Autore Albert Einstein
Titolo Le due relatività
SottotitoloGli articoli originali del 1905 e 1916
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2015, Temi 261 , pag. 94, cop.fle., dim. 11,5x19,5x1,1 cm , Isbn 978-88-339-2713-8
OriginaleZur Elektrodynamik bewegter Körper [1905] - Die Grundlage der allgemeinen Relativitätstheorie [1916]
PrefazioneVincenzo Barone
TraduttoreErmanno Sagittario, Aldo M. Pratelli
LettoreCorrado Leonardo, 2016
Classe fisica , cosmologia












 

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Indice


VII  «Una casa a due piani», di Vincenzo Barone

XXVI Nota editoriale


     Le due relatività


  3  L'elettrodinamica dei corpi in movimento (1905)

 33  I fondamenti della teoria della relatività generale (1916)



 

 

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Pagina VII

«Una casa a due piani»
di Vincenzo Barone



Il 10 dicembre 1915 Einstein scrisse all'amico Michele Besso dicendo di sentirsi «felice, ma un po' distrutto». Ne aveva tutte le ragioni: con un incredibile tour de force era riuscito in poche settimane a completare il suo capolavoro, la relatività generale, universalmente considerata la più bella teoria della fisica. «Chiunque la comprenda non può sfuggire al suo fascino», si era spinto a dire lui stesso, abbandonando la consueta riservatezza, nella prima delle quattro conferenze all'Accademia Prussiana delle Scienze in cui aveva esposto – e in parte costruito, sotto gli occhi dei colleghi – la teoria nella sua forma finale.

La creazione della relatività generale fu un gigantesco sforzo intellettuale, che combinò, in un modo e in una misura che non si sarebbero mai più ripetuti, intuizione fisica, potenza matematica e solidità metodologica. Essa costituì il culmine di un lungo lavoro, cominciato con la formulazione della relatività speciale nel 1905, l' annus mirabilis in cui Einstein, «esperto tecnico di terza classe» all'Ufficio Brevetti di Berna, aveva sconvolto la fisica, concependo anche la teoria dei quanti di luce (tappa decisiva per lo sviluppo della meccanica quantistica) e la teoria dei moti molecolari (che contribuì alla definitiva affermazione dell'atomismo).

Einstein paragonò una volta la teoria della relatività a una «casa a due piani»: il piano inferiore è rappresentato dalla relatività speciale, il piano superiore dalla relatività generale. Entrambe sono «teorie di princìpi», strutturate analiticamente a partire da pochi enunciati universali, da cui vengono dedotte leggi valide nei vari casi particolari. Erano queste le teorie che Einstein prediligeva, perché corrispondevano pienamente al suo ideale di semplicità logica e di unità concettuale. «Il fine della scienza – scrisse nel 1948 – è, da una parte, la comprensione più completa possibile della connessione fra le esperienze sensoriali nella loro totalità e, dall'altra, il raggiungimento di questo fine mediante l'uso di un numero minimo di concetti e di relazioni primarie». L'edificio relativistico, armonioso e solido, rappresentò la realizzazione concreta di questo programma.

Le due relatività non nacquero con l'intento di rivoluzionare la scienza e il pensiero, ma finirono per farlo. Muovendo da un problema apparentemente limitato – la relazione esistente tra le descrizioni dei fenomeni fisici effettuate da osservatori diversi – portarono a un radicale ripensamento della realtà. Orologi che rallentano, masse che si dissolvono, energie che si materializzano, spazi che si deformano, luci che si incurvano: il mondo relativistico è pieno di strabilianti sorprese, che sfidano il senso comune e compongono una nuova e affascinante visione dell'universo, sostenuta da un'enorme mole di evidenze empiriche e ricca di implicazioni filosofiche. Non è un'esagerazione dire che, dopo Einstein, niente di ciò che ci circonda può essere guardato con gli stessi occhi di prima.


Il piano inferiore della casa relativistica – la relatività speciale – fu eretto nel 1905 e presentato in un lavoro dal titolo L'elettrodinamica dei corpi in movimento, apparso il 26 settembre di quell'anno sulla rivista tedesca «Annalen der Physik», una delle più prestigiose dell'epoca (cfr. oltre, pp. 3-32).

Non succede in genere che un articolo scientifico possa essere letto facilmente molto tempo dopo la sua comparsa: anche se i risultati che contiene sono ancora validi, lo stile e le argomentazioni diventano inevitabilmente obsoleti, e ciò rende ardua, se non proibitiva, la lettura ad anni di distanza. La memoria einsteiniana del 1905 costituisce un'eccezione: è leggibile oggi come centodieci anni fa. La relatività speciale è tuttora insegnata e studiata lungo le linee tracciate in quelle pagine. A chi abbia voglia di scoprirla, dunque, è riservata la rara fortuna di poterlo fare attraverso la pubblicazione originale.

Ricordando la propria infanzia, Einstein raccontava di essere rimasto impressionato dal misterioso comportamento dell'ago magnetico di una bussola che gli era stata regalata dal padre quando aveva quattro o cinque anni. L'articolo del 1905 si apre proprio con l'esempio di un magnete, visto da due osservatori diversi. Accanto al magnete c'è un circuito elettrico, e i due oggetti si muovono l'uno rispetto all'altro. Un osservatore per il quale il magnete sia fermo e il circuito in movimento descrive la situazione diversamente da un altro osservatore per il quale il circuito sia fermo e il magnete in movimento: per il primo la corrente che si genera nel circuito è dovuta a una forza magnetica, per il secondo è dovuta a una forza elettromotrice indotta. Ma le due situazioni – nota Einstein – sono empiricamente (e quindi fisicamente) equivalenti, perché la corrente è la stessa in entrambi i casi. Questa «asimmetria» tra le due descrizioni, che trae origine dall'elettrodinamica «così come essa è oggi comunemente intesa», è per Einstein inammissibile e va eliminata. Ecco il problema, di natura concettuale, che egli intende risolvere.

I fisici di fine Ottocento ritenevano che i campi elettromagnetici fossero perturbazioni di un mezzo sottilissimo e diffuso in tutto lo spazio, chiamato etere, di cui si ignorava la natura precisa. Era convinzione comune che le leggi dell'elettromagnetismo, nella forma data loro da James Clerk Maxwell, fossero valide solo per gli osservatori a riposo rispetto all'etere. Dopo aver cercato da adolescente il modo di evidenziare il moto dei corpi nell'etere, negli anni universitari Einstein si convinse dell'inutilità teorica e dell'inesistenza di questa misteriosa entità. L'etere rappresentava un sistema di riferimento privilegiato, rispetto al quale il moto e la quiete avevano un carattere assoluto. Era questo che Einstein non poteva accettare. Esempi come quello del magnete e del circuito, scrive, indicano che «i fenomeni elettrodinamici, al pari di quelli meccanici, non possiedono proprietà corrispondenti all'idea di quiete assoluta. Essi suggeriscono piuttosto che [...] per tutti i sistemi di riferimento per i quali valgono le equazioni della meccanica varranno anche le stesse leggi elettrodinamiche e ottiche. Eleveremo questa congettura (il contenuto della quale verrà detto [...] "principio di relatività") al rango di postulato» (cfr. oltre, pp. 3-4).

È difficile sopravvalutare l'importanza di questo passaggio, che rappresenta un vero momento di svolta nella storia del pensiero scientifico. Per la prima volta si afferma l'esistenza di princìpi che si collocano al di sopra delle leggi di natura, e a cui le leggi devono obbedire (così come i fenomeni naturali obbediscono alle leggi). Il principio di relatività prescrive che le leggi della fisica debbano avere la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento (cioè per tutti gli osservatori). Si tratta, per usare la terminologia attuale, di un principio di simmetria, che afferma l'invarianza delle leggi fisiche rispetto a una certa classe di trasformazioni – nel caso in questione, le trasformazioni del sistema di riferimento. Nella forma che Einstein dà inizialmente a questo principio, i sistemi di riferimento cui esso si applica sono soltanto i sistemi inerziali, quelli in moto rettilineo uniforme l'uno rispetto all'altro: per questo motivo la relatività del 1905 è chiamata «speciale» (o «ristretta»).

La teoria einsteiniana, oltre che sul principio di relatività, si basa su un secondo asserto fondamentale, il postulato della costanza della velocità della luce, secondo cui la velocità della luce nel vuoto (una quantità indicata generalmente con c, che vale circa 300 000 chilometri al secondo) è la stessa in tutti i sistemi di riferimento inerziali, indipendentemente dal moto dell'osservatore e della sorgente. Questo postulato contrasta palesemente con l'esperienza comune, la quale sembra indicare che tutte le velocità dipendono dall'osservatore, e si addizionano e sottraggono secondo semplici regole. Supponiamo, per esempio, che a bordo di un treno che viaggia a 100 chilometri all'ora, un passeggero spari, nel verso di marcia, un proiettile, alla velocità di 300 chilometri all'ora rispetto al treno. Per un osservatore fermo lungo i binari la velocità del proiettile sarà di 400 chilometri all'ora, perché alla velocità del proiettile rispetto al treno bisognerà sommare la velocità del treno rispetto all'osservatore. Immaginiamo ora che il passeggero, invece che su un treno, si trovi su un'astronave, in viaggio alla velocità di 100 000 chilometri al secondo, e che emetta nella direzione di marcia un raggio di luce, la cui velocità è di 300 000 chilometri al secondo. La velocità del raggio di luce rispetto a un osservatore fermo ai bordi dello spazio interplanetario non è, come potremmo pensare in base al ragionamento precedente, di 400 000 chilometri al secondo (sommando la velocità del raggio rispetto all'astronave e quella dell'astronave rispetto allo spazio esterno), ma ancora e sempre di 300 000 chilometri al secondo: per il secondo postulato della relatività, infatti, la velocità della luce è la stessa per l'osservatore a bordo dell'astronave e per quello fermo nello spazio. Nella sua autobiografia scientifica Einstein racconta di aver intuito la natura peculiare della velocità della luce a sedici anni, quando si era reso conto che, sulla base della tradizionale legge di composizione delle velocità, se si potesse inseguire un raggio di luce alla sua stessa velocità, il raggio apparirebbe fermo (come avviene quando due auto, viaggiando alla stessa velocità, si affiancano in autostrada), il che però non è consentito dalle leggi elettromagnetiche. La velocità della luce nel vuoto è quindi una velocità speciale e non si addiziona semplicemente alle altre velocità.

Oltre a essere invariante, la velocità della luce nel vuoto è una velocità limite: nessun oggetto e nessun segnale possono superarla.

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Pagina 3

L'elettrodinamica dei corpi in movimento
(1905)



È noto che l'elettrodinamica di Maxwell – così come essa è oggi comunemente intesa – conduce, nelle sue applicazioni a corpi in movimento, ad asimmetrie che non sembrano conformi ai fenomeni. Si pensi ad esempio alle interazioni elettrodinamiche tra un magnete e un conduttore. Laddove la concezione usuale contempla due casi nettamente distinti, a seconda di quale dei due corpi sia in movimento, il fenomeno osservabile dipende, in questo caso, solo dal moto relativo di magnete e conduttore. Infatti, se si muove il magnete e rimane stazionario il conduttore, si produce, nell'intorno del magnete, un campo elettrico con una ben determinata energia, il quale genera una corrente nei luoghi ove si trovano parti del conduttore. Se viceversa il magnete resta stazionario e si muove il conduttore, non nasce, nell'intorno del magnete, alcun campo elettrico; tuttavia si osserva, nel conduttore, una forza elettromotrice, alla quale non corrisponde, di per sé, un'energia, ma che – supponendo che il moto relativo sia lo stesso nei due casi – genera correnti elettriche della stessa intensità di quelle prodotte dalle forze elettriche nel caso precedente, e che hanno lo stesso percorso.

Esempi come questo, come pure i tentativi falliti di individuare un qualche movimento della Terra relativamente al «mezzo luminifero» suggeriscono che i fenomeni elettrodinamici, al pari di quelli meccanici, non possiedono proprietà corrispondenti all'idea di quiete assoluta. Essi suggeriscono piuttosto che, come già è stato mostrato in un'approssimazione al primo ordine, per tutti i sistemi di coordinate per i quali valgono le equazioni della meccanica varranno anche le stesse leggi elettrodinamiche e ottiche. Eleveremo questa congettura (il contenuto della quale verrà detto, in quanto segue, «principio di relatività») al rango di postulato; supporremo inoltre – un postulato, questo, solo apparentemente incompatibile col precedente – che la luce, nello spazio vuoto, si propaghi sempre con una velocità determinata, c, che non dipende dallo stato di moto del corpo che la emette. Questi due postulati bastano per giungere a una teoria elettrodinamica dei corpi in movimento, semplice e coerente, fondata sulla teoria di Maxwell per i corpi stazionari. L'introduzione di un «etere luminifero» si manifesterà superflua, tanto più che la concezione che qui illustreremo non avrà bisogno di uno «spazio assolutamente stazionario» corredato di particolari proprietà, né di un vettore velocità assegnato a un punto dello spazio vuoto nel quale abbiano luogo processi elettromagnetici.

La nostra teoria si basa – come tutta l'elettrodinamica – sulla cinematica del corpo rigido: infatti gli enunciati di una qualsiasi teoria di questo tipo riguardano i rapporti fra corpi rigidi (sistemi di coordinate), orologi e processi elettromagnetici. La non sufficiente considerazione di questa circostanza è la radice delle difficoltà con le quali si scontra, oggi, l'elettrodinamica dei corpi in moto.

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Pagina 33

I fondamenti della teoria della relatività generale
(1916)



La teoria della quale tratto nella presente memoria rappresenta la massima generalizzazione immaginabile della teoria che oggi prende ordinariamente il nome di «teoria della relatività»; nel seguito chiamo quest'ultima, per distinguerla da quella che ora espongo, «teoria della relatività ristretta», e suppongo che sia conosciuta. La generalizzazione della teoria della relatività è stata molto facilitata dalla forma data alla teoria della relatività ristretta da Minkowski, il matematico che per primo ha compreso chiaramente l'equivalenza formale tra le coordinate spaziali e la coordinata temporale, rendendola applicabile alla teoria. I mezzi matematici necessari per la teoria della relatività generale erano già pronti nel «calcolo differenziale assoluto», il quale si basa sulle ricerche di Gauss, Riemann e Christoffel sulle varietà non euclidee, ed è stato eretto a sistema da Ricci e Levi-Civita e da essi applicato a problemi della fisica teorica.

Nella seconda parte della presente memoria esporrò tutti i procedimenti matematici che ci è necessario aver sotto gli occhi, e che non si può presupporre sian noti al fisico, cercando di sviluppare lo strumento matematico nella maniera il più possibile semplice e trasparente, in modo che non sia necessario uno studio della letteratura matematica per comprendere le pagine che seguono.

Da ultimo debbo esser grato all'amico Marcel Grossmann, che con la sua assistenza di matematico non solo mi ha risparmiato lo studio della letteratura matematica sull'argomento, ma mi ha altresì aiutato nella ricerca delle equazioni del campo gravitazionale.




A. CONSIDERAZIONI FONDAMENTALI SUL POSTULATO DI RELATIVITÀ



1. Osservazioni sulla teoria della relatività ristretta

La teoria della relatività ristretta è fondata sul seguente postulato, al quale soddisfa anche la meccanica di Galilei e di Newton: se un sistema di coordinate è scelto in modo tale che le leggi fisiche siano soddisfatte nella loro forma più semplice, le stesse leggi debbono essere soddisfatte se riferite ad ogni altro sistema di coordinate K' che si muova di moto traslatorio rettilineo uniforme rispetto al sistema K. A questo postulato diamo il nome di «principio di relatività ristretta». La parola «ristretta» è usata per significare che il principio vale nel caso in cui il sistema K' si muova di moto traslatorio rettilineo uniforme rispetto al sistema K, mentre l'equivalenza tra K' e K non si estende al caso di moto non uniforme di K' rispetto a K.

Cosicché la teoria della relatività ristretta si differenzia dalla meccanica classica non a causa del postulato della relatività, ma a motivo del postulato secondo cui è costante la velocità della luce nel vuoto. Da quest'ultimo postulato, oltre che dal postulato di relatività ristretta, seguono, nel modo ben noto, la relatività di simultaneità, la trasformazione di Lorentz, e le leggi connesse sul comportamento dei corpi rigidi e degli orologi in movimento.

La modificazione alla quale la teoria della relatività ristretta ha assoggettato la concezione dello spazio e del tempo è invero di vasta portata, ma un punto importante non è ancora stato sviscerato. Infatti le leggi della geometria, anche secondo la teoria della relatività ristretta, debbono venir interpretate direttamente come leggi che si riferiscono alle possibili posizioni relative ai corpi rigidi a riposo, e, più in generale, le leggi della cinematica debbono venir interpretate come leggi che descrivono le relazioni tra i campioni di lunghezza e gli orologi. A due prefissati punti materiali di un corpo rigido fisso corrisponde sempre una distanza che ha un valore ben definito, valore che non dipende dal luogo in cui si trova il corpo né dall'orientamento e che non dipende nemmeno dal tempo.

Vedremo tra poco che la teoria della relatività generale non può rimaner fedele a questa semplice interpretazione fisica dello spazio e del tempo.




2. Ragioni che esigono un'estensione del postulato di relatività

Nella meccanica classica vi è un innato difetto epistemologico, che fu chiaramente precisato (forse per la prima volta) da Mach, e che si ripercuote anche nella teoria della relatività ristretta. Lo illustreremo col seguente esempio. Supponiamo che due corpi fluidi, S1 ed S2, della stessa grandezza e della stessa natura fisica, stiano volteggiando liberamente nello spazio, a distanza così grande l'uno dall'altro e da tutte le altre masse che le sole forze gravitazionali di cui abbia significato tener conto siano quelle che sorgono dall'interazione delle differenti parti dello stesso corpo. Supponiamo che la distanza tra le due masse fluide sia invariabile, e che in nessuna delle due masse abbia luogo qualche movimento relativo di una parte rispetto a un'altra. Ma ogni massa, rispetto a un osservatore solidale con l'altra massa, ruoti con la velocità angolare costante attorno alla retta che congiunge le masse. Questo è un moto relativo controllabile dei due corpi. Ora immaginiamo che ciascuno dei due corpi sia stato misurato a mezzo di regoli campione fissi rispetto al corpo stesso, e supponiamo che la superficie di S1 sia una sfera, e quella di S2 un ellissoide di rivoluzione.

In seguito a ciò formuliamo il quesito: qual è la ragione di tale diversità tra i due corpi? Nessuna ragione può venir accettata come epistemologicamente soddisfacente, tranne quella che asserisca che la ragione data come causa sia un fatto sperimentale e osservabile. La legge di causalità ha il significato di una affermazione aderente al mondo dell'esperienza solo quando fatti osservabili appaiono, alla fine, come causa ed effetto.

La meccanica newtoniana non dà una risposta soddisfacente a questa domanda. Essa afferma che le leggi della meccanica si applicano allo spazio R1, rispetto al quale il corpo S1 è a riposo, ma non allo spazio R2, rispetto al quale è a riposo il corpo S2. Sennonché lo spazio privilegiato R1 di Galilei, così introdotto, è una causa puramente fittizia, e non un fatto osservabile. È quindi chiaro che la meccanica di Newton non soddisfa realmente l'esigenza della causalità nel caso in esame, ma solo apparentemente, in quanto rende la causa fittizia R1 responsabile del diverso comportamento dei corpi S1 ed S2, che può venir costatato mediante l'osservazione.

La sola risposta soddisfacente alla domanda formulata sopra non può avere che la forma seguente: il sistema fisico costituito da S1 ed S2 non rivela in sé stesso alcuna causa alla quale possa farsi risalire il diverso comportamento di S1 ed S2. La causa deve quindi risiedere al di fuori di questo sistema. Si arriva a suppore che le leggi generali del moto, che in particolare determinano le forme di S1 ed S2, debbano esser tali che il comportamento meccanico di S1 ed S2 sia determinato, in modo del tutto essenziale, da masse distanti che noi non abbiamo incluso nel sistema considerato.

Queste masse distanti (e i loro movimenti relativamente ad S1 ed S2) debbono allora venir riguardate come la causa principale, osservabile, del diverso comportamento dei nostri due corpi S1 ed S2; esse assumono il ruolo della causa fittizia R1. Di tutti gli spazi immaginabili R1, R2 ecc., comunque in moto relativo gli uni rispetto agli altri, non ve ne è alcuno che si possa considerare come privilegiato a priori senza far risorgere l'obiezione epistemologica sopra citata. Le leggi della fisica debbono essere di natura tale che le si possa applicare a sistemi di riferimento comunque in moto. Seguendo questa via giungiamo a una generalizzazione della teoria della relatività.

In aggiunta a questo argomento, di notevole peso per la teoria della conoscenza, vi è un ben noto fatto fisico che favorisce la generalizzazione della teoria della relatività. Sia K un sistema di riferimento galileiano, vale a dire un sistema rispetto al quale (almeno nella regione quadridimensionale in esame) una massa, sufficientemente distante dalle altre masse, si muova di moto rettilineo uniforme. Sia K' un secondo sistema di riferimento che si muove, rispetto a K, di moto relativo traslatorio uniformemente accelerato. Allora, relativamente a K', una massa sufficientemente distante dalle altre avrà un moto accelerato tale che la sua accelerazione e la direzione di questa siano indipendenti dalla natura materiale e dallo stato fisico della massa. Un osservatore a riposo rispetto a K' può concludere che egli si trova su un sistema di riferimento «realmente» accelerato? La risposta è negativa; infatti la relazione sopracitata delle masse liberamente mobili rispetto a K' può essere interpretata ugualmente bene nel seguente modo. Il sistema di riferimento K' non è accelerato, ma la regione spazio-temporale in questione subisce l'influenza di un campo gravitazionale, il quale genera il moto accelerato dei corpi rispetto a K'.

Questo punto di vista ci è reso possibile in quanto l'esperienza ci insegna che esiste un campo di forza, il campo gravitazionale, che gode della notevole proprietà di imprimere la medesima accelerazione a tutti i corpi. Il comportamento meccanico dei corpi rispetto a K' è lo stesso che si osserva in presenza di sistemi che siamo soliti considerare «a riposo» oppure «privilegiati». Quindi, dal punto di vista fisico, l'ipotesi suggerisce prontamente essa stessa che i sistemi K e K' possono entrambi, con ugual diritto, essere considerati «a riposo», vale a dire hanno ugual diritto di venir scelti quali sistemi di riferimento per la descrizione dei fenomeni fisici.

Si vede da queste considerazioni che nell'istituire la teoria della relatività generale saremo condotti a una teoria della gravitazione, in quanto siamo capaci di «produrre» un campo gravitazionale semplicemente cambiando il sistema delle coordinate. Si vede altresì che il principio della costanza della velocità della luce nel vuoto deve venir modificato, in quanto si costata facilmente che la traiettoria di un raggio di luce rispetto a K' deve essere in generale curvilinea, se rispetto a K la luce si propaga lungo una linea retta con determinata velocità costante.




3. Il continuo spazio-temporale. Esigenza della covarianza generale per le equazioni che esprimono le leggi generali della natura

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