Copertina
Autore Jennifer Egan
Titolo Il tempo è un bastardo
Edizioneminimum fax, Roma, 2011, Sotterranei 156 , pag. 396, cop.fle., dim. 14x19x2,7 cm , Isbn 978-88-7521-363-3
OriginaleA Visit from the Goon Squad [2010]
TraduttoreMatteo Colonbo
LettoreFlo Bertelli, 2012
Classe narrativa statunitense
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Indice


A

1.  Oggetti trovati                     11

2.  La cura dell'oro                    30

3.  Sai che m'importa                   54

4.  Safari                              77

5.  Voi                                106

6.  X e O                              116


B

7.  Da A a B                           139

8.  Vendere il generale                169

9.  Un pranzo di quaranta minuti:
    Kitty Jackson parla dell'amore,
    del successo e di... Nixon!
    di Jules Jones                     203

10. Fuori dal corpo                    224

11. Addio, amore mio                   250

12. Le grandi pause del rock
    di Alison Blake                    280

13. Linguaggio puro                    356


 

 

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Pagina 11

1. OGGETTI TROVATI



Cominciò come al solito, nel bagno del Lassimo Hotel. Sasha si stava ritoccando l'ombretto giallo davanti allo specchio, quando sul pavimento accanto al lavandino notò una borsa, probabilmente della signora che sentiva fare pipì piano piano da dietro la porta modello caveau di uno dei gabinetti. Dal bordo della borsa, appena visibile, spuntava un portafoglio di pelle verde chiaro. Per Sasha fu facile rendersi conto, ripensandoci poi, che a provocarla era stata la fiducia cieca della donna: Viviamo in una città dove la gente ti ruba anche i capelli dalla testa, se solo gliene dai occasione, e tu molli la tua roba in bella vista aspettandoti pure di ritrovarla quando torni? Le aveva fatto venire voglia di darle una lezione. Ma quel desiderio camuffava solo in parte la sensazione più profonda che Sasha aveva sempre: il portafoglio, gonfio e morbido, che si offriva alla sua mano. Sembrava così banale, così terra terra lasciarlo lì senza cogliere l'attimo, accettare la [...]

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Pagina 30

2. LA CURA DELL'ORO



Quel giorno, per Bennie i ricordi imbarazzanti cominciarono presto, durante la riunione del mattino, mentre ascoltava uno dei suoi dirigenti sostenere la necessità di staccare la spina alle Stop/Go, una band formata da due sorelle che un paio d'anni prima Bennie aveva messo sotto contratto per tre dischi. All'epoca, le Stop/Go erano sembrate una scommessa vincente: le sorelle erano giovani e adorabili, avevano un suono ruvido, semplice e orecchiabile («Tra Cyndi Lauper e Chrissie Hynde», era stato il ritornello di Bennie all'inizio), con un bel basso sincopato e qualche percussione buffa (lui ricordava un campanaccio da mucca). E poi avevano scritto una manciata di pezzi decenti. Insomma, quelle si erano vendute dodicimila cd ai concerti prima ancora che Bennie sentisse una loro nota dal vivo. Il tempo di mettere a punto qualche potenziale singolo, un po' di marketing furbo e un video decente, e avrebbero potuto sfondare.

Ma le sorelle andavano per i trenta, stava dicendo ora a Bennie la sua produttrice esecutiva, Collette, e come liceali non erano più credibili, specie dal momento che una delle due aveva una figlia di nove anni. Gli altri membri della band si erano iscritti a giurisprudenza. Avevano già licenziato due produttori, un terzo se n'era andato, e l'album ancora non esisteva.

«Chi è che le gestisce?», chiese Bennie.

«Il padre. Ho qui il nuovo demo», disse Collette. «Le voci sono sepolte sotto sette strati di chitarre».

Fu in quel momento che il ricordo travolse Bennie (era stata la parola sorelle a rievocarlo?): lui, accovacciato dietro un convento di Westchester all'alba dopo una notte di bisboccia, tipo vent'anni prima? Di più? Ondate di suono puro, squillante, sinistro e dolce allo stesso tempo, che si diffondevano nel cielo via via più chiaro: suore di clausura che non vedevano mai nessun altro, che avevano fatto voto di silenzio e ora stavano cantando la messa. I fili d'erba bagnata sotto le ginocchia di Bennie, la loro iridescenza che gli pulsava contro i bulbi oculari sfiniti. Ancora adesso aveva l'impressione di sentire la dolcezza ultraterrena di quelle voci di suore riecheggiargli nel profondo delle orecchie.

Aveva fissato un appuntamento con la madre superiora, l'unica suora con cui era possibile parlare, si era portato un paio di ragazze dell'ufficio per dissimulare e aveva atteso in una specie di anticamera fino a quando la madre superiora non era apparsa dietro un'apertura quadrata nella parete, una specie di finestra senza vetro. Era vestita interamente di bianco, il viso circondato da un panno stretto. Bennie ricordava che rideva molto, con le guance rosee che si alzavano formando due malloppi sporgenti, forse per la felicità al pensiero di portare Dio in milioni di case, forse per la novità rappresentata dal talent scout di una casa discografica che veniva a farle una proposta. L'accordo era stato concluso nel giro di pochi minuti.

Bennie si era avvicinato all'apertura quadrata per salutarla (a questo punto Bennie prese ad agitarsi sulla poltroncina della sala riunioni, perché il pensiero era già corso al momento clou dell'episodio). La madre superiora si era sporta leggermente in avanti, ruotando la testa in un modo che in Bennie dovette far scattare qualcosa. Allungando la testa oltre l'apertura, l'aveva baciata sulla bocca: il velluto lanuginoso della pelle, un odore intimo, di borotalco, nella frazione di secondo prima che la suora cacciasse un urlo e si scostasse. Poi lui che indietreggiava, sorridendo timoroso, vedendo quel viso sgomento, ferito.

«Bennie?» Collette era in piedi davanti a un mobiletto, con in mano il cd delle Stop/Go. Tutti sembravano in attesa. «Vuoi ascoltarlo?»

Ma Bennie era intrappolato in un loop di vent'anni prima: continuava ad allungarsi verso la madre superiora come il cucù di un orologio impazzito, ancora e poi ancora.

«No», bofonchiò, rivolgendo il viso sudato alle folate di brezza che dal fiume soffiavano dentro la finestra dell'ex torrefazione di Tribeca in cui la Sow's Ear Records si era trasferita sei anni prima, e di cui adesso occupava due piani. Le suore non le aveva mai registrate. Tornando dal convento, aveva trovato ad aspettarlo un messaggio.

«No», ripeté a Collette. «Non voglio ascoltarlo, il demo». Si sentiva turbato, sporco. Bennie licenziava artisti in continuazione, a volte anche tre alla settimana, ma adesso il fallimento delle sorelle Stop/Go era venato di una vergogna personale, come se la colpa fosse sua. E quella sensazione era seguita da un bisogno inquieto e contrario di ricordare cosa fosse stato inizialmente a intrigarlo nelle sorelle, di avvertire di nuovo quell'eccitazione. «Magari faccio un salto a trovarle», disse di colpo.

Collette parve stupita, poi sospettosa, poi preoccupata, in una sequenza che Bennie avrebbe trovato divertente, non fosse stato così scosso. «Sul serio?», gli chiese.

«Sì. Ci vado oggi, dopo che ho visto mio figlio».

L'assistente di Bennie, Sasha, gli portò il caffè: latte e due cucchiaini di zucchero. Lui tirò fuori da una tasca uno scatolino rosso smaltato, ne aprì la complicata chiusura, pizzicò tra due polpastrelli tremanti alcune scaglie d'oro e le fece cadere nella tazza. Aveva preso quell'abitudine due mesi prima, dopo aver letto in un libro sulla medicina azteca che l'oro e il caffè, messi insieme, si riteneva aumentassero la potenza sessuale. Bennie aveva un obiettivo più basilare della potenza sessuale: il desiderio sessuale, visto che il suo si era misteriosamente esaurito. Non sapeva con esattezza quando o perché fosse successo: il divorzio da Stephanie? La battaglia per l'affidamento di Christopher? Il fatto di aver da poco compiuto quarantaquattro anni? Le soffici bruciature circolari sul suo avambraccio sinistro, riportate durante «La Festa», una recente débàcle organizzata niente meno che dall'ex capo di Stephanie, che ora stava scontando un po' di galera?

L'oro si posò sulla superficie lattea del caffè e prese a roteare vorticosamente. Bennie era ipnotizzato da quel movimento rotatorio, che riteneva la prova dell'esplosiva alchimia oro-caffè. Un'attività frenetica che l'aveva sostanzialmente ridotto a girare in tondo: non era forse una descrizione piuttosto precisa della smania sessuale? A volte Bennie neppure si dispiaceva della sua scomparsa. Era quasi un sollievo non desiderare costantemente di scoparsi qualcuno. Il mondo era un luogo indiscutibilmente più tranquillo, senza quella mezza erezione che era stata la sua fedele compagna dall'età di tredici anni, ma Bennie voleva davvero vivere in quel mondo? Sorseggiando il suo caffè corretto con l'oro, guardò i seni di Sasha, divenuti la cartina di tornasole in base alla quale misurare i propri progressi. Le aveva sbavato dietro per buona parte degli anni in cui aveva lavorato per lui, prima come stagista, poi come segretaria, e infine come sua assistente (posizione nella quale era rimasta, inspiegabilmente restia a diventare dirigente a sua volta), e in un modo o nell'altro era riuscita a sottrarsi senza mai dire di no, né ferire i sentimenti di Bennie, né farlo incazzare. Mentre adesso: i seni di Sasha sotto un leggerissimo maglioncino giallo, e Bennie non provava nulla. Neppure un fremito di innocua eccitazione. E tra l'altro: anche volendo, sarebbe riuscito a farselo rizzare?

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Pagina 156

In Bosco non c'era più nulla dell'allampanato musicista in pantaloni stra-attillati fautore di un suono tardo-anni Ottanta a metà strada tra il punk e lo ska, un formicaio di roscia isteria che sul palco faceva sembrare indolente Iggy Pop. Più di una volta durante i concerti dei Conduits i gestori dei locali avevano chiamato l'ambulanza, convinti che Bosco stesse avendo una crisi epilettica.

Adesso era enorme – per i farmaci, sosteneva lui, sia quelli post-cancro che gli antidepressivi – ma un'occhiata al suo bidone della spazzatura quasi sempre rivelava una confezione da mezzo chilo vuota di gelato Dreyer's Rocky Road. I capelli rossi erano ridotti a una coda di cavallo grigia e stopposa. Una protesi all'anca malriuscita gli aveva lasciato l'andatura sussultante, sottomessa al peso della pancia, di un frigorifero trasportato su un carrello manuale. Eppure era sveglio, vestito, perfino sbarbato. Nel loft le tende avvolgibili erano alzate, e nell'aria aleggiava un filo di umidità da doccia, piacevolmente solcata dall'odore del caffè sul fuoco.

«Ti aspettavo per le tre», disse Bosco.

«Pensavo avessimo detto alle dieci», rispose Stephanie, cercando qualcosa nella borsetta per evitare il suo sguardo. «Ho capito male io?»

Bosco non era scemo. Seppe subito che stava mentendo. Era però curioso, e la sua curiosità si rivolse naturalmente a Jules. Stephanie fece le presentazioni.

«È un onore», disse Jules solenne.

Prima di stringergli la mano, Bosco scrutò il suo viso cercando indizi di ironia.

Stephanie andò a sedersi sul bordo di una sedia pieghevole vicino alla poltrona reclinabile dove Bosco passava la maggior parte del suo tempo. Era posizionata accanto a una finestra polverosa dalla quale si vedeva il fiume Hudson e perfino un pezzo di Hoboken. Bosco servì il caffè a Stephanie, dopodiché cominciò una sussultante immersione nella poltrona, che lo risucchiò avvolgendolo in una stretta gelatinosa. Erano lì per discutere di come promuovere Da A a B. Ora che Bennie doveva rispondere ai dirigenti di una multinazionale, sul cd di Bosco non poteva spendere un centesimo in più dei costi di produzione e distribuzione. Per cui Bosco pagava Stephanie a ore perché si occupasse dell'ufficio stampa e del booking. Mansioni prevalentemente simboliche: Bosco era stato troppo malato per promuovere più di tanto gli ultimi due album, e il suo sfinimento si era rivelato più o meno pari all'indifferenza riservatagli dal mondo.

«Stavolta sarà tutta un'altra cosa», attaccò Bosco. «Ti farò lavorare, Steph mia. Quest'album sarà il mio ritorno».

Stephanie diede per scontato che stesse scherzando. Lui, però, da dentro le pieghe della poltrona nera la guardava serissimo.

«Ritorno?», chiese.

Jules si era messo a vagare per la casa, osservando le pareti coperte di dischi d'oro e di platino dei Conduits, le poche chitarre che Bosco non si era venduto e la sua collezione di artigianato precolombiano, che teneva in teche di vetro immacolate e si rifiutava di vendere. Alla parola ritorno, Stephanie sentì l'attenzione del fratello destarsi di colpo.

«L'album si chiama Da A a B, giusto?», disse Bosco. «Ed è esattamente di questo che voglio parlare: com'è successo che da rockstar io sia diventato un ciccione che nessuno s'incula? E non raccontiamoci che non è così».

Stephanie era troppo sbalordita per rispondere.

«Voglio interviste, articoli, tutto quello che ti viene in mente», proseguì Bosco. «Riempimi la vita di roba. Documentiamo ogni cazzo di umiliazione. Perché in fondo la realtà è questa, no? In vent'anni non diventi più bello, specie se nel frattempo ti hanno tolto metà dell'intestino. Il tempo è un bastardo, giusto? Non si dice così?»

Jules si era avvicinato dal lato opposto della stanza. «Mai sentito. "Il tempo è un bastardo"?»

«Vuoi dirmi che non lo è?», disse Bosco, con un'aria un po' di sfida.

Ci fu una pausa. «No», disse Jules.

«Ascolta, Bosco», disse Stephanie, «a me la tua onestà piace molto...»

«"A me la tua onestà piace molto" un accidente», disse lui. «Non metterti a fare la p.r. con me».

«Sono il tuo ufficio stampa», gli ricordò Stephanie.

«Sì, ma non cominciare a crederci», disse Bosco. «Sei troppo vecchia».

«Cercavo di avere tatto», disse Stephanie. «Il punto, Bosco, è che a nessuno frega niente se la tua vita è andata a puttane. È assurdo che possa sembrarti interessante. Se a tutt'oggi fossi una rockstar, ancora ancora, ma tu non sei una rockstar. Sei un relitto».

«Ellamadonna», disse Jules.

Bosco rise. «È incazzata perché le ho dato della vecchia».

«Vero», ammise Stephanie.

Jules guardò l'uno e poi l'altra, a disagio. Ogni genere di conflitto sembrava turbarlo.

«Senti», riprese Stephanie, «io posso dirti che è un'idea fantastica e innovativa e lasciare che muoia da sé, oppure posso parlarti da pari a pari: è un'idea ridicola. Non gliene frega niente a nessuno».

«Ma se l'idea ancora non l'hai sentita», disse Bosco.

Jules avvicinò una sedia pieghevole e ci si sedette. «Voglio andare in tour», disse Bosco. «Come una volta, facendo sul palco le stesse cose. Mi muoverò come mi muovevo prima, solo di più».

Stephanie posò la tazza. Rimpianse che non ci fosse anche Bennie. Solo lui poteva cogliere l'entità dell'abisso di autoinganno che si ritrovava di fronte. «Fammi capire», disse. «Vuoi fare un sacco di interviste e articoli sul fatto che sei l'ombra malata e decrepita della persona che eri. Dopodiché vuoi imbarcarti in un tour...»

«Un tour nazionale».

«Un tour nazionale, in cui ti esibisci come se fossi ancora quella persona».

«Bingo».

Stephanie fece un bel respiro. «Intravedo alcuni problemi, Bosco».

«L'avevo messo in conto», disse lui, strizzando l'occhio a Jules. «Spara».

«Numero uno, trovare un giornalista a cui interessi questa cosa sarà dura».

«A me interessa», disse Jules, «e sono un giornalista».

Dio, pietà, fu lì lì per dire Stephanie, ma poi si trattenne. Da molti anni non sentiva suo fratello definirsi un giornalista.

«Ok, una volta che hai un giornalista interessato a...»

«Gli do carta bianca», disse Bosco. Si girò verso Jules. «Ti do carta bianca. Accesso totale. Puoi guardarmi mentre faccio la cacca, se vuoi».

Jules deglutì. «Ci penserò».

«È per dire che non ci saranno limiti».

«Ok», ricominciò Stephanie, «e una volta che...»

«Puoi anche riprendermi», disse Bosco a Jules. «Puoi farne un documentario, se ti interessa».

Jules cominciava a sembrare spaventato.

«Mi lasci finire una cazzo di frase?», chiese Stephanie. «Hai un giornalista disposto a coprire una storia che non interesserà a nessuno...»

«Ma tu ci credi che questo è il mio ufficio stampa?», chiese Bosco a Jules. «Che dici, la licenzio?»

«Trova qualcun altro, se ci riesci», disse Stephanie. «Veniamo al tour».

Bosco sorrideva, inglobato in quella poltrona gommosa che per chiunque altro sarebbe stata un divano. Di colpo le fece pena. «Trovare concerti non sarà una passeggiata», disse Stephanie gentilmente. «Cioè, è tanto che non suoni in giro, non sei... Dici che vuoi esibirti come prima, ma...» Bosco aveva cominciato a riderle in faccia, ma Stephanie perseverò. «Fisicamente non sei... insomma, la tua salute...» Stava girando intorno al fatto che Bosco non era neppur lontanamente nelle condizioni di esibirsi come faceva una volta, e che se ci avesse provato sarebbe morto, probabilmente più prima che poi.

«Ma proprio non capisci, Steph?», sbottò infine Bosco. «Il punto è proprio quello. Sappiamo tutti come andrà a finire, ma non sappiamo quando, né dove, né chi sarà presente quando infine succederà. Sarebbe il Tour del Suicidio».

Stephanie si mise a ridere. L'idea le sembrava inspiegabilmente divertente. Ma Bosco si fece serio all'improvviso. «Io ho chiuso», disse. «Sono vecchio, sono triste, e questo quando va bene. Voglio mollare questo schifo. Ma non spegnendomi a poco a poco. Io voglio una fiammata. Voglio che la mia morte diventi un'attrazione, uno spettacolo, un mistero. Un'opera d'arte. E tu, cara la mia p.r.», disse, raccogliendo le sue carni debordanti e sporgendosi verso di lei con gli occhi che scintillavano nella testa dilatata, «vorresti convincermi che una cosa del genere non interessa a nessuno. Reality show un cazzo, più reale di così non c'è niente. Il suicidio è un'arma, questo lo sappiamo tutti. Ma se io ti dico che può essere anche un'arte?»

Guardò Stephanie ansioso: un uomo grasso e malato con un'ultima, coraggiosa idea, infiammato dalla speranza che a lei potesse piacere. Ci fu una lunga pausa, durante la quale Stephanie cercò di riordinare i pensieri.

Parlò per primo Jules: «È geniale».

Bosco lo guardò con tenerezza, commosso dal suo stesso discorso e commosso nel constatare che si era commosso anche Jules.

«Sentite, ragazzi», disse Stephanie. Avvertiva in sé il baluginio perverso di un pensiero: se quella idea poteva, in qualche modo, stare in piedi (anche se quasi certamente non poteva: era folle, forse illegale, sgradevole ai limiti del grottesco), allora voleva che a seguirla fosse un giornalista vero.

«Uh, nonnonnonnò», le disse Bosco, agitandole un dito contro come se quel proposito ribaldo l'avesse espresso ad alta voce. Sospirando e mugolando e declinando le loro offerte d'aiuto si issò dalla poltrona, che emise dei rumorini di sollievo, e si trascinò dall'altra parte della stanza. Raggiunta una scrivania ingombra, ci si appoggiò ansimando rumorosamente. Poi si mise a frugare in cerca di carta e penna.

«Come hai detto che ti chiami?», chiese.

«Jules. Jules Jones».

Bosco scrisse per diversi minuti.

«Ok», disse infine, intraprendendo il suo laborioso ritorno e consegnando il foglio a Jules. Jules lo lesse a voce alta: «Io, Bosco, nel pieno possesso delle mie facoltà fisiche e mentali, concedo a te, Jules Jones, i diritti mediatici esclusivi per la copertura giornalistica del mio declino e del mio Tour del Suicidio».

Lo sforzo fisico aveva svuotato Bosco di ogni energia. Si accasciò contro lo schienale della poltrona, aspirando avidamente l'aria, con gli occhi chiusi. L'altro Bosco, l'isterico spaventapasseri da palcoscenico, fece un'apparizione spettrale, crudele, nella mente di Stephanie, sconfessando il cupo mastodonte che aveva davanti. Un'ondata di tristezza la travolse. Bosco aprì gli occhi e guardò Jules. «Tieni», disse. «È tuo».

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Pagina 203

9. UN PRANZO DI QUARANTA MINUTI:
KITTY JACKSON PARLA DELL'AMORE,
DEL SUCCESSO E DI... NIXON!
di Jules Jones



Le stelle del cinema sembrano sempre basse, la prima volta che le incontri, e Kitty Jackson, per quanto eccezionale in tutto il resto, non fa eccezione.

Anche se bassa non è la parola esatta: lei è minuta, un bonsai di essere umano con un vestito bianco senza maniche; siede a un tavolo in disparte di un ristorante in Madison Avenue, e sta parlando al cellulare. Mentre prendo posto, mi sorride e alza gli occhi al cielo, accennando al telefono. Ha i capelli di quel biondo che si vede ovunque – «colpi di sole», li chiama la mia ex – anche se su Kitty Jackson questo scompigliato miscuglio di biondo e castano pare più naturale e costoso che su Janet Green. Lei (Kitty, intendo) ha un viso di quelli che potrebbero sembrare semplicemente graziosi, che so, in una classe di liceo: nasino all'insù, labbra carnose, grandi occhi azzurri. Eppure, per ragioni che non so mettere a fuoco – le stesse, suppongo, per cui i suoi colpi di sole sembrano superiori ai comuni colpi di sole (quelli di Janet Green) — questo viso per nulla eccezionale risulta straordinario.

È ancora al telefono, e sono passati cinque minuti.

Finalmente si congeda, chiude il telefono riducendolo a un disco delle dimensioni di una mentina e lo ripone in una pochette di pelle bianca. Dopodiché attacca a scusarsi. Mi è subito chiaro che Kitty Jackson appartiene alla categoria delle star carine (Matt Damon) anziché a quella delle star difficili (Ralph Fiennes). Le star carine si comportano come se fossero esattamente uguali a te (a me, in questo caso), affinché tu le trovi simpatiche e ne scriva in toni lusinghieri, strategia che si rivela quasi sempre vincente, con buona pace di tutti quei giornalisti che si ritengono troppo smaliziati per pensare che ottenere la copertina di Vanity Fair c'entri poco o nulla col desiderio che ha Brad Pitt di aprirgli le porte di casa sua. Kitty si scusa per i dodici cerchi infuocati attraverso i quali sono dovuto saltare e per gli svariati chilometri di carboni ardenti che ho dovuto percorrere a piedi nudi per strappare il privilegio di trascorrere quaranta minuti in sua compagnia. Si scusa per aver appena lasciato passare i primi sei di quei minuti parlando con qualcun altro. Questa pioggia di contrizione mi fa ricordare perché preferisco le star difficili, quelle che si barricano dentro il loro essere star sputandoti addosso dalle feritoie. C'è qualcosa che fa pensare a una mancanza di controllo, nelle star che non riescono a essere carine, e l'erosione dell'autocontrollo è la conditio sine qua non del giornalismo che tratta di celebrità.

Il cameriere viene a prendere le nostre ordinazioni. E siccome i dieci minuti di battute spiritose che scambio con Kitty semplicemente non meritano di essere riportati, citerò invece (con quello stile da nota a piè di pagina capace di infondere un aroma di consunte rilegature in pelle nell'osservazione dei fenomeni culturali pop) il fatto che, quando sei una star cinematografica giovane, con i capelli più o meno biondi e un volto fortemente riconoscibile per via di un ultimo film i cui incassi si possono spiegare solo ipotizzando che ogni cittadino americano l'abbia visto almeno due volte, la gente ti tratta in un modo un po' diverso — a dire il vero completamente diverso — da come tratterebbe, mettiamo, un tizio stempiato, ingobbito, vicino alla mezz'età e dalla pelle leggermente eczematosa. In superficie non cambia nulla — «Desidera ordinare?», e via dicendo — ma appena sotto la superficie pulsa l'isteria che ha colto il cameriere nel riconoscere la fama della mia intervistata. E con una simultaneità che si può spiegare soltanto in termini di meccanica quantistica, nella fattispecie mediante le proprietà delle particelle correlate, quello stesso impulso di riconoscimento si propaga contemporaneamente in ogni angolo del ristorante, raggiungendo perfino quei tavoli così distanti dal nostro da rendere semplicemente impossibile vederci da laggiù.(3)


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3. Qui mi sono abbandonato a una sorta di sofisticheria, lasciando intendere che le particelle correlate possano spiegare ogni cosa, quando a tutt'oggi esse stesse non sono ancora state spiegate in modo soddisfacente. Le particelle correlate sono «gemelli» subatomici: fotoni creati scindendo a metà un singolo fotone mediante un cristallo, che continuano a reagire identicamente a stimoli esercitati su uno dei due soltanto, pur se separati da diversi chilometri di distanza.

Com'è possibile, si domandano perplessi i fisici, che una particella «sappia» cosa sta accadendo all'altra? E com'è possibile che, quando le persone sedute ai tavoli più vicini a quello di Kitty Jackson immancabilmente la riconoscono, quelle dal cui campo visivo Kitty Jackson è esclusa, che non è pensabile abbiano vissuto l'esperienza di vedere Kitty Jackson, la riconoscano simultaneamente?

Spiegazioni teoriche:

1) Le particelle comunicano.

Impossibile, perché se così fosse dovrebbero farlo a una velocità superiore a quella della luce, contravvenendo quindi alla teoria della relatività. In altre parole, affinché una qualsiasi consapevolezza della presenza di Kitty si diffonda simultaneamente in tutto il ristorante, i clienti seduti ai tavoli più vicini dovrebbero trasmettere, a parole o gesti, il dato della sua presenza ai clienti più distanti, che non possono vederla, e farlo a una velocità superiore a quella della luce. Il che è impossibile.

2) I due fotoni reagiscono a fattori «locali» derivanti dalla loro precedente condizione di fotone unico (così spiegava Einstein il fenomeno delle particelle correlate, definendolo una «inquietante azione a distanza»).

Nemmeno. Perché abbiamo già stabilito che essi non reagiscono l'uno all'altro; reagiscono tutti quanti simultaneamente a Kitty Jackson, che solo una frazione minima di loro può vedere!

3) È uno dei tanti misteri della meccanica quantistica.

Così parrebbe. L'unica cosa che si può affermare con certezza è che, in presenza di Kitty Jackson, tutti noi veniamo messi in correlazione dalla semplice consapevolezza di non essere Kitty Jackson, un dato così brutalmente unificante da cancellare per un attimo tutte le nostre differenze – la nostra inspiegabile tendenza a piangere durante le parate, o il fatto di non essere mai riusciti a imparare il francese, o di avere un terrore degli insetti che davanti alle donne facciamo di tutto per nascondere, o che da bambini amavamo masticare il cartoncino – in presenza di Kitty Jackson smettiamo di possedere questi tratti, e anzi, diveniamo talmente indistinguibili da qualsiasi altro non-Kitty Jackson nelle nostre vicinanze che, non appena uno di questi la vede, tutti gli altri reagiscono simultaneamente.

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Ovunque, la gente si gira, allunga il collo, protendendosi e contorcendosi, levitando involontariamente dalle sedie mentre reprime il desiderio di avventarsi su Kitty e strapparle ciocche di capelli e indumenti.

Chiedo a Kitty che effetto fa essere sempre al centro dell'attenzione.

«È strano», risponde lei. «Succede così all'improvviso. Ti sembra di non meritarlo».

Che vi dicevo? Lei è carina.

«Suvvia», le dico, dopodiché butto lì un complimento per la sua interpretazione della senzatetto tossica che si trasforma in pistolera/acrobata dell'FBI in Oh, Baby, Oh: il genere di sviolinata che mi spinge a chiedermi se, alla mia attuale professione di intervistatore di star, non preferirei forse morire per iniezione letale. Non ne è un po' orgogliosa?

«Lo sono stata», risponde lei. «Ma in un certo senso non mi rendevo nemmeno conto di quello che facevo. Nel nuovo film mi sento più...»

«Trattenga il pensiero!», le intimo, anche se il cameriere non ha ancora raggiunto il tavolo, e il vassoio che porta probabilmente non è neppure il nostro. Perché non ho voglia di sentir parlare del nuovo film di Kitty; non potrebbe importarmene di meno, e nemmeno a voi, lo so; la classica tirata sulla difficoltà del ruolo e il rapporto di fiducia instaurato con il regista e quale onore sia stato lavorare accanto a un mostro sacro come Tom Cruise è la pillola amara che dobbiamo mandar giù per avere il privilegio di passare un po' di tempo in compagnia di Kitty. Ma cerchiamo di rimandarla il più possibile!

Per fortuna è il nostro vassoio (ti servono più velocemente, quando pranzi con una star): una Cobb salad per Kitty; cheeseburger, patatine e Ceasar salad per me.

Un po' di teoria mentre ci apprestiamo a pranzare: il trattamento che il cameriere riserva a Kitty è in realtà una sorta di sandwich, in cui la fetta di pane inferiore sono i modi annoiati e vagamente leziosi con i quali lui normalmente si rapporta ai clienti, la farcitura è l'anomala eccitazione che prova al cospetto di questa diciannovenne così famosa, e la fetta superiore è il tentativo di contenere e nascondere questa farcitura aliena con una modalità di comportamento che quantomeno somigli a quello strato inferiore di noia e leziosità che ne costituisce la norma. Analogamente, Kitty Jackson possiede una sorta di fetta di pane inferiore che è, presumiamo, «lei», o il modo in cui un tempo si comportava Kitty Jackson, nella Des Moines dove da ragazzina andava in bicicletta, partecipava ai balli scolastici, prendeva voti decenti e, dettaglio davvero intrigante, praticava il salto ostacoli a cavallo, vincendo perfino un numero consistente di nastri e trofei e accarezzando, almeno per un breve periodo, l'idea di diventare fantina. Subito sopra poggia la sua straordinaria e forse un tantino psicotica reazione a questa nuova fama – la farcitura del sandwich – e al di sopra di quella c'è il tentativo di assomigliare allo strato numero uno simulando la propria personalità abituale, o quantomeno precedente.

Sono passati sedici minuti.

«Corre voce», dico, con la bocca piena di hamburger mezzo masticato, nel deliberato tentativo di disgustare la mia interlocutrice, perforando così il suo scudo protettivo di carineria e cominciando a fare meticolosamente attrito sul suo autocontrollo, «che tra lei e il suo coprotagonista sia nato qualcosa».

Questo accenno cattura la sua attenzione. Glielo sparo a bruciapelo, avendo imparato a mie spese che avvicinarsi alle domande personali in punta di piedi dà agli intervistati difficili troppo tempo per indispettirsi, e a quelli carini troppo tempo per glissare, gentilmente e arrossendo.

«Ma non è assolutamente vero!», strilla Kitty. «Tra me e Tom c'è solo una splendida amicizia. Adoro Nicole. Per me è stata un modello. Ho perfino fatto da baby-sitter ai loro figli».

Sfodero il mio Gran Sorriso, una tattica che non ha alcuno scopo se non quello di innervosire e confondere l'interlocutore. Se i miei metodi vi sembrano eccessivamente duri, vi invito a ricordare che mi sono stati assegnati quaranta minuti, quasi venti dei quali sono già trascorsi, e permettetemi di aggiungere una nota personale: se l'articolo fa schifo, vale a dire se non riesce a portare alla luce un qualche aspetto di Kitty che voi non avete mai visto (com'è accaduto, mi dicono, con i pezzi in cui andavo a caccia d'alci con Leonardo DiCaprio, leggevo Omero con Sharon Stone e pescavo molluschi con Jeremy Irons), corre il concreto rischio di essere cassato, abbassando ulteriormente le mie quotazioni a New York e a Los Angeles, e allungando la «curiosa serie di fallimenti che stai inanellando, caro mio» (– Atticus Levi, mio amico e editor, a pranzo il mese scorso).

«Perché questo sorriso?», mi chiede Kitty, ora ostile.

Ecco, vedete? Fine della carineria.

«Stavo sorridendo?»

Lei si concentra sulla sua Cobb salad. E anch'io. Perché ho così pochi appigli per proseguire, così poche vie d'accesso al sancta sanctorum di Kitty Jackson, che mi riduco a osservare e ora a riferire il semplice dato che, nel corso del pranzo, la ragazza mangia quasi tutta la lattuga, all'incirca due bocconi e mezzo di pollo e svariate fettine di pomodoro. Ignorando: olive, roquefort, uova sode, bacon e avocado. In altre parole, tutti quegli elementi della Cobb salad che, tecnicamente parlando, ne fanno una Cobb salad. Quanto al condimento, che lei ha chiesto «a parte», non lo sfiora nemmeno, se non per intingervi un dito, una volta sola, e quindi succhiarselo.(4)


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4. Talvolta la vita ti concede il tempo, la quiete, il dolce far niente * (* in italiano nel testo originale, n.d.t.] necessari a riflettere su questioni che nel rapido corso della vita di tutti i giorni rimangono in larga misura inaffrontate: Con quanta precisione ricordiamo il meccanismo della fotosintesi? Siamo mai riusciti a utilizzare il termine ontologia in una conversazione? Qual è stato l'istante preciso in cui ci siamo leggermente disallineati dalla vita tutto sommato normale che conducevamo fino a quel momento, piegando in modo infinitesimale a sinistra o a destra e imboccando la traiettoria che in ultima istanza ci ha portati nel luogo in cui ci troviamo attualmente, nel mio caso il penitenziario di Rikers Island?

Dopo aver trascorso vari mesi sottoponendo ogni filamento e nanosecondo del mio pranzo con Kitty Jackson a un livello di analisi che farebbe apparire frettolosi degli studiosi talmudici alle prese con il Sabbath, sono giunto alla conclusione che il mio impercettibile e tuttavia decisivo cambiamento di rotta sia avvenuto nell'istante esatto in cui Kitty Jackson ha intinto il dito nella ciotola di condimento per l'insalata «a parte» e se l'è succhiato.

Di seguito, accuratamente districata e restituita a un ordine cronologico, ecco una ricostruzione dell'intreccio di pensieri e impulsi che oggi ritengo abbiano attraversato la mia mente in quegli istanti:

Pensiero 1 (alla vista di Kitty che intingeva il dito e se lo succhiava): È possibile che questa incantevole ragazza ci stia provando con me?

Pensiero 2: No, è del tutto impensabile.

Pensiero 3: Ma perché è del tutto impensabile?

Pensiero 4: Perché è una famosa attrice cinematografica diciannovenne e tu sei «di colpo appesantito, o sono io che lo noto di più?» (– Janet Green, durante il nostro ultimo, fallito incontro sessuale) e hai una brutta pelle e nessuna rilevanza sociale.

Pensiero 5: Lei però ha appena intinto il dito in una ciotola di condimento per l'insalata e se l'è succhiato in mia presenza! Cos'altro può voler dire?

Pensiero 6: Vuol dire che sei talmente fuori dal raggio dell'interesse sessuale di Kitty che i suoi sensori interni, solitamente inclini a reprimere qualsiasi comportamento possa essere interpretato come troppo incoraggiante, o magari provocatorio, come intingere un dito nel condimento per l'insalata e succhiarselo in presenza di un uomo che potrebbe recepirlo come un segnale di interesse sessuale, non sono attivi.

Pensiero 7: Perché no?

Pensiero 8: Perché Kitty Jackson non ti percepisce come «uomo», e dunque stare vicino a te non la fa sentire più in imbarazzo di quanto le accadrebbe in presenza di un bassotto.

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«Le dico cosa penso io», riprendo infine, smorzando il vibrato di tensione che va montando al nostro tavolo. «Penso: diciannove anni. Un film dagli incassi stratosferici alle spalle, mezzo mondo che si prostra ai suoi piedi, in che direzione potrà mai andare, ora? Cosa potrebbe fare?»

Sul volto di Kitty scorgo varie cose: sollievo perché non ho detto qualcosa di peggio, qualcosa su Tom Cruise, e misto a quel sollievo (nonché da esso in parte causato) un fugace desiderio di vedermi come qualcosa di più dell'ennesimo squinternato con un registratore in mano; di vedermi come qualcuno che capisce l'incredibile bizzarria del suo mondo. Quanto mi piacerebbe che fosse così! Nulla desidererei di più che capire la bizzarria del mondo di Kitty, intrufolarmi in quella bizzarria per non riemergerne mai più. Ma il massimo in cui posso sperare è di riuscire a nascondere a Kitty Jackson la nuda impossibilità che tra noi si instauri qualsiasi forma autentica di condivisione, e che sia riuscito a farlo per ventun minuti è già un trionfo.

Perché continuo a citare – a «inserire», come potrebbe sembrare – me stesso in questa storia? Perché sto tentando di estorcere del materiale leggibile da una diciannovenne che sprizza carineria; sto tentando di costruire un racconto che non soltanto dischiuda i vellutati segreti del suo cuore adolescente, ma contenga anche azione, sviluppo narrativo, unitamente a – che Dio mi assista – una qualche parvenza di significato. Ma ho questo problema: Kitty è di una noia mortale. La cosa più interessante, in lei, è l'effetto che ha sugli altri, e siccome caso vuole che l'«altro» la cui vita interiore è quella più immediatamente a disposizione per la nostra indagine collettiva sia il sottoscritto, è semplicemente naturale – anzi, necessario («Ti supplico: fa' che questo pezzo funzioni e che io non debba fare la figura del coglione per avertelo assegnato» – Atticus Levi, nel corso di una recente conversazione telefonica durante la quale gli avevo espresso la disperazione che mi coglieva all'idea di dover scrivere dell'ennesima celebrità) – che la supposta storia del mio pranzo con Kitty Jackson sia in realtà la storia della miriade di effetti che Kitty Jackson sortisce su di me nel corso del suddetto pranzo. E affinché tali effetti vi risultino remotamente comprensibili, dovete tenere presente che Janet Green, mia ragazza per tre anni e fidanzata ufficiale per un mese e tredici giorni, due settimane fa mi ha scaricato per uno scrittore prevalentemente autobiografico il cui ultimo libro descrive nel dettaglio la sua abitudine adolescenziale di masturbarsi nell'acquario di casa («Perlomeno lui lavora su se stesso!» – Janet Green, nel corso di una recente conversazione telefonica durante la quale ho tentato di farle capire che colossale errore avesse commesso).

«Me lo chiedo in continuazione, cosa succederà ora», dice Kitty. «A volte cerco di immaginarmi come sarà ripensare un giorno a questo momento, e mi faccio domande tipo: dove sarò, quel giorno? Mi sembrerà che questo momento sia stato l'inizio di una vita fantastica oppure... oppure cosa?»

E qual è la definizione di «vita fantastica», nel dizionario di Kitty Jackson?

«Oh, be'...» Risatina. Rossore. Siamo tornati alla carineria, ma a una carineria diversa da quella di prima. Abbiamo avuto uno screzio, e adesso stiamo facendo la pace.

«Fama e fortuna?», la pungolo.

«Un po' sì. Ma anche solo... felicità. Voglio trovare l'amore vero, e pazienza se suona sdolcinato. Voglio avere dei bambini. Ecco perché in questo nuovo film il mio personaggio lega così tanto con la madre in affitto...»

Ma evidentemente i miei sforzi pavloviani per eliminare dal nostro pranzo la componente promozionale hanno avuto successo, e a questo punto Kitty tace. Non faccio in tempo a congratularmi con me stesso per il trionfo, però, che subito la vedo lanciare un'occhiata, di straforo, al suo orologio da polso (Hermès). Che effetto sortisce sul sottoscritto questo gesto? Ebbene, sento rimestarsi in me un volatile miscuglio di rabbia, paura e desiderio; rabbia perché questa ingenuotta detiene, per ragioni palesemente prive di fondamento, più potere sul mondo di quanto io ne avrò mai, e una volta esauriti i miei quaranta minuti nulla, se non dello stalking penalmente perseguibile, potrà far sì che il mio cammino sotterraneo si incontri di nuovo con il suo, elevatissimo; paura perché, avendo anch'io dato un'occhiata al mio orologio (Timex), ho scoperto che trenta di quei quaranta minuti sono passati, e che non ho, per il momento, ancora nessun «fatto» intorno al quale imperniare il mio articolo; desiderio perché il collo di Kitty è davvero lungo, e circondato da una collanina d'oro sottile, quasi trasparente. Le sue spalle, scoperte dall'ampia scollatura del prendisole, sono piccole e abbronzate e delicatissime, come due piccioncini neonati. Ma a dirla così potrebbero sembrare poco attraenti, mentre invece erano straordinariamente attraenti! Con il termine piccioncini intendo dire che erano talmente belle, quelle sue spalle, che per un attimo ho immaginato di separarne tutti gli ossicini e succhiarne via la carne uno a uno.(5)


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5. A coloro che inevitabilmente interpreteranno questa mia fantasia come un'ulteriore dimostrazione del fatto che sono davvero un «imbecille psicopatico», uno «schifoso» o un «maniaco assatanato» (estratti dalla corrispondenza ricevuta in carcere da sconosciuti), posso rispondere soltanto in questo modo: in un giorno di primavera di quasi quattro anni fa, notai una ragazza con le gambe corte e tozze, il busto lungo e stretto e una maglietta rosa a chiazze psichedeliche, che raccoglieva la cacca di un cane con un sacchetto di Duane Reade. Era una di quelle ragazze muscolose che poi si scoprono essere state, alle superiori, nuotatrici o tuffatrici (anche se in seguito venne fuori che non era stata nessuna delle due cose), e il suo cane era uno spelacchiato terrier che sembrava perennemente bagnato, del genere che risulterebbe, anche secondo i parametri più neutrali e oggettivi, impossibile da amare. Ma lei lo amava. «Qui, Whiskers», cinguettava. «Dai, bella». Guardandola, vidi tutto quanto: il piccolo appartamento troppo caldo disseminato di body e scarpette da jogging, la cena ogni due settimane a casa dei genitori, la morbida peluria scura che le cresceva sopra il labbro superiore e che ogni settimana lei schiariva con una crema bianca dall'odore di biscotto. E la sensazione che provai non fu tanto di desiderarla quanto di essere circondato da lei, di ruzzolare dentro la sua vita senza bisogno di muovermi.

«Posso darti una mano?», le chiesi, entrando nella luce del sole dov'erano ferme lei e Whiskers e togliendole delicatamente di mano il sacchetto di Duane Reade pieno di cacca.

Janet sorrise. Fu come veder sventolare una bandiera. «Cos'è, sei pazzo?», disse.

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Chiedo a Kitty che effetto fa essere un sex symbol.

«Non fa nessun effetto», dice lei, annoiata e infastidita. «Fa effetto solo agli altri».

«Agli uomini, intendi».

«Può darsi», dice lei, e una nuova espressione balena sul suo bel viso e vi si posa, uno sguardo che potrei definire soltanto d'improvvisa stanchezza.

Mi sento così anch'io: d'improvviso stanco. Anzi, stanco in generale. «Cristo, è tutto talmente una farsa», dico, in un momento di incontrollata spontaneità privo di qualsiasi fine strategico, del quale quindi mi pentirò senz'altro nel giro di pochi istanti. «Che senso ha stare al gioco?»

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Pagina 255

All'imbrunire, Ted passeggiò lungo via Partenope fino a piazza Vittoria. Brulicava di famiglie, ragazzini che calciavano l'onnipresente pallone, scambiandosi salve di italiano assordante. Ma c'era anche un'altra presenza, nella luce che scemava: i giovani sfaccendati, non pulitissimi e vagamente minacciosi che gironzolavano per quella città in cui la disoccupazione era al 33 per cento, membri di una generazione defraudata che si aggiravano intorno ai palazzi decrepiti dove i loro antenati quattrocenteschi avevano vissuto nello sfarzo, che si bucavano sui gradini di chiese nelle cui cripte quegli stessi antenati ora giacevano, in minuscole bare accatastate come legna da ardere. Ted si teneva alla larga da quei ragazzi, anche se era alto più di uno e novanta e pesava ottantasei chili, e aveva un viso che nello specchio del bagno sembrava piuttosto innocuo, ma che sovente spingeva i colleghi a chiedergli se qualcosa non andasse. Aveva paura che Sasha si trovasse tra quei ragazzi, che fosse lei a scrutarlo nella luce itterica che permeava Napoli quando calava il buio. Dal portafoglio aveva tolto tutto tranne una delle carte di credito e un minimo di contanti. Uscì in fretta dalla piazza alla ricerca di un ristorante.

Sasha era scomparsa due anni prima, a diciassette anni. Scomparsa come il padre, Andy Grady, un esagitato investitore dagli occhi viola che un anno dopo aver divorziato da Beth si era sfilato da un affare malriuscito facendo perdere le sue tracce. Sasha era riaffiorata periodicamente, chiedendo bonifici verso una serie di luoghi remoti, e per due volte Beth e Hammer avevano preso l'aereo ed erano andati lì dove si trovava, nel tentativo vano di intercettarla. Sasha era fuggita da un'adolescenza il cui repertorio di guai comprendeva droga, infiniti arresti per taccheggio, un debole per la compagnia dei musicisti rock (gli aveva raccontato Beth, rassegnata), quattro strizzacervelli, terapia di famiglia, terapia di gruppo e tre tentativi di suicidio, ai quali Ted aveva assistito da lontano, con un orrore che gradualmente aveva finito per associare alla persona stessa di Sasha. Era stata una bambina adorabile, perfino un po' ammaliatrice; così la ricordava da un'estate trascorsa con Beth e Andy nella loro casa sul lago Michigan. In seguito, però, durante i Natali e i giorni del Ringraziamento in cui a Ted era capitato di vederla, Sasha si era trasformata in una presenza torva, e lui aveva fatto in modo che i suoi figli le stessero alla larga, temendo che il suo desiderio di immolarsi li contagiasse in qualche modo. Con Sasha non voleva avere a che fare. La dava per persa.


Il mattino dopo, Ted si alzò presto e prese un taxi per il Museo Nazionale, fresco, pieno di echi, spopolato di turisti benché fosse primavera. Vagò tra i busti polverosi di Adriano e dei vari Cesari, avvertendo un'accelerazione del cuore davanti a tutti quei marmi che rasentavano l'erotico. Percepì la vicinanza dell'Orfeo ed Euridice prima ancora di vederlo, ne sentì il peso fresco dall'estremità opposta della sala, eppure indugiò prima di affrontarlo, ripercorrendo con la mente gli eventi che avevano portato al momento descritto nell'opera: Orfeo ed Euridice innamorati e novelli sposi; Euridice che moriva morsa da un serpente mentre fuggiva per sottrarsi alle insistenze di un pastore; Orfeo che scendeva nell'oltretomba, riempiendone gli umidi cunicoli con la musica della sua lira e cantando la sua disperata nostalgia della moglie; Ade che acconsentiva a liberare Euridice dalla morte, a condizione che durante la risalita Orfeo non si voltasse indietro. E poi lo sventurato istante in cui, temendo di perdere la sposa lungo il cammino buio, Orfeo non sapeva trattenersi e si voltava.

Ted si avvicinò al bassorilievo. Ebbe la sensazione di immergercisi, tanto se ne sentì avvolto e toccato. Raffigurava il momento prima che Euridice scendesse nell'oltretomba per la seconda volta, in cui lei e Orfeo si dicevano addio. A commuovere Ted, a incrinare una qualche delicata cristalleria nel suo petto, era la tranquillità della loro interazione, l'assenza di drammaticità e di lacrime nei loro sguardi, nel loro delicato toccarsi. Intuì tra loro un'intesa troppo profonda per descriverla: l'indicibile consapevolezza che tutto è perduto.

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