Copertina
Autore David Ely
Titolo L'anno dell'inondazione
EdizioneCargo, Napoli-Roma, 2010, Biblioteca 29 , pag. 272, cop.fle., dim. 13x20x1,7 cm , Isbn 978-88-6005-029-8
OriginaleA Journal of the Flood Year [1992]
TraduttoreFrancesco Francis
LettoreAngela Razzini, 2010
Classe fantascienza
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Pagina 9

12 luglio

Non so ancora cosa ne verrà fuori – un diario, un giornale di bordo o solo un'accozzaglia di note. Questo, in ogni caso, è l'inizio, e l'inizio è la Barriera.

Sono preoccupato per quello che sta succedendo là fuori.

Veniamo ai fatti: martedì scorso, quasi per caso, ho rilevato una forte concentrazione salina nella canaletta di scarico verso nord, dal chilometro 44 al 56. Di lì in poi la salinità progressivamente scemava.

Questo significa che c'è un fronte salino di dodici chilometri lungo questa parte della Barriera.

È una poltiglia che ti arriva alle caviglie, per metà è un miscuglio di porcherie e di erbacce morte, ma il resto è acqua, ed è decisamente salata.

La cosa grave è che i sensori non lo hanno rilevato. E nemmeno i sistemi ausiliari. Le luci del quadro di controllo sono tutte spente.

Quando l'ho segnalato al dottor Matthews, alla Direzione Nordest, ha detto che tanto i sensori quanto i sistemi ausiliari erano in perfetto ordine. Se quelli non mostravano un eccesso di salinità, voleva dire che i livelli erano irrilevanti.

Ho ribattuto che a mio avviso, e sulla base di accertamenti condotti di persona, la concentrazione salina era ben superiore a quella che potrebbe definirsi irrilevante, ma lui ha risposto che rilevazioni visive di quel genere potevano nella migliore delle ipotesi avere valore di congetture, e ha ca Spero solo che almeno i Profondi, gli impianti di profondità, lo abbiano rilevato.


13 luglio

Sono tornato alla Barriera e ho misurato l'acqua salmastra in una dozzina di punti diversi.

Per quanto spesso ci vada, la Barriera riesce ogni volta a trasmettermi la sensazione inebriante della sua potenza, anche se sono ben cosciente dell'Atlantico che rumoreggia dall'altra parte. Il fatto che dal lato interno non lo si veda rende tutto ancora più impressionante. Nei giorni di mare grosso manda spruzzaglie verso l'alto; qualche spruzzo arriva fin oltre la sommità.

Ma quell'acqua salata nella canaletta non viene dagli spruzzi. Ce n'è troppa. Dev'esserci un'infiltrazione. Non c'è altra spiegazione possibile.

E dev'essere anche recente, non più di tre settimane.

Al mio ritorno in ufficio, a Neptune, ho inviato un altro allarme rosso al Nordest, il terzo questa settimana, e mi hanno risposto con un 1203. Tutto sotto controllo.

Ma la salinità è ancora lì. Anzi, è aumentata. E comunque se tutto è sotto controllo, perché i sensori e i sistemi ausiliari non la registrano?


15 luglio

Scrivere queste note è per me una strana esperienza. Non scrivo quasi mai. Non ricordo neppure l'ultima volta che l'ho fatto. Per i rapporti e gli altri verbali ufficiali uso sempre il Voxit. Potrei usarlo anche in questa circostanza.

Salvo che stavolta sono davvero preoccupato per la Barriera. E provo il bisogno di questo rapporto separato e indipendente.

Per scriverlo sto usando una micropenna di ultima generazione. Ha le dimensioni di un pollice, e una memoria di qualcosa come un miliardo di parole. L'ultima trovata è che per scrivere non c'è neppure più bisogno di premerla contro qualcosa. Potrebbe scrivere anche per aria (in questo momento sto scrivendo sulla palma della mia mano, ma solo perché così mi sembra più naturale). Ovviamente, "scrivere" non è il termine esatto, perché le parole vengono immagazzinate nella memoria della penna. Con questo modello, poi, non c'è bisogno di accessori per rileggere quello che si è scritto: basta chiudere il cappuccio e la penna lo proietta contro qualsiasi superficie si abbia davanti.

Scrivere in questo modo mi dà una strana sensazione, è come se fosse qualcosa di segreto, di confidenziale, e riesce a tirarmi fuori cose che normalmente terrei per me. Mi viene quasi voglia di scrivere di Hilda, di Bloom, perfino delle mie esperienze con lo stimolatore sensoriale.

Nessuna di queste cose, però, sarebbe appropriata in un rapporto tecnico. Sempre che sia quello che questo scritto finirà con l'essere.


Sono l'ingegnere responsabile per l'intera regione del Baltimore Canyon, incarico che ricopro ormai da tre anni, ma non ho mai incontrato né il dottor Matthews né i pezzi grossi della Direzione Nordest, a Boston. Loro non sono venuti giù da me, e io non sono andato da loro.

Quando serve, ho il dottor Matthews all'altro capo del mio Telemin, ed è tutto ciò di cui finora, ai fini pratici, ho avuto bisogno. Non ci tengo a incontrarlo di persona; ne ho conosciuta a bizzeffe di gente di quel tipo, piccoli burocrati sempre attentissimi a pararsi il culo, e con hobby tipo collezionare vecchi tappi di bottiglia metallici, o figurine di giocatori di baseball.

Ma quando capita una cosa come questa, vorrei proprio poterlo guardare negli occhi mentre gli spiego che secondo me la situazione potrebbe essere veramente seria.


16 luglio

Per tutta quest'ultima settimana non mi ha mai abbandonato l'inquietante consapevolezza del fatto che viviamo su quella che un tempo era una crosta oceanica: lo Scudo.

È una vallata di un milione di chilometri quadrati.

L'abbiamo rubata all'oceano – e l'oceano la rivuole indietro.

Ecco perché quando vedo acqua salata nella canaletta mi preoccupo.

Il dottor Matthews può anche dire che una ricognizione visiva non vale un accidente – ma lui vive sul continente.

Non posso neanche fare domanda di trasferimento in un posto più sicuro. Sono una specie di vigilato speciale, sotto esame per altri tre anni, in altre parole sono bloccato qui. Potrei chiedere di andare in pensione, ma qualcosa in me si ribella all'idea di abbandonare la carriera così presto, specie adesso che c'è un'infiltrazione nella Barriera. Questa regione è sotto la mia responsabilità, e ho tutta l'intenzione di scoprire cosa diavolo sta succedendo.


Bloom rifiuta di credere che nei sensori o nei sistemi ausiliari possa esserci qualcosa che non va e trova mille pretesti per non venire di persona a vedere, ripetendo che lui è un supervisore tecnico e non un uomo di cantiere. «Lei ha fatto quello che doveva fare, comandante» dice. «Lasci che le decisioni le prenda Nordest».

Ma Nordest le sue decisioni le ha già prese, e sono sbagliate.


Hilda era stanca ieri sera, e non le andava di infilarsi nello Stimulator, così ho deciso di ricorrere al programma di accesso casuale del Telesex e sono capitato su un promettente set di valori di energia tattile. Il nome sul selettore era Julia. Era fresca e piena di entusiasmo e l'esperienza è risultata molto più eccitante di quanto succeda in genere con le scelte casuali, ma non ho potuto fare a meno di chiedermi se, in realtà, non fosse solo una delle tante modelle in stock. In passato Bloom ha lavorato in un Telesex Center, come aiuto programmatore, e giura che accorgersi della differenza è praticamente impossibile. L'idea, però... non so, ma un po' mi disturba. Quando non puoi essere certo di come stanno davvero le cose, finisci ogni santa volta per pensare che è una modella in stock.

Forse quella Julia pensava lo stesso di me. Che io fossi uno dei tanti modelli in stock.

Sempre che non lo fosse lei.

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Pagina 47

(Mezzanotte).

Mi sono cacciato in un bel guaio.

A un certo punto ho perso la testa – ho agito d'impulso, per salvarmi – e ho peggiorato ancora le cose.

Ormai per me non c'è che il Tribunale di disciplina. Non mi resta che tornarmene in qualche modo a Neptune – sono a Des Moines, in questo momento – e aspettare che le acque si calmino.

Non ho visto Barney Dragomine. Non gli sono neppure arrivato vicino.

Dopo essere rimasto seduto in quella sala d'aspetto per una buona mezz'ora, mi hanno convocato in uno degli uffici interni per parlare con uno dei direttori del personale ECB, che è risultato essere uno strigide, uno dei nuovi super robot di cui avevo sentito parlare.

L'ufficio era arredato in modo piuttosto convenzionale: moquette, lampade, poltrone eccetera. Perfino un attaccapanni a stelo. Non avendo mai visto prima uno strigide, e vedendo che la stanza sembrava vuota, mi stavo chiedendo dove diavolo fosse il direttore del personale, quando ho udito una dolce, gentile voce di donna dire qualcosa come: «Buon pomeriggio, vuole accomodarsi?». Sono rimasto sconcertato, perché non capivo da dove venisse e mi sono guardato in giro. Solo dopo un po' ho capito che usciva da una scatola sulla scrivania. All'inizio ho pensato che fosse una specie di intercom come quelli di un tempo, e che la donna stesse parlando da un ufficio vicino. È stato lo stesso strigide, accortosi della mia perplessità, a spiegarmi cos'era.

Se quella fosse stata una normale trasferta di lavoro, lo avrei probabilmente ascoltato con interesse. Non che sia un fanatico delle novità tecnologiche come Bloom, ma mi piace tenermi al corrente delle innovazioni. In quella circostanza, però, impaziente com'ero di vedere Dragomine, non ho prestato molta attenzione a quello che diceva. A guardarlo, certo, non era gran cosa: aveva due lenti, grosse come piattini, con una piccola protuberanza curva in mezzo – l'altoparlante – e in alto un paio di tozze sporgenze, probabilmente le antenne. Ogni tanto le lenti lampeggiavano, registrando la mia immagine penso. Non c'era alcun collegamento lasoide visibile; probabilmente veniva dall'alto. Quello che più mi colpiva era la voce, che...


(Ho dovuto interrompere per prendere il bus della vetrovia Des Moines-Chicago; ci sono solo otto persone oltre a me, gli altri sono muridi, seduti immobili come bambole ai loro posti).

Difficile descrivere la voce di quello strigide. Una voce di donna, come ho detto – calda e amabile, con un confortante tono di autorità, un'autorità benevola, carezzevole. Ascoltandola sentivi di potertene fidare, avevi l'impressione di essere in presenza di una personalità genuina – non proprio una donna vera, non esattamente, ma qualcosa di essenzialmente umano. Qualcosa con cuore e anima, intelligenza e sensibilità.

Al principio non mi ero reso conto che quella scatola non era solo un funzionario dell'Amministrazione. Era un dispositivo di controllo ipnogenico. Lo strigide me lo aveva spiegato, in effetti, ma quando lo aveva detto ero così disorientato che non avevo capito cosa intendeva. Ero come invaso da quella voce e da quello che c'era dietro, una sorta di sussurro con una pulsazione ritmica, come una palpitazione, forte e dominante, che mi faceva sentire assonnato, sottomesso, un po' come ci si sente in un Juvenor, e dopo un po' non ero neppure più cosciente dello strigide come cosa a sé, perché sembrava essermi entrato dentro, essere diventato parte di me. Rispondevo alle sue domande – chi ero e perché ero venuto lì – o almeno credevo di rispondere, perché mi sembrava che quello scambio si stesse svolgendo in qualche punto della mia mente; che non stessi ascoltando parole ma pensieri, e che i pensieri fossero i miei.

Non era semplice ipnosi. Era qualcosa di più. Quella maledetta cosa mi lavorava nel cervello, nel sangue. Ero pronto a dire ogni cosa, anzi, ero ansioso di farlo, e quando dico che volevo dire tutto non intendo solo il furto della carta di Bloom e la violazione della vigilanza, ma anche cose come il bacio sulla bocca a Hilda, l'uccisione di un passero con una sassata da ragazzo e chissà quante altre cose che mi sobbollivano dentro, mischiate fra loro. Onestamente, non saprei dire che cosa ho detto veramente e cosa mi era sembrato di aver detto.

Ora, parecchie ore dopo – in questo momento sono in vetrovia e sto sfrecciando sotto il Davenport Arch – credo di capire un po' meglio cosa è successo fra me e lo strigide, o meglio, fra me e la concretizzazione in forma strigidica delle idee concepite dal geniale volpone che ha progettato quella scatola, chiunque egli sia.

Mi è tornata alla mente una cosa scritta da un famoso sociologo, il dottor B.S. Glynn, che mi aiuta a darmi una spiegazione (ho ripescato la citazione nel mio Librex tascabile). È un passaggio da un suo saggio sulla liberazione dell'individuo, e lo copio qui di seguito:


Il passo più importante nel progresso sociale della nostra epoca – forse di tutte le epoche della storia della nostra specie – è stato la vittoria sulla viviparità, la maledizione di Eva. Questo ha reso possibile il controllo demografico, il nostro trionfo sul cieco stimolo riproduttivo che stava per condannare l'umanità a farsi soffocare dalla sua stessa fecondità. Ma, cosa ancor più importante, ha distrutto la famiglia.

La liberazione della donna è stata la liberazione di tutti noi. Non più padri, madri, fratelli e sorelle. Non più "amore" possessivo, non più incestuosi conflitti e degradanti alleanze genitori-figli; non più fragili psichi distrutte da ribellioni o dalla sottomissione.

Pure, sebbene nelle nazioni civilizzate del nostro pianeta la famiglia sia virtualmente estinta, la sua traccia rimane sepolta nel profondo della coscienza atavica della specie. È come un'eco ai confini della nostra mente. Questo è quanto rivelano gli studi del dottor Waldo Bailey di Tulane...


Non è il caso che prosegua oltre. Il succo dello scritto del dottor Glynn è che nel nostro subconscio sopravvivono tracce di viviparità, ed erano quelle che lo strigide riusciva a raggiungere. Provavo un nauseante, malsano senso di impotenza, come se dentro di me qualcuno stesse manipolando cose che non dovevano essere toccate, e allo stesso tempo cominciavo a ricordare – beh, non esattamente a ricordare, ma a riconoscere – a riconoscere sensazioni che non potevo aver provato ma che sapevo essere mie. Anche solo pensarci mi disturba, come mi disturba ora scriverne. Ero fuori controllo, anche le mie emozioni lo erano, e provavo un'angoscia terribile – un'angoscia mista a una singolare forma di esaltazione, perché ero anche smanioso e gioioso, e vergognoso allo stesso tempo. Umiliato. Qualcosa nel mio... nel mio cosa? Nei miei geni, forse. Una tara, giù, nel profondo. Un qualcosa che rispondeva a quella voce, a quella pulsazione arteriale. Qualche cellula tarata dormiente si era risvegliata. Ero invaso dalla sensazione di essere una piccola cosa, debole e miserevole, un bambino di fronte a un'autorità indiscussa, un uomo-dio, un potere arbitrario e onnipotente... era questo che accadeva un tempo nelle famiglie? La carezzevole voce materna unita al tuono della voce paterna... e tutto questo veniva da quel marchingegno di sofisticata audiotecnotronica che mi vomitava addosso i suoi eph acustici mentre io annegavo in un vertiginoso vortice di emozioni: repulsione e degradazione, paura e adorazione...

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Pagina 64

Ha fatto un passo verso di me. Barcollava.

«Adesso un altro».

«Non posso».

«Ci provi lo stesso. Come pensa di poter scendere, se non lo fa?».

Ha fatto un secondo passo, un terzo, un quarto, sempre con me davanti, che indietreggiavo mentre lei avanzava.

«Così va meglio» ho detto, ma a quel punto lei ha fatto l'errore di guardare verso l'oceano, in quella voragine di nebbia. Barcollando, ha teso d'istinto un braccio verso di me mentre io mi gettavo in avanti per prenderla. L'ho afferrata e l'ho tenuta ferma. La sentivo tremare. Aveva la testa contro il mio petto, il cuore che martellava. Era una strana sensazione. Strana e forte. Lei ha rialzato la testa; ci siamo guardati negli occhi. Ora anch'io mi sentivo un po' confuso, ma non era per le vertigini. Aveva il viso ovale, la pelle appena olivastra, gli occhi di un intenso azzurro chiaro. Era successo tutto in un attimo – che lei perdesse l'equilibrio, che io la afferrassi e la stringessi – ed ero frastornato. Perché quella vicinanza accidentale, quel breve contatto dei corpi, aveva avuto un effetto così potente? Non si poteva neppure dire che fossimo due estranei, in senso fisico. Con il programma di accesso casuale del Telesex avevamo già avuto un'esperienza erotica incomparabilmente più intima – la consueta esplorazione corporea elettrosessuale. Non c'era un poro, per così dire, che non ci fossimo vicendevolmente esplorati. E invece eccoci qui, scossi e turbati da un accidentale contatto fisico, da un incontro di mani, di sguardi, dal calore che ricevevamo l'uno dal corpo dell'altro. Ci siamo staccati come da una colpa, sorpresi per l'inattesa forza di quella sensazione. Ma quale sensazione?

Ci siamo staccati, come ripeto, ma lei aveva ancora bisogno del mio appoggio, così con qualche esitazione ho cominciato a farla camminare sul coronamento della Barriera tenendole un braccio sulla spalla, mentre lei mi circondava il fianco con il suo. Dovevamo sembrare una coppia di innamorati di un qualche film dell'antichità. E la strana sensazione è ritornata – per me, almeno – e di nuovo non sono riuscito a spiegarmela. Era per quell'atmosfera di tenerezza protettiva? O semplicemente per la stranezza di quel contatto? Mi è tornato alla memoria l'impulso che mi aveva spinto a baciare Hilda quella volta, e come si era offesa.

Il contatto fisico è considerato qualcosa di regressivo e primitivo, come mangiare con le mani o sputare in pubblico. Gli animali si toccano; gli esclusi si toccano. Noi no. Sin da bambini, a scuola come nei giochi, ci fanno capire che il contatto fisico ha le sue radici nella viviparità. È il primo passo verso l'aggressione fisica e le tante forme di dominio. Ci insegnano a rispettare l'integrità corporea e l'indipendenza degli altri. Per soddisfare le nostre necessità sensoriali abbiamo i Comforter e gli Stimulator. In poche generazioni siamo riusciti a eliminare quasi del tutto crimini che sarebbero stati inevitabili in una società che permettesse il contatto fisico: stupri, incesti, violenze sui bambini eccetera.

Tutto questo lo so, e credo sia giusto. Pure, sostenere Julia sulla sommità della Barriera in mezzo a tutta quella nebbia, e sentire la pressione del suo braccio sul fianco, mi procurava una singolare sensazione, e non volevo che finisse. Penso che neppure lei lo volesse. Ora camminava bene. Non le serviva più il mio appoggio. Ma il braccio non lo aveva tolto, non si era staccata. Ci eravamo uniti per necessità; ora la necessità non c'era più, ed erano altre le cose che stavamo provando: una sorta di struggente desiderio, unito alla sensazione di commettere un peccato. Era una cosa proibita – non propriamente proibita, ma certo al di fuori dei modelli accettati di comportamento sociale. Tu non toccherai il tuo simile. Era come se fosse scolpito sulle tavole della Legge. Nonostante questo, noi ci toccavamo; ci toccavamo.

Per tutto il tempo, per distrarla dal mal di montagna, avevo continuato a parlarle, raccontandole dell'infiltrazione e dell'inspiegabile malfunzionamento dei sensori e dei sistemi ausiliari, del fatto che persino i Profondi erano venuti meno alla loro funzione, e che tutti i miei sforzi per far sì che i grandi capi vedessero la verità erano riusciti solo a mettermi nei guai. Mi ascoltava? Voglio dire, capiva quello che stavo dicendo? Non so se le mie parole avessero un senso, per lei. Parlavo per parlare. L'unica cosa di cui ero cosciente era il fatto che ci stavamo toccando – e che quel modello di senso del dovere, quell'incarnazione della legge, quella snella piccola agente del DIPS, senza berretto, con i capelli che svolazzavano nel vento caldo-umido del coronamento della Barriera, mi stava allacciando la vita con il braccio e la sua testa mi poggiava sulla spalla. Eravamo in una specie di trance, perduta ogni traccia di tempo, di distanza.

«Pensa di farcela adesso a scendere?» le ho chiesto.

«Sì, sto bene. Posso farcela».

È stato allora, quando ci siamo voltati per avviarci alla discesa, che abbiamo visto l'urside di pattuglia sbucare dalla nebbia e venire verso di noi.

Aveva già superato il punto dove c'erano i gradini. Eravamo in trappola.

Ho guardato l'urside, sbigottito. Mi era completamente passato di mente. Veniva verso di noi, muovendosi pesantemente, tozzo e schiacciato al suolo, con le chiazze di umidità che scintillavano sul rivestimento idrorepellente, granuloso all'aspetto, le lenti bagnate e luccicanti. Julia è indietreggiata, tirandomi per un braccio. Non aveva mai visto prima un urside come quello. Io non le avevo detto nulla, era già terrorizzata abbastanza, anche senza ursidi.

«A terra» le ho detto. «Si stenda a terra». L'urside era a una cinquantina di metri. Saremmo riusciti a schiacciarci al di sotto del suo campo visivo? Julia si muoveva troppo lentamente e ho dovuto spingerla a terra. «Tenga la testa giù» le ho detto. «Non alzi lo sguardo».

Non appena ci siamo abbassati, l'urside ha perso la nostra sagoma e abbiamo visto che esitava. Pregavo che quel bastardo facesse dietrofront e se ne andasse. Ma non lo ha fatto. Ha ripreso la sua avanzata. Evidentemente non aveva ancora raggiunto il punto finale del suo percorso di ronda. Se fossimo riusciti a strisciare verso il bordo, fuori dalla sua traiettoria, forse sarebbe passato oltre.

Lo sentivo cigolare mentre si avvicinava. Sembrava il respiro di un asmatico. Le zampe raspavano ritmicamente il pavimento di pietra. Ma Julia non è riuscita a resistere oltre. È saltata in piedi. «Corri, Fowke, corri!». L'urside ha captato la sua sagoma e ha accelerato il passo. Mi sono alzato anch'io, precipitosamente, e le sono corso dietro. Ma era inutile. Potevamo correre più veloci dell'urside, ma solo per poco. Presto o tardi ci saremmo stancati. Lui invece no.

Non siamo andati lontano. Julia è scivolata su una pietra bagnata, cadendo in ginocchio. Mi sono fermato, girandomi per fare fronte all'urside, che stava pestando le ultime zampate che ancora ci separavano. Non ero mai stato così vicino a un urside. Distinguevo ogni dettaglio, la testa rotonda striata di licheni color ruggine, il guscio del dorso con gli anelli di salino. In basso c'erano le dita artigliate delle zampe anteriori, che già cominciavano a spalancarsi. Mi sono strappato di dosso il giubbotto con la folle idea di lanciarglielo addosso. Che afferrasse quello.

Gliel'ho gettato sulla testa proprio nel momento in cui, ritto sulle zampe posteriori, stava per attaccare. Per un attimo è rimasto disorientato. Ha cercato di prendermi, ma le braccia si sono chiuse troppo in basso. Mi sono spostato di lato con un salto e lui mi è passato accanto lacerando il giubbotto e si è diretto verso Julia, che era rimasta inginocchiata dove era caduta, stordita. Gli sono corso dietro, sferrandogli calci sul dorso, cercando di farlo voltare, di spingerlo da un lato. Lui si è girato di scatto, sferzando l'aria con una delle braccia artigliate – l'altra stava ancora facendo a pezzi il mio giubbotto, sbriciolando i bottoni come noci. Mi ha colpito al braccio sinistro. Avevo la manica a brandelli, penzolante, e uno squarcio dalla spalla al gomito. L'urside è indietreggiato un poco, con le braccia spalancate, pronte a chiudermi nella loro morsa. Per un attimo è rimasto in equilibrio sulle zampe posteriori, con il ventre esposto, e su quello mi sono scagliato con i piedi avanti. L'ho preso in pieno petto. L'ho visto sbandare all'indietro, frustando l'aria con le zampe. Ha cercato di girare su se stesso per raddrizzarsi, ma dalla parte sbagliata. Era troppo vicino al bordo interno e ha perso l'equilibrio. Ho visto una delle zampe mordere la pietra cercando la presa, facendo schizzare schegge di granito. Poi ha perso anche quell'appiglio ed è precipitato, scomparendo alla vista. Ho strisciato fino al bordo per guardare giù e l'ho visto sulla piattaforma di cemento, in pezzi, con una zampa che ancora artigliava l'aria.

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20 settembre

È il terzo giorno qui dentro.

In un primo momento avevo pensato che fosse una specie di centro di rieducazione.

Ora so cos'è: è una colonia di esclusi. È recintata e sorvegliata. Non ci sono possibilità di fuga. Sono prigioniero fra i prigionieri, un pezzo di spazzatura umana gettato in un angolo a invecchiare e morire.


Il mattino del 17 due ursidi della polizia mi hanno ficcato in una macchina e hanno preso la vetrovia rapida per Boston — passando davanti all'edificio della Direzione Nordest mi sono raffigurato il dottor Matthews nel suo bell'ufficio d'angolo, tutto compiaciuto, intento a leggere disinformazione sul suo monitor — e poi ancora a nord per qualche chilometro, attraversando una squallida periferia. Tutta la zona era stata devastata da un incendio qualche anno prima e interi isolati erano bruciati, ma dovevano aver deciso che non valeva la pena di ricostruirli. Tanto la popolazione avrebbe lasciato la città comunque. Ed è rimasta così com'era, una distesa desolata e completamente carbonizzata con qualche edificio ancora in piedi qua e là.

Non siamo andati lontano. Giunti a un posto di blocco, ci hanno fatto cenno di varcare un cancello e siamo entrati in un'area recintata — una specie di campo con numerose baracche disposte intorno a uno spazio erboso, al centro del quale c'era qualche albero dall'aria malandata.

Ci siamo fermati. Gli ursidi mi hanno fatto scendere, poi sono ripartiti lasciandomi lì.

Nello spazio erboso c'erano quindici, venti persone: uomini, donne, bambini. Sono rimasto dov'ero per un po', in attesa che qualcuno si avvicinasse per dirmi cosa fare e dove andare, ma nessuno si è avvicinato salvo uno dei bambini, che un adulto ha subito richiamato indietro.

Sono rimasto fermo, in piedi, sotto uno di quegli stentati alberelli, a osservare quelle persone. Alcuni di loro mi studiavano a loro volta, e mi è sembrato che parlassero di me. Un paio ridevano, dandosi di gomito, cosa che mi ha fatto sentire subito a disagio. Ciò che più di tutto mi disturbava era vedere quei bambini che giocavano e correvano. Non avevo mai visto bambini lasciati liberi in quel modo; in realtà non ne avevo mai visti e basta, salvo occasionalmente, in gruppo, accompagnati da qualche parte sotto sorveglianza. Qui era diverso. Tutto era diverso. Lo avevo capito da subito, ma non volevo ammetterlo. Cercavo di autoconvincermi che era solo un'area di parcheggio, una stazione temporanea. Non era posto per me, quello. Volevo, dovevo continuare a crederlo, continuavo a ripetere a me stesso che quelli che vedevo non potevano essere esclusi, che forse appartenevano a qualche altra categoria.

Ma c'erano quei bambini, lasciati liberi. Ed era una tale deviazione dalle nostre norme di vita sociale che non riuscivo ad accettarla, ma non potevo consentirmi di capire, e ricordo che continuavo a girare la testa altrove, verso terra, verso il cielo, verso qualsiasi cosa pur di non vedere quei bambini.

Nessuno si avvicinava. Non succedeva nulla. La mattinata è trascorsa lentamente. I bambini giocavano; la gente andava e veniva. Vedevo delle coppie, coppie che si toccavano, si tenevano per mano, si abbracciavano, perfino. Quella vista provocava in me sensazioni contrastanti, di repulsione e curiosità. La persona più vicina era un uomo anziano con un abito stazzonato, seduto su una panca di legno a una ventina di passi da me. Lo avevo sorpreso tre o quattro volte a guardarmi di sottecchi, ma non aveva cercato di avvicinarsi. Alla fine si era alzato e aveva attraversato il prato in direzione di una delle baracche.

Il cielo si stava rannuvolando, e il vento si era fatto freddo. Io avevo indosso solo la rozza camicia e i calzoni che mi avevano dato in infermeria. Cominciavo a chiedermi come avrei fatto a trovare un riparo. Ho udito il suono lontano di una campanella e da una delle baracche mi è giunto odore di cibo. Era l'ora del pranzo di mezzogiorno. Come tanti animaletti, i bambini sono corsi gridando verso la baracca e gli adulti li hanno seguiti. Uno degli uomini mi ha fatto un cenno. Si supponeva che mangiassi con loro? Avevo fame, ma la sola idea di sedermi insieme a loro mi faceva orrore. Non volevo mescolarmi con quella gente. Dovevo restare separato. Ero diverso. Dovevo essere diverso.

Così sono rimasto fuori, da solo, e intanto si è messo a piovere, una pioggia scrosciante, fredda, che ben presto mi ha completamente inzuppato. Sono rimasto lì, frustrato, umiliato, con l'acqua che mi scorreva sul cranio rasato e sul viso escoriato e tumefatto.

Mi sono diretto verso una delle baracche per ripararmi, ma quando ho visto che era piena di esclusi (li vedevo guardarmi dalle finestre) sono andato a cercarne un'altra. Anche in quella dopo c'era gente. Qualcuno ha aperto la porta e mi ha fatto un cenno, incitandomi a entrare, ma io mi sono allontanato.

Finalmente, ho visto un capanno per gli attrezzi, e mi ci sono trascinato dentro, fra rastrelli, falci e ragnatele. Lì ho trascorso il resto della giornata e la notte, raggomitolato sul tavolato del pavimento, zuppo e pieno di brividi, guardando la pioggia che gocciolava dalle fessure del tetto. Pensavo con una sorta di perfida soddisfazione che un giorno o l'altro – domani, fra un mese, fra un anno – l'Atlantico si sarebbe riversato su quel campo con un'ondata che avrebbe spazzato via tutto come sabbia. Vedevo con gli occhi della mente gigantesche muraglie d'acqua avventarsi su quelle baracche, distruggendo ogni cosa, spargendo i pezzi dappertutto.

Durante la notte qualcuno ha aperto la porta del capanno, e una luce ha lampeggiato sul mio viso, svegliandomi. Mi sono irrigidito, pronto a far fronte a un attacco, ma subito la luce si è spenta, la porta è tornata a chiudersi e il visitatore è scomparso. Per difendermi ho preso uno dei rastrelli, ma non è entrato più nessuno e ho potuto dormire fino all'alba. Solo alle prime luci del giorno ho visto quello che non avevo potuto vedere prima: mi avevano lasciato una scodella di cibo, una specie di zuppa. Avevo una gran fame, ma l'ho lasciata dov'era. Mangiare avrebbe significato partecipare, ammettere che ero uno di loro, sarebbe stato un atto di resa.

Mi sono trascinato fuori, indolenzito e barcollante. Avevo ancora i vestiti bagnati. La giornata era bella, ma fredda, e c'era brina all'ombra delle baracche. Il pallido sole mattutino non dava alcun calore. Per calmare la sete ho leccato la rugiada dalle foglie degli alberi. La colonia dormiva ancora. Qua e là si udiva russare sonoramente. Un bambino ha cominciato a piangere, e lo hanno fatto tacere con uno scapaccione. Ho esplorato tutto il perimetro del campo avanzando a fatica nell'erba alta. Sul lato ovest, dove un tempo c'era una strada, correva un fossato profondo tre metri, il cui versante opposto era chiuso da un reticolato di filo spinato. Ho proseguito lungo il fossato verso nord. Anche quel lato era chiuso dal reticolato, con un cancello a metà, dietro al quale c'era l'urside di guardia che subito ha rilevato la mia immagine e mi ha lanciato un'occhiata minacciosa. Anche lungo il lato est c'erano il fossato e il reticolato. A sud, il confine sembrava aperto e incustodito, ma la presenza di varie coppie di bassi tubi che fuoriuscivano dal terreno a intervalli regolari mi ha fatto sospettare la presenza di un vallo ad alta tensione, e ne ho avuto conferma quando ho gettato una manciata di pietrisco oltre la linea di quei tubi, all'apparenza così inoffensivi. Si è sentito un crepitio e ho visto piccoli anelli di fumo nell'aria. Il pietrisco era scomparso... disintegrato.

Scoraggiato, sono tornato nello spazio aperto al centro del campo. La gente stava uscendo dalle baracche, dirigendosi verso il capannone che serviva da refettorio. Mi chiedevo come passassero il tempo. C'era un orto vicino al settore nord del recinto, ma non era grande abbastanza per tenere occupate più di poche persone. Forse fabbricavano piccoli oggetti di artigianato.

Mi sono sdraiato sotto gli esili alberelli dove mi ero seduto il giorno prima e mi sono appisolato. Dopo un po' mi sono svegliato e ho visto l'uomo anziano con l'abito stazzonato che mi guardava dalla sua panca. Sembrava sul punto di dire qualcosa, ma l'ho scoraggiato girandomi dall'altra parte. Quando mi sono svegliato di nuovo ero circondato da bambini – otto o nove piccoli straccioni con le vesti sudice. Mi sono alzato a sedere, allarmato, con lo stomaco che brontolava per la fame. «Ehi, signore, perché non vieni dentro?» mi ha chiesto uno di loro. «Perché non mangi qualcosa?». Si sono poco a poco avvicinati, alcuni sorridevano, altri sembravano aver paura. Era stato il più grande a parlare, un ragazzetto di una dozzina d'anni. «Cos'hai che non va, signore?» ha detto. «Stai male?». Lentamente mi sono accovacciato, guardandoli senza rispondere. «Tutti gli altri hanno mangiato, come mai tu no?». Ho sentito voci di adulti che li richiamavano. Due o tre sono andati via, ma gli altri sono rimasti. «Sei sordo, signore?» ha chiesto ancora il ragazzo. Uno degli altri, una bambina con le treccine, si è messa a ridere. Ben presto ridevano tutti, anche quelli che sembravano aver paura di me. Si sono avvicinati ancora. Esausto e debole com'ero, non ero certo di poter sostenere un attacco improvviso di quei ragazzini. Il più grande, il portavoce, ha steso una mano porgendomi un pezzo di pane. «Lo vuoi, signore?». Quel gesto di scherno mi ha fatto perdere la pazienza. Mi sono messo a urlare agitando le braccia, e loro sono indietreggiati precipitosamente e sono scappati, disperdendosi in tutte le direzioni.

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21 gennaio

Il periodo di indottrinamento ha preso parecchi giorni. Se volessi riportare tutte le norme e i regolamenti che si supponeva dovessi memorizzare, intaserei la micropenna. Non prestavo molta attenzione, un po' perché quel campo di punizione mi aveva davvero logorato – devo aver perso almeno venti chili – ma anche perché pensavo che mi sarebbe bastato fare come gli altri per non avere problemi.

Ci fanno indossare abiti antiquati e dobbiamo rispettare un programma rigidissimo, giorno dopo giorno, minuto per minuto, e se si ha occasione di parlare con altri esclusi sono consentiti solo certi argomenti: tempo, cibo e salute, per lo più.

La cosa più strana è che mi hanno destinato a vivere in una casa nel ruolo di maschio adulto di una "famiglia", con una "moglie", nientedimeno, e due "figli".

Uno dei figli è in realtà un muride vestito da bambina, con un abitino a pallini, parrucca e maschera.

È lei che ha il compito di controllarci.


25 gennaio

La zona ricostruita della città non è grande, un quadrato di sei isolati per lato – che è poi l'intera estensione della colonia –, ed è sorvegliata da ursidi della polizia in uniforme, con maschera e occhiali scuri, così ben camuffati che una volta mi sono avvicinato a uno di loro per chiedere un'informazione e solo all'ultimo momento mi sono accorto che non era umano.

Il mio programma settimanale è il seguente: sveglia alle sette e colazione (preparata da mia "moglie"), poi vado in centro, al volante di una riproduzione di auto antica (una Plymouth del 1952), parcheggio di fronte al Tribunale e salgo nel mio ufficio, al secondo piano di uno degli edifici che circondano la piazza. Si suppone che sia un'agenzia immobiliare, con tanto di mobilio d'epoca: telefono, rastrelliera per i cappelli e macchina da scrivere, oltre a una grande foto a colori del presidente Eisenhower alla parete. Lì devo far finta di lavorare, usare di tanto in tanto il telefono per fare chiamate immaginarie o scrivere a macchina lettere fasulle. La mia prestazione è seguita da una piccola telecamera nascosta nel ritratto di Eisenhower. Se batto la fiacca, gli occhi del presidente cominciano a lampeggiare. A mezzogiorno scendo per il pranzo e vado al "ristorante", dove consumo il pasto insieme ad altri esclusi, che impersonano avvocati, commercianti, il giudice della contea eccetera, e parliamo della salute e del tempo sotto lo sguardo occhiuto della felide con una parrucca bionda e riccioluta che serve ai tavoli. Anche lì c'è il ritratto di Eisenhower a una parete.

Il pomeriggio è come la mattina. Alle 17.30 riprendo la mia Plymouth e torno a "casa". Parlo con mia "moglie" della nostra salute, della salute dei bambini e del tempo, poi lei prepara la cena e mette a letto i bambini – beh, il bambino, se non altro (lui è un bambino vero) – e ci sediamo in soggiorno ad ascoltare musica alla radio (tre o quattro canzoni popolari del periodo, sempre le stesse) mentre lei lavora a maglia e io faccio finta di leggere il giornale, un facsimile del «Kansas City Star» del 7 ottobre 1954, sempre quello. Alle dieci andiamo a letto.

Il sabato mattina porto i bambini in un piccolo parco, dove giocano con altalene e scivoli, e nel pomeriggio ascolto alla radio la radiocronaca di una partita di baseball – sempre la stessa stramaledetta partita, sempre quella, ogni sabato. Domenica andiamo alla chiesa luterana all'angolo, dopodiché torniamo a casa per il gran pranzo dei giorni di festa. Poi facciamo un pisolino.

Credo siano tutte prove, in previsione dell'arrivo di qualche visitatore importante, per mostrargli una ricostruzione vivente della vita di una piccola cittadina in quel periodo storico. Spero solo che venga presto e che si possa passare a una vita accettabile, con norme un po' più rilassate.


30 gennaio

Mia moglie è una donna piccola e graziosa, dai modi timidi, con un perenne sorriso teso sul volto. Il suo nome è Shirley – voglio dire, questo è il nome che le è stato assegnato – e il mio è Tom. Il bambino si chiama Danny. Ha circa otto anni e dev'essere viviparo, perché è difficile pensare che un bambino così piccolo possa essere un escluso. Mi ha colpito il pensiero che Shirley possa essere la sua vera madre. Lui la abbraccia continuamente e lei lo conforta in un modo ansioso, tenendomi d'occhio, come se potessi disapprovare la cosa. Hanno entrambi paura di me, anche se non ho fatto mai niente che possa spaventarli.

E sono terrorizzati dalla "bambina", che si chiama Sandra.


31 gennaio

Mi rendo conto ora che per tutto il tempo siamo stati visitati da turisti – non molti, arrivano uno alla volta. È difficile riconoscerli a prima vista, perché anche loro indossano abiti d'epoca come noi, e non parlano. Si limitano a girare per la città e osservarci. Un tizio è venuto nel mio ufficio un paio di giorni fa, è rimasto a fissarmi per un po' dalla soglia – non ero certo così sprovveduto da rivolgergli la parola – poi ha fatto un risolino supponente e se n'è andato. Ieri sera una donna è entrata addirittura nel nostro soggiorno, esaminando ogni cosa con una sorta di divertita ripugnanza. Shirley si è chinata sul suo lavoro a maglia, fingendo di non essersi accorta di nulla. Io stavo per dire qualcosa, ma poi ho visto che Sandra aveva gli occhi fissi su di me e ho capito che non dovevo farlo, così mi sono barricato dietro il mio stramaledetto giornale finché non è andata via.


3 febbraio

È mezzogiorno di sabato. Sono seduto sulla veranda davanti alla casa. Fa freddo e c'è vento. Ci sono sessanta centimetri di neve in giardino, dove Danny e sua "sorella" stanno giocando a palla, come previsto dal programma. Sandra la prende sempre. Una volta Danny ha sbagliato il lancio – sarà stata troppo alta di almeno due metri – ma lei con un salto l'ha afferrata come niente fosse. È stato inquietante veder saltare così quella creatura imparruccata dalle fattezze infantili, e veder scintillare al sole le sue caviglie metalliche.

Danny e io abbiamo freddo. Rientreremmo a casa se non fossimo obbligati a stare fuori – lui a sprofondare qua e là nella neve, con il naso e le orecchie arrossati per il freddo, e io a tremare su questa poltrona con il berretto tirato giù fino alle orecchie. Ho le dita insensibili. Riesco a stento a scrivere con la micropenna. Sandra invece non ha neppure il cappotto. Non ne ha bisogno. Porta la sua vestina leggera, con le maniche lunghe che le coprono le braccia.

Vedo altre case e altri giardini lungo la strada, e dappertutto è la stessa cosa: un uomo seduto sulla veranda che guarda un bambino vero e un muride che giocano nella neve.

Facciamo tutti le stesse cose allo stesso tempo.

Shirley e io dormiamo nella stessa camera, in letti gemelli. I primi tempi aveva sempre paura di me, e in particolare quando andavamo a letto. Penso che le prime notti non abbia chiuso occhio, nel timore che tentassi degli approcci sensoriali (non è escluso che il mio predecessore – non ne parla mai, ma sono convinto che prima di me ci sia stato un altro "Tom" – ci abbia provato, e che per questo sia stato rimosso). Ho fatto il possibile per tranquillizzarla, e adesso è più rilassata, ma ha ancora paura, forse per la mia mole, o per la faccia piena di bozzi e cicatrici, lasciatemi in dono dall'urside del tribunale l'autunno scorso.

I contatti fisici non sono esplicitamente proibiti dal regolamento, per quanto ricordo – dopotutto siamo entrambi esclusi – ma una volta che Shirley in cucina si era tagliata un dito e la stavo aiutando a bendare la mano, sulla soglia è immediatamente apparsa Sandra, con quel suo sguardo fisso che scintillava, e subito Shirley con un piccolo ansito ha ritratto la mano e ha finito di bendarsi da sola.

Per cui è probabile che i contatti fisici, se non espressamente proibiti, siano disapprovati – e che il sesso vero e proprio sia tabù. La sola presenza di Sandra, comunque, è più che sufficiente per togliermi dalla testa certe idee. Sandra e Danny hanno camerette separate, ma lei naturalmente non dorme e passa la notte a girare per casa. A volte mi sveglio e la vedo in piedi in un angolo della stanza, che mi fissa – ha gli occhi luminosi – ed è un'esperienza agghiacciante.

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