Copertina
Autore Thomas Hylland Eriksen
Titolo Tempo tiranno
SottotitoloVelocità e lentezza nell'era informatica
Edizioneeleuthera, Milano, 2003, , pag. 220, cop.fle., dim. 125x190x13 mm , Isbn 978-88-85060-80-7
OriginaleTyranny of the Moment. Fast and Slow Time in the Information Age
EdizioneAschehoug, Oslo, 2001
TraduttoreGuido Lagomarsino, Susanna Fresko
LettoreRenato di Stefano, 2004
Classe antropologia , sociologia , informatica: sociologia , storia della tecnica
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Indice

Prefazione                                                 7
Introduzione                                              11

  I. Cultura dell'informazione / culto dell'informazione  19
 II. Il tempo del libro, dell'orologio e del denaro       49
III. Velocità                                             69
 IV. Crescita esponenziale                               103
  V. Accumulazione                                       131
 VI. La sindrome del lego                                155
VII. Il piacere del tempo lento                          187


Fonti                                                    211
 

 

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Pagina 7

PREFAZIONE



Questo libro prende le mosse da una sensazione di disagio che è andata facendosi sempre più forte negli ultimi anni e che non vuole andarsene. Sembrava che questo vago malessere cercasse di comunicarmi che stava succedendo qualcosa di terribilmente sbagliato. Gli ultimi vent'anni hanno visto una crescita formidabile di varie tecnologie capaci di farci risparmiare tempo, dalla posta elettronica ai telefoni cellulari e ai programmi di scrittura elettronica, eppure per milioni di noi i tempi si sono sempre più ristretti. Si direbbe quasi che siamo stati resi inconsapevolmente schiavi proprio da quella tecnologia che prometteva di liberarci. Parallelamente, la rivoluzione informatica ha aperto in vari modi l'accesso all'informazione per centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, tra cui senza dubbio anche chi sta leggendo queste righe. Noi possiamo godere di (o essere afflitti da) una quantità di informazioni che era impensabile solo per la generazione che ci ha preceduto. Eppure questa massa incredibile di dati che ci arriva gratis o quasi non ha prodotto una popolazione più informata ma il suo opposto: gente più confusa.

Questo duplice paradosso, unito al fastidioso sospetto che i cambiamenti che vorrebbero favorire l'efficienza e la creatività finiscano in pratica per produrre l'esatto contrario, è il punto da cui parte l'esplorazione che si sviluppa nelle pagine che seguono. Ci sono forti indizi che fanno pensare che stiamo creando una società in cui risulta quasi impossibile pensare qualcosa di più di una frase smozzicata. I vuoti sono colmati da esili frammenti - schegge di informazioni - che invadono i corpi coerenti di conoscenza e li frantumano, apparentemente pronti a spiazzare qualsiasi cosa sia un po' vecchia, un po' grande, un po' lenta. Chi ha superato i cinquant'anni ha difficoltà a proporsi sul mercato del lavoro, a meno che non si travesta da giovane dinamico, disponibile e flessibile. Non c'è niente di più irrimediabilmente datato del trend della settimana scorsa. Eccetera. Non sono un nostalgico o un luddista: come chiunque altro aspetto con impazienza che una società seria mi offra una connessione a internet superveloce e stabile a poco prezzo, ma è impossibile plaudire alla deriva in corso verso una società dove tutto si presenta a enorme velocità.

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Pagina 11

INTRODUZIONE



8.21 Sbircio dalla macchina la prima pagina di «Aftenposten» (il quotidiano di Oslo) mentre sono fermo al semaforo. Una pubblicità di mezza pagina invoglia i lettori con una lapidaria frase: «Guardate il programma TV più rapido della Norvegia». Grazie, comunque.

8.35 Compro un tabloid al bar. Devo avere qualcosa da leggere mentre aspetto l'ascensore.

8.43 Arrivo in ufficio. Accendo il computer. Ventuno e-mail in arrivo da ieri sera. Appendo il cappotto e mi verso un caffè.

8.48 Non vedo l'ora di mettermi a scrivere. Ma prima devo fare qualche telefonata e cercare una cosa sul web.

8.53 Non riesco a trovare le informazioni che sto cercando. Allora comincio a rispondere alle e-mail.

9.03 Capisco, in un raro istante di autentica riflessione, che devo fare qualcosa. Spengo il computer, stacco il cavo del telefono e comincio a prendere appunti a mano.


Devo ammetterlo: questa interpretazione è fuorviante. Quanto meno lo è l'ultima frase. A parte le primissime note maldestre su un palmare e su pezzi di carta, questo libro è stato scritto, nella sua totalità, con un word processor. Come tanti che sono cresciuti con una tastiera al posto dell'ultima falange, ho enormi difficoltà a scrivere a mano qualsiasi testo che superi per lunghezza e importanza i «saluti e baci» di una cartolina. In realtà le cose sono andate così: avevo qualche idea generale, alcuni termini chiave, qualche file di appunti sulle mie conferenze, un po' di slogan e di titoli che mi avevano colpito. Poi ho cominciato a rivedere gli appunti per trasformarli in un testo coerente, tentando varie strade per dare forma a un libro. Dopo una fase frustrante di tentativi falliti e di false partenze, quando il contenuto del materiale iniziale, a forza di taglia e incolla, di aggiunte e cancellazioni, cominciava a presentare qualche grezzo indizio di una progressione lineare, mi sono reso conto che era diventato troppo lungo da gestire così com'era (nel mio caso il limite di gestibilità è di circa trenta pagine divise in dodici punti, pari a circa ottantamila battute). Allora ho suddiviso il file in sette file distinti, uno per capitolo. Per prima cosa ho scritto una bozza del terzo capitolo, poi ho cominciato a lavorare sul secondo capitolo. Ma quando mi sono visto stretto in un angolo, ho lasciato il secondo capitolo, che sembrava un mostriciattolo con tre teste e senza coda, e mi sono buttato sulla parte centrale del quinto capitolo. Scrivendo, inserivo in continuazione nuove keyword e buttavo giù le idee negli altri file aperti. Fino a pochissimi giorni prima della scadenza fissatami dall'editore, la stesura era piena di lacune, di paragrafi mancanti, di riferimenti da trovare, di punti interrogativi e di citazioni incomplete.

[...]

Una delle affermazioni centrali di questo libro è la seguente: il flusso massiccio di informazioni, che procede senza incontrare ostacoli, è destinato a riempire tutti i vuoti portando quindi a una situazione in cui ogni cosa minaccia di trasformarsi in una sequenza isterica di momenti saturi, senza un «prima» e un «poi», un «qui» e un «là» che li separino. La minaccia, anzi, riguarda perfino il «qui e ora», perché l'istante successivo arriva talmente in fretta che è difficile vivere il presente. Viviamo con lo sguardo fisso nel futuro, ai due secondi che verranno. Le conseguenze di questa terribile fretta sono devastanti: il passato e il futuro, come categorie mentali, sono minacciate dalla tirannia dell'istante. Questa è l'era del computer, di internet, dei satelliti per le telecomunicazioni, della televisione multicanale, dei messaggi SMS, dell'e-mail, dei palmari e dell'e-commerce. Quando si è dalla parte del mittente, la risorsa più scarsa è l'attenzione degli altri. Quando si è dalla parte del destinatario, la risorsa più scarsa è un tempo lento e continuo. Sta qui la principale tensione della società contemporanea.

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Pagina 15

Ma questo non è un libro sui computer. Queste macchine non sono affatto irrilevanti per l'argomento che trattiamo, ma prendersela con la tecnologia in quanto tale è come sparare sul pianista. Il libro parla della società dell'informazione e dei peculiari effetti collaterali che ha comportato in campo sociale e culturale, molti dei quali hanno un collegamento solo trasversale con la computerizzazione. La crescita economica, i ritrovati tecnici che hanno favorito il contenimento dei tempi e dei costi ci hanno forse resi più ricchi e più efficienti, ci hanno dato più tempo per le attività che preferiamo, ma ci sono validi motivi per sospettare che essi abbiano anche provocato effetti contrari (e in misura molto maggiore). Avere più flessibilità ci rende meno flessibili, avere più possibilità di scelta ci rende meno liberi. Come mai quasi tutti abbiamo molto meno tempo a disposizione di prima, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare? Come mai le maggiori possibilità di accesso alle informazioni finiscono per limitare la comprensione? Perché non esistono prospettive valide, politicamente informate per il futuro, in una società infatuata dall'oggi o dal domani immediato? E per quale strano motivo continuiamo a lamentarci che il computer ci mette troppo a caricare Microsoft Word? Le risposte a questi interrogativi hanno un qualche rapporto con una complessità eccessiva e del genere sbagliato, e con l'accelerazione dei ritmi di cambiamento.

[...]

La storia del tempo tiranno comincia con una breve rassegna di alcune caratteristiche della nostra epoca, che facciamo datare dal dopo Guerra Fredda. È un'epoca che si è presentata con tale rapidilà che il miglior modo per studiarla consiste nel cercare di mettersi al passo con il presente. Il capitolo che segue batterà alcuni sentieri ripercorrendo la storia culturale e mettendo particolarmente in luce quella dell'informatica e delle sue conseguenze inintenzionali. Il terzo capitolo illustra un aspetto particolarmente importante della storia dell'ultimo secolo, quello dell'accelerazione: quasi tutto cambia sempre più rapidamente e siamo solo a pochissimi millimetri dal punto in cui un nuovo prodotto potrebbe diventare obsoleto prima di toccare il banco di vendita. Il tempo si sminuzza in pezzi talmente piccoli che non ne resta quasi niente. Il quarto capitolo richiama l'attenzione su una funzione matematica di tipo particolare, relativa alla crescita esponenziale. La proprietà principale delle curve esponenziali è il raddoppiamento del valore a intervalli regolari: finché i numeri sono piccoli, la crescita non sembra straordinaria. Alla fine le curve prendono il volo e assomigliano sempre più a linee verticali che indicano, poiché l'ascissa rappresenta il tempo, che questo si avvicina allo zero. È sorprendente quante curve del genere si possano individuare al giorno d'oggi. Nel quinto capitolo discuto un curioso effetto collaterale dell'accelerazione e della crescita esponenziale che chiamo di accumulazione, ovvero lo strano fenomeno per cui ogni cosa si colloca sempre più spesso sopra un'altra invece che in una sequenza lineare. Per esempio, le informazioni veicolate tutte insieme sulla televisione multicanale e sul web (benché esistano altri casi meno vistosi, ma forse non meno gravidi di conseguenze). Il penultimo capitolo mostra che cosa rappresenti tutto questo per la vita quotidiana in una società come la nostra, dove gli usi e costumi correnti, dalla «monogamia seriale» al culto della giovinezza, dal «lavoro flessibile» alle nuove abitudini di consumo, possono essere visti come manifestazioni della tirannia del tempo.

Nonostante il taglio divulgativo e la modesta lunghezza, questo libro non è privo di ambizioni. Stiamo parlando nientedimeno che di una nuova forma, di un nuovo codice, di una nuova serie di principi organizzativi che forse sono prossimi a prendere il sopravvento nella nostra società. Per questo non mi pare una contraddizione che il volume si chiuda con qualche riflessione politica. Sarebbe semplicistico e anche fuorviante concludere che «dobbiamo riprendere il controllo sui tempo». IO invece suggerisco che meglio sarebbe riapprendere a valorizzare una certa forma di tempo. Per scoprire di che tipo di tempo si tratti, a quale regno appartenga, perché è importante e come mai sia a rischio, non mi viene in mente nessun altro modo che proporvi di prendervi qualche ora di tranquillità e leggere il libro in modo «lineare e cumulativo».

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Pagina 19

I
CULTURA DELL'INFORMAZIONE
/ CULTO DELL'INFORMAZIONE



Il termine «età dell'informazione» circola ormai da qualche anno. A coniarlo potrebbe essere stato Alvin Toffler, scrivendo negli anni Settanta il suo libro di grande successo sugli shock del futuro e le terze ondate, ma come concetto lo si può ritrovare nei testi di studiosi dei media come Marshall McLuhan, che ha scritto i suoi libri più importanti nei primi anni Sessanta, e ancor prima nei saggi di critica culturale della Scuola di Francoforte, in particolare di Adorno e Marcuse, che presentavano visioni apocalittiche della civiltà occidentale a un pubblico benevolo di studenti masochisti negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Non è comunque un caso che termine e concetto abbiano avuto il loro momento di auge negli anni Novanta.

Al pari di altri termini alla moda, come globalizzazione e identità, esso perde con facilità ogni significato in bocca ai po1ìtici, che possono avere la tentazione di usarlo con disinvoltura per dimostrare di essere al passo con la situazione e non per dire alcunché di concreto sulle differenze tra questa società e la società industriale che l'ha preceduta, ovvero l'«era meccanica». È triste vedere come parole rispettabilissime si trasformino in stereotipi senza senso quando finiscono sulla bocca di tutti: la ragione è che esse tendono a dire qualcosa d'importante sul presente e quindi tutti se ne appropriano. D'altro canto, la caduta tendenziale del valore di certi termini e la loro breve vita sono di per se stessi sintomi del malessere tipico della società dell'informazione.

Per esprimerci in modo diverso, il termine «società dell'informazione» ha smarrito il suo significato a causa della società dell'informazione. La quale è una realtà: se si vuole fare un serio tentativo di comprendere l'epoca contemporanea ci sono tanti altri punti di partenza che risultano molto meno utili rispetto a un'analisi della transizione dall'età industriale a quella dell'informazione.

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Pagina 21

Il XXI secolo è cominciato nel 1991


Questi esempi aneddotici non sono, ovviamente, che lievi increspature sulla superficie, ma sono legati a cambiamenti strutturali più profondi. Questi ultimi, in effetti, rendono non solo possibile ma inevitabile affermare, senza tanti tentennamenti, che il XXI secolo è cominciato non nel 2000 o nel 2001, ma nel 1991. Questa tesi forse un po' originale trova un indiretto sostenitore nientemeno che in Eric J. Hobsbawm, che fa cominciare il suo «secolo breve» nel 1914 e lo fa finire appunto nel 1991.

Questa periodizzazione trova una ragion d'essere in tre grandi eventi mondiali avvenuti intorno a quella data. Il primo è il crollo dell'Unione Sovietica, in seguito al quale è sparita la politica così come eravamo abituati a intenderla. Quando esistevano ancora due superpotenze che più o meno si spartivano il mondo, c'era anche una distinzione visibile in politica tra la destra e la sinistra. Gli Stati Uniti rappresentavano un'ideologia fondata su tanta libertà individuale e poca sicurezza (talmente poca, in realtà, che molti abitanti di quel Paese possedevano armi da fuoco capaci di uccidere chi li minacciasse). L'Unione Sovietica rappresentava l'opposto: tanta sicurezza e pochissima libertà individuale (talmente poca, in realtà, che chi diceva quello che gli passava per la testa rischiava di finire in un campo di lavoro in Siberia). Il contrasto tra questi due sistemi si traduceva in una serie di dicotomie: gestione pubblica o iniziativa privata, comunità o individuo, solidarietà o egoismo e così via. Pur essendo davvero pochissimi coloro che in Occidente apprezzavano sinceramente il sistema sovietico (l'ultimo intellettuale a farlo forse è stato H. G. Wells; Sartre lo difendeva per motivi puramente tattici), esso rappresentava un modo diverso di organizzare la vita umana, un'altra concezione della natura umana, un'altra prospettiva nella pianificazione sociale rispetto a quella prevalente negli Stati Uniti. In tutto il mondo gran parte dei movimenti politici cercava di porsi tra l'estremo individualismo degli USA e l'estremo collettivismo dell'URSS. Visti dagli occhi dei rispettivi detrattori, questi opposti segnavano i confini di un ampio dibattito politico. Molto prima di Blair e di Giddens c'erano tante «terze vie» attivamente battute nel mondo: dalla socialdemocrazia di tipo svedese all'anarchia, dal protezionismo indiano alla democrazia economica jugoslava. La pletora di alternative politiche sviluppatesi all'interno dello spazio prevedibile, ma spaventevole, creato dalla Guerra Fredda, è svanita del tutto quando una delle superpotenze è scomparsa. I valori incarnati dagli Stati Uniti sono diventati egemonici in tutto il mondo. L'ideologia degli anni Novanta è stata in gran parte inconsapevole, come il battito prodotto da una mano sola.

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Pagina 23

Internet come paradigma del XXI secolo


Il terzo evento importante che si può datare nel 1991 è più direttamente legato al tema di questo libro e sarà quindi trattato estesamente, anche se il crollo della politica, l'identità come risorsa scarsa e l'ambiguità geopolitica sono indubbiamente caratteristiche costituenti del mondo del XXI secolo.

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Pagina 30

Nella società dell'informazione
la libertà dall'informazione è una risorsa scarsa


Anche chi non ha un lavoro toccato dal ritmo sempre più veloce con cui si elaborano le informazioni, è comunque soggetto alle nuove tecnologie in quanto consumatore o semplice cittadino. A differenza di quanto avviene in società di altro genere, la vita nella società dell'informazione è caratterizzata dalla ridondanza e dalle interferenze. Ci sono troppe informazioni in circolazione, ce ne sono abbastanza per tutti, a differenza di quanto avveniva nelle società industriali o pre-industriali, nelle quali si soffriva un'autentica scarsità di questa risorsa (come attestano modi di dire comuni come «sete di conoscenza»).

[...]

Nella società dell'informazione bisogna essere assolutamente capaci di difendersi dal 99,99 per cento delle informazioni che ci vengono offerte e di cui non abbiamo bisogno (e naturalmente si deve saper sfruttare al massimo il restante 0,01 per cento).

[...]

Qualche anno dopo Bringsvraerd ha affrontato lo stesso argomento da una diversa prospettiva. Nell'apertura del suo straordinario romanzo ancora non tradotto, La triste colazione di un dormiglione, facciamo la conoscenza di Mr. Felix Bartholdy, fermo davanti a una libreria di New York con una borsa pesante in mano e uno scontrino in tasca. Considera il peso della borsa e fa qualche rapido conto, borbottando ai passanti: «Ho comprato tutta questa roba stasera. Ma qualcuno mi sa dire quando mai avrò il tempo per leggermela?».

Poi continua, sempre ragionando ad alta voce: «Ho già più di diecimila volumi. Circa quattromila ancora intonsi. Di solito ne leggo due alla settimana. Il che fa centoquattro all'anno. Per scorrerli tutti e quattromila, mi ci vorranno circa quarant'anni. Io ne ho quarantatré. Prima che finisca di leggere quelli che ho già comprato, ne avrò ottantatré. Ma non è tutto...». E qui comincia a girargli la testa e si appoggia alla parete sussurrando: «Continuo a comprarne. Li metto uno sull'altro. Prendo tutto qnello che vedo. Sono malato. Ne compro almeno cinque volte più di quelli che leggo».

Come succede in questi casi, le cose non fanno che peggiorare per Felix, che però è un vero figlio dei tempi: in un certo senso, anzi, è in anticipo di vent'anni (il romanzo è stato pubblicato intorno alla metà degli anni Settanta). Vive ancora in un'epoca senza internet e senza televisione digitale, un'epoca in cui nel mondo si pubblicavano «solo» 550.000 libri all'anno (e Felix lo sa), meno della metà di quelli che escono oggi. Ma Felix è una tipica vittima dell'eccesso di informazioni. Di fronte a quell'enorme oceano, non impara a nuotare, ben al contrario sarà soddisfatto solo quando se lo sarà bevuto tutto.

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Pagina 90

La dirigente di una internet company ha provocato un certo scompiglio tra i giornalisti americani quando si è presa la libertà di esprimere ad alta voce il suo pensiero sul controllo della qualità e sull'uso delle fonti nel giornalismo internet. Secondo lei, i giornalisti dovevano lavorare tanto in fretta da non avere quasi mai tempo per verificare le fonti. L'onere della prova, quindi, doveva ricadere sul lettore: un regalo dal mondo nuovo della democrazia informatica.

Quando ci si trova davanti a sciocchezze di questa portata, è difficile decidere se sia meglio mettersi a ridere o a piangere. Questa dirigente pensa davvero che io debba andarmene nel Kosovo e mettermi a scavare le fosse per far venire alla luce le bugie della NATO sul genocidio? Dovrei telefonare personalmente a Victoria Beckham per chiederle precisazioni sulle sue ultime mosse in quanto coltivo il sospetto che il mio sito web non me le abbia indicate con esattezza? E devo davvero restarmene a guardare tutti gli incontri indicibilmente deprimenti della mia nazionale di calcio per avere la conferma di una cosa di cui si rendono conto tutti, cioè che i mezzi di comunicazione del Paese non sono in grado di fornire cronache equilibrate? In un certo senso la risposta è sì, e questo vanifica qualunque iniziale allegria. Un amico che lavorava per il principale quotidiano elettronico norvegese mi ha detto che la ragione principale per cui ha deciso di lasciare quel posto (fra l'altro per uno meno interessante e peggio pagato) è stata appunto questa: l'unico obiettivo era di arrivare prima degli altri, di fare uscire le notizie il più rapidamente possibile. Ogni correzione significava tempo in più, quindi meglio non preoccuparsene.

Ignacio Ramonet è il direttore dell'eccellente (e non tra i più lenti) mensile «Le Monde diplomatique». Nel suo libro La Tyrannie de la communication tende più verso un atteggiamento preoccupato che divertito rispetto alla crescente velocità del giornalismo. All'inizio afferma che mai come oggi le persone hanno tante possibilità di accesso alle informazioni, ma questo non significa che siano meglio informate. Una ragione importante è appunto la velocità, anche se Ramonet volge l'attenzione anche alla proprietà delle testate e all'autocensura. La velocità, sommata a una quantità crescente di informazioni in offerta in qualsiasi momento, porta a esasperare la concorrenza e a indebolire il lavoro redazionale. Cita un giornalista giustamente famoso, Ryszard Kapuscinski, il quale sostiene che i redattori non si curano più della «credibilità» di una storia, ma ne giudicano i meriti in base all'«interesse» che suscita. Che una storia abbia un ampio rilievo sociale non è più un criterio in quest'ottica ed è curioso notare come le vicende che più abbiano interessato i media globali nei due anni precedenti l'uscita del libro di Ramonet (1999) siano state la morte della principessa Diana e la storia tra Bill Clinton e Monica Lewinsky. Ramonet dimostra che non c'è spazio per la complessità in questo tipo di giornalismo rampante (e bisogna in tutta franchezza aggiungere che Kipling diceva lo stesso cento anni fa, riferendosi al gusto americano per la velocità). Nella manciata di secondi che i consumatori dedicano alla lettura, tutto quello che i giornalisti possono evidenziare è un semplicissimo contrasto tra buoni e cattivi. Soprattutto per questa ragione è stato così difficile dare una copertura adeguata alla guerra civile in Ruanda, ma questo ci fa vedere sotto una certa luce anche l'ascesa di politiche populiste in vari Paesi europei con i loro slogan semplici e le loro facili proposte.

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Pagina 96

Profitti e perdite tendono ad annullarsi a vicenda


Nel 1965 l'ingegnere Gordon Moore elaborava il principio oggi noto come «legge di Moore», secondo la quale la capacità (leggi: velocità) dei microprocessori raddoppia ogni diciotto mesi. Di recente questa legge è stata integrata dalla «legge di Gilder», secondo la quale la velocità di trasmissione (larghezza di banda) sulla rete raddoppia ogni dodici mesi. Finora Moore ha avuto ragione, ma uno scienziato informatico della mia università ha integrato la sua legge con una «legge di Knut», secondo la quale Moore ha sì ragione, ma la complessità e il peso del software raddoppiano ogni sedici mesi. Secondo Knut, quindi, le funzioni che ogni giorno sono svolte da un computer richiedono oggi più tempo di prima.

Knut è senz'altro un tipo arguto ed esagera. La sua legge mi fa venire in mente quella storia uscita sui giornali qualche anno fa sui supposti vantaggi per la salute dello jogging. Si osservava che chi lo praticava viveva più a lungo, in media esattamente lo stesso tempo dedicato a fare jogging.

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Pagina 162

La nuova tecnologia e lo spostarsi del baricentro economico dal settore industriale a quello dell'informazione fanno sì che molti lavoratori si trovino oggi nella condizione di potersi sottrarre alla monotonia di un lavoro a orario fisso. Possono lavorare a casa, su un aereo (o, più verosimilmente, in un aeroporto mentre aspettano un volo in ritardo), al parco o in macchina. La presenza fisica durante l'orario di lavoro non è più vista come qualcosa di indispensabile. Non hanno forse più bisogno di essere «on time», in orario, ma in compenso devono sempre essere «on line».

Sennett non accenna a un ulteriore aspetto, ma avrebbe benissimo potuto farlo: l'uso degli anti-depressivi e di sostanze simili è cresciuto incredibilmente negli Stati Uniti durante gli anni Novanta, in stretta connessione con lo sviluppo della new economy. Il numero di ricette prescritte per i cosiddetti farmaci psicoattivi è cresciuto negli USA da 131 milioni nel 1988 a 233 milioni nel 1998. Soltanto il Prozac è stato prescritto, nel corso del 1998, a ben lO milioni di persone. Per di più, milioni di nordamericani assumono medicine a base di erbe stimolanti o euforizzanti di altro genere (comprese la cocaina e l'anfetamina) per cercare di raggiungere uno stato di benessere. Lo psichiatra Randolph Nesse ha suggerito la possibilità che il forte ottimismo che ha caratterizzato l'economia USA, e in particolare l'eccezionale diffusione di operazioni finanziarie rischiose associate a progetti alquanto indefiniti riguardanti Internet, potrebbero essere direttamente collegati al fatto che questo genere di sostanze neutralizza la paura e l'ansia. Il boom economico che dal 1992 è andato avanti ininterrottamente per dieci anni potrebbe essere stato dunque una conseguenza dell'utilizzo del Prozac? Difficile a dirsi, ma la tesi di Nesse non va del tutto sottovalutata.

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Pagina 203

La lentezza, per sopravvivere, ha bisogno ben più che di un programma di autoformazione. Richiede un sostegno da parte dello Stato, dei sindacati, delle associazioni industriali, dei politici, delle ONG e di quant'altro: deve essere inserita all'interno della stessa struttura della società. Non basta affatto fare appello alla buona volontà di ognuno. Le buone intenzioni non costano niente, non impegnano e, prima o poi, il sistema le riassorbe. È facile, ed è pure gratis, alzare il dito indice e sostenere che oggi faremmo meglio a passare più tempo lontano dal lavoro, a guardare meno spazzatura alla televisione tornando a leggere buone riviste vecchio stile, a smettere di scrivere tutte quelle e-mail spegnendo anche il cellulare, a viaggiare in treno e non in aereo, a concederci più tempo per stare insieme ai bambini o agli anziani. Anche se esortazioni di questo genere possono avere un valore leggermente più alto del costo di stampa, hanno limiti evidenti. Per arginare il più possibile gli effetti collaterali della soeietà dell'informazione bisogna che questo obiettivo diventi una priorità sociale. Un passo notevole in avanti ci sarebbe se politici, burocrati e manager si rendessero conto che hanno, oggi, la preziosa opportunità di prendere il meglio da entrambi gli stili di vita - quello veloce e quello lento - e che valori incommensurabili andrebbero perduti se si finisse con l'impostare l'esistenza su un unico ritmo.

Come la classe operaia del XIX secolo aveva dovuto lottare tenacemente e attivamente per far sì che l'industria fosse al servizio anche dei loro bisogni (e non solo di quelli dei capitalisti), la lotta per la risorsa più scarsa della nostra epoca - la lentezza farà nascere forti antagonismi. Probabilmente, in questa lotta, i tecnocrati (compresi molti socialdemocratici) e i ricchi si troveranno dalla parte sbagliata, proprio perché condividono una fede quasi religiosa nell'efficienza come valore in sé.

Si può resistere alla tirannia del tempo solo se la società introduce alcuni freni all'interno della sua struttura.

Come?

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