Autore Paolo Ercolani
Titolo Contro le donne
SottotitoloStoria e critica del più antico pregiudizio
EdizioneMarsilio, Venezia, 2016, Nodi , pag. 320, cop.fle., dim. 14,4x21x2,5 cm , Isbn 978-88-317-2424-1
LettoreGiovanna Bacci, 2017
Classe femminismo , filosofia , antropologia , sociologia , religione , storia sociale , storia criminale












 

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Indice


 11 Introduzione. Il più antico pregiudizio

 25 Misoginia: una «genesi» dalle radici lontane

 35 Creature difettose (I): tragedia e medicina

 45 Creature difettose (II): mitologia, filosofia e religione

 55 La ragione emozionale (e quindi inferiore) delle donne:
    Platone e sant'Agostino

 65 L'ordine gerarchico della natura: Aristotele e san Tommaso

 85 Il medioevo infinito: da Marsilio al liberalismo

115 L'ironia femminile contro l'armonia della società

159 L'involuzione della specie: biologia, psicologia ed economia

185 La spirale del silenzio

231 Una teoria dell'umano: oltre il narcisismo di genere


277 Ringraziamenti

279 Bibliografia

313 Indice dei nomi


 

 

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Pagina 11

Introduzione
Il più antico pregiudizio



C'è una storia antica quanto il mondo umano. Ma nessuno l'ha mai raccontata.

Perlomeno non in maniera sistematica e critica, ossia cercando gli strumenti concettuali (e pratici) adatti per provare a superarla e lasciarsela alle spalle, come si dovrebbe fare con una vergogna che ci è appartenuta per troppo tempo.

Questa storia riguarda il pregiudizio contro le donne.

Isteriche, instabili, irrazionali, inaffidabili, emotive, foriere dei mali e delle disgrazie peggiori. Anti-sociali, ferine. Puttane!

Lo scrittore Samuel Butler sosteneva che «gli uomini saggi non dicono mai ciò che pensano delle donne» (Woolf 1929: 37), ma evidentemente o si sbagliava oppure la storia ci ha rivelato una sorprendente penuria di uomini saggi.

Infatti, la lista secolare del pregiudizio misogino è lunga e sembra scritta sulla parete senza tempo dell'umanità.

Al punto che si rivela un'impresa improba, quella di provare a elencare tutti gli aggettivi con cui gli autori uomini hanno voluto sottolineare la disgrazia e l'inferiorità rappresentate dall'essere femminile.

Eh sì, perché naturalmente si è trattato di un'operazione messa in piedi e condotta per secoli esclusivamente dagli uomini, che praticamente hanno parlato «fra di loro» della donna.

Insomma si è trattato di un «dibattito tra uomini», per riprendere le considerazioni ironiche di Luce Irigaray (in un'opera che le costò l'allontanamento dall'Università, nel 1974!), dibattito che non doveva interessare né riguardare la donna, «di cui al limite ella non doveva sapere nulla» ( Irigaray 1974: 9 ).

Un gran discutere fra uomini per arrivare a stabilire l'inferiorità inemendabile e irrecuperabile dell'essere femminile, tanto da giustificare e anzi rendere scontata, opportuna e persino necessaria la sottomissione al maschio.

Quest'ultimo, ovviamente, stabile, coerente, affidabile, razionale!

In una parola: superiore.

Quello contro la donna, a conti fatti, appare come il più antico, radicato e diffuso pregiudizio che la vicenda umana è stata in grado di produrre.

Un pregiudizio su cui ha messo il suo timbro non un signore qualunque, ma proprio il Signore in persona! Dio.

Basti pensare, per fare solo uno dei tanti esempi possibili, al suo comandamento di «non desiderare la donna d'altri».

Ebbene, questo non si riferiva a una questione di lussuria, peraltro già affrontata in un comandamento precedente, bensì, dando per scontato che la donna era merce di scambio e doveva essere relegata a mansioni di mera utilità nei confronti dell'uomo, invitava quest'ultimo a non desiderare praticamente la «serva» altrui (Wray 1999).




VINO PROIBITO, STUPRO CONSENTITO



All'originarietà del pregiudizio, aggiungiamo pure la sua inclinazione a radicarsi fin nelle più innocue abitudini della vita quotidiana.

Basti pensare a tutta l'ampia letteratura che, spaziando dal mondo greco a quello latino, testimoniava la convinzione diffusa per cui alle donne dovesse essere impedito gustare del vino, perché «sconveniente», pericoloso per la sua purezza, in grado di spingerla alla libidine più incontrollata (e quindi farla uscire, appunto, dal controllo esercitato su di lei dal maschio padrone).

Nella Roma antica, per ovviare a tutto ciò, esisteva il costume denominato ius osculi, che di fatto consentiva ai parenti di una fanciulla (fino al cugino di secondo grado) di baciarla sulla bocca in qualsiasi momento, per verificare che ella non avesse bevuto vino (e quindi che il suo alito non sapesse di temetum: bevanda inebriante).

Insomma, il controllo sulla purezza e la castità della donna era esercitato dalla stessa sfera dei parenti più stretti, che infatti rifiutavano a priori il bacio rituale a quelle dalla fama dubbia e chiacchierata (Euripide, Baccanti: vv. 260-262; Agostino, Confessiones: IX, 8; Plinio il Vecchio, Historia naturalis: V. III, 14, 90-92 e 140; Cicerone, De re publica: IV, 6, 6).

Del resto, ci troviamo di fronte a un fenomeno anch'esso molto antico. Da una parte la convinzione tutta maschile per cui la sessualità della donna è qualcosa di selvaggio e ingestibile, dall'altra la paura (anch'essa tutta maschile) di non riuscire più a esercitare il controllo assoluto su questa creatura tanto ferina, percepita come bisognosa di tutela da parte dell'uomo ma anche irrazionale e «diversa», imprevedibile. Quindi mai del tutto prona al controllo maschile, malgrado le apparenze.

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Dopodiché non può destare alcuna meraviglia il dato diffuso dall'ONU (2013) secondo cui più di una donna su tre (il 35%), nel mondo, è rimasta vittima di violenze fisiche e/o sessuali da parte del partner o di estranei (...).

Da tutto ciò risulta con drammatica evidenza che combattere il più antico pregiudizio della storia umana significa, in qualche modo, impegnarsi anche per debellare la secolare vergogna della violenza psicologica, fisica e sessuale contro le donne.

Mai come in questo caso, forse, emerge il nesso radicale che rende confinanti il territorio delle idee con quello della traduzione in pratica delle stesse.




IL VELO DI IGNORANZA



Il pregiudizio sulle donne appare non solo il più antico e radicato, ma anche quello più in grado di superare le differenze etniche e culturali nonché le distanze geografiche.

Fin dall'antichità, infatti, in India anche le donne delle caste superiori erano equiparate ai gradi inferiori della società. Nell'Ellade dorica non veniva loro riconosciuto praticamente alcun diritto per tutta la vita (che si svolgeva rigorosamente sotto la tutela, di volta in volta, del padre e poi del marito). Mentre a Roma, in virtù della loro natura ritenuta inferiore a quella maschile, venivano giuridicamente inquadrate come figlie del proprio marito e sorelle dei loro stessi figli.

Ma proviamo a riflettere un momento, solo per citare un esempio, sul biasimo generalizzato che la nostra civiltà cristiana rivolge nei confronti dell'islam per la questione del velo, la forma più esteriore e appariscente di discriminazione della donna in quella civiltà, anche se certamente non la più grave.

Ebbene, da questo punto di vista potrebbe generare una certa sorpresa venire a conoscenza del fatto che, in realtà, fu nell'Atene democratica, tanto esaltata dalla tradizione occidentale, che si diffuse il costume di imporre alle donne il velo di fronte a situazioni pubbliche e a uomini scapoli, al contrario di quello che accadeva per coloro che a quel tempo vivevano in Persia o in Siria (Llewellyn-Jones 2003: 14).

Oppure, rivolgendo l'attenzione ai giorni nostri, possiamo constatare che nel caso delle donne la «globalizzazione» è tale innanzitutto per il pregiudizio che le colpisce, nonché per le discriminazioni e le imposizioni di cui esse sono vittime a livello planetario, a prescindere dal paese in questione e dalla cultura che lo caratterizza.

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Naturalmente, la forte discriminazione della donna in ambito lavorativo (che per molti secoli è stata vera e propria esclusione), non ha colpito soltanto coloro che avrebbero potuto aspirare alla carriera scientifica o letteraria, o in generale a occupazioni di natura intellettuale.

Basti pensare, infatti, che ancora ai giorni nostri studiosi dei flussi lavorativi parlano di una «divisione del lavoro sessuata», al punto che l'origine stessa del «lavoro flessibile» si rivela direttamente correlata alla femminizzazione della forza lavoro pagata.

In altre parole, insomma, sono le donne a sobbarcarsi in misura maggiore i lavori precari, poco garantiti e malpagati, tipici della nostra epoca da quarant'anni a questa parte, poiché «l'organizzazione patriarcale della famiglia le spinge a considerare l'organizzazione flessibile delle loro occupazioni professionali come l'unico modo per rendere compatibile famiglia e lavoro» (...).

Per íl resto, anche nei rari casi in cui è capitato che qualche autore, come per esempio Michelet e Ortega Y Gasset , blandisse la donna, riconoscendone la grazia, la bellezza, o perfino la «superiorità», ciò è avvenuto con il solo scopo di confermare, alla fine del ragionamento, che cotanta creatura rappresentava il miglior ausilio e conforto per le faticose imprese dell'uomo. Un rifugio dell'anima, insomma, e nulla più.

Tanto che ancora oggi, gli uomini che sono disposti a celebrare una presunta superiorità della donna, magari in quanto capace di donare la vita ed essere baluardo della famiglia, finiscono con il confermare e perpetuare, più o meno consapevolmente, la forma più vile e ipocrita del pensiero misogino.

La forza di questo pregiudizio contro la donna è stata ed è tale che persino una parte del femminismo ha finito con il cadere in un errore paradossalmente «misogino»: ossia profetizzare e lavorare per la costruzione di un soggetto umano asessuato, al di là delle categorie di maschile e femminile. Insomma, illudendosi di risolvere la secolare e vergognosa sottomissione della donna all'uomo tramite il superamento delle stesse identità sessuali, quindi attraverso la negazione e l'annullamento di quella differenza e specificità femminile a cui invece, a nostro avviso, va finalmente riconosciuta piena dignità e possibilità di esprimere un valore «altro» e indispensabile alla completezza del genere umano.

Una «soluzione» post o anti umana, per una questione radicalmente umana qual è il pregiudizio e la prevaricazione del più forte sul più debole, non può rappresentare una via da percorrere per chiunque abbia a cuore le sorti dell'umanità.

Anche oggi che quasi nessuno ha più il coraggio (e il buon senso) di esplicitare quei pensieri sulle donne (e molto spesso sono le donne stesse a sminuirsi e mortificarsi rispetto al maschio, in una sorta di «autofobia» indotta da secoli di indottrinamento), bisogna sapere che il pregiudizio misogino esiste e lavora nell'oscurità dell'animo di ognuno di noi.

Il lavorio profondo e costante che esso ha esercitato lungo i secoli, infatti, ha finito con il costruire un retroterra di convinzioni e distinguo che è assai arduo mettere in discussione. Figuriamoci estirparlo.




LA GRANDE SFIDA DEL XXI SECOLO



Di fronte a questo orrore della mente umana emerge il valore fondamentale della filosofia. Proprio quella disciplina che pur ha visto i suoi più autorevoli rappresentanti concettualizzare e perpetuare il pregiudizio misogino.

Grazie al pensiero critico (e autocritico) che la fonda e caratterizza, la filosofia può infatti assumersi la responsabilità per questo orrore concettuale contro la donna, ma anche approntare quegli strumenti logici, morali ed etici che permettano al genere umano confrontarsi con un modo di pensare tanto assurdo quanto indegno di ogni creatura razionale.

È il compito fondamentale che ci siamo assunti con questo libro. Da una parte ricostruire, finalmente e in maniera critica, la storia secolare di questo antico preconcetto (tirando in ballo le responsabilità della filosofia, ma anche della religione e delle scienze in genere), dall'altra proporre una nuova teoria della soggettività umana che possa agevolare il superamento di contrapposizioni e pregiudizi sessuali con i quali era pur ora di fare i conti.

Non si tratta soltanto di distruggere una miserevole e immotivata ingiustizia contro il genere femminile, con ricadute terribili e spesso drammatiche sul piano della vita concreta e quotidiana di tantissime donne, ma anche di riporre, e chiudere finalmente nel cassetto le vergogne di cui è stato capace l'essere umano.

È inutile girarci intorno: il superamento del pregiudizio contro le donne rappresenta il compito fondamentale che oggi si pone di fronte al genere umano.

Insieme all'individuazione di un nuovo modello di economia politica (che torni a ridurre le disuguaglianze sociali), nonché al ripensamento di uno sviluppo ecosostenibile (per le sorti di un pianeta allo stremo e con le risorse ridotte), l'eliminazione di un fardello che grava fin dalle origini su più della metà del genere umano si presenta a noi come la vera sfida del XXI secolo.

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IL CONTRADDITTORIO CAMPIONE DELLA CAUSA FEMMINILE:
JOHN STUART MILL



Per quanto riguarda invece la divisione del lavoro a cui accennava Tocqueville , nonché più in generale la divisione tra servi e padroni, conviene riferirsi alle opere di John Stuart Mill , in quanto da una parte autore di un famoso libro a favore della causa femminile ma, dall'altra, anche filosofo ed economista di spicco dell'epoca in cui il capitalismo borghese, si rivelava dominante in tutto il mondo occidentale. E all'interno di questo capitalismo imperante emergeva una lotta di classe che comprendeva e intrecciava questione sessuale, conflitto fra capitalisti e proletari, ma anche fra popoli colonizzatori e popoli conquistati e schiavizzati.

[...]

Non c'è dubbio che Mill ha avuto la capacità di andare al cuore del problema, mettendo in discussione direttamente il paradigma naturalistico e, quindi, denunciando quella presunzione che vuole spiegare la sottomissione delle donne ricorrendo all'argomento della «costituzione naturale». Né per questo si è tirato indietro dal rimarcare quelle che secondo lui sono le differenze sostanziali fra uomo e donna, che vedono quest'ultima «correre dietro raramente a un'astrazione», preferendo dirigere la sua mente verso cose individuali e concrete, e soprattutto verso i «sentimenti immediati delle persone». Ciò portava Mill a concludere che «tanto sono utili i pensieri femminili a conferire realtà a quelli maschili, quanto questi ultimi lo sono nel dare apertura e ampiezza a quelli delle donne» (Mill 1869: 532 e 534-535).

Troppo facile, inoltre, prendersela con la «maggiore suscettibilità nervosa delle donne», quella che secondo la vulgata maschile le renderebbe inadatte alle occupazioni pratiche al di fuori dell'ambito domestico, esaltandone la volubilità, l'incostanza e l'incapacità di tenere fermamente una posizione. Per Mill, piuttosto, le donne che fin da giovani hanno condiviso con i fratelli una salutare educazione del corpo e un'identica libertà fisica, potendo respirare aria pura e facendo ginnastica, raramente presentano quella suscettibilità nervosa che le renderebbe inadatte a occupazioni più impegnative (della cura della casa e dei figli). E anche rispetto alla presunta minore propensione femminile a interessarsi alle questioni pubbliche, mettendo da parte gli interessi della ristretta cerchia privata, il filosofo inglese ribatteva che sempre di un problema di educazione si tratta, quell'educazione che «inculca in tutte il sentimento per cui gli individui a loro legati sono gli unici verso i quali esse hanno un dovere di cura», e che «le tiene estranee rispetto a quelle idee elementari che rappresentano il presupposto di ogni intelligenza rivolta a interessi più ampi o a obiettivi morali più elevati» (Mill 1869: 536-537 e 555).

A fronte di tutto ciò, Mill esplicitava con nettezza anche i propri intendimenti per risolvere questa incresciosa situazione di disparità fra uomo e donna. Si trattava di stabilire le giuste proporzioni tanto nella sfera domestica quanto in quella sociale.

Nel primo caso andava fattivamente perseguita l'idea di un «matrimonio» fra due persone tra le quali potesse sussistere la «migliore forma di uguaglianza», con parità di poteri e di capacità, perché

[...] la rigenerazione morale dell'umanità potrà realmente cominciare quando la più fondamentale delle relazioni umane verrà posta sotto la legge della giustizia paritaria, e quando gli esseri umani impareranno a coltivare i loro più forti sentimenti simpatetici verso chi gli è uguale per diritto e per cultura» (Mill 1869: 575).

Per quanto concerne la sfera pubblica, invece, si trattava per Mill di considerare i «diritti politici» estranei da ogni considerazione di ordine sessuale. La legge deve proteggere le donne in quanto soggetti più deboli dal punto di vista fisico e deve garantirgli quel diritto di voto che le liberi dall'anacronistica condizione di «schiavi domestici dei mariti, dei padri e dei fratelli»:

Gli uomini, al pari delle donne, non hanno bisogno dei diritti politici per poter governare, ma piuttosto per non essere mal governati. La maggioranza dei maschi è e sarà per tutta la vita composta da lavoratori dei campi o delle manifatture, ma questo non rende il suffragio meno desiderabile per loro né la loro richiesta meno legittima, anche qualora ne dovessero fare un uso inopportuno (Mill 1861: 341-343).


Nell'affrontare tanto la situazione domestica quanto quella politico-sociale, abbiamo visto che John Stuart Mill non separava mai le proprie considerazioni e proposte rispetto alla questione sessuale da quelle di ordine più generale, che potessero riguardare le classi sociali più deboli o le razze non bianche.

Un'ulteriore conferma di ciò la ritroviamo anche dalle pagine finali del suo Utilitarismo, in cui il filosofo ed economista tracciava una sorta di bilancio della «storia del progresso sociale», prendendo atto del fatto che molte usanze e istituzioni che si ritenevano «di primaria necessità per l'esistere sociale» erano state via via ridotte al rango di tirannie e ingiustizie universalmente stigmatizzate. Ciò era accaduto per le distinzioni fra schiavi e uomini liberi, nobili e servi, patrizi e plebei. Ma, soprattutto, per Mill ciò sarebbe accaduto, e in parte già lo era, «per le aristocrazie di colore, razza e sesso» (Mill 1861: v. 10, 259).

Eppure, proprio se facciamo nostro il metodo comparativo adottato dal filosofo ed economista inglese, per cui per esempio non è opportuno considerare il tema dei diritti individuali separando la questione sessuale da quella razziale e sociale in genere, vediamo emergere degli elementi di oscillazione e persino di contraddizione all'interno del suo pensiero seriamente in grado di farne vacillare le fondamenta.

Prendiamo il testo Sulla libertà , e vediamo che fin dall'introduzione il filosofo inglese precisava che tutto il suo ragionamento, volto ad affermare i pieni diritti individuali di libertà e autonomia, valeva soltanto per quegli «esseri umani nel pieno delle loro facoltà».

Con ciò, è Mill stesso a precisarlo, non intendeva riferirsi comprensibilmente ai bambini o a giovani che non avessero raggiunto la maggiore età, quanto piuttosto a «coloro che si trovano ancora in uno stato per cui necessitano della tutela di qualcun altro».

E quindi a chi si riferiva? Nell'epoca in cui la dominazione imperiale inglese raggiungeva il suo apice, il filosofo della libertà non si faceva problemi a riferirsi a quelle «società arretrate (backward states of society) in cui la razza stessa (the race itself) può essere considerata come minorenne (nonage)». Nei confronti di queste popolazioni, razze e persone, in ultima analisi, persino il «dispotismo» si rivelava una «forma legittima di governo», a patto che tutto ciò venisse attuato in vista del loro progresso, aggiungeva paternalisticamente il filosofo della libertà (Mill 1859: v. 18, 224).

Apprendiamo con un certo stupore, quindi, che la libertà non vale per tutte le persone. Ad affermarlo è quello stesso John Stuart Mill che aveva biasimato Aristotele e, con lui, coloro che sulla sua scia, pur in possesso di menti eccelse teorizzavano l'esistenza di nature inferiori e quindi destinate a recitare il ruolo dei sottomessi o perfino degli schiavi.

Ma sono le parole usate da Mill, nonché gli stessi destinatari del suo discorso, a mettere in evidenza come questa sua contraddizione c'entri in maniera rilevante con la questione femminile. A ricordarcelo, per quanto in maniera indiretta, è un'autrice di riferimento della galassia femminile come Simone de Beauvoir.

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Pagina 159

L'involuzione della specie:
biologia, psicologia ed economia



                            «In verità i loro bisogni non le inducono ad amare,
                            ma piuttosto a essere amate; e si compiacciono degli
                            uomini che soddisfano questa loro esigenza»
                            (Freud 1914: v. 7, 459)



Una delle illusioni più solide su cui si è appoggiata l'opinione dominante è stata quella di ritenere il nazifascismo un episodio tanto funesto quanto scollegato dai valori fondamentali dell'Occidente.

Quasi che il «Male» fosse comparso all'improvviso e senza avvertire, sovvertendo per un ventennio un impianto valoriale, quello delle società e civiltà liberali, che fino a quel momento aveva proceduto all'insegna del rispetto della persona nonché dei diritti dell'uomo e della donna in maniera incondizionata.

In realtà, volendo impegnarsi in una lettura meno pregiudiziale e più complessa, possiamo agevolmente venire a sapere che le cose sono andate in maniera ben diversa da come gradiremmo raccontarcela.

Possiamo scoprire, a titolo di esempio, il grande fascino esercitato su Hitler tanto del modello di purezza bianca e ariana rappresentato dallo stato razziale in vigore negli Stati Uniti del XVIII secolo, quanto dell'idea imperialistica realizzata con enorme successo dall'Inghilterra nel medesimo secolo, al punto che a questi «modelli» scrisse espressamente di ispirarsi nella costituzione del III Reich.

Oppure possiamo venire a conoscenza del fatto che lo stesso termine «untermensch» (sottouomo), era stato entusiasticamente ripreso, a opera degli ideologi del III Reich, dall'autore americano che per primo lo aveva utilizzato fin dal titolo del proprio libro (Lothrop Stoddard, The Menace of the Under Man, New York 1922). O ancora che l'eugenetica, sorta in Inghilterra per conto di Francis Galton (cugino di Darwin), aveva trovato proprio negli Stati Uniti un'accoglienza entusiastica (e soprattutto molti finanziamenti pubblici e privati), mentre persino la stessa infamia dell'antisemitismo era stata sistematicamente ripresa dai nazisti leggendo gli scritti del magnate americano Henry Ford (...).

Anche per quanto concerne la questione femminile, oltre che per gli esempi che abbiamo riportato sopra, non v'è dubbio che il nazifascismo rappresentò per la cultura occidentale un momento di acme sia teorica che pratica, con in più l'aggravante della sistematizzazione razionale e burocratica della macchina della morte.

Ma proprio la questione femminile, forse più di ogni altra, mette in risalto come le idee proprie del nazifascismo non fossero comparse all'improvviso e in maniera perfettamente estranea rispetto al retroterra culturale che ha caratterizzato e caratterizzava la galassia liberale.

Il nazifascismo rappresentò il momento di massima radicalizzazione della mortificazione teorica e pratica della donna, ma in un senso perfettamente interno e coerente rispetto a una tradizione secolare che, come ormai dovremmo sapere, all'interno dell'Occidente aveva visto la donna condannata a una posizione comunque di servilismo e discriminazione.

Dopo quel momento, quindi con la fine della seconda guerra mondiale, la condizione di sottomissione e discriminazione patita dalle donne occidentali è continuata senza che vi fossero più, almeno a livello di grandi nomi del mondo intellettuale e politico, teorizzazioni esplicite ed estreme rispetto alla sua inferiorità.

A preparare il clima culturale intorno alla considerazione della donna, clima culturale che poi trovò uno sfogo radicale nel nazifascismo, a supportarlo nel mentre e, in qualche modo, a prolungarlo in maniera più velata e surrettizia lungo il corso del Novecento, contribuirono anche autori che afferiscono alle principali scienze della contemporaneità, come la biologia, la psicologia e l'economia.




L'EVOLUZIONE DEI MASCHI: DARWIN, LE BON, LOMBROSO

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Pagina 164

Da queste scienze non può essere esclusa la medicina. Anzi, proprio questa scienza deputata a studiare l'uomo (e la donna) attraverso quel nesso stretto che lega corpo e mente, sembrava destinata a diagnosticare l'irreparabile «debilità mentale fisiologica» dell'essere femminile.

Secoli di storia e di evoluzione scientifica sembravano essere trascorsi per nulla quando si trattava di valutare la donna.

Se il grande filosofo antico Aristotele la qualificava come «maschio menomato», il famoso e famigerato medico e scienziato Cesare Lombroso , alla fine dell'Ottocento decretava che «nella mente e nel corpo la donna è un uomo arrestato nel suo sviluppo».

Sì, insomma, la storia dell'evoluzione razziale dimostra, secondo il medico veronese, che la donna era superiore al maschio nelle serie zoologiche più primitive. Ma l'evoluzione della specie ha lavorato perché essa, in maniera fisiologica, venisse ridotta a «umile schiava» dell'uomo, «menomata in forza e variabilità».

Del resto, proseguiva Lombroso, anche nella nostra razza evoluta l'essere femminile appare uguale o superiore all'uomo (fisicamente e spesso per ingegno) soltanto prima della pubertà, ma poi «man mano gli resta indietro, lasciando nella stessa momentanea prevalenza una prova di quella precocità che è comune alle razze inferiori» (Lombroso 2000: 631 e 629).

Abbiamo parlato di una sorprendente linea di continuità che unisce Aristotele e Lombroso. Ma è stato proprio quest'ultimo a richiamarsi esplicitamente al grande filosofo antico. Vediamo il percorso che ha seguito per ritenere di fare riferimento a una fonte così autorevole.

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Pagina 191

Come se tutto questo non bastasse, possiamo anche aggiungere che ancora una volta i secoli sembravano trascorsi invano. Infatti anche Ortega decideva di appoggiarsi sull'autorità di Aristotele per rimarcare il fatto che a connotare essenzialmente la donna è la sua «debolezza [debilidad]». Quando il filosofo antico parlava della donna come «uomo menomato [hombre enfermo]», scriveva il filosofo spagnolo, è lecito supporre che lo facesse comparandola all'uomo sano.

Proprio in questo «patente carattere di debolezza si fonda il suo rango vitale inferiore (inferior rango vital)», appartenente a un essere il cui corpo è comunque dotato di una sensibilità interiore più viva rispetto all'uomo: appunto in questa maggiore sensibilità e consapevolezza del proprio corpo Ortega riteneva di scorgere nientemeno che «lo spettacolo suggestivo, gentile e ammirevole della femminilità», degno di un essere che «tutto ciò che fa lo attua senza farlo, ma semplicemente esistendo, essendo, irradiando» (Ortega Y Gasset: 1957: v. 7, 171-172; 1924: v. 3, 329).

Non c'è dubbio: con Ortega Y Gassett si è pervenuti alla forma più lirica, e quindi in un certo senso completa, di pensiero contro la donna, capace di irradiare il senso comune e l'intendimento più intimo degli uomini (e di non poche donne) anche nei decenni successivi e fino ai giorni nostri.

Questa forma consiste in una raffigurazione letteraria e artistica della donna, eseguita con una capacità di introspezione psicologica certamente perspicace, in cui le vengono riconosciute doti esistenziali e vitali di cui ella dovrebbe andar fiera e in cui dovrebbe scorgere la realizzazione più piena di ciò a cui la natura l'avrebbe destinata. Salvo accettare di rassegnarsi alla sua inferiorità e subordinazione rispetto al maschio, inteso come l'essere assoluto in virtù del quale ella esiste, vive, irradia tutto il suo splendore e la sua forza incantatrice.

Insomma: una creatura meravigliosa al servizio dell'uomo.




L'UGUAGLIANZA E L'EDUCAZIONE ALLA RAGIONE:
DE PIZAN E WOLLSTONECRAFT



[...]

Ebbene, in un certo senso proprio da qui possiamo far iniziare la reazione delle donne al pregiudizio maschile, in particolare a partire dalla scrittrice, poetessa e filosofa Christine de Pizan (1365 ca.-1430 ca.), tra le figure più importanti e interessanti della letteratura a cavallo tra il XIV e il XV secolo dopo Cristo. Forse la prima vera e propria scrittrice professionale europea, sebbene soltanto dopo la morte prematura del marito.

Di certo la prima ad aver affrontato in un'opera sistematica la radicalità e le aberrazioni della speculazione maschilista, sostenendo che questa poteva appoggiarsi sul fatto che nessuna delle grandi opere letterarie, elevate al rango di «autorità», fosse stata composta da una donna.

In un certo, e con tutti i limiti del caso, la si potrebbe definire una precorritrice del pensiero femminista (...).

Ella, infatti, protagonista del suo trattato La città delle dame (1404-1405), inizia l'opera descrivendosi come una giovane studiosa di filosofia e letteratura che rimane profondamente scossa e sconcertata dal numero e dall'importanza dei grandi autori che si erano impegnati a scrivere male della donna. A tal punto da mettere in dubbio persino la bontà del suo «essere nata donna», vista l'autorevolezza dei pensatori e delle argomentazioni da essi fornite:

Non riuscivo a riconoscere né ad ammettere il fondamento di questi giudizi contro la natura e il comportamento femminile. Continuai tuttavia a pensare male delle donne: ritenevo che sarebbe stato troppo grave che uomini così famosi, tanti importanti intellettuali di così grande intelligenza, così sapienti in tutto, come sembra che fossero quelli, avessero scritto delle menzogne e in tanti libri, che stentavo a trovare un'opera morale, indipendentemente dall'autore, senza incappare, prima di terminare la lettura, in qualche capitolo o chiosa di biasimo alle donne (de Pizan 1404-1405: 41-43).

[...]

Non c'è nessun dubbio: le donne fanno parte del popolo di Dio e sono creature umane come gli uomini, e non appartengono a un'altra specie o a una razza differente, che si potrebbe escludere dagli insegnamenti morali. Ne concludo che se essi [i filosofi e gli autori che hanno messo in guardia gli uomini contro il pericolo rappresentato dalle donne] avessero voluto agire per il bene comune, cioè di entrambe le parti, avrebbero dovuto rivolgersi alle donne per metterle in guardia dagli inganni degli uomini, come hanno fatto rivolgendosi agli uomini perché si difendano dalle donne (de Pizan 1404-1405: 79, 87-89 e 377-379).


Più di tre secoli dopo, all'epoca della Rivoluzione francese, troviamo la scrittrice Mary Wollstonecraft a rivendicare, su un piano maggiormente politico e sociale, l'uguaglianza delle donne con gli uomini.

In piena coerenza con gli ideali illuministici e rivoluzionari espressi dalla sua epoca, l'autrice fondava il proprio argomento principale sul fatto che se la donna non viene preparata da una adeguata «istruzione» a essere compagna dell'uomo, ella «fermerà il progresso della conoscenza e della virtù». Ciò perché «la verità deve essere comune a tutti, oppure risulterà inefficace riguardo alla sua influenza sulla prassi generale».

Del resto, «chi ha fatto l'uomo giudice esclusivo, se la donna condivide con lui il dono della ragione?». Insomma, relegare con la forza le donne alle faccende domestiche, confinandole in una dimensione esistenziale di ignoranza e limitatezza di vedute, comporterà soltanto che esse interferiranno nelle faccende di maggior peso, sconvolgendo i «piani ordinati di quella ragione che originano al di là della loro comprensione» (Wollstonecraft 1792: 66-68).


Vale la pena di sottolineare, al di là del realismo e della piena legittimità delle argomentazioni, anche l'astuzia con cui l'autrice inglese portava allo scoperto le ipocrisie della cultura e della società maschiliste, cercando di convincerle che sarebbe stato nel loro sommo interesse innalzare la condizione sociale e personale dell'altra metà del genere umano.

Proprio in qualità di «filosofo» Wollstonecraft leggeva con «indignazione» gli epiteti ipocriti con cui gli uomini erano soliti edulcorare i propri insulti rivolti alle donne, utilizzando «associazioni eterogenee» come «bei difetti», «amabili debolezze» ecc.

Una prassi consolidata che la filosofa denunciava pensando a Rousseau ma che, lo abbiamo visto, arriva fino a Ortega Y Gasset e al Novecento.

Piuttosto che nascondersi dietro all'ipocrisia o alla paterna accettazione dei presunti difetti amabili delle donne, ella preferiva rilanciare con coraggio ammettendo «l'inferiorità della donna allo stato presente dei fatti [the inferiority of woman according to the present appearance of things]», ma precisando immediatamente che sono stati gli uomini ad accentuare quella inferiorità delle donne fino a farle scendere al di sotto dello standard delle creature razionali:

Si lasci che le loro facoltà possano liberarsi e che le loro virtù possano guadagnare forza, così da determinare il posto che l'intero sesso femminile deve occupare nella scala intellettuale. E tuttavia si ricordi che non sto chiedendo un posto per un piccolo numero di donne distinte (Wollstonecraft 1792: 100-101).


Bersaglio prediletto della Wollstonecraft, in questo senso, era Rousseau , in quanto colui che aveva previsto un'educazione differenziata per le bambine e le ragazze, che mortificava e atrofizzava tanto il loro corpo quanto la loro mente. Un'educazione che precludeva loro «il pensiero razionale, l'unica vera e solida base della morale, educandole piuttosto a essere oggetti sessuali e schiave, con tutti i difetti di moralità che queste condizioni comportano» (Nye 2004: 24-25).

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Incontrastata per alcuni secoli, con il Novecento questa lotta per l'affermazione della piena uguaglianza fra uomini e donne era destinata a essere affiancata (e per molti versi soppiantata) dalla rivendicazione della «differenza» femminile, ossia dalla orgogliosa affermazione di una specificità della donna in quanto tale e dalla negazione di quel modello maschile, unico e assoluto, a cui la donna dovrebbe conformarsi, adeguarsi o aspirare per poter essere riconosciuta nella sua dignità.

La scrittrice e filosofa Simone de Beauvoir ha rappresentato come forse nessun'altra, sulla scia di Virginia Woolf , questa istanza insita nel movimento femminile e femminista (pur rifiutando per molto tempo di essere inserita all'interno di questa definizione).

L'essere femminile, agli occhi della pensatrice francese, è senza dubbio portatrice di una specificità che ce la manifesta irriducibilmente differente all'uomo. Da questo certamente sottomessa e soggiogata, anche con il suo paradossale consenso e persino appoggio, ma comunque differente, «altro».

Un altro rispetto al quale l'uomo è la norma, il riferimento irrinunciabile, laddove la donna rappresenta l'uscita da quella norma, secondaria rispetto all'uomo, esistente solo in relazione a esso e mai concepita come un essere autonomo (O' Brien 2009: v. 1, 188).

Ma de Beauvoir, con il suo Il secondo sesso , scavava a fondo e a più livelli in quella differenza, fino ad arrivare a portarla alla luce e «concettualizzarla» probabilmente come nessun'altra prima e dopo di lei.

Ciò è vero al punto che, si potrebbe dire, nel momento stesso in cui argomentava a favore dell'uguaglianza delle donne, contemporaneamente sottolineava la loro differenza intrinseca, che le aveva viste relegate al mero ruolo di «negativo del prototipo umano assoluto» (il maschio). Un dato di fatto difficilmente negabile, e peraltro ben evidente fin dai tempi di Platone, per il quale le donne potevano partecipare al governo dello stato ideale soltanto qualora la loro differenza fosse stata cancellata (Bergoffen 2003: 249-250).

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Del resto anche de Beauvoir sapeva benissimo di muoversi su un terreno quanto mai incerto e scivoloso, che non consentiva prese di posizione e ancor meno previsioni troppo nette:

Non è sicuro che i suoi «mondi di idee» siano differenti da quelli degli uomini poiché si renderà libera assimilandosi a essi; per sapere in che misura essa manterrà la propria singolarità, e in che misura questa singolarità guadagnerà in importanza, bisognerebbe lanciarsi in previsioni troppo azzardate. Quel che è certo è che fino a oggi le possibilità della donna sono state soffocate e disperse per l'umanità, e che è veramente tempo, nel suo interesse come in quello di tutti, che le sia permesso di percorrere tutte le strade possibili (de Beauvoir 1949: v. 2, 306).


Da buona filosofa Simone de Beauvoir, pur di fronte a una secolare opera di mortificazione e sottomissione della donna da parte del maschio, decideva di non abbandonarsi ad affermazioni apodittiche e improntate a un'inopportuna certezza.

Inoltre, ed è quello che ci preme in questa sede, intendeva l'emancipazione della donna come un'operazione che doveva certamente passare per il rifiuto degli attuali rapporti di sottomissione all'uomo, ma senza assolutamente negare tali rapporti.

La donna può esistere per sé e continuare a farlo «anche per lui», ma con uno statuto di soggetto autonomo e indipendente che l'uomo è chiamato a sua volta a riconoscere nella piena dignità e parità.

Non sarà certo la reciprocità dei loro rapporti, scriveva la filosofa, a sopprimere

[...] i miracoli generati dalla divisione degli esseri umani in due categorie separate: il desiderio, il possesso, l'amore, il sogno, l'avventura e le parole che ci commuovono. Dare, conquistare, unirsi, conserveranno il loro senso. Quando sarà abolita la schiavitù di una metà dell'umanità, piuttosto, con tutto il sistema di ipocrisia che questo implica, allora l'umanità rivelerà il suo autentico significato, e la coppia umana troverà la sua vera forma (de Beauvoir 1949: v. 2, 316).


L'idea che esistano l'uomo e la donna come identità sessuali distinte, rispetto alle quali sussiste semmai un problema di rapporto squilibrato e, conseguentemente, di condizione subordinata dell'uno rispetto all'altro, rappresentava un dato di fatto non contestato da Simone de Beauvoir.

Come vedremo subito invece, un certo femminismo del tardo Novecento, appoggiandosi sulla dissoluzione del soggetto, e in genere delle identità forti, teorizzata dalla variegata e spesso fumosa galassia di filosofie che si richiamano al post-modernismo, si sarebbe spinto fino a negare l'esistenza di un'identità sessuale biologicamente fondata (quindi di un maschile e di un femminile innati).

Su questa necessità di «distruggere politicamente, filosoficamente e simbolicamente le categorie di maschio e femmina», si sarebbero a loro volta basate alcune femministe radicali per sostenere l'opportunità di una donna o persona «lesbica» che interrompesse e quindi negasse ogni tipo di rapporto con l'uomo, probabilmente sulla scia di quanto scriveva all'inizio del 1800 il socialista utopista Charles Fourier in un'opera postuma pubblicata integralmente soltanto nel 1967. Questi, convinto assertore del superamento della famiglia borghese e di una sessualità multipla e libera sia per gli uomini che per le donne, si dichiarava fermamente convinto che in un ordine nuovo in cui si fossero superate le gelosie e le diffidenze tra donne, la loro emancipazione avrebbe coinciso con l'estendersi della pratica omosessuale a cui esse sono fisiologicamente più avvezze ( Wittig 2007: 13; Fourier 1967: v. 7, 389-393).

L'esistenza di due sessi distinti, insomma, era ritenuta non un dato biologico e naturale, bensì il risultato di una costruzione sociale e culturale che affermava l'eterosessualità obbligatoria per rendere possibile e legittimare la dominazione maschile sulla donna: «Non esiste il sesso. Non vi è un sesso che è oppresso e uno che opprime. È l'oppressione che crea il sesso, non l'inverso» (Wittig 2007: 36).

Il rischio concreto, però, è che questa teoria della negazione del sesso trovi un fondamento irrinunciabile sulla scomparsa di quel soggetto «donna» di cui Simone de Beauvoir aveva perorato la causa con tanto impegno e passione.

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UN FALSO DILEMMA: MASCHILE E FEMMINILE
AL DI LÀ DEL BIVIO FRA NATURA E CULTURA



Prima di proporre una riconfigurazione dell'identità e soggettività umana, che nella nostra intenzione ponga la donna in condizione di realizzare alla pari con l'uomo la propria esistenza (seppure e anzi proprio nella sua irriducibile differenza con quello), occorre sciogliere un nodo essenziale su cui molti studiosi e studiose hanno finito con l'incagliarsi. In maniera sorprendente, verrebbe da dire.

La questione è la seguente: esistono delle differenze innate tra l'uomo e la donna che, fin dalla nascita, implicheranno una declinazione differente dei rispettivi modi di pensare, sentire, agire?

Le tesi sono fondamentalmente due: la prima risponde affermativamente, sostenendo che la natura e la biologia sono lì a certificare in maniera inoppugnabile e aprioristica le differenze che connotano l'essere maschile e quello femminile. Essi, in virtù di queste differenze biologicamente stabilite, sono quindi destinati a pensare, sentire e agire in maniera conseguentemente differente, per poi unirsi sessualmente e spiritualmente con lo scopo di costituire una famiglia, istituzione altrettanto naturale e deputata a «fornire cura e protezione reciproca ai suoi componenti» nonché a rendere possibile la creazione e lo sviluppo di comunità, popoli e nazioni (O'Leary 1997; Carlson 1994).

La seconda, propria di un certo femminismo radicale sviluppatosi a partire dalla seconda metà del XX secolo, parte dal presupposto secondo cui «maschi» e femmine» sono delle semplici etichette operate dal potere per esercitare un dominio sulle persone, al fine di relegarle (soprattutto le donne) all'interno di ruoli limitati e predefiniti.

Secondo questa scuola di pensiero le differenze di genere sono piuttosto il prodotto della «disuguaglianza di genere», che però è presente soltanto nella mente di chi la concepisce, e questo perché «i circuiti del nostro cervello» rappresentano letteralmente il prodotto dell'ambiente fisico, sociale e culturale, esattamente come avviene per i nostri comportamenti e pensieri. Insomma, sono le nostre menti, la società e il «neuro-sessismo» a creare le differenze (...)

Le differenze innate fra uomini e donne sarebbero dei veri e propri «miti», delle costruzioni sociali e culturali che non rispondono a dettami e disposizioni della natura, ma solo alle costruzioni artificiali delle nostre menti influenzate dall'ambiente fisico, sociale e culturale.

In questo senso parlare di differenze fra uomini e donne si rivela come il frutto di comportamenti stereotipati, di una scienza che non è mai «apolitica» bensì inseparabile dall'atmosfera e dai bisogni sociali e politici del tempo e del luogo, da cui sono influenzati gli stessi scienziati per primi. Il tutto renderebbe impossibile rintracciare le effettive differenze naturali, ammesso che esistano, fra maschi e femmine (...).

All'interno di questa seconda scuola di pensiero, non senza una certa coerenza, si è affermata l'idea (di derivazione marxista) secondo cui la «rivoluzione femminista» deve eliminare non soltanto i «privilegi maschili», ma anche la stessa «distinzione tra i sessi» (allo stesso modo in cui la rivoluzione comunista doveva eliminare non soltanto i privilegi di classe, ma anche costituire una società egualitaria e indifferenziata).

Si tratta di colpire quella stessa «realtà biologica» che ha creato uomini e donne differenti e non con gli stessi privilegi. In questa operazione di «superamento della natura» («il "naturale" non è necessariamente un valore "umano"») rientrano l'eliminazione della «natura egemonica dell'idea di famiglia», dell'eterosessualità e di tutti gli ostacoli culturali alla libera espressione della sessualità (per un ritorno alla perversità pansessuale polimorfa di cui parlava Freud), nonché, infine, l'«eliminazione della stessa infanzia e femminilità» così da poter ottenere una condizione «umana» pienamente realizzata (...).

Ora, è bene precisare che queste due polarizzazioni estremistiche, la prima fondata sul potere immodificabile della natura, la seconda sull'influenza esclusiva della cultura (a discapito di ogni identità naturale), risultano entrambe parziali e quindi inadeguate al compito che ci siamo prefissati. Ossia di comprendere la differenza fra l'identità maschile e quella femminile, per poi elaborare una teoria della soggettività umana che le contenga entrambe in termini di assoluta parità e dignità.

Innanzitutto occorre spiegare cosa rende entrambe le versioni inadeguate. Sia la spiegazione naturale sia quella culturale, a nostro avviso, peccano fin dall'inizio di parzialità e inadeguatezza dal momento che si fondano su un'idea generalizzante, fossilizzante e quindi astratta della «donna».

Quando in realtà sappiamo benissimo che ogni donna è diversa dalle altre (come peraltro accade per gli uomini), e persino ognuno di noi subisce con il passare del tempo, e delle situazioni circostanti, una mutazione (evoluzione o involuzione che sia) della propria identità tale da non consigliare delle definizioni troppo rigide e decontestualizzate (Fraser 2013: 148).

Inoltre, entrambe le interpretazioni presuppongono una logica binaria e dicotomica che non riesce a comprendere quelli che sono, al tempo stesso, gli elementi di conformità e difformità che caratterizzano, sempre in linea generale, l'essere maschile e quello femminile.

Facendo nostra una prospettiva puramente dialettica, che cioè tende a evitare polarismi e dicotomie incomunicabili, preferiamo ritenere assurda ogni posizione che si fondasse sulla negazione di generali identità sessuali maschili e femminili, differenti in seguito a rispettive caratteristiche definite dalla natura (o biologia che dir si voglia).

Ma al tempo stesso siamo consapevoli della grave parzialità insita nella spiegazione esclusivamente naturalistica, sulla base della quale non si considerano i mutamenti e quindi i miglioramenti che sono operabili attraverso l'educazione, la conoscenza e l'agire politico. Ma soprattutto non possiamo non essere consapevoli, arrivati a questo punto, che la spiegazione naturalistica è stata utilizzata per marcare fin dall'inizio e in maniera irrecuperabile la presunta inferiorità e quindi sottomissione della donna all'uomo.

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Il punto finale ci sembra il seguente: chiunque voglia mettersi onestamente e concretamente al servizio dell'emancipazione femminile, nonché della piena realizzazione delle peculiarità e capacità delle donne, non può negare le differenze sessuali, neurologiche, caratteriali e comportamentali che mediamente sussistono fra í due sessi in seguito alla dotazione biologica.

Magari pretendendo di ripescare il motto che era in vigore negli anni settanta del secolo scorso fra le studentesse dell'università di Berkeley («obbligatoriamente unisex», mandatory unisex), secondo le quali risultava politicamente scorretto anche solo nominare la «differenza di genere», nella piena convinzione che la parità femminile sarebbe risultata dall'abolizione della specificità sessuale.

Dall'altra parte, però, occorre accompagnare la presa d'atto della dotazione biologica con la consapevolezza che la cultura (ossia l'educazione, la conoscenza, l'impegno etico e politico) può valorizzare e riconoscere finalmente la piena dignità delle caratteristiche femminili, in maniera tale che le donne non siano più costrette a conformarsi al modello unico maschile oppure a prefigurare la formazione di un essere umano asessuato, in cui la specificità femminile risulti sparita.

Attraverso una sintesi felice tra «dotazione naturale» (il «femminile» da riscoprire e rivalorizzare) e «impegno culturale» (perché al «femminile» vengano riconosciute pari libertà e dignità sul piano personale e sociale), l'obiettivo dovrebbe essere quello di conseguire una piena consapevolezza delle «notevoli facoltà» e dei «talenti» specifici del sesso come del cervello femminile (Brizendine 2006: 160-161).

Insomma, separare natura e cultura come finora è stato fatto risulta sterile e comunque mortificante per la donna, almeno quanto fonderle in maniera dialettica equivale a porre le basi più solide per il pieno riconoscimento della sua libertà e dignità.

Di fronte al pregiudizio maschile, che teorizza e vuole l'inferiorità e la sottomissione della donna, ma anche di fronte a una certa corrente del femminismo, che profetizza l'avvento di un «post-umano» in cui la specificità femminile e quella maschile vengono meno, l'obiettivo cruciale si rivela quello di ridefinire e rivalorizzare i tratti di una specificità femminile che non rinunci alla sua differenza e uguaglianza con il maschile, ma che anzi possa fornire un contributo essenziale e libero in ogni ambito tanto del personale come del sociale.

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Se queste due prime «forze» (tradizione e natura), in grado di esercitare un'influenza determinante sugli esseri umani tutti, hanno prodotto e producono i loro effetti fin dalla notte dei tempi, nello specifico della nostra epoca attuale ne è emersa una terza anch'essa in grado di plasmare, manipolare e quindi dominare l'essere umano nella sua interezza, ben al di là delle distinzioni di genere.

Stiamo parlando di quel sistema «tecno-finanziario» che si è andato affermando sulla scia della globalizzazione e della comparsa della «società in Rete».

Con la fine del XX secolo e delle democrazie caratterizzate da un forte controllo statale sui meccanismi economici e finanziari, abbiamo assistito a un ritorno prepotente dell'ideologia liberista, e conseguentemente di politiche che stanno smantellando integralmente il sistema dei diritti e delle tutele sociali della gran parte dei cittadini.

Con l'ausilio imprescindibile delle nuove tecnologie, l'ideologia economica si sta affermando come una vera e propria «teologia», non solo in grado di manipolare e governare l'intero ambito dell'umano (i corpi e le menti, come pure le relazioni), ma soprattutto di affermare la priorità di valori e scopi esistenziali che non sono quelli dell'uomo e che, anzi, richiedono a questo di farsi mezzo e strumento per fini non suoi.

Questa visione teologica dell'economia, per cui le sue leggi naturali sono indiscutibili e soprattutto non controllabili né governabili dalla ragione politica dell'uomo, ha spinto uno studioso come Stiglitz a parlare di «fondamentalismo del mercato».

Ossia di un'ideologia, quella «neoliberista», che per riprendere le considerazioni di David Graeber intende elevare il «mercato» a «principio organizzatore» di quasi tutto.

Per di più intimando agli uomini di ripensare se stessi come «piccole aziende» votate alla ricerca e alla produzione esclusiva del «profitto», che poi altro non è che «la versione nobile di un istinto umano ben più profondo ed essenziale: l'avidità» (...).

A queste condizioni risulta evidente come il nuovo dio Mercato e i suoi fedeli apostoli (finanzieri e tecnocrati) non si sognano neppure di operare distinzioni fra uomini e donne.

Se non altro perché non gli è utile minimamente ai fini della realizzazione dei loro scopi.

La disumanizzazione degli stessi uomini, infatti, a cui viene chiesto di spogliarsi dei loro «abiti» di esseri umani per indossare quelli di «piccole aziende», tarate, proiettate e valutate soltanto in base alla loro produttività in termini economici, comporta in maniera quasi automatica l'irrilevanza del fatto che a trasformarsi siano esseri maschili o femminili.

Il dio Mercato ha bisogno di «soggetti-azienda», di efficienti e poco costosi produttori e consumatori dei beni che esso elargisce come pegno della sua auto-perpetuazione.

In alleanza stretta con l'impianto tecnologico, esso (il mercato) ricorda da vicino la «superorganizzazione» di cui parlava Horkheimer , che riduce l'individuo a una «semplice cellula di risposta funzionale» (Horkheimer 1947: 98).

Giunti a questo stadio della colonizzazione dell'umano, il genere sessuale dei suoi fedeli gli è indifferente, perché non è il lato appunto umano che gli interessa, bensì il loro grado di fedeltà, la disponibilità incondizionata ed entusiasta a lasciarsi governare in tutto e per tutto dai dogmi e dalle leggi del mercato.

Il nesso fra economia e religione, del resto, era stato intuito già da Marx nell'Ottocento, per esempio quando nel Capitale scriveva che «come l'uomo è dominato nella religione dall'opera della propria testa, così nella produzione capitalistica egli è dominato dall'opera della propria mano» (Marx 1867-1883: v. 1, 680).

Ma è evidente che ci troviamo di fronte a uno stadio ulteriore del sistema capitalistico, dove a essere mutato non è tanto il continuum storico del dominio (e dello sfruttamento) dell'uomo sull'altro uomo (ieri i capitalisti, oggi i sacerdoti della tecno-finanza), quanto l'eclissarsi del ruolo centrale recitato dall'uomo stesso, ormai sostituito dal dominio incontrastato di «ordini superiori» e «poteri nascosti» di matrice tecno-finanziaria.

Una trasformazione di cui Herbert Marcuse era stato profetico nel cogliere gli elementi germinali, quando nel 1964 scriveva che:

Nella realtà sociale, malgrado tutti í cambiamenti, la dominazione dell'uomo sull'uomo rappresenta ancora il continuum storico che lega la Ragione pre-tecnologica a quella tecnologica. Tuttavia, la società che progetta e intraprende le trasformazioni tecnologiche della natura, altera la base della dominazione sostituendo gradualmente la dipendenza personale (dello schiavo dal padrone, del servo dal signore del feudo, del feudatario dal donatore del feudo) con la dipendenza dall'«ordine oggettivo delle cose» (dalle leggi economiche, dal mercato ecc.) (Marcuse 1964: 147)


Il vecchio capitalismo, insomma, tipico della società industriale, rappresentava un sistema di dominio a cui tutti si dovevano sottomettere (capitalisti e proletari, proprietari e salariati), ma che in qualche modo prevedeva ancora il ruolo centrale dell'uomo, nella misura in cui alcuni soggetti riuscivano a sfruttare la maggioranza degli altri per il proprio tornaconto, ma in un contesto in cui era garantita a entrambi una certa crescita del proprio benessere grazie al sistema condiviso del welfare state (ovviamente nei paesi benestanti e dominanti).

Con la comparsa della «ragione tecnologica» e del sistema tecno-finanziario odierni, invece, a scrivere le tavole della legge (nonché dei valori e degli scopi collettivi) è il solo dio Mercato, secondo una logica esclusivamente economica (profitto a tutti i costi, sviluppo infinito, progresso quantitativo a spese della dimensione qualitativa e umana) in cui i pochi continuano a esercitare un dominio sui molti, ma in un contesto di generale pauperizzazione e smantellamento di diritti sociali, uguaglianza delle opportunità e tutele ispirate a una ragionevole giustizia sociale.

Questo tipo di dominio messo in atto dalla teologia economica, non solo è interessato, ma vediamo che oggi riesce con straordinaria efficacia a controllare la sfera complessiva della soggettività umana, ingabbiandoci tutti quanti non soltanto e non tanto in una nostra identità sessuale funzionale al mercato, quanto soprattutto nella nostra individualità sociale e persino nel nostro statuto di esseri umani.

Mai come oggi, infatti, appare evidente come il valore di qualunque persona viene misurato esclusivamente sulla base della sua produttività e funzionalità rispetto al meccanismo tecno-finanziario, e persino i capi di governo non si fanno alcuno scrupolo a dichiarare che la loro azione è volta a soddisfare parametri meccanici, numeri impersonali e dogmi indiscutibili imposti dalla logica economica, piuttosto che operare in vista del miglioramento della qualità della vita dei cittadini che si trovano a governare.

Con il trionfo dell' homo oeconomicus su quello politico, ci troviamo di fronte al superamento e annichilimento della «personalità morale» presente in ogni individuo. Individuo che, per utilizzare le parole di Bobbio (che a sua volta si riferiva a Kant), «ha una dignità e non un prezzo» (Bobbio 1999: 333).

Siamo di fronte al trionfo di una vera e propria logica «totalitaria», già intuita da McLuhan quando scriveva che mentre «la minaccia di Hitler e Stalin era una minaccia esterna», le nuove tecnologie permettono ai poteri forti (economici, politici e tecnocratici) di entrare fin nelle case e nelle menti delle persone, mentre noi assistiamo «intorpiditi, sordi, ciechi e muti al suo incontro con la tecnologia di Gutenberg».

In fondo si tratta di un meccanismo descritto con sintesi mirabile da Kurt Vonnegut , nel suo romanzo del 1952 Player Piano, in cui scriveva che la prima rivoluzione aveva svalutato il «lavoro muscolare» (quello degli agricoltori), la seconda il «lavoro ordinario» (quello degli artigiani), mentre ci si trovava ormai di fronte agli albori di una terza rivoluzione, impegnata a rendere superfluo lo stesso pensiero umano, cioè il «vero lavoro intellettuale» (McLuhan 1964: 16-17; Vonnegut 1952: 19-20).

Il femminismo più accorto si è perfettamente reso conto di questa deriva tecno-finanziaria impressa dalla teologia liberista, anche per opera di quelle autrici che, come nel caso di Nancy Fraser , non avevano rinunciato a evidenziare le logiche discriminatorie nei confronti delle donne messe in atto dal sistema capitalistico del welfare state.

Per Fraser si tratta di non abdicare rispetto alla lotta contro la tradizionale autorità maschile («che rimane un momento necessario della critica femminista»), ma in un'ottica che interrompa il facile passaggio che da una simile critica conduce all'adesione (o comunque all'appoggio) al suo «doppio neo-liberista», specialmente ricollegando le battaglie contro la subordinazione personale alla critica di un sistema capitalistico che, nello stesso momento in cui promette liberazione, di fatto impone un nuovo sistema di dominazione (Fraser 2013: 225).

Dogmi tradizionalisti, una certa tendenza al dominio e alla subordinazione dei più deboli da parte della natura dell'uomo, il sistema tecno-finanziario nei termini in cui l'abbiamo descritto, rappresentano tre notevoli spinte che, immanenti al mondo umano, operano contro il pieno riconoscimento della soggettività umana in tutta la sua multiformità e, per questo, richiedono forme di resistenza coese e indisposte a perdersi in forme di divisione insensate e controproducenti. A cominciare dalle divisioni sessuali.

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