Copertina
Autore Umberto Eco
Titolo Tra menzogna e ironia
EdizioneBompiani, Milano, 1998, pasSaggi , Isbn 978-88-452-3224-4
LettoreRenato di Stefano, 1998
Classe critica letteraria
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Introduzione                              5

Migrazioni di Cagliostro                  7

Il linguaggio mendace in Manzoni         25

Campanile: il comico come straniamento   53

Geografia imperfetta di Corto Maltese    99


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

MIGRAZIONI DI CAGLIOSTRO


Versione rivista della comunicazione
"Migrazioni di Cagliostro" letta al Convegno
Internazionale "Presenza di Cagliostro",
San Leo, giugno 1991 (poi pubblicata in
"Presenza di Cagliostro", atti a cura di
Daniela Gallingani, Firenze, Centro
Editoriale Toscano, 1994).


Migrazioni di Cagliostro era un titolo che avevo scelto mesi fa quando non sapevo ancora di che cosa avrei parlato, ma ora mi rendo conto che avrebbe dovuto essere il titolo di tutto questo convegno, dove la maggior parte dei convenuti pare affascinata non dal Cagliostro storico, bensì da quell'immagine che ha migrato in innumerevoli narrazioni, e in quelle sorte di pseudoromanzi che sono le ricostruzioni dei mercanti dell'occulto, dove sia filocagliostrismo massonico che anticagliostrismo sanfedista manifestano entrambi gusto per imprecisione storica, credulità indiscriminata nei confronti di ogni fonte, tendenza a non usare una testimonianza quando sia stata dimostrata attendibile, ma a giudicarla attendibile perché la si è usata.

Seguendo la storia di queste migrazioni ci si dovrebbe chiedere perché Cagliostro abbia tanto interessato i cacciatori di misteri, quando è un personaggio privo di mistero. E' così prevedibile che potrebbe essere programmato da un computer a cui siano state fornite le seguenti informazioni: notizie sulla psicologia di un personaggio tipico della cultura settecentesca, l'avventuriero (da Casanova a Da Ponte), col suo gusto per l'avventura cosmopolita, la curiosità per l'insolito, la passione per l'intrigo; informazioni sulla nascita delle sette massoniche e sul ruolo che hanno rivestito nel tessere contatti tra una borghesia rampante e un'aristocrazia insoddisfatta dell' ancien régime; aneddoti su monarchi e langravi che finanziavano ricerche alchemiche con un occhio alla pietra filosofale e un altro alla chimica per l'industria manifatturiera (compresa la storia del conte di Milly, che per trovare l'elisir di lunga vita alla fine sbaglia e si avvelena); ed ecco costruito il conte di Cagliostro. Cagliostro è uno dei personaggi più ovvi del proprio tempo. Ha attratto l'attenzione forse perché ha rappresentato in modo più pittoresco, a voce più alta, l'archetipo eterno dell'uomo senza qualità, che dal proprio tempo si fa attraversare.

Caso mai il vero mistero non è Cagliostro, il vero mistero che non cessa di inquietarci è il cardinale de Rohan.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 25

IL LINGUAGGIO MENDACE IN MANZONI


Comunicazione al ciclo di conferenze su
La semiotica dei "Promessi sposi",
Università di Bologna, 1986. Poi pubblicata
in "Semiosi naturale e parola nei Promessi
sposi", in "Leggere I promessi sposi", a cura
di Giovanni Manetti, Milano, Bompiani, 1989.


AZIONE E PAROLA. "Le azioni, caro mio: l'uomo si conosce all'azioni," dice l'oste del villaggio nel capitolo VII, altrettanto sagace dell'oste della Luna Piena nel riconoscere galantuomini o sbirri dalla veste, dal tono, dal comportamento. E d'altra parte, una pagina innanzi, Renzo, dopo essere entrato nell'osteria e avervi scorto un bravo di sentinella, con un berretto di velluto cremisi sul ciuffo, le trecce e il pettine alla nuca, armato di randello, che non si scosta neppure per farlo entrare, e i suoi compagni che giocavano alla morra, tutti scambiandosi tra loro eloquenti cenni del capo - Renzo, dicevo, che in questo Bildungsroman è l'ultimo a crescere e cioè a familiarizzarsi con i segni e col modo in cui gli altri li interpretano (solo alla fine ha appreso che cosa possa significare tenere in mano il martello delle porte e attaccarsi un campanello al piede), Renzo "incerto guardava ai suo convitati [Tonio e Gervaso], come se volesse cercare ne' loro aspetti un'interpretazione di tutti que' segni", visto che per lui la cosa è ancora difficile. Ma non ha visto abbastanza, e solo "la vita è il paragone delle parole" (XXII).

Sospettoso di un andamento razionale della storia umana, e di ogni buon proposito che non tenga conto dell eterogenesi dei fini, timoroso del male che si annida nelle cose del mondo, diffidente dei potenti e delle arti con cui prevaricano sugli umili, Alessandro Manzoni pare aver sintetizzato la sintesi del suo buon senso illuministico e del suo rigore giansenistico in una formula semiotica che può essere estrapolata da molte pagine del suo romanzo:

(i) C'è una semiosi naturale, esercitata quasi istintivamente dagli umili dotati di esperienza, per cui i vari aspetti della realtà, se interpretati con prudenza e conoscenza dei casi della vita, si presentano come sintomi, indici, signa o semeia nel senso classico del termine.

(ii) E c'è la semiosi artificiale del linguaggio verbale il quale, o si rivela insufficiente a render conto della realtà, o viene usato esplicitamente e con malizia per mascherarla, quasi sempre a fini di potere. Ma questo è possibile perché il linguaggio è ingannevole per sua propria natura, mentre la semiosi naturale induce a errore e abbaglio solo quando è inquinata dal linguaggio che la ridice e interpreta, o l'interpretazione è ottenebrata dalle passioni.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 51

PER CONCLUDERE. Linguaggio verbale contro semiosi popolare? A inficiare la congettura basterebbe osservare che Manzoni, nel suo romanzo, celebra la disfatta della parola e il trionfo della semiosi popolare attraverso la parola narrativa. Ma questa obiezione tocca la semiotica implicita di Manzoni, non la ricostruzione che si sta tentando. Qui non si stanno celebrando i limiti del linguaggio, si sta raccontando di come un autore esponga (naturalmente a parole) la sua concezione pessimistica del potere della parola. Felice contraddizione, che diventa un po' meno contraddittoria quando ci si rende conto che ogni romanzo intero si presenta come una macchina, inevitabilmente linguistica, che si sforza di far rivivere linguisticamente segni che linguistici non sono, e che accompagnano, precedono, seguono, con una loro autonomia istintiva e violenta, il linguaggio.

Questa capacità, che il linguaggio verbale ha, di evocare ciò che verbale non è, ha in retorica un nome: ipotiposi.

Poiché dall'esercizio della parola non si può sfuggire ("Parlare, questa cosa così sola, e talmente più facile di tutte quell'altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po' da compatire", fine del capitolo XXXI), diremo che I promessi sposi può elaborare ed esemplificare la propria semiotica implicita, e presentarsi come una celebrazione verbale della semiosi popolare solo a prezzo di un'ininterrotta catena di ipotiposi.

Macchina linguistica che si celebra nel negarsi, il romanzo ci dice qualcosa su altri modi di significare, e ci suggerisce che esso, cosa verbale, di questi modi sta al servizio, perché è racconto non di parole ma di azioni, e persino quando racconta parole le racconta in quanto hanno assunto funzione di azione.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 53

CAMPANILE:
IL COMICO COME STRANIAMENTO


Conferenza tenuta nel maggio 1991
al Salone del Libro di Torino.


Forse Campanile è il primo autore che io abbia letto. Il Diario di un uomo amareggiato, ovvero le memorie di Gino Cornabò, appariva già sul supplemento a colori della Gazzetta del Popolo quando io, analfabeta, mi facevo solo leggere le storie di Pio Percopo e di Isolina Marzabotto, ma la Gazzetta continua a pubblicarlo, che sappia, almeno sino al 1938, quando già potevo compitarne le rige, di cui ho vaghi e inquieti ricordi. Era un'epoca di eroi, in cui nessuno avrebbe dovuto essere amareggiato, e io mi stupivo che ci fosse qualcuno che non potesse essere felice come Enrico Toti, falciato dalla mitraglia nemica mormorando il nome di quell'Italia che lo aveva mandato al fronte senza una gamba.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 70

Non credo sia neppure produttivo assimilare il comico di linguaggio di Campanile a quello analizzato da Freud. Là è il linguaggio che nel gioco di parole si fa veicolo di una distonia ancora occulta, ma in ogni caso il lapsus condanna noi, non il linguaggio. Il gioco di parole di Campanile condanna lucidamente il linguaggio e la sua vacuità. Pancrazi aveva già avvertito che egli aveva l'arte di far nascer da un truismo preso sul serio e diceva che "in in un'aria greve come quella di oggi, in una letteratura così sprovvista di senso del ridicolo" l'umorismo di Campanile poteva essere un naturale reagente. Per questo Campanile non poteva essere un umorista del regime, perché colpiva il regime nascente, e la cultura che lo aveva tenuto in gestazione, nel suo male più profondo, e cioè in una retorica paraletteraria presa sul serio.

Campanile in tal senso è stato il precursore dell'estetica che sarà poi del Bertoldo. C'è un altro scrittore, ingiustamente dimenticato, forse perché dopo la guerra non è rimasto negli spazi stratosterici in cui si era rifugiato durante il regime, che ha lavorato sulla (e ci ha educati alla) distruzione degli stereotipi letterari, ed è Giovanni Mosca.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 90

Si sarà notato che in tutti gli esempi che ho proposto è difficile trovarne due che rientrino sotto la stessa categoria di strategia comica. Sembra che di fronte alla sfida del comico più che una teoria generale si possa proporre una fenomenologia di meccanismi che producono effetti diversi.

Il comico sembra appartenere a quelle categorie come il gioco, giustamente criticate da Wittgenstein, perché chiamiamo "gioco" attività in cui c'è dispendio fisico e il gioco del lotto, sfide a due e divertimenti solitari, scommesse che implicano un alto rischio e intrattenimenti pacifici con animali domestici. Il concetto di gioco copre un tessuto di attività diverse legate da vaghe somiglianze di famiglia, perché il gioco non è un'attività specifica ma una delle dimensioni umane, come il sesso - che si sublima nell'amor platonico, si esplica nell'amplesso, si trattiene nella carezza trepida, si scatena nella sfida sadomasochistica, e può implicare sia la comunione di due, o di molti, che il piacere solitario.

Il comico (col suo corollario non necessario, né sufficiente, il riso) è della stessa natura. Siamo homo ludens così come siamo homo ridens. E se si ride, si sorride, si scherza, si architettano sublimi strategie del risibile - e siamo l'unica specie a farlo, poiché sono esclusi da questa sorte gli animali e gli angeli - è perché siamo l'unica specie che, non essendo immortale, sa di non esserlo. Il cane vede altri cani morire, ma non sa - almeno non sa per forza di sillogismo - che anche lui è mortale. Socrate lo sa. Ed è perché lo sa che è capace di ironia. Il comico e l'umorismo sono il modo in cui l'uomo cerca di rendere accettabile l'idea insopportabile della propria morte - o di architettare l'unica vendetta che gli è possibile contro il destino o gli dèi che lo vogliono mortale.

Campanile è un grande autore comico perché è autore funereo, e funerario, perché molto parla di cimiteri e funerali. Le sue pagine tornano ossessivamente sul problema della morte, sin dalle opere della giovinezza. Campanile trae dall'idea della morte occasioni di straniti sorrisi. A cominciare da quel suo personaggio giovanile che alla domanda "Come sta?", invece che "Si vivacchia", risponde "Si moriacchia", e poi spiega lucidamente il perché, sino alla vicenda del povero Piero.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 99

GEOGRAFIA IMPERFETTA
DI CORTO MALTESE


Versione rivista dell'introduzione a
Hugo Pratt, La Ballata del mare salato,
Milano, Rizzoli-Milano Libri, 1991.


Sarà. Nella sua breve nota introduttiva all'edizione 1991 della Ballata del mare salato Hugo Pratt dice che il suo interesse per i mari del Sud nasce da Laguna blu di de Vere Stackpoole - e la memoria corre al film omonimo, che si svolge sì nelle Figi, ma che proprio non farebbe pensare a Corto Maltese. Comunque può darsi, e Thomas Merton diceva di esser divenuto cattolico leggendo la storia dell'apostasia di Joyce in A Portrait of the Artist as a Young Man. Ma io non mi fido degli autori, che sovente mentono. Mi fido solo dei testi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 103

Da quel momento la storia dell'esplorazione del Pacifico è la storia di gente che scopre sempre la terra che non andava cercando, un girare da dissennati tra isolotti, barriere coralline e continenti, sbagliando sempre la longitudine (almeno sino all'invenzione del cronometro marino di Harrison), e l'epicentro invisibile e introvabile di queste scorribande sono sempre le isole del re Salomone, che si sono dissolte nell'aria. Si veda Tasman, che nel 1643 cerca le Salomone, arriva prima in Tasmania (il che non è scarto da oco), avvista la Nuova Zelanda, passa per le Tonga, tocca senza sbarcarvi le Figi, di cui vede solo poche isolette, e perviene sulle coste della Nuova Guinea. Com'è come non è, Rasputin che pure poteva disporre delle buone carte tedesche coeve, si ostina a documentarsi su Bougainville, dove le isole Salomone sono ancora un sogno. Ma questo suo fallo onirico incide anche sul comportamento degli altri.

Ditemi voi perché Corto deve trovare il sottomarino di Slütter (che ha in mano l'ottima carta disegnata dal capitano Galland) sotto la punta occidentàle della Nuova Pomerania, quindi mentre naviga verso ovest, se è partito da Kaiserine, mentre la meta del sottomarino è l'Escondida.

| << |  <  |