Copertina
Autore Stephen Elliott
Titolo Una vita senza conseguenze
EdizioneTerre di mezzo, Milano, 2005 , pag. 212, cop.fle., dim. 120x195x14 mm , Isbn 978-88-89385-36-4
OriginaleA life without conseqiences [2001]
TraduttoreAda Arduini
LettoreAngela Razzini, 2006
Classe narrativa statunitense
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Pagina 7

1. Arrivo


Mi rotolo sul divano, silenzioso come passi felpati. Un cuscino azzurro sporco mi protegge la guancia. La mia mente è metà bianca, metà nera. Mi rotolo sul divano, ancora addormentato, ancora bambino. La luce della finestra mi dipinge una sfumatura rosa sotto le palpebre.

Piovono colpi. Piovono colpi come tante lune in tante notti all'addiaccio, piovono colpi.

Cerco di fermare i pugni sollevando l'avambraccio sopra la testa. Mio padre urla, lo sputo gli schizza dalla bocca e finisce sulla mia. Urla e mi colpisce ma i suoi pugni non sono tanto forti e io mi copro la faccia finché non mi afferra per i capelli e mi trascina nella cucina vuota, le mie ginocchia sul pavimento di linoleum giallo. Questa cucina era la nostra cucina. Sono cresciuto qui. Poi un giorno mia madre è morta, io me ne sono andato e mio padre si è trasferito in una grande casa in periferia con la sua nuova moglie.

Vede il punto in cui ho spento la sigaretta sul pavimento e mi molla uno schiaffo a mano aperta. "Te lo meriti" mi dice, come per convincersi. Mi siedo di fronte a lui, con le ginocchia coperte dai jeans strappati e consunti che porto da un mese. Sono in ginocchio di fronte agli armadietti vuoti, chino come un regalo per mio padre, il dono del suo figlioletto. "Sei un animale" mi dice. "Sei un maiale."

Sento accendersi il tagliacapelli. L'ha portato, si è preparato. È uscito di casa per aspettarmi, come una rete. Aspettava che io strisciassi dentro per ripararmi dal freddo, come un animale.

I miei capelli cadono, foglie sul pavimento. Molto lontano, una sirena si fa assordante e poi scompare. Ho un mattone sullo stomaco, un gomitolo di spago in gola. I miei capelli ricoprono il vivace pavimento di linoleum macchiato dal sole che si riversa dentro dalla finestra.

Ora sono calvo. La mia punizione. Mio padre posa il tagliacapelli sul bancone. "Vai a farti una doccia." In bagno mi guardo in faccia: un piccolo occhio nero. Mi passo le dita sulla testa. Non sono calvo, la mia testa è ricoperta da meno di un centimetro di peluria e sulla nuca, dove il tagliacapelli è scivolato, sento il cuoio capelluto. Due chiazze quadrate, come il paziente di un manicomio.

Esco dalla finestra del bagno, un ultimo sguardo alla vecchia casa. Da fuori, stucco giallo e malconcio e un prato verde vivo. All'angolo un cartello verde vivo dice, "Coyle Ave." È così luminosa e soleggiata, sono le sei del mattino. So che sull'altro lato della casa c'è una scia di vomito che parte da quella che una volta era la finestra della mia camera da letto. Mi avvio lungo la strada e inizio la giornata mentre il sole batte sulle chiazze quadrate del mio cuoio capelluto.


A Warren Park c'è un festival, "Taste of the 50th". Vendono pizza al formaggio e hot dog e salsicce polacche sotto enormi tendoni gialli. Ci sono dei gruppi che suonano e io me ne vado in giro a chiedere se mi offrono una birra. Non posso comprarmela da solo, non ho soldi e ho solo quattordici anni.

Il parco odora di erba e salsicce. Mi avvicino a un uomo massiccio con una lunga barba e gambe magre. "Vaffanculo, amico. Non so nemmeno chi sei."

Un altro tizio mi offre una birra. Gli dico che ho bisogno di un posto dove passare la notte. Lui distoglie lo sguardo e dice "Senti ti ho offerto una birra."

C'è poca gente, mi siedo sulla collina ad ascoltare la musica e mi compatisco. Col passare delle ore la folla si infittisce, la musica diventa più arrabbiata. Mi metto a pogare, sbatto contro le persone, cerco di colpirle di testa, arrabbiato, i miei jeans ondeggiano, sono ubriaco e sto per cadere, mi gira la testa, mi avvicino al palco, più rumoroso, più veloce, più duro, ancora, più rumoroso, più veloce, più duro, ancora.


Adesso sono in un corridoio e mi sto dissanguando. Ho il polso squarciato, sono una vittima della mia stessa violenza. Non sono stato felice.

In corridoio entra della gente che sta tornando ai propri appartamenti. Mi scavalcano e io li guardo con un occhio solo. È tardi, da qualche parte c'è sempre qualcuno sveglio. Alla fine dalla porta entra la luce, ruota, vortica e trasforma il corridoio in una minuscola discoteca. L'Angelo della Legge. Faccio per alzarmi e poi ci ripenso. "Vaffanculo."

Gli anfibi neri entrano in corridoio, clac, clac, sono due, un uomo e una donna. I baffi di lui gli spiovono sulle guance grasse e allegre. Le cosce di lei tendono gli stretti pantaloni dell'uniforme che in mezzo alle gambe sono pieni di pieghe. Grandi seni sotto il cuoio da poliziotta.

"Quanti anni hai?"

"Quattordici."

"Dove sono i tuoi genitori?"

"Non lo so."

"Cosa vuoi dire 'non lo so'?"

Mi stringo nelle spalle, e abbasso lo sguardo sul sangue secco sul pavimento del corridoio. Non morirò. Cazzo.

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Pagina 40

Piove da tre giorni e mi chiedo quando finirà. Ieri pioveva così forte che non ci hanno lasciato andare a scuola. Avevano paura che la pioggia facesse da copertura. Avevano paura che ci nascondessimo nelle gocce di pioggia, che ci infilassimo nell'acqua, che sfuggissimo attraverso la recinzione. Avevano paura di non vederci sul prato, accanto agli edifici, la strada nera e tortuosa, il campo da basket abbandonato traboccante di erbacce, i reparti posteriori.

Ho letto. Sono rimasto seduto sul letto a guardare la pioggia. Prima ho letto E Johnny prese il fucile, ma poi me l'hanno tolto. Hanno detto che non era appropriato. Ho iniziato a leggere la Bibbia ma l'ho trovata arida, difficile da leggere e ancora più difficile da credere. French Fry passa un'ora con la Bibbia ogni giorno. French Fry è matto. Jay crede che la Bibbia sia stupida. Dice che rispetta soltanto le persone che se lo meritano. Allora ho letto Les Misérables, che mi ha portato il signor Macy. È una versione ridotta ma comunque sono più di ottocento pagine. Una volta una signora dello staff mi ha riso dietro, mi ha detto che tenevo solo il libro aperto e non ero in grado di capirlo. Le ho risposto che per la mia età sono intelligente, che lo capivo benissimo, le ho chiesto se l'aveva letto e poi le ho riso dietro perché sapevo che non l'aveva fatto.

Sulla soglia della mia camera c'è il signor Macy. Ha qualche ciuffo di peli sul mento e se li tira con aria pensierosa.

"C'è qui tuo padre."

"Cazzo." Metto giù il libro. "Mancano solo duecento pagine." Spero che questo lo colpisca. Voglio fare colpo su di lui. Lui fa un mezzo sorriso. "Cosa dovrei fare?"

"Forse dovresti vederlo" mi dice. "Non sei obbligato, nessuno può costringerti. Ma stai rinunciando a delle informazioni." Afferro il libro e seguo il signor Macy.

"Signor Macy, perché cammina come un pappone?"

"E tu come lo sai come camminano i papponi?"

"Guardo la tivù. Cos'altro posso fare qui."

"Meglio che continui a leggere quei libri" dice indicando quello che tengo in mano. "La tivù ti farà ammattire sul serio." Ride un poco e si ferma sulla porta e mi fa un cenno. Io entro.

È un mostro. La mia matrigna è seduta con le mani in grembo, smunta, austera come un quadro. Ha i pantaloni ben stirati conficcati tra le gambe, la camicetta ondulata sul petto. Mio padre ha le guance che gli scivolano giù dalla faccia, le sue mani grandi stringono i braccioli di una sedia a rotelle usata. Quella della mamma? La testa è irrigidita e inchiodata da una rete di barre di metallo che gli tengono su la colonna vertebrale. Porta pantaloni di velluto a coste sformati, non si è rasato, i grandi occhi azzurri sono pieni di rabbia e vergogna.

"Ciao Paul" dice la mia matrigna senza muoversi, senza nemmeno spostarsi di un millimetro su quella sedia marcia. Guardo mio padre. Un mostro, Frankenstein, una macchina. Non capisco se devo ridere o piangere, e non faccio nessuna delle due cose. Mi siedo di fronte a loro, ci separa un basso tavolo tondo. Vorrei scappare via di corsa. L'altro giorno il signor Macy mi ha detto che scappare non ha senso. Che l'avrei capito presto. Che un giorno sarei scappato così lontano che mi sarei ritrovato nello stesso posto, ma più vecchio. Allora sì che ci sarei arrivato.

"Il mio ragazzo. Il mio bellissimo ragazzo." Mio padre parla attraverso i baffi e si mastica le parole. Non posso fare a meno di guardare le barre di metallo sui due lati della faccia, quel grosso naso. "Vogliamo che torni a casa, figliolo. Ricominceremo da zero."

"Ma tu mi hai rapato la testa."

"Ti ho solo tagliato i capelli."

"Mi hai picchiato."

"Ho usato la forza necessaria per l'arresto."

"Ma stavo dormendo." Ho l'impressione che, sulla soglia, il corpo del signor Macy stia tremando. Forse ride. Stiamo in silenzio, e i minuti passano. "Non so nemmeno dove abiti."

"Ti ci portiamo noi."

"Perché non mi scrivi l'indirizzo così forse posso venirti a trovare?" Ancora silenzio.

"Tu sei mio figlio" dice mio padre, e inizia ad alzare la voce, le guance gli scivolano giù dalla faccia. Cerca di picchiare i palmi sui braccioli della sedia a rotelle ma riesce a produrre solo un piccolo tonfo.

"Ma guardati" dico.

Ancora silenzio, ancora silenzio. Sagome e ombre. Finalmente la mia matrigna si muove; non vedevo l'ora che lo facesse. Nessuno può star seduto in quella posizione così a lungo senza sbattere le palpebre. Dieci giorni nel deserto. Niente acqua, niente compagnia. Si muove un altro po'. "Tuo padre ha bisogno del tuo aiuto, Paul." Io mi stringo nelle spalle. Lei tira fuori alcune cartelle da una valigetta nascosta accanto alla sedia. Il signor Macy infila dentro la testa e allunga il collo senza muovere il corpo, e poi torna in posizione eretta. "Pensavamo che forse volevi vedere questi."

Capisco immediatamente di cosa si tratta. Sono i dossier di Molly; sono belli grossi. Hanno i risultati dei miei test, le valutazioni psichiatriche.

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Pagina 64

Le cose cambiano. Le emozioni cambiano. La gente si innamora e si disinnamora. La gente si racconta bugie nei modi più subdoli. Quando ci facciamo delle promesse che non possiamo mantenere stiamo mentendo. Quando diciamo "finché morte non ci separi" ignoriamo forze che non siamo in grado di controllare e stiamo mentendo alle persone che più contano per noi. Ecco come la penso. Ma è inevitabile. Le bugie fanno parte di una relazione. Non ho mai conosciuto nessuno a cui non ho mentito o che non ha mentito a me.

La gente si racconta bugie. Le cose cambiano. La vita è piena di delusioni significative e di colpi di fortuna. La polizia non bussa. La polizia entra e basta. Ci siamo fatti delle illusioni, a vivere in un capanno per gli attrezzi. Afferrano Tanya mentre io me ne sto sulla soglia e fisso i fili d'erba coperti da una brina sottile, coperti di formiche e insetti uccisi dal gelo, tutti i microscopici insetti del mondo morti sotto un fine strato di neve. Me ne sto sulla soglia e guardo il corpo di Tanya contorcersi e gridare nell'aria, vittima delle mani della polizia, e loro la strattonano avanti e indietro. Vittima di una promessa non mantenuta.

Mentre Tanya invoca urlando i suoi genitori e il fuoco che li ha consumati, che ha tolto loro la vita, chi ha tolto loro solo una minima parte di ciò che loro hanno tolto a Tanya, e cioè moltissimo, e così orribile che mille fuochi non potrebbero distruggerlo, mentre Tanya urla, attraverso i fili d'erba e la brina intricata io fisso la casa con le colonne bianche. Alle finestre ci sono delle facce che guardano la polizia trascinare Tanya fuori dal capanno. La polizia non ha bussato. Sono entrati e basta e si sono presi quello che volevano.

Io mi scosto mentre trascinano attraverso la porta il corpo di Tanya che si dibatte e urla. Sono urla potenti. Sono più alte degli alberi che avrebbero dovuto nasconderci agli occhi della casa oltre l'erba. Mentre passa cerco di guardarla negli occhi ma non ci riesco. Allora afferro per un braccio un poliziotto e lui si ferma, si fermano tutti, e lui mi guarda per un istante. È un istante brevissimo. Due poliziotti fermi, e Tanya in mezzo che si dimena. Il poliziotto abbassa con ostentazione lo sguardo sulle mie dita chiuse sulla sua manica. Mollo la manica e loro mi portano via il mio amore. Quando la spingono nell'auto non riesco più a sentirla urlare. E finisce lì.

Attraverso il giardino arrancando e mi siedo sui gradini anteriori della casa. Adesso niente ha più importanza. Esce una donna con i capelli grigi e mi chiede se voglio una cioccolata calda. È vecchia e ha gambe lunghe e magre, porta dei pantaloni di velluto a coste grigi e un maglione pesante. Il mondo è ridotto a forme e colori. "Ok" rispondo. Lei torna fuori con una tazza alta e grigia piena di cioccolata e me la porge. Io sorseggio con aria pensierosa. La signora rientra in casa e chiude la porta. Sento solo "clic" e non posso fare a meno di pensare che è la fine.

Ha smesso di nevicare. Sopra le case è comparso un sole strano. Un sole arancione e luminoso, ma non caldo. Il sole non basta a tenere i ragazzi scappati di casa lontani dai locali caldaie o dai tetti dei negozi di alimentari. Il sole non può impedirci di rapinare case o scassinare negozi. Il sole non ci aiuta per niente. Il sole serve solo quand'è stagione. Sono seduto sotto un portico con in mano una tazza di cioccolata calda. Ne farò quello che posso. La cioccolata calda mi piace. Mi è sempre piaciuta.

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Pagina 126

D'inverno Chicago è brutale. La gente muore di freddo. La gente sta in casa vicino ai termosifoni caldi. Quest'inverno non è ancora tanto brutto, ma lo diventerà. Chicago d'inverno è una divinità infuriata. L'inverno in cui ero senza casa entravo di nascosto nei locali delle caldaie per tenermi caldo, la mattina presto me ne stavo per ore nelle lavanderie automatiche. Quello sì che è stato un inverno duro. È stato il mio inverno più duro. Quando alla fine lo Stato mi ha beccato che dormivo in quel corridoio, tutto sanguinante, non hanno creduto alla mia storia. Non ci credevano che non sapevo dove vivessero i miei genitori. Ogni tanto racconto delle bugie, ma quella volta no. Quello è stato un inverno freddo, il più freddo mai sentito. Sto tornando ai vecchi espedienti.

Mi siedo accanto a una caldaia sotto un edificio con tre appartamenti. So che devo andarmene presto, per evitare gli adulti. Quando sei un ragazzo scappato di casa devi sempre evitare gli adulti. Gli adulti vogliono metterti in gabbia, ostacolare i tuoi piani. Gli adulti ti molestano, ti palpeggiano, ti portano via tutto quello che hai. Sono come i leoni della giungla e i bambini sono pezzi di carne cruda abbandonati perché loro li divorino.

Conto i miei soldi, quasi trenta dollari. Mi avvicino più che posso al calorifero ma sto ancora tremando. L'inverno di Chicago mi sta entrando nelle ossa. Apro il pacchetto di hot dog che ho comprato, ne metto uno dentro una fetta di pane. Lo addento e poi perdo l'appetito. Patetico.

Quand'ero un ragazzo senzatetto gli altri ragazzi provavano pena per me. Nessuno di loro poteva portarmi a casa con sé. Però mi offrivano degli hot dog in un posto che si chiamava Gilly's. Avevo fame ma detestavo quando la gente provava pena per me. Poi mi sono incazzato con mio padre. Ho dato la colpa a lui del fatto che stavo là. Se mi avesse cercato con metà dell'energia che io sto mettendo nel cercare Maria e Justin e Tanya mi avrebbe ritrovato. Però non sarei tornato da lui, e forse lui lo sapeva ed è per questo che non mi ha cercato.

Tiro fuori il diario e scrivo qualche riga. Mio padre aveva superato il limite, io ero un figlio che non perdona. Scrivo nel diario: "Ti perdono." Un giorno gli farò sapere che lo perdono. Probabilmente non ne ha bisogno. Probabilmente non sa di avere fatto qualcosa di sbagliato. Però gli farò avere questo biglietto, glielo ficcherò sotto la porta. Dormo e sento il rumore della dolce fiamma della caldaia.

Passano i giorni. Setaccio la città, mi sposto di notte. Passano altri giorni. Le sere sono gigantesche croci al neon piene del rumore dei treni, del sibilo delle bombolette di vernice spray, di gatti, topi e pennarelli. Il treno si ferma in stazione. La neve cade soffice e sento una coppia di dadi ticchettare sulla strada. In fondo alla stazione è accesa una sola luce, fioca e gialla. I miei piedi fanno crocchiare la neve. I minuscoli fiocchi mi muoiono sotto le suole.

Lì appesa, spenta, c'è la lampada riscaldante. Dietro le palpebre mi spuntano ricordi dolorosi. Disteso nell'angolo, la faccia affondata nel mio stesso vomito, le creature sbucavano dalle assi di legno, spuntavano dalla recinzione sul retro. Mi tocco il collo dove portavo la collana d'argento di mia madre. A otto anni le avevo regalato una catenina con un dollaro d'argento. Quand'è morta l'ho riavuta. Le strade me l'hanno portata via come mi hanno portato via tutto il resto.

Oltre il nero della notte e il bianco della neve, Washington Park si allarga davanti alla stazione come olio versato, come una pozzanghera gigante.

Arranco lentamente giù per le scale, tra i mozziconi di sigaretta. Passo davanti a due uomini che aspettano in fondo alle scale. Sono un'ombra. Dall'altra parte della Cinquantacinquesima, una lastra di cemento di fronte a due massi, strati di calce, un bar verde chiuso per sempre con le finestre sbarrate da assi. Qui ti puoi nascondere. I lampeggianti blu qui non ci verranno mai. Le ombre sussurrano pericolo. Ogni angolo buio è un altro Paese, con leggi diverse. Sono ridisceso nelle strade dell'anarchia, sono tornato alle Robert Taylor Homes.

Un bidone della spazzatura si schianta a terra, poi un colpo di pistola. "Psst" un sussurro, una faccia scura sulla soglia. "Vieni qui." Mi avvicino alla porta. "Bevi qualcosa con me." Mi allunga una bottiglia e io bevo una sorsata. "Cosa ci fai qui fuori, bianco?"

"Cerco delle persone."

"Qui non le troverai."

"Lo so." Bevo un altro sorso dalla bottiglia. Mi appoggio al muro, scivolo a terra, faccio riposare la testa. Ci sediamo uno di fronte all'altro, due facce della stessa bugia.

"Se cerchi qualcuno non puoi andarlo a cercare alla fine del mondo."

"Pensavo di trovare qualche informazione."

"Meglio che chiami la compagnia dei telefoni."

Lascio che i miei occhi si chiudano. Il tempo che ho sta finendo. Sono passati otto giorni. Il quattordicesimo sarà passato troppo tempo e non potrò più tornare indietro. Le porte si chiuderanno per sempre.

Sento le dita ossute dell'uomo sullo stinco. "Meglio che chiami la compagnia dei telefoni" dice e ride da solo.

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Pagina 139

5. Nove mesi


Le case famiglia sono posti strani. Ci sono molti modi di finire in una casa famiglia. Le ragazze vengono beccate per prostituzione. I ragazzi li beccano perché accoltellano le persone con scalpelli per il ghiaccio, si fanno di crack e stuprano le sorelline. Le ragazze le beccano perché sono state abbandonate. I ragazzi li abbandonano. Le ragazze sono adottate, scaricate e adottate di nuovo. Se i genitori di qualcuno si rifiutano di venirlo a prendere quando dev'essere rilasciato dal carcere minorile, allora il bambino viene messo in casa famiglia e la sua custodia viene affidata allo Stato. Altri bambini non hanno genitori e non possono essere adottati per via di qualche disturbo della personalità, di qualche problema comportamentale. Alcuni bambini vengono affidati a famiglie adottive e poi i genitori adottivi si accorgono che sono proprio fuori di testa e li restituiscono allo Stato. Ti viene data una sola possibilità. Alcuni bambini vengono strappati a genitori ritenuti inadatti e scaraventati nelle case famiglia. I genitori subiscono un processo e finiscono in galera per abuso e abbandono. La custodia passa allo Stato, il bambino viene marchiato come proprietà del Dipartimento per l'infanzia e i servizi familiari, Stato dell'Illinois. Viene messo in una casa famiglia. L'unica cosa che tutti i bambini delle case famiglia hanno in comune è che a un certo punto sono stati ignorati da qualcuno. Ogni casa famiglia è diversa. Alcune hanno delle squadre sportive. Altre si trovano in campagna a parecchi chilometri dalla strada più vicina su cui è possibile fare l'autostop. Molte sono vicine alle case popolari e ai più scadenti lotti di terreno delle città più grandi del Paese. Le case famiglia peggiori sono come acquari, arene per gladiatori, trenta in una stanza, fatti subito degli amici e spera che vada tutto bene. Nelle case famiglia peggiori ci ammazziamo in fretta. Lo Stato non vuole sapere, noi non vogliamo raccontare. Nelle case famiglia migliori c'è un minimo di supervisione e, soprattutto, ci sono bambini migliori con fedine penali più corte. Le case famiglia sono posti strani. Si trovano in case normali, in edifici statali di mattoni. Sono tendopoli. Sono invisibili. Si trovano nelle periferie, nel ghetto, in tutti i posti di passaggio. Alcune case famiglia mantengono il controllo con stanze chiuse a chiave e Thorazina. Altre lasciano che qualche pazzo ti strappi i capelli a ciocche. Alcune case famiglia ti danno un dollaro per ogni giorno che vai a scuola. Vengono costruite e poi abbandonate. Sono programmate per distruggere. Sta a te raccogliere i pezzi di te stesso. Fai del tuo meglio.

Nove mesi fa una ragazzina è scomparsa da una casa famiglia femminile in Rosemont Avenue ed è sparita dalla faccia della terra. È finita in un appartamento vuoto di Maxwell Street con un drogato marcio. Nove mesi hanno portato in città pioggia e sole e traffico. Lei ha rinunciato. Ha deciso di non esistere. Mi ha guardato dritto in faccia e mi ha detto che era spezzata. Mi ha detto che le cose non sarebbero mai migliorate. Mi ha anche detto che io cercavo qualcos'altro. Sapevo che aveva ragione. Ha fatto un passo nelle fauci del mondo e il mondo l'ha inghiottita tutta intera. Nove mesi è un tempo molto lungo. In nove mesi può succedere di tutto. Può nascere un bambino. Le stagioni cambiano tre volte.


"Fumi?"

"Grazie."

Io e Ant passeggiamo per California Avenue. L'inverno è arrivato e se ne è andato, ha portato via la neve. L'estate è passata di nuovo. Con l'inverno Ant se ne è andato ed è ritornato alla fine dell'estate. I suoi genitori se lo sono ripreso, l'hanno trascinato a forza in una scuola di periferia per bambini difficili. È ancora qui, nove mesi dopo, e stiamo andando a scuola. Lui controlla la propria immagine riflessa nelle vetrine, si ferma e si pettina i lunghi capelli color miele. Difende i capelli dal vento così non si spettinano. I miei mi sono cresciuti attorno alla testa come una bionda acconciatura afro, fitta e secca. Tracy continua a dirmi di tagliarmeli ma io non voglio. Ho un complesso. Passiamo davanti a una colorata officina non ancora aperta. La porta è dipinta di un azzurro intenso, come un cielo con gli orari d'apertura in grosse cifre gialle, un cielo azzurro intenso. E qui, ora, cammino con Ant nelle prime ore di un mattino d'autunno. Adoro le mattine silenziose. I negozi sono quasi tutti chiusi. I sarti con la bottega sulla strada hanno sbarre alle vetrine. Non suona nessun allarme, c'è solo qualcuno che passa in auto per andare al lavoro.

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