Copertina
Autore Olafur Eliasson
CoautoreHans Ulrich Obrist, Paul Virilio, Gunnar B. Kvaran, Emi Fontana
Titolo Olafur Eliasson. La memoria del colore e altre ombre informali
EdizionePostmedia, Milano, 2007 , pag. 96, ill., cop.fle., dim. 15x21x0,9 cm , Isbn 978-88-7490-034-3
OriginaleOlafur Eliasson. Colour memory and other informal shadows [2004]
TraduttoreAnna Simone, Gianni Romano
LettoreCorrado Leonardo, 2007
Classe arte , natura-cultura
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Indice

DALLO SPAZIO ESPOSITIVO ALLO SPAZIO ARCHITETTONICO   6
      FROM EXHIBITION SPACE TO ARCHITECTURAL SPACE
                                Hans Ulrich Obrist

                                        STATEMENTS  16
                                   Olafur Eliasson

              OLAFUR ELIASSON. UN'ARTE ESORBITANTE  60
                OLAFUR ELIASSON. AN EXORBITANT ART
                                      Paul Virilio


                             UMANESIMO TECNOLOGICO  70
                            TECHNOLOGICAL HUMANISM
                                  Gunnar B. Kvaran

                                  YOU MAKE ME FEEL  84
                                       Emi Fontana

 

 

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Pagina 17

OLAFUR ELIASSON


STATEMENTS


VORREI FARE UN GIARDINO

La visione egocentrica e strumentalizzante che abbiamo inflitto al nostro ambiente nel corso del secolo scorso, ha influenzato la determinazione di cosa siano la natura e la cultura e, di conseguenza, ha condotto ad un'idea gerarchica di cosa abbia valore, cosa sia bello, cosa valga la pena di salvare e così via.

Avendo capito che la complessità del rapporto tra natura e cultura soffre, quando viene data per scontata la loro contrapposizione, stiamo valutando e negoziando, come fa anche la scienza, nuovi punti di vista sulla natura e la cultura.

Il deserto o la tundra, le montagne artiche o le calotte polari, gli altipiani vulcanici o le zone paludose sono uscite dal moderno regime produttivo che determina la qualità secondo le idee dominanti del momento. Oggi queste aree partecipano sempre di più a ciò che viene a sua volta considerata quella parte unica di un sistema complesso che noi (anziché promuovere un confronto tra natura e cultura) consideriamo un insieme di sistemi complessi la cui parte centrale deve integrare i concetti di tempo e trasformazione nella mediazione tra natura e cultura.

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Pagina 36

COMMENTO SU FOG DOUGHNUT, ESTATE 2003

Ricerche recenti hanno dimostrato che il nostro cervello si evolve nell'arco di tutta la vita. Più si esteriorizza un sentimento più viene esercitato il cervello a sperimentare e ad esprimere quella particolare sensazione. La comprensione e i ricordi dell'ambiente che ci circonda sono soggetti ai nostri sentimenti. La gerarchia dei nostri ricordi è strettamente legata alle nostre sensazioni, così quando si è felici si notano e si ricordano più facilmente cose o questioni dell'ambiente circostante che sottolineano la gioia provata e più facilmente si ignorano le cose che rattristano o innervosiscono.

Qualsiasi tipo di sentimento, felicità o rabbia, ha la potenzialità di promuoversi ed enfatizzarsi al punto in cui può distorcere la capacità di relazionarsi col proprio ambiente.

Nel tentativo razionale della nostra società di controllare ciò che ci circonda, qualsiasi questione connessa con l'incertezza ha perso interesse, particolarmente in quanto problema di definizione spaziale.

L'essere incerti o dubbiosi nel definire se stessi è generalmente poco rispettabile.


INTERVISTA CON DANIEL BIRNBAUM

Ho fatto un altro lavoro in cui proietto una luce su un muro e la luce gradualmente si fa sempre più intensa sino ad assumere una forma quadrata e dopo quei dieci, dodici minuti, nei quali fissi la luce, sparisce. L'immagine residua, una traccia dell'immagine sul muro, compare sulla retina. Quello che accade dopo è che in realtà l'occhio proietta un'immagine ribaltata, complementare, e per un momento tu diventi il proiettore. Questo è il modo in cui l'opera ci restituisce qualcosa, crea qualcosa in noi. Mi piace l'idea che siamo noi che, proiettando la luce, proiettiamo l'opera nello spazio.

La ragione per cui credo sia importante esercitarsi in fenomeni come questo della doppia prospettiva è che la nostra capacità di vedere noi stessi mentre guardiamo, di vederci in terza persona, oppure di valutare l'esperienza che stiamo vivendo uscendo fuori da noi stessi e guardando l'intero allestimento comprensivo di opera, soggetto e oggetto, questa particolare capacità è la stessa che ci rende in grado di capire noi stessi. Penso sia proprio questo il punto finale: fornire al soggetto una posizione critica o una capacità critica sulla propria posizione, all'interno di questa prospettiva.

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Pagina 60

Paul Virilio


OLAFUR ELIASSON. UN'ARTE ESORBITANTE

OLAFUR ELIASSON. AN EXORBITANT ART


Visto che la presenza materiale dell'opera ora è meno significativa delle immagini che la riguardano, cos'è, oggi, l'ARTE DEL LUOGO? Da quando è comparsa la land art, questa domanda continua a turbare amanti e critici d'arte. Ma in verità c'è una domanda ancora più radicale: l'ARTE HA LUOGO?

Al di fuori dai campi dell'architettura e della scenografia, questo quesito condiziona anche l'urbanizzazione e, più in generale, la geopolitica delle nazioni. Da qui l'enigma di ciò che, per mancanza di un termine migliore, la gente definisce installazione, quella di una comunità vivente oppure quella di una popolazione di oggetti, animati o inanimati.

Come siamo messi, dunque, con il LUOGO DEL LUOGO? Con ciò che colloca l'opera, da un punto di vista pittorico, o scultoreo, o architettonico, o sociale...

Infine, il termine "spazio" e quell'altro ancora più nebuloso di "ambiente" hanno forse contribuito a mascherare l'esserci — qui o lì —, quella presenza senza rappresentazione che confina più con "l'apparenza" che con "l'esporsi".

Laddove l'antica estetica dell'apparenza (statica) lasciava ancora un segno, un'impronta, l'estetica della sparizione (cinematica) ha danneggiato, una dopo l'altra, sia l'impronta classica che la nozione teatrale (eccessivamente precisa) di RAPPRESENTAZIONE.

L'errore costante dell'astrazione pittorica è stato quello di attenersi alla "defigurazione" e persino, successivamente, al più ambizioso concetto di "decostruzione", con il risultato che la questione filosofica si sposta dall'"essere" nell'HIC ET NUNC, ad "essere qui", qui e ora, che è sia il luogo in cui si appare che quello in cui si sparisce, e che prende il sopravvento sull'"essere in sé".

Quindi, ora dovremmo comprendere meglio il primato contemporaneo dello SCHERMO sulla SCRITTURA, del "fermo immagine" rispetto all'immagine che si inscrive su un supporto, una superficie che a sua volta scomparirà come la pellicola e l'ottica elettronica nel tempo reale della trasmissione istantanea della visione.

La progressiva accelerazione del punto di vista, dunque, ha radicalmente alterato la nostra percezione di questo CONTINUUM dello spazio e del tempo in cui l'architettura non esiste più in quanto architettura di un territorio ma solo di ritorno nel suo spazio originario: quello spazio critico (pre-geometrico) che il Ventesimo secolo ha saputo reintrodurre tragicamente, con la sua cosiddetta barbarie rivoluzionaria ed emancipatrice.

In questo momento, al debutto di un nuovo millennio, la massima accellerazione di luce condiziona tutta l'area della percezione, dalla geopolitica globale all'architettura, alla cosidetta arte "contemporanea" ma che in realtà è senza tempo, atemporale. Anzi, avventuriamoci pure in un neologismo: arte ATEMPORALE.

Spazio. Tempo. Materia, con l'accelerazione "elettro-ottica" delle onde elettromagnetiche, se è cambiato il TEMPO della percezione ordinaria, lo è anche l'estensione e la profondità dello spazio percepibile.

Il volume geometrico è stato sostituito da un'incerta profondità di campo e anche da un'improvvisa profondità di tempo, di quel tempo dell'immediatezza e dell'ubiquità che, insieme alle vecchie dimensioni, si sbarazza anche di ogni modello di prospettiva classica, di quella "prospettiva dello spazio reale" del Quattrocento che ha condizionato non solo il modo di guardare le arti visive ma, in maniera ancora più generica, la geopolitica delle nazioni.

Da qui la fine della RAPPRESENTAZIONE, sia estetica sia politica, e l'emergenza di una pura e semplice PRESENTAZIONE in tempo reale, con una nuova prospettiva che abolisce improvvisamente ogni distanza e di conseguenza ogni pace reale, visto che quest'ultima può solo essere un "effetto di distanza", in altre parole, l'adozione di un punto di vista prospettico sul futuro del mondo.

In realtà, oggi non è più possibile comprendere i concetti di spazio, volume e superficie, senza i concetti di velocità e di accelerazione massima.

Allo stesso modo e inversamente, non è possibile cogliere il concetto di velocità della luce, senza la nozione di spazio, e non solo quella di tempo.

Perché la velocità non è un fenomeno, ma una relazione tra fenomeni, la composizione tra velocità di accelerazione e di decelerazione non è mai una questione di tempo, o esclusivamente di temporalità, ma di spazio-tempo, e dunque di relatività, e questo vale anche per i concetti geofisici e geometrici di PROSSIMITÀ.

I concetti di vicinanza e lontananza hanno perciò subito una metamorfosi globale dall'acquisizione della "velocità di liberazione", quella di onde di realtà che ora trasmettono la nostra attualità, politica, economica, artistica...

Da qui il recente rovesciamento delle sia pure fondamentali nozioni di dentro e fuori, interno ed esterno.

Quindi l'estrema velocità delle oscillazioni è diventata un contesto, una specie di TERRA INCOGNITA da scoprire, dove il GLOBALE è l'interno di un mondo finito (quello del pianeta terra) e il LOCALE è l'esterno di questa globalità geofisica, in altre parole, di tutto quel che può essere precisamente localizzato qui e ora, di tutto ciò che è IN SITU.

Credo che questo capovolgimento non più tellurico, ma estetico, di una localizzazione esteriorizzata e di una globalizzazione interiorizzata, spieghi l'insieme dei paradossi di un mondo che ora è contemporaneo al suo fine, ovvero la "globalizzazione".

Se il ruolo essenziale dell'immagine era quello di misurare il caos del visibile, oggi l'immagine audiovisuale accelerata contribuisce al disorientamento di tutte le percezioni e, dunque, alla perdita di quella visione del mondo che era lo scopo dell'invenzione dei prospettivisti nel Quattrocento.


Con questo incidente "telescopico" del moto prospettico, la nostra visione da oggettiva diviene "tele-oggettiva", dal momento che piani distanti tra loro si scontrano da sempre con i vicini piani del mondo sensibile.

In questo senso l'originale lavoro di Olafur Eliasson rivela meno in termini di temporalità assente, propria di quella che tradizionalmente si continua a definire "arte contemporanea", di quanto non faccia in termini di spazialità eccentrica dal nuovo "contesto" che implica la globalizzazione planetaria.

Attraverso un'incredibile varietà di posizioni e non solo di generi – installazioni, sculture, interventi... – Eliasson sposta il suo lavoro nell'ultimo cerchio, o sarebbe più appropriato dire nella sfera di questo "contesto della velocità" che si sta sostituendo al tempo-immagine. Luogo eccentrico per eccellenza che ha trasformato la nostra comune percezione del reale e per il quale ho già proposto la definizione di DROMOSFERA (L'inertie polaire, Christian Bourgois, Parigi 1990).

In realtà Eliasson gioca con l'incerto principio delle DIMENSIONI, in altre parole di quel CONTINUUM che ormai non ha più nulla a che fare (è il caso di dirlo) con le dimensioni specificatamente geometriche delle forme della rappresentazione, di quei "volumi", "superfici" e "linee" che hanno costruito le modalità della nostra visione fin dal Rinascimento italiano.

In un certo modo questa improvvisa frattura iconica va molto al di là di quella provocata dal Barocco, terremoto di espressioni artistiche che scioccò l'Europa, dal XVII° secolo in poi, liberandosi una alla volta di tutte le regole della composizione dell'età classica.

Recentemente, siamo stati gli attoniti testimoni di un terremoto spaziale (Lo spazio critico, Dedalo, Bari 1998), dato che l'ambiguità spettacolare non è più tanto quella di un qualche "teatro", di una scena sulla quale recitare una commedia delle convinzioni, ma piuttosto quella dell'apparenza, di tutte le apparenze della realtà concreta che perdono così, una ad una, la loro credibilità DE VISU.

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Pagina 70

Gunnar B. Kvaran


UMANESIMO TECNOLOGICO

TECHNOLOGICAL HUMANISM


Olafur Eliasson è generalmente considerato uno dei più grandi artisti viventi, anche grazie ai suoi rifacimenti della natura. Gli elementi (acqua, vapore, lava, fuoco, ghiaccio, vento e luce) sono gli ingredienti, i materiali grezzi dei suoi esperimenti artistici. Sono gli elementi con cui Eliasson compone, ma senza alcun tentativo di nasconderne le origini o i meccanismi.

Per le arti visive, ovviamente la luce è un fenomeno fondamentale. Nel corso dei secoli, la luce del sole è stata utilizzata (perlopiù in relazione all'architettura e alla scultura), per creare situazioni drammatiche e trascendentali. Gli architetti delle piramidi pensavano in termini di luce e gli artigiani che progettavano e costruivano le cattedrali gotiche utilizzavano la luce in maniera spettacolare con sculture e vetrate decorative. La luce, dunque, è stata già utilizzata per dissolvere "tempo e luogo", per creare portali naturali ed effimeri verso l'aldilà.

Il modernismo, da metà Ottocento, è stato un movimento razionale che ha avuto legami, più o meno consistenti, con varie invenzioni tecnologiche e scientifiche. Dopo il tentativo degli impressionisti di catturare l'istante fugace, in particolare l'impatto transitorio della luce, gli artisti cominciarono ad utilizzare la luce artificiale. Dall'inizio del Novecento, artisti come Tatlin, Naum Gabo e László Moholy-Nagy, aggiunsero la luce elettrica ai loro strumenti tradizionali. Negli anni Venti, Moholy-Nagy fece esperimenti con la luce e gli oggetti in movimento. Il risultato finale venne esposto come opera d'arte nel 1930, con il titolo Modulateur espace-lumiére. In collaborazione con ingegneri e tecnici, Moholy-Nagy realizzò un lavoro che consisteva di pezzi di metallo ruotanti su una base. Dei faretti, parte dell'opera, illuminavano il metallo e proiettavano un'ombra in movimento sulle mura circostanti. Moholy-Nagy aveva creato un nuovo "oggetto d'arte" nel quale la luce era incorporata come elemento materiale del processo artistico.

Alla Triennale di Milano del 1951, Lucio Fontana fece parlare di sé con un grande lavoro realizzato con i neon sospeso dal soffitto della maggiore sala espositiva. Qualche anno più tardi Nicolas Schóffer e Julio le Parc lanciano l'arte luminocinetica con luci artificiali colorate che formavano diverse installazioni formali. Contemporaneamente, anche Gyula Kosice, fondatore del gruppo brasiliano Madi, comincia ad usare il neon.

Ma bisogna aspettare Dan Flavin e James Turrell perché la luce diventi un elemento preciso dell'arte contemporanea. Dan Flavin, uno tra i maggiori artisti del minimalismo, offre allo spettatore la più tangibile "esperienza esistenziale" (rispetto alla pura esperienza visiva) ora che l'opera è stata separata dalla sua base o cornice tradizionale. Grazie all'uso dei tubi fluorescenti, senza ricorrere alle ombre, Dan Flavin dissemina zone di luce industriale miste a profili oscuri e nebulosi. James Turrell va anche oltre costruendo straordinari ambienti visivi nei quali gli spettatori s'immergono o si confondono con la luce, materiale fluttuante e tangibile. Muoversi in un suo spazio di luce comporta un'esperienza mentale e fisica che costituisce parte del lavoro stesso.

Sebbene siano pochi gli artisti che lavorano solo con la luce (ad esempio, Michel Verjux), molti sono invece quelli che l'hanno utilizzata sporadicamente per allargare le loro particolari strategie artistiche. Bruce Nauman ha usato dei neon ad intermittenza per creare narrative in movimento e introdurre significati ambigui. Joseph Kosuth ha usato una luce gialla in uno dei suoi lavori concettuali più radicali, Three Yellow Words, come elemento che contribuiva alla definizione dell'opera.

L'opera di Olafur Eliasson oggi è la più importante rappresentazione di fenomeni effimeri, eventi limitati nello spazio e nel tempo. Nella costellazione di fenomeni con riferimenti più o meno tangibili alla natura la luce ha avuto sempre un ruolo importante e in alcuni suoi lavori lo spettatore incontra una luce cangiante che comporta un'esperienza di tipo esistenziale grazie al coinvolgimento in un ambiente lumino-atmosferico (Room for one colour) oppure si trova davanti ad una rappresentazione formale luminosa con una distanza reale tra sè e l'opera (Reimagine).

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