Copertina
Autore Antonio Erbetta
Titolo Il corpo spesso
SottotitoloEsperienze letterarie e vissuti formativi
EdizioneUtet libreria, Torino, 2001, Strumenti per le Scienze della Formazione , pag. 236, dim. 140x205x15 mm , Isbn 978-88-7750-728-0
CuratoreAntonio Erbetta
Classe critica letteraria
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Indice


Introduzione
di Antonio Erbetta                         IX

I.   Lo sguardo del corpo.
     Da una rilettura del «Tonio Kröger»
     di Thomas Mann
     di Marina Lazzati                      3

II.  Il corpo necessario ovvero crudele.
     La danza inorganica di Antonin Artaud
     di Elvira Bonfanti                    27

III. L'occhio sovrano.
     In margine all'inaudito Bataille.
     Ovvero quando un presunto pornografo
     diventa educatore sublime
     di Antonio Erbetta                    51

IV.  Corpo della parola, corpo del mondo.
     Dal «Diario» di Etty Hillesum
     di Alessandra Risso                   73

V.   Il corpo mosso
     di Marco Rossi                        97

VI.  Il sapore del mondo.
     Sul senso formativo de «La nausea»
     di Jean-Paul Sartre
     di Ivano Oggero                      109

VII. La vanità del corpo.
     A proposito di Cioran,
     l'insopportabile Qohèlet romeno
     di Ugo Dí Donato                     133

VIII.Il linguaggio dei loro capelli.
     Lo scandalo pedagogico di Pier Paolo
     Pasolini
     di Grazia Massara                    153

IX.  Il corpo stretto.
     Luciano Bianciardi tra integrazione
     e rivolta
     di Elena Madrussan                   185

X.   Epilogo pedagogico
     di Alessandra Risso                  211

Bibliografia                              223

 

 

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Pagina IX

Introduzione

di Antonio Erbetta


Nell'oramai lontanissimo 1965, all'inizio dell'autunno, Jean-Paul Sartre teneva in Giappone - a Tokio per la precisione - la prima di una serie di celebri conferenze poi pubblicate, nel 1972, all'interno dell'ottavo volume di Situations, in cui egli, lanciato in una appassionata «difesa dell'intellettuale», mostra, per così dire, la legalità culturale, morale e sociale di una definizione con cui rispondere alla domanda che porta il titolo stesso di quella prima conferenza: qu'est-ce qu'un intellectuel? Donde la risposta, come al solito provocatoria e tutta intrisa della tradizione «pedagogica» del suo maestro, Émile August Chartier detto Alain, e dello «spirito di negazione» che quella tradizione implicava: «L'intellettuale - dirà dunque Sartre con intenzionalità decisamente polemica - è qualcuno che s'immischia in ciò che non lo riguarda», in contrasto, così, con qualsiasi «tecnico del sapere pratico», sin a diventare - egli - l'unico vero testimone di una società lacerata. Una società nella quale, in quanto «uomo che prende coscienza dell'opposizione» tra ricerca della verità e ideologia dominante, a lui tocca una situazione di solitudine destinata a diventare, fino al «martirio», impegno radicale: farsi alla fine «custode dei fini fondamentali».

Certo: in quell'occasione Sartre, con fare sicuramente provocatorio, rivendicava quel che era stata la passione assoluta che ne aveva pervaso la vita fin dai tempi della giovinezza: l'idea che la scrittura, per uno scrittore vero, rappresentasse in fin dei conti tutto il suo destino, tanto che, ne La force de l'age, cosi aveva detto di lui Simone de Beauvoir: «L'opera d'arte, l'opera letteraria, era per lui un fine assoluto; essa portava in sé la sua ragion d'essere, quella del suo creatore, e forse anche - questo non lo diceva, ma sospettavo lo pensasse fermamente - quella dell'intero universo». Salvo il fatto che lì, in quella difesa dell'intellettuale engagé che tante polemiche meschine ha suscitato, oggi come allora, Sartre poneva più in generale un problema tipicamente fenomenologico che non valeva tanto - o soltanto - a certificare lo statuto critico del «letterato», quanto semmai a decifrare il senso storico ed esistenziale di un lavoro capace di reagire al disincanto del mondo. Il problema, cioè, di sfuggire, ciascuno, dall'angustia specialistica di qualsiasi mera descrizione di quello stesso mondo, per tentare la strada di una sua interpretazione di senso capace di strapparlo dal mutismo di una fatticità senza orizzonti. Un progetto in cui risuona l'evidente richiamo di Husserl che, alle prese trent'anni prima con la «crisi delle scienze europee», ci aveva ricordato - e Sartre ne aveva registrato da subito la portata epocale - come «le mere scienze di fatti producano meri uomini di fatto», e come, sotto questo profilo, «nella miseria della nostra vita [...] questa scienza non ha niente da dirci», in quanto «essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l'uomo»; vale a dire - concludeva Husserl - «i problemi del senso o del non-senso dell'esistenza umana».

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Pagina 109

VI.

Il sapore del mondo. Sul senso formativo de «La nausea» di Jean-Paul Sartre

di Ivano Oggero

    Mi stanno capitando le cose più strane...
    i miei sensi... intendo il senso dell'
    udito, della vista, del tatto... cominciano
    a tradirmi.  Sì... per esempio, so che
    questo tavolo è un tavolo, lo posso vedere
    e toccare... ma è una sensazione limitata,
    stanca... capisce quello che voglio dire?»
    «Si, ho capito.»  «Lo stesso vale per tutto
    il resto: la musica, gli odori, i volti e
    le voci della gente, tutto mi appare più
    povero, più grigio, senza nessun valore...
                                 INGMAR BERGMAN



6.1 Una premessa

Il film è Scene da un matrimonio; Bergman è lucido e spietato come al solito: di fronte ad un'attonita Liv Ullmann nella parte di un avvocato, una donna sulla sessantina spiega perché vuole divorziare da suo marito. Non c'è nulla che non vada, i figli sono adulti e sposati, lei e suo marito hanno tutto ciò che si può desiderare per condurre una vita tranquilla e senza pensieri: amici, interessi in comune, la musica, una bella casa di campagna, la salute. Solo una cosa manca: il suo è un matrimonio senza amore. La donna torna e ritorna su questo tema, minuziosamente spiega alla sua interlocutrice questo strano capriccio: «Ho tutto, eppure mi ostino a cercare una cosa così confusa che chiamo amore, lei certo mi giudicherà capricciosa ed egoista...». Poi la telecamera inquadra le mani della donna che cercano di aprire uno spiraglio immaginario («ho creduto di amare, cercavo di aprire una porta che rimaneva sbarrata!») e, immediatamente dopo, il volto pietrificato di Liv Ullmann. «Terribile!», dice la giovane donna, che per un istante intuisce e immediatamente rifiuta il suo stesso stato. La mano della donna indugia poi sul tavolo, lei parla e spietatamente conclude che tutto appare limitato, povero e grigio.

Una sorte simile, per altri e più complessi motivi, capita ad Antoine Roquentin, protagonista del romanzo di Jean-Paul Sartre, La nausea:

    Ora me ne accorgo - annota Roquentin nel
    suo diaro - mi ricordo meglio ciò che ho
    provato l'altro giorno, quando tenevo quel
    ciottolo.  Era una specie di nausea
    dolciastra.  Com'era spiacevole!  E
    proveniva dal ciottolo, ne sono sicuro,
    passava dal ciottolo alle mie mani.  Si, è
    così, proprio cosi, una specie di nausea
    nelle mie mani
         (Sartre, 1938; trad. it. 1990, p. 23).

Roquentin ritornerà spesso su questa ripugnante qualità che promana dalle cose che tocca, che vede, che gusta, lamentando il fatto che le cose non dovrebbero essere così «vive».

Il nostro scritto si occuperà esattamente di questo fenomeno che, in prima battuta, vorremmo chiamare ribellione. Un mondo (cose, persone, situazioni) che perde improvvisamente la sua neutralità oggettiva o le sue qualità «gustose», per rivelare di sé uno strano sapore, ora inconsistente e povero, ora ripugnante e nauseante. Vedremo in seguito se questa sconcertante esperienza può avere a che fare con l'educazione e in che modo.

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Pagina 185

IX.

Il corpo stretto. Luciano Bianciardi tra integrazione e rivolta

di Elena Madrussan

    Ah! Se la comunità umana è possibile solo a
    prezzo di imbavagliamento e asfissia, che
    venga presto la bomba alla melinite che
    farà saltare tutto.
                          VLADIMIR JANKÉLÉVITCH



9.1 Il linguaggio sociometrico

Luciano Bianciardi non intendeva davvero scrivere di educazione. Nella nebbiosa Milano degli anni Cinquanta egli non si sentiva certo «pedagogo» - tantomeno «pedagogista» - e non aveva pensato di esserlo, probabilmente, nemmeno quando insegnava inglese alla scuola media o filosofia e storia al Liceo Classico di Grosseto. Né, a maggior ragione, nessuno potrebbe osare definirlo tale a posteriori. Eppure la vita di Bianciardi è stata, per chi volesse accostarcisi, esemplarmente pedagogica.

Non è facile comprendere il criptogramma che l'Autore espone e nasconde incessantemente agli occhi di chi lo legge, fatto di descrizioni che ostentano la forza dell'obiettività e che, nel contempo, non smettono di mostrarsi sentimentali. Una letteratura, la sua, cosí ingannevolmente limpida e semplice da destare il sospetto di avere a che fare con una contraddittoria, seria eppure scorrevole autobiografia. E di narrazione di sé certo si tratta, con riferimenti continui ad eventi realmente accaduti, a situazioni e stati d'animo certamente vissuti, ma con tanto di non detto e di non dicibile che rende davvero impossibile quel «riconoscimento» che annienta ogni sentimento di estraneità. Per questo Bianciardi non si può «conoscere»; a Bianciardi, forse, ci si può solo «accostare».

Di tutti i modi autobiografici che la letteratura contempla questo è, di conseguenza, uno di quelli che fa fatica a dirsi esplicitamente tale, non certo per la debolezza dell'Autore o del suo stile, ma, piuttosto, in quanto quel modo è figlio primogenito di una precisa intenzione: la denuncia.

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