Copertina
Autore Albert Einstein
Titolo Opere scelte
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2004 [1988], Pantheon , pag. 794, cop.ril.sov., dim. 130x205x40 mm , Isbn 978-88-339-0442-9
CuratoreEnrico Bellone
TraduttoreF. Bertotti, L. Bianchi, S. Candreva, A. Gamba, V. Geymonat, G. Longo, A.M. Pratelli, C. Rozzoni, E. Sagittario, G. Scattone
LettoreRenato di Stefano, 2005
Classe fisica , storia della scienza
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Indice

    Introduzione, di Enrico Bellone                       11

    Avvertenza editoriale                                 47

    Titoli originali e fonti                              51


    ALBERT EINSTEIN   OPERE SCELTE


    PARTE PRIMA    L'ITINERARIO INTELLETTUALE

    Autobiografia scientifica (1949)                      61


    PARTE SECONDA    LA RICERCA

 1. La teoria molecolare generale del calore (1904)      109

 2. Un punto di vista euristico relativo alla generazione
    e alla trasformazione della luce (1905)              118

 3. Il moto delle particelle in sospensione
    nei fluidi in quiete, come previsto dalla teoria
    cinetico-molecolare del calore (1905)                136

 4. L'elettrodinamica dei corpi in movimento (1905)      148

 5. L'inerzia di un corpo dipende dal suo contenuto
    di energia? (1905)                                   178

 6. La teoria della generazione e dell'assorbimento
    della luce (1906)                                    181

 7. La teoria planckiana della radiazione e la teoria
    dei calori specifici (1907)                          189

 8. Lo stato attuale del problema della radiazione (1909)201

 9. L'effetto della gravitazione sulla propagazione
    della luce (1911)                                    221

10. Lo stato attuale del problema dei calori
    specifici (1911)                                     233

11. I fondamenti della teoria della relatività
    generale (1916)                                      282

12. La teoria quantica della radiazione (1917)           344

13. Considerazioni cosmologiche sulla teoria della
    relatività generale (1917)                           361

14. La descrizione quantica della realtà può essere
    considerata completa? (1935),
    con Boris Podolsky e Nathan Rosen                    374

15. La deflessione della luce nel campo gravitazionale
    di una stella fa agire quest'ultima come una lente
    (1936)                                               383


    PARTE TERZA    LA DIVULGAZIONE

    Relatività: esposizione divulgativa (1917/1950)      389

    Appendici

    1. Derivazione elementare della trasformazione
       di Lorentz (1918), 468
    2. L'universo quadridimensionale di Minkowski (1918),473
    3. Conferma della teoria della relatività generale
       da parte dell'esperienza (1920/1950), 475
    4. La struttura dello spazio secondo la
       teoria della relatività generale (1950), 484
    5. La relatività e il problema dello spazio (1950), 486


    PARTE QUARTA    LA CONOSCENZA FISICA

 1. L'etere e la teoria della relatività (1920)          507

 2. Idee e problemi fondamentali della teoria della
    relatività (1923)                                    517

 3. Fisica e realtà (1936)                               528

 4. I fondamenti della fisica teorica (1940)             564

 5. Il linguaggio comune della scienza (1941)            577

 6. Tempo, spazio e gravitazione (1948)                  580

 7. La teoria della relatività (1949)                    585


    PARTE QUINTA    POLITICA E SOCIETÀ

 1. Perché la guerra? (1933)                             595

 2. Lettera al presidente F. D. Roosevelt (1939)         599

 3. Pensieri degli anni difficili (1933-50)              601
    1.  Scienza e civiltà (1933), 601
    2.  Le scuole e il problema della pace (1934), 604
    3.  A proposito del servizio militare (1934), 606
    4.  Scienza e società (1935), 608
    5.  A una riunione per la libertà d'opinione (1936), 610
    6.  Sull'educazione (1936), 612
    7.  Decadenza morale (1937), 618
    8.  Morale ed emozioni (1938), 619
    9.  Il nostro debito verso il sionismo (1938), 624
    10. Perché odiano gli ebrei? (1938), 626
    11. Dieci anni fatali (1939), 634
    12. Scienza e religione (1939), 637
    13. Guerra atomica o pace (1945), 640
    14. Verso un governo mondiale (1946), 645
    15. 11 problema negro (1946), 647
    16. Mentalità militarista e intrusione militare
        nella scienza (1947), 649
    17. Risposta agli scienziati sovietici (1948), 651
    18. Perché il socialismo? (1949), 658
    19. Le leggi della scienza e quelle dell'etica
        (1950), 666


    PARTE SESTA   LETTERE

 1. A Michele Besso (1909-1954)                          671

 2. A Max Born (1926-1954)                               708

 3. A Maurice Solovine (1930-1952)                       731

    Cronologia di Albert Einstein                        745
    Bibliografia di Albert Einstein                      757
    Indice dei nomi                                      789

 

 

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Pagina 11

Introduzione



    La natura è straordinariamente semplice e conforme a sé
    stessa. Ogni ragionamento che vale per i moti più grandi,
    dovrebbe essere altrettanto valido per i moti minori. I primi
    dipendono dalle più grandi forze attrattive dei corpi maggiori,
    e io sospetto che i secondi dipendano dalle forze minori,
    ancora non rilevate, di particelle non osservabili.

    Isaac Newton, «Conclusio», manoscritto per i Principia.



1. «Una teoria veramente razionale dovrebbe dedurre le particelle elementari (elettroni ecc.), non porle in partenza.» Questa osservazione di Albert Einstein, nel poscritto a una lettera indirizzata all'amico Michele Besso nell'agosto del 1952, illumina un aspetto importante della filosofia personale del grande fisico. Altrettanto importante, in quella filosofia, era poi l'idea che il realismo fosse un necessario presupposto per la conoscenza: una conoscenza che, per mezzo di teorie razionali, fosse capace di esplorare il mondo reale, ovvero il mondo che esiste indipendentemente dalle nostre credenze e sensazioni.

Chi nella ricerca scientifica vede una semplice tecnica di lavoro, motivata, sorretta e guidata dalla filosofia, può essere indotto a pensare che, per la comprensione degli aspetti salienti della produzione scientifica di un Einstein o di un Galilei, occorra innanzitutto esaminare a fondo le loro filosofie personali. La comprensione, in un caso dei problemi connessi al calcolo tensoriale o all'elettrodinamica, e, nell'altro caso, di quelli inerenti all'osservazione telescopica di una nebulosa o alle misure di intervalli di tempo nei moti lungo piani inclinati, sarebbe relegata in un mondo di tecniche di per sé stesse aride e non direttamente produttrici di conoscenza (essendo allora, la conoscenza, un'attività che dovrebbe situarsi altrove rispetto al funzionamento di una lente o all'uso di un tensore). Non sarebbe difficile, allora, tentare di individuare alcuni tratti comuni tra le filosofie personali di Galilei e di Einstein, così da giustificare in qualche modo la circostanza per cui Einstein fu uno scienziato così «classico» da restare, spesso, isolato nella comunità dei fisici della prima metà del Novecento. Basterebbe, ad esempio, rileggere la prima lettera sulle macchie solari che Galilei scrisse nel maggio del 1612. Troveremmo due tesi esposte con chiarezza e precisione. La prima dichiara che lo scienziato non deve illudersi di poter sottomettere la natura con la sola forza delle opinioni: «I nomi e gl'attributi si devono accomodare all'essenza delle cose, e non l'essenza a i nomi; perché prima furon le cose, e poi i nomi.» La seconda dice che lo scienziato non deve limitarsi a «salvar in qualunque modo l'apparenze», ma deve «investigare come problema massimo, e ammirando, la vera constituzione dell'universo, poi che tal constituzione è, ed è in un modo solo, vera, reale, ed impossibile ad esser altramente». Due tesi che il padre della relatività avrebbe sicuramente condiviso.

Ora, se è importante ricostruire le opinioni filosofiche di Galilei e di Einstein, occorre comunque aver chiaro che tali opinioni, pur riguardando tematiche comuni e pur avendo influito nell'evoluzione della cultura in determinate epoche, non sono le cause o le radici della scienza di Galilei o di Einstein. Le idee galileiane sulla ragione o sul mondo reale non furono le matrici metafisiche delle scoperte sui satelliti di Giove o sul principio di inerzia, né il punto di vista einsteiniano sulla razionalità o sulla «realtà fisica» determinò la scoperta del quanto di luce o della natura del campo gravitazionale. Con ciò non si dice che quelle filosofie personali fossero prive di rapporti con il lavoro di ricerca; si dice, al contrario, che proprio l'attività di ricerca genera problematiche filosofiche, e che una vera comprensione di queste non può darsi senza lo studio approfondito della scienza che ne è all'origine.

Lo stesso Einstein, che nel 1949 sostiene la necessità di un «rapporto reciproco fra epistemologia e scienza» – un contatto in assenza del quale la prima è destinata a isterilirsi, diventando «uno schema vuoto», mentre la seconda, «se pure si può concepirla, è primitiva e informe» – mette in guardia dal rischio, per lo scienziato, di legarsi le mani con questo o quel sistema filosofico, dovendo egli anzitutto rispettare «le condizioni esterne (...) date dai fatti dell'esperienza». Quel che segue esprime la consapevolezza di una diversità per la quale occorre, talvolta, pagare un prezzo:


"È inevitabile che all'epistemologo sistematico egli [lo scienziato] appaia come una specie di opportunista senza scrupoli: che gli appaia come un realista, poiché cerca di descrivere il mondo indipendentemente dagli atti della percezione; come un idealista, poiché considera i concetti e le teorie come libere invenzioni dello spirito umano (non deducibili logicamente dal dato empirico); come un positivista, poiché ritiene che i suoi concetti e le sue teorie siano giustificati soltanto nella misura in cui forniscono una rappresentazione logica delle relazioni fra le esperienze sensoriali. Può addirittura sembrargli un platonico o un pitagoreo, in quanto considera il criterio della semplicità logica come strumento indispensabile ed efficace per la sua ricerca."


In riferimento a questa problematica, mi è parso importante inserire nella presente raccolta un certo numero di scritti in cui Einstein espresse le sue opinioni in campo filosofico; scritti utili, a mio avviso, per individuare alcuni punti fermi della sua riflessione e aver più chiaro, di conseguenza, il perché della sua propensione per il realismo e il razionalismo, o della causticità di certi suoi giudizi su pensatori anche importanti, quali Bergson («che Dio lo perdoni!») o Mach («bravo in meccanica, ma debole in filosofia»).

A questo proposito vale la pena di ritornare per un attimo al sopracitato intervento del 1949. Ai suoi critici che insistevano sulla possibilità che l'«enigma» della doppia natura, ondulatoria e corpuscolare, della luce trovasse soluzione nell'ambito della teoria quantica, Einstein rispondeva con due argomenti. Da un lato riconosceva il successo della teoria quantica: «Le relazioni formali contenute in questa teoria – cioè il suo intero formalismo matematico – dovranno probabilmente essere contenute, sotto forma di deduzioni logiche, in ogni teoria non inutile del futuro.» Dall'altro esprimeva un'insoddisfazione «di principio» per l'incapacità della teoria stessa di fornire «la descrizione completa di ogni situazione reale (individuale) che si suppone possa esistere indipendentemente da ogni atto di osservazione o di verifica». Tutto dipendeva, a suo dire, dalla possibilità di postulare come «reale» ciò che non è osservabile: una possibilità che «il fisico moderno dalle simpatie positivistiche» negava con «un sorriso di compatimento». «Quello che non mi piace, in questo tipo di ragionamento – era l'asciutto commento di Einstein — è l'atteggiamento positivistico di fondo, che dal mio punto di vista è insostenibile e che, a mio parere, si riduce ad essere la stessa cosa del principio di Berkeley: esse est percipi.»

[...]

Il rapporto quanti/campo, dunque, era una costante per Einstein, ma si trattava di una costante nel senso professionale del termine, nello schema di un programma di fisica teorica che ambiva a ricondurre le leggi della meccanica quantica a conseguenze matematiche di una teoria unitaria dei campi. Non diversamente si erano comportati Newton, nel tentativo di unificare la fisica di Galilei e l'astronomia teorica di Keplero, o Faraday, che intendeva ricondurre l'intera fenomenologia osservabile in natura a una sola teoria, o Maxwell, che unificò ottica, elettricità e magnetismo. E l'Einstein che, nel profilo autobiografico del 1949 o nello scritto del 1953 sulla generalizzazione della teoria della gravità, ancora insiste sul tema dell'unificazione, è un Einstein che può solo essere capito in quanto membro di quel gruppo ristretto di «filosofi naturali» che aveva, prima, compreso uomini come Galilei, Newton, Faraday e Maxwell.

Quando oggi diciamo che il progresso della conoscenza ha grandi debiti nei confronti di questi filosofi naturali, diciamo soprattutto che questi debiti si stimano sulla base di controlli che solo oggi siamo in grado di fare sulle loro opere, grazie a ciò che di vero in esse individuiamo mediante gli apparati conoscitivi che da esse sono sorti. Non conosco modo migliore di illustrare questa circostanza di quello che Einstein espose a Solovine in una lettera del marzo 1952:


"Ciò che ci dovremmo aspettare, a priori, è un mondo caotico del tutto inaccessibile al pensiero. Ci si potrebbe (di più, ci si dovrebbe) aspettare che il mondo sia governato da leggi soltanto nella misura in cui interveniamo con la nostra intelligenza ordinatrice: sarebbe un ordine simile a quello alfabetico, del dizionario, laddove il tipo d'ordine creato ad esempio dalla teoria della gravitazione di Newton ha tutt'altro carattere. Anche se gli assiomi della teoria sono imposti dall'uomo, il successo di una tale costruzione presuppone un alto grado d'ordine del mondo oggettivo, e cioè un qualcosa che, a priori, non si è per nulla autorizzati ad attendersi. È questo il «miracolo» che vieppiù si rafforza con lo sviluppo delle nostre conoscenze."


Alla ricerca di quell'«alto grado d'ordine del mondo oggettivo», che solo la luce della ragione matematica doveva svelare, Einstein lavorò negli ultimi anni della sua vita. Di quel lavoro sono testimonianza una serie di memorie sulla teoria generalizzata della gravitazione e sul campo non simmetrico – temi che ritroviamo, ad esempio, nelle appendici incluse nelle più tarde edizioni del volume che raccoglie il testo delle famose conferenze tenute a Princeton nel 1921 — come pure un gioiello di poche righe scritte nel 1936 per illustrare l'effetto di «lente gravitazionale» delle stelle.


7. Nel marzo del 1933, subito dopo l'ascesa al potere del partito nazionalsocialista, l'abitazione di Einstein a Caputh, sospetta di essere un centro di sovversione bolscevica, veniva perquisita dalle camicie brune, alla ricerca di armi e materiali di propaganda. L'episodio, trascurabile di fronte all'apocalisse che di lì a pochi anni si sarebbe scatenata, merita tuttavia di essere ricordato per il suo carattere esemplare. Gli autori della persecuzione antisemita che portò all'allontanamento dalle università e dai centri di ricerca tedeschi dei più bei nomi della scienza e della cultura del Novecento, coloro che si illudevano di esorcizzare nei roghi di libri la forza delle idee e liquidavano come «fisica giudaica e bolscevica» la teoria relativistica, non avevano torto a vedere in Einstein un nemico naturale. Quell'ideale di obiettività scientifica da lui strenuamente perseguito come l'anima della ricerca, non poteva darsi, infatti, senza libertà di giudizio e spirito di tolleranza: virtù di una cultura laica e pluralista che, agli occhi del regime, costituiva il più pericoloso fattore di disgregazione della compagine sociale. Eloquente, in tal senso, è l'annuncio di un programma di «normalizzazione» della scienza rivolto da Hitler agli accademici tedeschi:


"Quella che viene chiamata «crisi della scienza» non è altro che il fatto che quei signori [gli scienziati] si sono accorti da soli che con la loro obiettività e autonomia erano andati fuori strada. La semplice domanda che precede ogni impresa scientifica è: chi è che vuole sapere qualche cosa, chi vuole orientarsi nel mondo che lo circonda? Segue necessariamente che ci può essere soltanto la scienza di un certo tipo di umanità, e di un'età particolare. C'è molto verosimilmente una scienza nordica, una scienza nazionalsocialista, dico, destinata a opporsi alla scienza liberal-sionista che, infatti, non adempie la sua funzione in nessun luogo, ma è ormai sulla strada dell'autoannientamento."


Nessuna follia, dunque, nel progetto politico-culturale nazionalsocialista, ma lucida attuazione di un disegno, che Einstein, in parte, aveva previsto: nell'autunno del 1933 egli avrebbe scelto definitivamente la via dell'esilio dorato di Princeton, accettando l'offerta di una cattedra di fisica teorica presso l'Institute for Advanced Study.

Molte fotografie ci tramandano l'immagine di un uomo mite che invecchia colmo di onori. Einstein non era propriamente una persona mite e distratta: era un uomo tenace, capace di immergersi nel lavoro senza dimenticare gli orrori della sua epoca, sempre pronto a battersi per ideali di pace e sempre cosciente delle difficoltà che tali ideali incontravano. Non coltivava illusioni a buon mercato. Pochi anni prima di morire scrisse all'amico Besso, da Princeton, una lettera disincantata:


"Di quando in quando tento di parlare alla coscienza della gente, ovvero di scrivere; qui si è sulla strada giusta per superare perfino i tedeschi, quanto a militarismo. È facile indurre al male le masse; prediche ragionevoli non ne ascoltano volentieri. Così mi son già acquistato una certa qual cattiva reputazione, e questo mi dà la consolante certezza di non aver troppo trascurato il mio dovere (come talvolta ai tempi felici dell'Ufficio Brevetti). Ripenso volentieri a quei giorni."


Il 12 aprile del 1955 la rottura di un aneurisma dell'aorta addominale gli provocò un collasso. Seppe che la morte era imminente, ma che nessuno era in grado di prevedere l'evento con sufficiente precisione. Rifiutò la morfina che avrebbe dovuto lenire i dolori, così come rifiutò un tentativo estremo di intervento chirurgico. Sembra che abbia detto: «Voglio andarmene quando voglio io. È di cattivo gusto prolungare la vita artificialmente; ho fatto la mia parte, è ora di andare. Lo farò con eleganza.» Morì il 18 aprile, all'una e un quarto del mattino.

ENRICO BELLONE

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Pagina 61

Autobiografia scientifica
(1949)



Eccomi qui seduto, all'età di sessantasette anni, per scrivere quello che potrebbe essere il mio necrologio. Lo faccio non solo perché il dottor Schilpp mi ha convinto a farlo, ma perché credo effettivamente che sia bene mostrare a chi opera accanto a noi come appaia retrospettivamente la nostra fatica e la nostra ricerca. Dopo averci riflettuto, capisco che qualsiasi tentativo del genere sarà sempre inadeguato. Per quanto breve e limitata possa essere la propria vita di lavoro, e per quanto grande sia la parte di essa sprecata in errori, esporre ciò che resta e merita d'essere detto è tuttavia difficile, perché l'uomo di oggi, che ha sessantasette anni, non è affatto lo stesso che ne aveva cinquanta, trenta, o venti. Ogni ricordo appare alla luce del presente, e quindi in una prospettiva ingannevole. Questa considerazione potrebbe addirittura fermarmi. Ma dalla propria esperienza si possono estrarre molte cose ancora ignote ad altre coscienze umane.

Fin da quando ero un giovane abbastanza precoce, la vanità delle speranze e degli sforzi che travolgono incessantemente la maggior parte degli uomini in una corsa affannosa attraverso la vita, mi aveva colpito profondamente. E anzi, avevo ben presto scoperto la crudeltà di questa corsa affannosa, che in quegli anni era mascherata di ipocrisia e di belle parole con cura molto maggiore di quanto non si faccia oggi. Per il solo fatto di possedere uno stomaco, tutti erano condannati a partecipare a questa corsa; ma tale partecipazione poteva forse soddisfare lo stomaco, non già l'uomo come essere pensante e dotato di sentimenti. La prima via d'uscita era offerta dalla religione, che viene inculcata in ogni bambino attraverso la macchina educativa tradizionale. Così io – benché figlio di genitori (ebrei) completamente irreligiosi – divenni religiosissimo; ma cessai improvvisamente di esserlo all'età di dodici anni. Attraverso la lettura di libri di divulgazione scientifica mi ero convinto ben presto che molte delle storie che raccontava la Bibbia non potevano essere vere. La conseguenza fu che divenni un accesissimo sostenitore del libero pensiero, accomunando alla mia nuova fede l'impressione che i giovani fossero coscientemente ingannati dallo Stato con insegnamenti bugiardi; e fu un'impressione sconvolgente. Da questa esperienza trassi un atteggiamento di sospetto contro ogni genere di autorità, e di scetticismo verso le convinzioni particolari dei diversi ambienti sociali: e questo atteggiamento non mi ha più abbandonato, anche se poi, per una più profonda comprensione delle connessioni causali, abbia perso un po' della sua asprezza primitiva.

Ora comprendo che il paradiso religioso della giovinezza, così presto perduto, fu un primo tentativo di liberarmi dalle catene del «puramente personale», da un'esistenza dominata solo dai desideri, dalle speranze, e da sentimenti primitivi. Fuori c'era questo enorme mondo, che esiste indipendentemente da noi, esseri umani, e che ci sta di fronte come un grande, eterno enigma, accessibile solo parzialmente alla nostra osservazione e al nostro pensiero. La contemplazione di questo mondo mi attirò come una liberazione, e subito notai che molti degli uomini che avevo imparato a stimare e ad ammirare avevano trovato la propria libertà e sicurezza interiore dedicandosi ad essa. Il possesso intellettuale di questo mondo extrapersonale mi balenò alla mente, in modo più o meno consapevole, come la meta più alta fra quelle concesse all'uomo. Gli amici che non si potevano perdere erano gli uomini del presente e del passato che avevano avuto la stessa meta, con i profondi orizzonti che avevano saputo dischiudere. La strada verso questo paradiso non era così comoda e allettante come quella del paradiso religioso; ma si è dimostrata una strada sicura, e non ho mai più rimpianto di averla scelta.

Ciò che ho detto e vero solo entro certi limiti, così come un disegno composto di pochi tratti puo rappresentare solo in modo approssimato un oggetto complesso e pieno di imbarazzanti dettagli. Se un individuo ha il dono di pensare con chiarezza, può darsi benissimo che questo lato della sua natura si sviluppi maggiormente a spese di altri lati, e determini quindi sempre più la sua mentalità. In questo caso è possibile che quell'individuo, guardando dietro di sé, veda uno sviluppo uniforme e sistematico, quando invece l'esperienza reale avviene in situazioni particolari e sempre diverse. La molteplicità delle situazioni esterne, a cui corrisponde in ogni momento una coscienza inadeguata e imperfetta, porta a una sorta di atomizzazione della vita di ogni essere umano. In un uomo del mio tipo, l'elemento decisivo dello sviluppo interiore sta nel fatto che a poco a poco l'interesse predominante si distacca dalla sfera dell'immediato e del puramente personale per tendere al possesso intellettuale delle cose. Considerate da questo punto di vista, le schematiche osservazioni fatte qui sopra contengono tutta la verità che può esprimersi in così poche parole.

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11
I fondamenti della teoria della relatività generale
(1916)



La teoria della quale tratto nella presente memoria rappresenta la massima generalizzazione immaginabile della teoria che oggi prende ordinariamente il nome di «teoria della relatività»; nel seguito chiamo quest'ultima, per distinguerla da quella che ora espongo, «teoria della relatività ristretta», e suppongo che sia conosciuta. La generalizzazione della teoria della relatività è stata molto facilitata dalla forma data alla teoria della relatività ristretta da Minkowski, il matematico che per primo ha compreso chiaramente l'equivalenza formale tra le coordinate spaziali e la coordinata temporale, rendendola applicabile alla teoria. I mezzi matematici necessari per la teoria della relatività generale erano già pronti nel «calcolo differenziale assoluto», quale si basa sulle ricerche di Gauss, Riemann e Christoffel su varietà non euclidee, ed è stato eretto a sistema da Ricci e Levi-Civita e da essi applicato a problemi della fisica teorica.

Nella seconda parte della presente memoria esporrò tutti i procedimenti matematici che ci è necessario aver sotto gli occhi, e che non si può presupporre sian noti al fisico, cercando di sviluppare lo strumento matematico nella maniera il più possibile semplice e trasparente, in modo che non sia necessario uno studio della letteratura matematica per comprendere le pagine che seguono.

Da ultimo debbo esser grato all'amico Marcel Grossmann, che con la sua assistenza di matematico non solo mi ha risparmiato lo studio della letteratura matematica sull'argomento, ma mi ha altresì aiutato nella ricerca delle equazioni del campo gravitazionale.


A. CONSIDERAZIONI FONDAMENTALI SUL POSTULATO DI RELATIVITÀ


1. Osservazioni sulla teoria della relatività ristretta

La teoria della relatività ristretta è fondata sul seguente postuto, al quale soddisfa anche la meccanica di Galilei e di Newton: un sistema di coordinate è scelto in modo tale che le leggi fisiche siano soddisfatte nella loro forma più semplice, le stesse leggi debbono essere soddisfatte se riferite ad ogni altro sistema di coordinate K' che si muova di moto traslatorio rettilineo uniforme rispetto al sistema K. A questo postulato diamo il nome di «principio di relatività ristretta». La parola «ristretta» è usata per significare che il principio vale nel caso in cui il sistema K' si muova di moto traslatorio rettilineo uniforme rispetto al sistema K, mentre l'equivalenza tra K' e K non si estende al caso di moto non uniforme di K' rispetto a K.

Cosicché la teoria della relatività ristretta si differenzia dalla meccanica classica non a causa del postulato della relatività, ma a motivo del postulato secondo cui è costante la velocità della luce nel vuoto. Da quest'ultimo postulato, oltre che dal postulato di relatività ristretta, seguono, nel modo ben noto, la relatività di simultaneità, la trasformazione di Lorentz, e le leggi connesse sul comportamento dei corpi rigidi e degli orologi in movimento.

La modificazione alla quale la teoria della relatività ristretta ha assoggettato la concezione dello spazio e del tempo è invero di vasta portata, ma un punto importante non è ancora stato sviscerato. Infatti le leggi della geometria, anche secondo la teoria della relatività ristretta, debbono venir interpretate direttamente come leggi che si riferiscono alle possibili posizioni relative ai corpi rigidi a riposo, e, più in generale, le leggi della cinematica debbono venir interpretate come leggi che descrivono le relazioni tra i campioni di lunghezza e gli orologi. A due prefissati punti materiali di un corpo rigido fisso corrisponde sempre una distanza che ha un valore ben definito, valore che non dipende dal luogo in cui si trova il corpo né dall'orientamento e che non dipende nemmeno dal tempo.

Vedremo tra poco che la teoria della relatività generale non può rimaner fedele a questa semplice interpretazione fisica dello spazio e del tempo.


2. Ragioni che esigono un'estensione del postulato di relatività

Nella meccanica classica vi è un innato difetto epistemologico, che fu chiaramente precisato (forse per la prima volta) da Mach, e che si ripercuote anche nella teoria della relatività ristretta. Lo illustreremo col seguente esempio. Supponiamo che due corpi fluidi, S1 ed S2, della stessa grandezza e della stessa natura fisica, stiano volteggiando liberamente nello spazio, a distanza così grande l'uno dall'altro e da tutte le altre masse che le sole forze gravitazionali di cui abbia significato tener conto siano quelle che sorgono dall'interazione delle differenti parti dello stesso corpo. Supponiamo che la distanza tra le due masse fluide sia invariabile, e che in nessuna delle due masse abbia luogo qualche movimento relativo di una parte rispetto a un'altra. Ma ogni massa, rispetto a un osservatore solidale con l'altra massa, ruoti con la velocità angolare costante attorno alla retta che congiunge le masse. Questo è un moto relativo controllabile dei due corpi. Ora immaginiamo che ciascuno dei due corpi sia stato misurato a mezzo di regoli campione fissi rispetto al corpo stesso, e supponiamo che la superficie di S1 sia una sfera, e quella di S2 un ellissoide di rivoluzione.

In seguito a ciò formuliamo il quesito: qual è la ragione di tale diversità tra i due corpi? Nessuna ragione può venir accettata come epistemologicamente soddisfacente, tranne quella che asserisca che la ragione data come causa sia un fatto sperimentale e osservabile. La legge di causalità ha il significato di una affermazione aderente al mondo dell'esperienza solo quando fatti osservabili appaiono, alla fine, come causa ed effetto.

La meccanica newtoniana non dà una risposta soddisfacente a questa domanda. Essa afferma che le leggi della meccanica si applicano allo spazio R1, rispetto al quale il corpo S1 è a riposo, ma non allo spazio R2, rispetto al quale è a riposo il corpo S2. Sennonché lo spazio privilegiato R1 di Galilei, così introdotto, è una causa puramente fittizia, e non un fatto osservabile. È quindi chiaro che la meccanica di Newton non soddisfa realmente l'esigenza della causalità nel caso in esame, ma solo apparentemente, in quanto rende la causa fittizia R1 responsabile del diverso comportamento dei corpi S1 ed S2, che può venir costatato mediante l'osservazione.

La sola risposta soddisfacente alla domanda formulata sopra non può avere che la forma seguente: il sistema fisico costituito da S1 ed S2 non rivela in sé stesso alcuna causa alla quale possa farsi risalire il diverso comportamento di S1 ed S2. La causa deve quindi risiedere al di fuori di questo sistema. Si arriva a suppore che le leggi generali del moto, che in particolare determinano le forme di S1 ed S2, debbano esser tali che il comportamento meccanico di S1 ed S2 sia determinato, in modo del tutto essenziale, da masse distanti che noi non abbiamo incluso nel sistema considerato.

Queste masse distanti (e i loro movimenti relativamente ad S1 ed S2) debbono allora venir riguardate come la causa principale, osservabile, del diverso comportamento dei nostri due corpi S1 ed S2; esse assumono il ruolo della causa fittizia R1. Di tutti gli spazi immaginabili R1, R2 ecc., comunque in moto relativo gli uni rispetto agli altri, non ve ne è alcuno che si possa considerare come privilegiato a priori senza far risorgere l'obiezione epistemologica sopra citata. Le leggi della fisica debbono essere di natura tale che le si possa applicare a sistemi di riferimento comunque in moto. Seguendo questa via giungiamo a una generalizzazione della teoria della relatività.

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PERCHÉ IL SOCIALISMO? (1949)


È consigliabile per chi non sia un esperto di problemi economici e sociali esprimere opinioni sulla questione del socialismo? Per un complesso di ragioni credo di sì.

Consideriamo in primo luogo la questione dal punto di vista della conoscenza scientifica. Potrebbe sembrare che non vi siano differenze metodologiche essenziali fra l'astronomia e l'economia: in entrambi i campi gli scienziati tentano di scoprire leggi di validità generale entro un ordine circoscritto di fenomeni, in modo da rendere quanto più possibile comprensibili le connessioni fra questi fenomeni. In realtà, però, differenze di metodo esistono. La scoperta di leggi generali nel campo economico è resa difficile dal fatto che nei fenomeni economici osservati intervengono spesso molti fattori che è assai difficile valutare separatamente. Inoltre, l'esperienza accumulatasi fin dall'inizio del cosiddetto periodo civile della storia umana è stata, come è noto, fortemente influenzata e limitata da cause che non sono affatto di natura esclusivamente economica. Per esempio, molti degli Stati maggiori dovettero la loro esistenza alla politica di conquista. I popoli conquistatori si imposero, legalmente ed economicamente, come la classe privilegiata del paese conquistato. Essi si riservarono il monopolio della proprietà terriera e crearono una casta sacerdotale con membri appartenenti alla loro stessa classe. I sacerdoti, avendo il controllo della cultura, trasformarono la divisione in classi della società in una istituzione permanente ed elaborarono un sistema di valori a mezzo del quale, da allora, il popolo fu guidato, in larga misura senza che ne avesse consapevolezza, nel suo comportamento sociale.

Ma la tradizione storica è, per così dire, cosa di ieri; in nessuna parte del mondo abbiamo di fatto superato quella che Thorstein Veblen chiamò «la fase predatoria» dello sviluppo umano. I fatti economici che ci è dato osservare appartengono a tale fase, e le stesse leggi che possiamo eventualmente ricavare da tali fatti non sono applicabili ad altre fasi. Dato che il vero scopo del socialismo è precisamente quello di superare e di procedere oltre la fase predatoria dello sviluppo umano, la scienza economica, al suo stato attuale, può gettare ben poca luce sulla società socialista del futuro.

In secondo luogo, il socialismo è volto a un fine etico-sociale. La scienza, però, non può stabilire dei fini e tanto meno inculcarli negli esseri umani; la scienza, al più, può fornire i mezzi con i quali raggiungere certi fini. Ma i fini stessi sono concepiti da persone con alti ideali etici; se questi ideali non sono sterili, ma vitali e forti, vengono adottati e portati avanti da quella gran parte dell'umanità che, per metà inconsciamente, determina la lenta evoluzione della società.

Per queste ragioni dovremmo stare attenti a non sopravvalutare la scienza e i metodi scientifici quando si tratta di problemi umani; e non dovremmo ammettere che gli esperti siano gli unici ad aver il diritto di pronunciarsi su questioni riguardanti l'organizzazione della società.

[...]

Il capitale privato tende a concentrarsi nelle mani di pochi, in parte a causa della concorrenza fra i capitalisti, in parte perché lo sviluppo tecnologico e la crescente divisione del lavoro incoraggiano la formazione di più grandi complessi di produzione a spese dei minori. Il risultato di questo sviluppo è un'oligarchia del capitale privato il cui enorme potere non può essere efficacemente controllato neppure da una società politica democraticamente organizzata. Questo accade perché i membri degli organismi legislativi vengono scelti dai partiti politici, ampiamente finanziati o in altro modo influenzati dai capitalisti privati, i quali si pongono così come un diaframma tra l'elettorato e il governo. La conseguenza è che i rappresentanti del popolo non proteggono, di fatto, in modo sufficiente gli interessi degli strati meno privilegiati della popolazione. Inoltre, nelle condizioni attuali, i capitalisti privati controllano inevitabilmente, direttamente o indirettamente, le fonti principali d'informazione: stampa, radio, sistema scolastico. È quindi estremamente difficile e anzi, nella maggior parte dei casi, del tutto impossibile, che i cittadini pervengano a delle conclusioni oggettive e facciano un uso intelligente dei loro diritti politici.

La situazione dominante in un'economia basata sulla proprietà privata del capitale è perciò caratterizzata da due princìpi fondamentali: primo, i mezzi di produzione (capitale) sono proprietà privata e i proprietari ne dispongono a loro piacimento; secondo, il contratto di lavoro è libero. Naturalmente non esiste, in quanto tale, una società capitalista «pura» in questo senso. In particolare, occorre notare che i lavoratori, attraverso lunghe e amare lotte, sono riusciti a strappare condizioni meno svantaggiose del «contratto libero di lavoro» per certe loro categorie. Peraltro, considerata complessivamente, l'economia dei nostri tempi non differisce molto dal capitalismo «puro».

Si produce per il profitto, non per l'uso. Non vi è alcun provvedimento grazie al quale tutti coloro che possono e vogliono lavorare ne abbiano sempre la possibilità; esiste quasi sempre un «esercito di disoccupati». Il lavoratore ha sempre la paura di perdere il proprio posto di lavoro. Dato che i disoccupati e i lavoratori mal retribuiti non rappresentano per i beni di consumo un mercato vantaggioso, la produzione di tali beni ne risulta limitata, con un conseguente grave danno. Il progresso tecnologico si risolve frequentemente in un aggravamento della disoccupazione piuttosto che in un alleggerimento della quantità di lavoro per tutti. Il movente del profitto, congiuntamente alla concorrenza fra i capitalisti, è responsabile di una instabilità nell'accumulazione e nell'impiego del capitale, che conduce a depressioni sempre più gravi. La concorrenza illimitata porta a un enorme spreco di lavoro, e a quelle storture della coscienza sociale nei singoli individui, di cui ho parlato prima.

Queste storture nell'individuo, secondo me, sono la tara peggiore del capitalismo. Tutto il nostro sistema scolastico soffre di questo male. Un atteggiamento esageratamente concorrenziale viene inculcato nello studente, abituandolo ad adorare il successo, come preparazione alla sua futura carriera.

Sono convinto che vi sia un solo mezzo per eliminare questi gravi mali, e cioè la creazione di un'economia socialista congiunta a un sistema scolastico orientato verso obiettivi sociali. In una tale economia i mezzi di produzione sono proprietà della società stessa e vengono utilizzati secondo uno schema pianificato. Un'economia pianificata, che equilibri la produzione e le necessità della comunità, distribuirebbe il lavoro fra tutti gli abili al lavoro e garantirebbe i mezzi di sussistenza a ogni uomo, donna e bambino. L'educazione dell'individuo, oltre a incoraggiare le sue innate capacità, si proporrebbe di sviluppare in lui un senso di responsabilità verso i suoi simili anziché la glorificazione del potere e del successo, come avviene nella nostra società attuale.

È necessario, tuttavia, ricordare che un'economia pianificata non rappresenta ancora il socialismo. Una tale economia pianificata potrebbe essere accompagnata dal completo asservimento dell'individuo. La realizzazione del socialismo richiede la soluzione di alcuni problemi sociali e politici estremamente complessi: in che modo e possibile, in vista di una centralizzazione di vasta portata del potere economico e politico, impedire che la burocrazia diventi onnipotente e prepotente? In che modo possono essere protetti i diritti dell'individuo, assicurando un contrappeso democratico al potere della burocrazia?

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