarci, ho tracciato un "GBBodoni", con lo svolazzo finale e poi un puntino rotondo sulla i.

"Vede? La sua testa non sa chi è, ma la sua mano sì. Era prevedibile. Facciamo un'altra prova. Lei mi ha parlato di Napoleone. Come era?"

Non riesco a evocare la sua immagine. Basta la parola."

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Pagina 33

Mi ha fatto passare per un lungo corridoio coperto da scaffali pieni di libri. Ne guardavo i dorsi, e per la maggior parte li riconoscevo. Voglio dire, riconoscevo titoli, I promessi sposi, L'Orlando furioso, Il giovane Holden. Per la prima volta avevo l'impressione di trovarmi in un posto in cui mi sentivo a mio agio. Ho tirato fuori un volume, ma prima ancora di guardare la copertina l'ho preso per la costa con la destra e con il pollice sinistro ho fatto scorrere rapidamente le pagine all'indietro. Mi piaceva il rumore, l'ho fatto più volte, e ho chiesto a Paola se non avrei dovuto vedere un calciatore che tirava il pallone. Paola ha riso, pare fossero dei libriccini che circolavano nella nostra infanzia, una sorta di cinema per i poveri, il calciatore cambiava di posizione a ogni pagina, e scorrendo le pagine in fretta lo si vedeva muovere. Mi sono assicurato che lo sapessero tutti: volevo ben dire, non era un ricordo, era solo una nozione.

Il libro era Papà Goriot, Balzac. Senza aprirlo ho detto: "Papà Goriot si sacrificava per le figlie, una si chiamava Delfina, mi pare, entrano in scena Vautrin alias Collin e l'ambizioso Rastignac, Parigi a noi due. Leggevo molto?"

"Sei un lettore instancabile. Con una memoria di ferro. Sai un sacco di poesie a memoria."

"Scrivevo?"

"Niente di tuo. Sono un genio sterile, dicevi, a questo mondo o si legge o si scrive, gli scrittori scrivono per disprezzo verso i colleghi, per avere ogni tanto qualche cosa di buono da leggere."

"Ho tanti libri. Scusa, abbiamo."

"Qui sono cinquemila. E c'è sempre il solito imbecille che entra e dice quanti libri ha lei, li ha letti tutti?"

"E io che rispondo?"

"Di solito rispondi: nessuno, altrimenti perché li conserverei qui, lei tiene forse da parte le scatolette di carne dopo averle svuotate? I cinquantamila che ho già letto li ho regalati alle carceri e agli ospedali. E l'imbecille barcolla."

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Pagina 42

Continuo a vivere di enciclopedia. Parlo come se stessi appoggiato alla parete e non posso mal voltarmi indietro. Le mie memorie hanno la profondità di poche settimane. Quelle degli altri si distendono per secoli. Sere fa ho assaggiato un nocino. Ho detto: "Caratteristico odore di mandorle amare." Nel parco ho visto due poliziotti a cavallo: "O cavallina cavallina storna." Ho picchiato la mano contro uno spigolo, e mentre mi succhiavo una piccola graffiatura e cercavo di gustare il sapore del mio sangue, ho detto: "Spesso il male di vivere ho incontrato." C'è stato un acquazzone e alla fine ho giubilato: "Cessata è la tempesta." Di solito vado a dormire presto e commento: "Longtemps je me suis couché de bonne heure."

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Pagina 70

Domenica. "Vai a fare un giro," mi ha detto Paola, "ti fa bene. Non uscire dalle strade che conosci. In largo Cairoli c'è quella bancarella con i fiori che di solito rimane aperta anche quando è festa. Fatti fare un bel mazzo primavera, oppure delle rose, questa casa sembra un mortorio."

Sono sceso in largo Cairoli e la bancarella era chiusa. Ho bighellonato per via Dante sino al Cordusio, ho girato a destra verso la Borsa, e ho visto che alla domenica lì si danno appuntamento i collezionisti di tutta Milano. Per via Cordusio bancarelle di francobolli, lungo tutta via Armorari vecchie cartoline, figurine, poi l'intera crociera del Passaggio Centrale occupata da venditori di monete, soldatini, immaginette sacre, orologi da polso, addirittura schede telefoniche. Il collezionismo è anale, dovrei saperlo, la gente è pronta a collezionare di tutto, anche tappi di Coca-Cola, in fondo le schede telefoniche costano meno dei miei incunaboli. In piazza Edison, a sinistra bancarelle con libri, giornali, manifesti pubblicitari e di fronte persino alcune che vendono paccottiglia varia, lampade Liberty, certamente false, vassoi a fiori su fondo nero, ballerine di biscuit.

In una bancarella c'erano quattro contenitori cilindrici, sigillati, dove in una soluzione acquosa (formalina?) stavano in sospensione sagome color avorio, vuoi rotonde, vuoi come fagioli, legate da filamenti bianchissimi. Erano creature marine, oloturie, brandelli di polipo, coralli sbiaditi, e avrebbero anche potuto essere il parto morboso della fantasia teratologica di un artista. Yves Tanguy?

Il padrone mi ha spiegato che erano testicoli: di cane, di gatto, di gallo e di un'altra bestia, completi di reni e quelle cose lì. "Guardi, è roba di un laboratorio scientifico dell'Ottocento. Quarantamila l'uno. Solo i contenitori valgono il doppio, è roba che ha almeno centocinquant'anni. Quattro per quattro sedici, io glieli do tutti e quattro per centoventimila. Un affare."

Quei testicoli mi affascinavano. Per una volta era qualcosa che non avrei dovuto conoscere per memoria semantica, come diceva Gratarolo, e neppure avevano fatto parte della mia esperienza passata. Chi ha mai visto dei testicoli di cane, voglio dire, senza il cane intorno, allo stato puro? Mi sono frugato in tasca, avevo quarantamila in tutto e non è che a una bancarella puoi pagare con un assegno.

"Prendo quelli del cane."

"Fa male a lasciare gli altri, era un'occasione unica."

Non si può avere tutto. Sono tornato a casa con le mie palle di cane e Paola è sbiancata: "È curioso, sembra davvero un'opera d'arte, ma dove lo teniamo? In soggiorno, che ogni volta che offri a un ospite degli anacardi o delle olive ascolane quello ci vomita sul tappeto? In camera da letto? Scusa, no. Lo terrai in studio, magari accanto a qualche bel libro secentesco di scienze naturali."

"Credevo di avere fatto un bel colpo."

"Ma ti rendi conto che sei l'unico uomo al mondo, l'unico sulla faccia della terra da Adamo in avanti, che la moglie lo manda a comperare delle rose e torna a casa con un paio di coglioni di cane?"

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Pagina 90

I grilli (quelli veri) facevano da fuori un gran baccano, e sono andato nella corte ad ascoltarli. Ho guardato il cielo, sperando di scoprirvi figure note. Costellazioni, solo costellazioni da atlante astronomico. Ho riconosciuto l'Orsa Maggiore, ma come una di quelle cose di cui avevo tanto sentito parlare. Ero venuto sin lì per apprendere che le enciclopedie hanno ragione. Rede in interiorem hominem e troverai il Larousse.

Mi sono detto: Yambo, hai una memoria di carta. Non di neuroni, di pagine. Forse un giorno inventeranno una diavoleria elettronica che permetterà al computer di viaggiare attraverso tutte le pagine scritte dall'inizio del mondo a oggi, e di passare dall'una all'altra con un colpo di polpastrello, senza più capire dove ti trovi e chi sei tu, e allora tutti saranno come te.

Nell'attesa di avere tanti compagni di sventura, sono andato a dormire.

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Pagina 109

Via le riviste, le avrei guardate dopo. Mi ha subito attratto il Nuovissimo Melzi del 1905, 4260 incisioni, 78 tavole di nomenclatura figurata, 1050 ritratti, 12 cromolitografie, Antonio Vallardi, Milano. Appena l'ho aperto, alla vista di quelle pagine ingiallite dai caratteri in corpo otto e piccole figure all'inizio dei lemmi più importanti, ho subito cercato quello che sapevo di dovervi trovare. Le torture, le torture. E infatti eccola, la pagina con i vari tipi di supplizi, il bollimento, la crocifissione, l'aculeo, con la vittima issata e poi lasciata cadere coi glutei su un cuscino di spuntoni di ferro acuminati, il fuoco, con arrostimento delle piante dei piedi, la graticola, l'interramento, la pira, il rogo, la ruota, lo scorticamento, lo spiedo, la sega, atroce parodia di uno spettacolo di prestidigitazione, col condannato in una cassa e i due carnefici con una grande lama dentata, salvo che qui alla fine il soggetto veniva veramente segato in due tronconi, lo squartamento, quasi come il precedente, tranne che qui una lama azionata a leva doveva presumibilmente dividere l'infelice per il lungo, e poi il trascinamento, col colpevole legato alla coda di un cavallo, la vite ai piedi e il più impressionante di tutti, il palo - e all'epoca non dovevo sapere nulla delle foreste di impalati ardenti alla luce dei quali cenava il voivoda Drakula, e via via, trenta tipi di tortura, l'una più efferata dell'altra.

Le torture... Chiudendo gli occhi, subito dopo essere capitato su quella pagina, avrei potuto citarle una per una, e il blando orrore, la quieta esaltazione che stavo provando, erano i miei di quel momento, non quelli di un altro che non conoscevo più.

Quanto dovevo aver indugiato su questa pagina. Ma quanto anche sulle altre, alcune a colori (e vi arrivavo senza neppure affidarmi all'ordine alfabetico, come se seguissi la memoria dei miei polpastrelli): i funghi, carnosi, e più belli di tutti quelli velenosi, la tignosa dorata dal cappuccio rosso picchiettato di bianco, l'agarico sanguigno di un giallo pestifero, la bubbola bianca, il boleto malefico, la rossola come un labbro carnoso aperto in una smorfia; e poi i fossili, con il megaterio, il mastodonte e il moa; gli strumenti antichi (il ramsinga, l'olifante, la buccina, il liuto, la ribecca, l'arpa eolica, e l'arpa di Salomone); le bandiere di tutto il mondo (con paesi che si chiamavano China e Cocincina, Malabar, Kongo, Tabore, Marates, Nuova Granata, Sahara, Samoa, Sandwich, Valacchia, Moldavia); i veicoli con l'omnibus, il faeton, il fiacchere, il landeau, il coupé, il cab, il sulky, la diligenza, il carro etrusco, la biga, la torre elefantina, il carroccio, la berlina, il palanchino, la lettiga, la slitta, il carrucolo, il baroccio; i velieri (e io che credevo di avere assorbito da chissà quali racconti di avventure di mare termini come brigantina e mezzana, contromezzana, belvedere, gabbia, maestro, trinchetto, parrocchetto, velaccino, trinchettina, fiocco e controfiocco, boma, picco, bompresso, coffa, murata, orza la randa nostromo del diavolo, corpo di mille bombarde, tuoni d'Amburgo, molla il pappafico, tutti alla murata di babordo, fratelli della Costa!); e ancora, le armi antiche, la mazza snodata, il flagello, lo spadone da giustiziere, la scimitarra, il pugnale a tre lame, la daga, l'alabarda, l'archibugio a ruota, la bombarda, l'ariete, la catapulta; e la grammatica dell'araldica, campo, fascia, palo, banda, sbarra, partito, spaccato, trinciato, inquartato, grembiato... Questa era stata la prima enciclopedia della mia vita e dovevo averla sfogliata a lungo. I margini delle pagine erano consunti, molti lemmi erano sottolineati, talora apparivano a fianco rapide annotazioni in una calligrafia infantile, più che altro per trascrivere termini difficili. Questo volume era stato usato sino allo spasimo, letto e riletto e sgualcito, e molti fogli si stavano ormai staccando.

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Pagina 122

Ma dopo le mie mani qualcosa d'altro si è attivato, quasi come quel giorno di fronte al Tesoro di Clarabella. Cercavo un'altra scatola certamente d'epoca posteriore, che tante volte avevo aperto prima che ci sedessimo a tavola. Il disegno avrebbe dovuto essere un poco diverso: sempre gli stessi gentiluomini, che sempre assaporavano in lunghi calici da champagne l'acqua meravigliosa, però sul tavolo si scorgeva nitidamente una scatola uguale uguale a quella che si aveva in mano; e su quella scatola erano raffigurati gli stessi gentiluomini che bevevano davanti a un tavolo dove appariva un'altra scatola di acqua da tavola, anch'essa con gentiluomini che... E così per sempre, sapevi che sarebbe bastata una lente o un microscopio potentissimo per vedere altre scatole raffigurate sulle scatole, en abîme, a scatole cinesi, a matrioska. L'infinito, percepito dagli occhi di un bambino prima di aver saputo del paradosso di Zenone. La corsa per raggiungere una meta irraggiungibile, né la tartaruga né Achille sarebbero mai arrivati all'ultima scatola, agli ultimi gentiluomini e all'ultima cameriera. Si imparano da piccoli, la metafisica dell'infinito e il calcolo infinitesimale, solo che non si sa ancora quello che si sta intuendo, e potrebbe essere l'immagine di un Regresso Senza Fine, oppure, al contrario, l'orrida promessa dell'Eterno Ritorno, e del volgere degli evi che si mordono la coda, perché arrivati all'ultima scatola, se un'ultima ci fosse stata, si sarebbe forse scoperto al fondo di quel vortice se stessi con in mano la scatola dell'inizio. Perché ho deciso di fare il libraio antiquario se non per risalire a un punto fisso, il giorno in cui Gutenberg ha stampato la prima Bibbia a Magonza? Almeno sai che prima non c'era nulla, o meglio c'era altro, e sai che ti puoi fermare, altrimenti non saresti più libraio ma decifratore di manoscritti. Si sceglie un mestiere che impegna solo su cinque secoli e mezzo perché da bambini si fantasticava sull'infinito delle scatole dell'acqua viscì.

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In città mi annoio. Siamo quattro in calzoni corti a giocare sulla strada davanti a casa, dove passa un automobile all'ora, e va piano. Si fidano a lasciarci giocare laggiù. Giochiamo con le biglie, balocco povero, buono anche per chi non ha altri giocattoli. Ve ne sono di creta, marroncine, e di vetro, con arabeschi colorati che si vedono in trasparenza, altre di un bianco latte venato di rosso. Primo gioco, la buca: dal centro della strada si inviano le biglie, con un colpo preciso dell'indice che slitta sul pollice (ma i più bravi fanno slittare il pollice sull'indice), in una buchetta scavata contro il marciapiede. C'è chi spedisce la biglia dentro al primo colpo, altrimenti si va per fasi. Secondo gioco spanna cetta, che a Solara chiamavano cicca spanna. Come le bocce, si tratta di andare vicino alla prima biglia, ma non più vicino di una spanna, da misurare con quattro dita.

Ammirazione per chi sa far partire la trottola. Non la trottola dei bambini ricchi, di metallo e strisce di varie tinte, che si preme più volte il pomello di un'asta per caricarla, poi la si lascia andare e quella ruota disegnando vortici multicolori, ma la trottola di legno, la pirla o mongia, una sorta di cono bombato, una pera panciuta che termina con un chiodo, il corpo segnato da una serie di incisioni a spirale. La si avvolge con uno spago che penetra nelle incisioni, poi con il capo libero si dà uno strattone sfilando lo spago, e la mongia gira. Non tutti sanno farlo, a me non riesce, perché sono stato viziato con le trottole più costose e più facili - e gli altri mi prendono in giro.

Quel giorno non riusciamo a giocare perché lungo il marciapiede ci sono dei signori, in giacca e cravatta, che con una zappetta tolgono le erbacce. Lavorano con scarso entusiasmo, lentamente, e uno di loro si mette a parlare con noi, informandosi sui vari giochi di biglie. Dice che lui da piccolo giocava al cerchio: si tracciava un cerchio con gesso sul marciapiede o con un bastoncino per terra, si mettevano le biglie dentro, poi con una biglia più grossa si cercava di fare uscire le biglie dal cerchio, e vinceva chi ne faceva usicre di più. "Conosco i tuoi," mi ha detto, "portagli i saluti del signor Ferrara, quello del negozio di cappelli."

Ho riferito a casa. "Sono gli ebrei," ha detto la mamma, "li obbligano a fare i lavori." Il papà ha alzato gli occhi al cielo e ha detto "mah!" Più tardi sono andato al negozio del nonno e gli ho chiesto perché gli ebrei facevano i lavori. Mi ha detto di trattarli con educazione se li rincontravo, perché era brava gente, ma per il momento non mi spiegava ancora quella storia perché ero troppo piccolo. "Sta' zitto e non parlarne in giro, specie al maestro." Un giorno mi avrebbe raccontato tutto. S'as gira.

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Con Gragnola parlavamo di tutto. Gli raccontavo delle mie letture e lui le discuteva con furore: "Verne," diceva, "è meglio di Salgari, perché è scientifico. È più vero Cyrus Smith che fabbrica la nitroglicerina che non quel Sandokan che si ferisce il petto con le sue unghie solo perché ha preso una sbandata per una stronzetta di quindici anni."

"Non ti piace Sandokan?" gli domandavo.

"Secondo me era un po' fascista."

Gli avevo detto che avevo letto il Cuore di De Amicis, e mi aveva detto di buttarlo via perché De Amicis era un fascista. "Ma ti rendi conto," diceva, "sono tutti contro il povero Franti che viene da una famiglia disgraziata, e si fanno in quattro per piacere a quel fascista di un maestro. Cosa ti raccontano? Del bravo Garrone, che era un leccaculo, della piccola vedetta lombarda, che muore perché un disgraziato di ufficiale del re ha mandato un bambino a guardare se arrivava il nemico, del tamburino sardo, che alla sua età lo spediscono a fare il portaordini in mezzo alla battaglia e poi quello schifoso del colonnello, dopo che il poveretto aveva perso una gamba, gli si è spiaccicato addosso a braccia aperte, per baciarlo tre volte sul cuore, cose che a un mutilatino di fresco non si fanno, e persino un colonnello del regio esercito piemontese doveva avere un po' di buon senso. O del padre di Coretti, che passava al figliolo la mano ancora calda della carezza di quel macellaio del re. Al muro, al muro! Sono quelli come De Amicis che hanno aperto la strada al fascismo."

Mi spiegava chi erano stati Socrate, e Giordano Bruno. Anche Bakunin, che non capivo bene chi era e cosa aveva detto. Mi raccontava di Campanella, Sarpi, Galileo, che erano stati messi in prigione o torturati dai preti perché volevano diffondere i principi della scienza, e alcuni avevano dovuto tagliarsi la gola, come Ardigò, perché i padroni e il Vaticano gli facevano la forca.

Siccome sul Nuovissimo Melzi avevo letto la voce Hegel ("Ins. Fil. Ted. della scuola panteista"), gli avevo chiesto chi mai fosse. "Hegel non era panteista, e il tuo Melzi è un ignorante. Caso mai panteista era Giordano Bruno. Un panteista dice che Dio è dappertutto, anche in quella caccola di mosca che vedi lì. Capirai che soddisfazione, essere dappertutto è come non essere da nessuna parte. Bene, per Hegel non era Dio ma lo Stato che doveva essere dappertutto, quindi era un fascista."

"Ma non è vissuto più di cento anni fa?"

"E che importa? Anche Giovanna d'Arco, una fascista della più bell'acqua. I fascisti sono sempre esistiti. Sin dai tempi... sin dai tempi di Dio. Prendi Dio. Un fascista."

"Ma tu non sei un ateo,che dice che Dio non esiste?"

"Chi l'ha detto, don Cognasso che non capisce mai un picio di niente? Io credo che Dio ci sia, purtroppo. Solo che è un fascista."

[...]

"Dio poteva dire, che so, puoi ciulare, ma solo per fare bambini, specie perché allora al mondo erano ancora troppo pochi. Ma i dieci comandamenti non lo dicono: da un lato non devi desiderare la moglie del tuo amico e dall'altro non devi commettere atti impuri. Insomma, quando è che si ciula? Ma come, devi fare una legge che vada bene per tutto il mondo, i romani che non erano Dio quando hanno fatto le leggi era roba che va bene ancora oggi, e Dio ti butta giù un decalogo che non ti dice le cose più importanti? Tu mi dirai: sì, ma la proibizione degli atti impuri proibisce di ciulare fuori del matrimonio. Sei sicuro che fosse veramente così? Che cosa erano gli atti impuri per gli ebrei? Loro avevano delle regole severissime, per esempio non potevano mangiare il maiale, neppure i buoi uccisi in un certo modo e, mi hanno detto, nemmeno i gianchetti. Allora gli atti impuri sono tutte le cose che il potere ha proibito. E quali? Tutte quelle che il potere ha definito come atti impuri. Basta inventare, il Crapone riteneva impuro parlare male del fascismo e ti spediva al confino. Era impuro essere scapolo, e pagavi la tassa sul celibato. Era impuro sventolare una bandiera rossa. Eccetera eccetera eccetera. E ora veniamo all'ultimo comandamento, non desiderare la roba d'altri. Ma ti sei mai chiesto perché questo comandamento, quando c'era già non rubare? Se tu desideri avere una bicicletta come quella del tuo amico hai fatto peccato? No, se non gliela rubi. Don Cognasso ti dice che quel comandamento proibisce l'invidia, che certo è una brutta cosa. Ma c'è una invidia cattiva, quella che quando il tuo amico ha la bicicletta e tu non ce l'hai, vorresti che si rompesse il collo giù per una discesa, e c'è l'invidia buona, quella che tu desideri anche tu una bicicletta così e ti metti a lavorare come un matto per potertela poi comprare, anche usata, ed è l'invidia buona quella che fa andare avanti il mondo. E poi c'è un'altra invidia, che è l'invidia della giustizia, quella che non puoi farti una ragione che qualcuno ha tutto e c'è gente che muore di fame. E se senti questa bella invidia, che è l'invidia socialista, ti dai da fare per realizzare un mondo in cui la ricchezza sia meglio distribuita. Ma è proprio questo che il comandamento ti proibisce: non desiderare più di quello che hai, rispetta l'ordine della proprietà. A questo mondo c'è chi ha due campi di grano solo perché li ha ereditati e chi ci vanga dentro per un boccone di pane, e chi vanga non deve desiderare il campo del padrone, se no lo stato va in rovina e siamo alla rivoluzione. Il decimo comandamento proibisce la rivoluzione. Quindi, caro il mio ragazzo, non ammazzare e non rubare ai poveretti come te, ma desidera pure la roba che gli altri ti hanno tolto. Questo è il sole dell'avvenire ed è perché i nostri compagni se ne stanno lassù in montagna, per far fuori il Crapone che è andato al potere pagato dai possidenti agrari, e i tognini di Hitler che voleva conquistare il mondo per far vendere più cannoni a quel Krupp che costruisce delle Berte lunghe così. Ma te cosa capirai mai di queste cose, te che ti hanno tirato su facendoti imparare a memoria giuro di obbedire agli ordini del DUce?"

"No, io capisco, anche se non tutto."

"Speriamo bene."

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Mi rivedo mentre scrivo per lei le mie poesie, Creatura Racchiusa in quel mistero labile, e mi struggo non solo al ricordo del mio primo amore, ma per la sofferenza di non poterne riconoscere, ora, il sorriso, quei due dentini di cui parlava Gianni - lui che, maledetto, sa e ricorda.

Andiamo calmi, lasciamo alla nostra memoria i suoi tempi. Per ora mi basta così, se avessi un respiro esso si farebbe più quieto perché avverto di avere raggiunto il mio luogo. Lila è a due passi.

Mi vedo entrare nella classe femminile per vendere i biglietti, vedo gli occhi di furetto della Ninetta Foppa, il profilo un poco slavato della Sandrina, poi eccomi di fronte a Lila, a dire qualche battuta divertente, mentre cerco il resto e non lo trovo, per prolungare la mia stazione davanti a un'icona che ancora si disfa come lo schermo di un televisore che vada in tilt.

Sento nel cuore lo sterminato orgoglio della serata teatrale, appena ho finto di mettere in bocca la pasticca della signora Marini. Il teatro esplode, avverto un indicibile sentimento di sconfinato potere. Il giorno dopo ho cercato di spiegarlo a Gianni. "È stato," gli dicevo, "l'effetto amplificatore, il prodigio del megafono: con un minimo dispendio di energia provochi una deflagrazione, e ti senti generare un'immensa forza con poca spesa. In futuro potrei diventare un tenore che fa impazzire le folle, un eroe che trascina diecimila uomini al massacro al suono della Marsigliese, ma certamente non potrei mai più provare una sensazione inebriante come ieri sera."

Ora sto provando esattamente questo. Io sono lì, con la lingua che passa e ripassa contro la guancia, sento i boati provenire dalla sala, ho la vaga idea di dove Lila possa essere, perché prima dello spettacolo avevo sbirciato scostando il sipario, ma non posso volgere la testa in quella direzione, perché rovinerei tutto: la signora Marini, mentre la pastiglia le viaggia nella guancia, deve continuare a restare di profilo. Io muovo la lingua, parlo quasi a vanvera con voce chioccia (del resto la signora Marini non era più conseguente), sono concentrato su Lila che non vedo, ma lei mi vede. Vivo quell'apoteosi come un amplesso, rispetto a cui la prima ejaculatio praecox su Josephine Baker era stata un insipido starnuto.

Dev'essere stato dopo quella esperienza che ho deciso di mandare al diavolo don Renato e i suoi incitamenti. Che vale conservare questo segreto nel profondo del cuore, se non possiamo inebriarcene in due? E poi, se sei innamorato, vuoi che lei sappia tutto di te. Bonum est diffusivum sui. Ora le dico tutto.

Si trattava di incontrarla non all'uscita dalla scuola, ma mentre rientrava in casa, da sola. Al giovedì aveva l'ora della ginnastica femminile, e ritornava verso le quattro. Mi ero preparato per giorni e giorni il discorso d'approccio Le avrei detto una cosa spiritosa, tipo non temere che questa non è una rapina, lei avrebbe riso, le avrei detto che mi stava succedendo una cosa strana, che non avevo mai provato prima e che forse lei mi poteva aiutare... Che cosa sarà mai, avrebbe pensato lei, ci conosciamo appena, forse gli piace una delle mie amiche e non ha il coraggio.

Ma poi, come Rossana, avrebbe capito tutto in un lampo. No, no, mio caro amore, io non ti ho mai amato. Ecco, era una buona tecnica. Raccontarle che non l'amavo, e scusarmi per questa disattenzione. Lei avrebbe colto l'arguzia (non era una précieuse?) e forse si sarebbe chinata su di me per dirmi, che so, di non fare lo sciocco, ma con insperata tenerezza. Arrossendo, mi avrebbe toccato con le dita sulla guancia. Insomma l'avvio sarebbe stato un capolavoro di arguzia e finezza, irresistibile perché, amandola, non potevo concepire che lei non provasse gli stessi miei sentimenti. Sbagliavo, come tutti gli innamorati, le prestavo la mia anima e le chiedevo di fare quello che avrei fatto io, ma accade così, da millenni. Altrimenti non esisterebbe la letteratura.

Scelti il giorno, l'ora, avendo creato tutte le condizioni per il dischiudersi felice dell'Opportunità, alle quattro meno dieci ero davanti al portone di casa sua. Alle quattro meno cinque avevo pensato che passava troppa gente, e avevo deciso di aspettare dentro, ai piedi della scala.

Dopo alcuni secoli, trascorsi tra le quattro meno cinque e le quattro e cinque, l'avevo udita entrare nell'androne. Cantava. Una canzone che parlava di una valle, riesco a ricantarmi appena un vago motivo, non le parole. Erano anni in cui le canzoni erano orribili, non come quelle della mia infanzia, erano canzoni stolte dello stolto dopoguerra, Eulalia Torricelli da Forli, I pompieri di Viggiù, Che mele che mele, I cadetti di Guascogna, al massimo umidicce dichiarazioni d'amore come Va serenata celeste o Addormentarmi così tra le tue braccia. Le odiavo. Almeno il cugino Nuccio ballava i ritmi americani. L'idea che lei potesse amare quelle cose mi aveva forse raggelato per un istante (lei doveva essere squisita come Rossana), ma non so se in quegli attimi io abbia ragionato molto. Di fatto non ascoltavo, semplicemente mi anticipavo la sua apparizione, e ho avuto almeno dieci secondi buoni per patire un'eternità ansiosa.

Mi sono fatto avanti proprio mentre lei arrivava alla scala. Se la storia me la raccontasse un altro, osserverei che a quel punto ci vogliono gli archi, per sostenere l'attesa, e creare l'ambiente. Ma in quel momento mi bastava la miserabile canzone che avevo appena orecchiato. Il cuore mi batteva con tale violenza che quella volta, quella sì, avrei potuto decidere che ero malato. Invece mi sentivo pieno di energia selvaggia, pronto al momento supremo.

Lei mi è apparsa davanti, si è arrestata sorpresa.

Le ho chiesto: "Abita qui Vanzetti?"

Lei ha risposto di no.

Io ho detto grazie, scusa, mi sono sbagliato.

E me ne sono andato.

Vanzetti (chi sarà stato mai?) era il primo nome che, preso dal panico, mi era venuto in mente. A sera, poi, mi ero convinto che era giusto che fosse accaduto così. Era stata l'ultima astuzia. Se lei si metteva a ridere, se mi diceva che cosa ti è saltato in testa, sei molto caro, ti ringrazio, ma sai, ho altro per il capo, che facevo dopo? La dimenticavo? L'umiliazione mi avrebbe indotto a ritenerla una sciocca? Mi ci sarei appiccicato addosso come carta da mosche per i giorni e i mesi a venire, piatendo una seconda occasione, diventando lo zimbello del liceo? Tacendo, invece, avevo conservato tutto quel che già avevo, e non avevo perso nulla.

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