Autore Annie Ernaux
Titolo Gli anni
EdizioneL'orma, Roma, 2015, Kreuzville Aleph , pag. 266, cop.fle., dim. 14,5x21,3x2 cm , Isbn 978-88-98038-16-9
OriginaleLes années
EdizioneGallimard, Paris, 2008
TraduttoreLorenzo Flabbi
LettoreElisabetta Cavalli, 2015
Classe narrativa francese , storia sociale












 

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Pagina 9

Tutte le immagini scompariranno.

la donna accovacciata che, in pieno giorno, urinava dietro la baracca di un bar al margine delle rovine di Yvetot, dopo la guerra, si risistemava le mutande con la gonna ancora sollevata e se ne tornava nel caffè

il volto pieno di lacrime di Alida Valli mentre ballava con George Wilson nel film L'inverno ti farà tornare

l'uomo incrociato su un marciapiede di Padova nell'estate del '90, con delle manine attaccate alle spalle che subito facevano pensare alla talidomide prescritta trent'anni prima alle donne incinte contro le nausee e allo stesso tempo alla barzelletta che si era raccontata in seguito: una futura madre lavora ai ferri il corredo per il neonato ingerendo con regolarità della talidomide, un giro di maglia, una compressa. Inorridendo un'amica le dice, ma come, non lo sai che il tuo bambino rischia di nascere senza braccia?, e lei, certo che lo so, è che non so fare le maniche

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Pagina 17

Tutto si cancellerà in un secondo. Il dizionario costruito termine dopo termine dalla culla all'ultimo giaciglio si estinguerà. Sarà il silenzio, e nessuna parola per dirlo. Dalla bocca aperta non uscirà nulla. Né io né me. La lingua continuerà a mettere il mondo in parole. Nelle conversazioni attorno a una tavolata in festa saremo soltanto un nome, sempre più senza volto, finché scompariremo nella massa anonima di una generazione lontana.

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I giorni di festa dopo la guerra, nella lentezza interminabile dei pranzi, sbucava dal nulla e prendeva forma il tempo già cominciato, quello che talvolta sembrava paralizzare i genitori quando si dimenticavano di risponderci, gli occhi fissi nel vuoto, il tempo in cui noi non eravamo, in cui non saremmo mai stati, il tempo di prima. Le voci sovrapposte dei commensali componevano il grande racconto degli avvenimenti collettivi, avvenimenti ai quali, inevitabilmente, ci sembrava di aver assistito.

Non si stancavano mai di raccontare l'inverno del '42, glaciale, la fame e le rape, i rifornimenti e la tessera per il tabacco, i bombardamenti

l'aurora boreale che aveva preannunciato la guerra

le biciclette e le carriole sulle strade nei giorni della Disfatta, i negozi saccheggiati

gli sfollati che frugavano tra le macerie alla ricerca delle loro foto, dei loro soldi

l'arrivo dei tedeschi – ciascuno a precisare esattamente dove, in quale città –, la correttezza degli inglesi, la disinvoltura degli americani, i collaborazionisti, il vicino durante la Resistenza, la signorina X rapata alla Liberazione

Le Havre rasa al suolo, non ne restava più nulla, il mercato nero

la propaganda

i crucchi in fuga che attraversavano la Senna a Caudebec in groppa a cavalli stremati

la contadina che in treno molla un peto in uno scompartimento dove ci sono dei tedeschi e proclama ai quattro venti «se non glielo possiamo dire, almeno facciamoglielo sentire»

Su uno sfondo comune di fame e di paura, tutto veniva raccontato alla prima persona plurale.


Parlando di Pétain alzavano le spalle, troppo vecchio e già rimbambito, dopotutto, quando si era riusciti a mettergli sopra le mani. Imitavano il volo e il rumore dei V2 che solcavano il cielo, mimavano lo spavento, fingevano decisioni cruciali nei momenti più drammatici, e a quel punto cosa posso fare, per tenere con il fiato sospeso.


Era un racconto pieno di morti e di violenza, di distruzioni, narrato con un'esultanza che a tratti sembrava voler smentire il solenne «non dovrà accadere mai più» che veniva pronunciato in maniera vibrante ed era seguito da un momento di silenzio, come per mettere in guardia un'istanza oscura, il rimorso di un appagamento.


Ma parlavano solo di ciò a cui avevano assistito, ciò che poteva essere rivissuto mangiando e bevendo. Non avevano abbastanza talento o convinzione per raccontare ciò che sapevano ma che non avevano visto con i loro occhi. Dunque nessuna parola sui bambini ebrei ammassati nei treni per Auschwitz, sui morti per fame raccolti al mattino nel ghetto di Varsavia, sui 10.000 gradi di Hiroshima. E da qui quell'impressione mai fugata dai documentari e dai film visti in seguito: né i forni crematori né la bomba atomica appartenevano alla stessa epoca del burro comprato al mercato nero, degli allarmi aerei, delle corse in cantina.


Iniziavano a fare confronti con la guerra del '14, la precedente, la Grande, quella sì che era stata vinta con il sangue, con la gloria, una guerra di uomini che le donne a tavola ascoltavano con rispetto. Parlavano delle battaglie epocali, dello Chemin des Dames e di Verdun, del gas, delle campane dell'11 novembre 1918. Citavano nomi di villaggi in cui nemmeno uno dei giovani partiti per il fronte aveva fatto ritorno. Contrapponevano i soldati nel fango delle trincee ai prigionieri del '40, tenuti al caldo e al riparo per cinque anni senza aver visto l'ombra di un bombardamento. Si contendevano l'eroismo e le sventure.

Risalivano indietro nel tempo, fino a epoche in cui loro non c'erano ancora, la guerra di Crimea, quella del '70, i parigini che avevano mangiato i topi.


Nei tempi andati di cui si narrava c'erano soltanto guerre e fame.

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La Francia era immensa, composta da popoli diversi distinti dal cibo e dai modi di parlare, attraversata in lungo e in largo nel mese di luglio dai corridori del Tour di cui si seguivano le tappe sulla carta Michelin appesa con le puntine al muro della cucina. La maggior parte delle strade si distendeva all'interno di un perimetro di una cinquantina di chilometri. Quando in chiesa si alzava brontolando il canto vittorioso Regna su di noi Vergine pura sapevamo che quel su di noi indicava esattamente là dove abitavamo, la nostra cittadina, tutt'al più il dipartimento provinciale. L'esotismo iniziava dalla più vicina delle grandi città. Il resto del mondo era irreale. I più istruiti e coloro che volevano diventarlo andavano ad assistere ai documentari didattici dell'associazione Connaissance du monde. Gli altri leggevano Selezione dal Reader's Digest o Constellation, «il mondo visto in francese». La cartolina di Biserta, in Tunisia, spedita da un cugino che vi si trovava a fare il militare, ci faceva piombare in uno stato di sognante costernazione.

Parigi rappresentava la bellezza e la potenza, una totalità misteriosa che metteva paura, di cui ogni strada che compariva sui giornali o che veniva menzionata in una pubblicità, il boulevard Barbès, la rue Gazan, Jean-Mineur-116-avenue-des-Champs-Ιlysées, stimolava l'immaginazione. Chi ci aveva vissuto, chi ci aveva fatto anche solo una gita e aveva visto la Torre Eiffel, era circonfuso da un'aura di superiorità. Le sere d'estate, alla fine delle lunghe polverose giornate di vacanza, andavamo alla stazione all'arrivo dell'espresso per guardare chi rientrava da un qualsiasi altrove, li vedevamo scendere dal treno con le valigie, con i sacchetti di Printemps o di qualche altro grande magazzino, vedevamo i pellegrini che tornavano da Lourdes. Nelle canzoni si evocavano regioni sconosciute, il Midi, i Pirenei, i desideri si alimentavano sulle note del Fandango du pays basque, di Montagnes d'Italie, di Mexico. Nelle nuvole al tramonto bordate di rosa vedevamo maragià e palazzi indiani. Ci lamentavamo con i genitori, «non andiamo mai da nessuna parte!», rispondevano con stupore, «dove vuoi andare, non sei contenta di dove stai?».


Tutto ciò che si trovava nelle case era stato comprato prima della guerra. Le pentole si erano annerite e avevano perso i manici, ai sanitari era venuto via lo smalto, le brocche erano riparate colmando le fessure con mezzi di fortuna. I cappotti erano aggiustati alla bell'e meglio, si girava il collo alle camicie, i vestiti della domenica ormai sciupati venivano declassati all'uso quotidiano. Che non smettessimo di crescere faceva disperare le madri, obbligate ad allungarci i vestiti con scampoli di tessuto, a comprarci scarpe di un numero più grande che erano già troppo piccole soltanto un anno dopo. Ogni oggetto doveva trovare una sua funzione, l'astuccio, il barattolo di vernice Lefranc, la scatola dei biscotti LU. Non si buttava nulla. I vasi da notte servivano per concimare l'orto, lo sterco raccolto per strada dopo il passaggio di un cavallo per fertilizzare i fiori, con i giornali ci si avvolgevano le verdure, si assorbiva l'umido delle scarpe bagnate, si asciugavano i pavimenti dei gabinetti.

Vivevamo nella scarsità. Degli oggetti, delle immagini, delle distrazioni, delle spiegazioni di sé e del mondo, limitate al catechismo e alle prediche di don Riquet durante la quaresima, al vocione di Geneviève Tabouis che la domenica alla radio commentava le «ultime notizie di domani», ai racconti delle donne che il pomeriggio, davanti a una tazza di caffè, narravano la loro vita e quella dei vicini. I bambini credevano a lungo a Babbo Natale e ai neonati trovati sotto un cavolo o in una rosa.


Le persone si spostavano a piedi o in bicicletta in un viavai regolare, gli uomini con le ginocchia divaricate e l'orlo dei pantaloni stretto da una molletta, le donne con le natiche fasciate nelle gonne tese, si tracciavano linee fluide che attraversavano la tranquillità delle strade. Il silenzio era il sottofondo delle cose e la bicicletta misurava la velocità della vita.


Si viveva nella prossimità della merda, che faceva tanto ridere.

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Catturati nel tempo infinitamente lungo della scuola, nella regolarità cadenzata della campanella che suonava per ogni lezione, delle interrogazioni di fine quadrimestre, delle interminabili spiegazioni del Cinna e dell' Ifigenia, della traduzione del Pro Milone, i pochi ragazzi che avevano la possibilità di continuare gli studi avevano l'impressione che non succedesse mai niente. Ci segnavamo frasi di grandi scrittori sulla vita, scoprivamo la gioia di pensare a noi stessi tramite formule scintillanti, esistere è bersi senza sete. Eravamo invasi dalla nausea, da una sensazione di assurdità. Il corpo vischioso dell'adolescenza incontrava l'essere «di troppo» dell'esistenzialismo. Sui fogli di un quadernone appiccicavamo le foto di Brigitte Bardot in E Dio creò la donna, nel legno del banco di scuola incidevamo le iniziali di James Dean. Copiavamo le poesie di Prévert, i testi delle canzoni di Brassens, Je suis un voyou e La première fille, vietate alla radio. Leggevamo di nascosto Bonjour tristesse e i Tre saggi sulla teoria sessuale. La sfera del desiderio e dei divieti diventava immensa. Si schiudeva da qualche parte davanti a noi la possibilità di un mondo senza peccato. Gli adulti sospettavano che fossimo demoralizzati dagli scrittori moderni, dicevano che non avevamo più rispetto per niente.


Nell'immediato, il desiderio più pressante era quello di possedere un giradischi e almeno qualche vinile, oggetti cari di cui si poteva godere in compagnia o in solitudine, all'infinito, fino a non poterne più, oggetti che facevano entrare di diritto nella tribù giovanile dei più evoluti, dei liceali benestanti, quelli che indossavano i montgomery, che chiamavano i genitori «i miei vecchi» e dicevano bye per dire arrivederci.

Eravamo avidi di jazz, di spiritual, di rock 'n' roll. Tutto ciò che si cantava in inglese era aureolato di una misteriosa bellezza. Dream, love, heart, parole pure, senza un utilizzo pratico, che restituivano la sensazione di un al di là. Nel segreto della propria cameretta ci si abbuffava dello stesso disco, senza stancarsene, come una droga che pigliava la testa, faceva esplodere il corpo, apriva la porta su un altro mondo fatto di violenza e di amore, un mondo che si sovrapponeva e confondeva con quello di quei party a cui ancora non avevamo il diritto di andare. Elvis Presley, Bili Haley, Armstrong, i Platters incarnavano la modernità, l'avvenire, e cantavano soltanto per noi, per noi giovani, lasciandosi alle spalle i gusti fuorimoda dei genitori e l'ignoranza dei buzzurri, Il paese del sorriso, André Claveau e Line Renaud. Ci sembrava di far parte di un circolo ristretto di iniziati. E tuttavia Les Amants d'un jour non aveva smesso di farci venire la pelle d'oca.

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Noi, che per cambiare la società eravamo rimasti fermi al Partito socialista unificato, scoprivamo in un colpo solo i maoisti, i trotskisti, una straordinaria quantità di idee e di concetti. Dappertutto nascevano movimenti, si pubblicavano libri e riviste, emergevano filosofi, critici, sociologi: Bourdieu, Foucault, Barthes, Lacan, Chomsky, Baudrillard, Wilhelm Reich, Ivan Illich, Tel Quel, l'analisi strutturale, la narratologia, l'ecologia. In un modo o in un altro, che fosse leggendo Les Héritiers o un libretto svedese sulle posizioni sessuali, tutto andava in direzione di una nuova intelligenza, di una trasformazione del mondo. Eravamo immersi in linguaggi inauditi, non sapevamo più dove sbattere la testa, sgomenti perché non avevamo mai sentito parlare di tutto ciò prima di allora. In un mese avevamo recuperato anni di tempo perso. E ci sentivamo rassicurati nel ritrovare, invecchiati ma più battaglieri che mai, emozionanti, Sartre e Beauvoir con il suo turbante, anche se non avevano niente di nuovo da insegnarci. André Breton, purtroppo, era morto due anni prima, troppo presto.


Niente di ciò che fino a quel momento era stato considerato normale veniva più dato per scontato. La famiglia, l'educazione, la prigione, il lavoro, le vacanze, la follia, la pubblicità: a essere messa sotto esame era la realtà intera, inclusa la parola del soggetto che la criticava, chiamato a interrogarsi su se stesso, sulle proprie origini, da dove parli tu? Era finita l'epoca dell'ingenuità sociale. Comprare una macchina, assegnare un compito a casa, partorire, ogni cosa aveva un suo significato.

Nulla dell'intero pianeta ci doveva risultare estraneo, gli oceani, il delitto di Bruay-en-Artois, eravamo partecipi di ogni lotta, dal Cile di Allende a Cuba, dal Vietnam alla Cecoslovacchia. Comparavamo i sistemi politici, cercavamo dei modelli. Eravamo immersi in una generalizzata lettura politica del mondo. La parola chiave era «liberazione».


Chiunque, purché rappresentasse un gruppo, una particolare condizione, un'ingiustizia, aveva il diritto di parlare ed essere ascoltato anche se non era un intellettuale. Aver avuto esperienza di qualcosa, qualsiasi cosa, in quanto donna, omosessuale, transfuga di classe, detenuto, contadino, minatore, dava il diritto di dire io. C'era una forma di esaltazione nel pensarsi in termini collettivi, le prostitute e i lavoratori in sciopero trovavano spontaneamente i loro portavoce. Charles Piaget, l'operaio di Lip, era più conosciuto dello psicologo dallo stesso cognome con il quale ci avevano fatto una testa così alle lezioni di filosofia [ignorando che un giorno il nome Piaget ci avrebbe evocato soltanto quello di un gioielliere di lusso letto sulle riviste dal parrucchiere].


I ragazzi e le ragazze ora erano sempre insieme, le medaglie scolastiche e i grembiuli erano stati soppressi, i voti in cifre erano stati sostituiti dalle lettere dalla A alla E. Gli studenti si baciavano e fumavano durante le lezioni, commentavano a voce alta le tracce dei temi e dei compiti in classe, che palle o roba forte.

Sperimentavamo la grammatica strutturale, i campi semantici e le isotopie, la pedagogia Freinet. Abbandonavamo Corneille e Boileau per far studiare Boris Vian, Ionesco, le canzoni di Boby Lapointe e Colette Magny, Pilote e il fumetto. In classe facevamo scrivere un romanzo o un giornale, suscitando l'ostilità di quei colleghi che nel '68 si erano barricati in sala professori e quella dei genitori, scandalizzati dal fatto che, oltre ai compiti consueti, dessimo da leggere Il giovane Holden e I bambini del secolo.

Uscivamo da ore di dibattiti sulla droga, l'inquinamento o il razzismo in uno stato quasi di ebbrezza, covando però il remoto sospetto di non aver insegnato niente agli studenti (avevamo forse girato a vuoto?, ma in fondo la scuola serviva poi a qualche cosa? Saltavamo da un interrogativo all'altro, senza sosta).

Altri modi di pensare, parlare, scrivere, lavorare, esistere: credevamo di non aver niente da perdere a provare tutto.

Il 1968 era il primo anno del mondo.

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A metà degli anni Novanta, alla tavola dove si era riusciti a riunire una domenica a pranzo i figli quasi trentenni con amici e amiche che già non erano gli stessi dell'anno precedente – solo di passaggio in una cerchia famigliare dalla quale erano usciti come erano entrati – davanti a un cosciotto d'agnello – o a un qualunque altro piatto che sapevamo che per conto loro non mangiavano, per mancanza di tempo, soldi o capacità – e a una bottiglia di saint-julien o di chassagne-montrachet – per educare il palato di quei bevitori di birra e Coca-Cola – il passato lasciava indifferenti. La conversazione, dominata dalle voci maschili, aveva come argomento più solenne le prestazioni dei loro computer, si confrontavano i Pc e i Mac, le «memorie» e i «programmi». Attendevamo, bonari, che la finissero con il loro scoraggiante linguaggio iniziatico pieno di neologismi, che non avevamo voglia di farci spiegare, e che tornassero a chiacchierare di faccende comuni. Parlavano dell'ultimo numero di Charlie Hebdo, dell'ultima puntata di Arrκt sur images, della serie X-Files, citavano film americani e giapponesi, ci consigliavano di andare a vedere Il cameraman e l'assassino e raccontavano con entusiasmo la prima scena de Le iene, prendevano affettuosamente in giro i nostri gusti musicali, impresentabili, e proponevano di passarci l'ultimo disco di Arthur H. Commentavano l'attualità con la derisione dei Guignols di Canal+, la loro quotidiana fonte d'informazione insieme a Libé, rifiutavano di impietosirsi di fronte alle disgrazie individuali con un definitivo «a ciascuno i suoi casini». Tenevano il mondo a distanza su un registro ironico. Le loro battute pronte, la velocità e la scioltezza delle loro repliche ci affascinavano e ci mortificavano, temevamo di sembrare lenti e pesanti. Stando con loro facevamo scorta delle parole che circolavano tra i giovani, rinnovavamo il nostro repertorio. Ce ne spiegavano l'uso corretto, permettendoci di poter integrare nel nostro vocabolario «smanettone» e «sclerare», e di partecipare alla loro stessa enunciazione delle cose.

Nutrendoli di rado, li osservavamo con soddisfazione mentre mangiavano e chiedevano il bis di ogni portata. Più tardi, al momento delle bollicine, passavano in rassegna ricordi di trasmissioni televisive, prodotti, pubblicità e mode dei tempi della loro infanzia e adolescenza, lunghe elencazioni dove trovavano posto i passamontagna di lana, le toppe sulle ginocchia dei pantaloni, carne bovina in gelatina, le scope elettriche, le crostatine della LU, La corsa più pazza del mondo, il cartone di Kiri il Clown, Zegut lo zio del rock, la sigla di Stanlio e 0llio eccetera. Facevano a gara di citazioni, fomentandosi in quella rievocazione di oggetti di un passato comune, una memoria inesauribile e futile che li faceva sembrare dei ragazzini.

La luce del pomeriggio era cambiata. Le ondate di eccitazione dopo il pasto si facevano più rade. Ragionevolmente, la proposta di una partita a Scarabeo, fonte certa di litigi, veniva scartata. Nell'odore del caffè e delle sigarette – le canne si fumavano di nascosto – sentivamo tutta la dolcezza di un rito che in passato ci era risultato così pesante da volerlo fuggire per sempre, ma di cui, in quella domenica di primavera del 1995, dopo la rottura coniugale, la morte dei nonni, la dispersione generale, assicuravamo la continuità con una tovaglia bianca, l'argenteria e un pezzo di carne scelta. E osservando, ascoltando quei bambini diventati adulti, ci domandavamo cosa fosse a legarci, non il sangue né i geni, solo un presente fatto di migliaia di giorni insieme, di parole e di gesti, di pasti, di tragitti in auto, di esperienze condivise che avevano lasciato dentro di noi una traccia senza che nemmeno ce ne rendessimo conto.

Al momento di andarsene ci baciavano quattro volte sulle guance. La sera ci ricordavamo del piacere che avevano avuto nel mangiare da noi assieme ai loro amici – felici di aver potuto ancora provvedere al più antico e fondamentale dei bisogni, il cibo. Provavamo per loro una profonda inquietudine, resa ancora più intensa dalla convinzione che noi alla loro età fossimo più forti. Li sentivamo fragili in un futuro informe.

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Pagina 225

Si avvicinava il 2000. Non riuscivamo a credere che ci fosse stato concesso di vederlo. Ci dispiaceva per tutti coloro che erano morti prima. L'ipotesi che si sarebbe trattato di un capodanno come gli altri non era neanche presa in considerazione, e infatti era stato annunciato un «bug» informatico, una disfunzione planetaria, una specie di buco nero precursore della fine del mondo, di un ritorno alla ferocia degli istinti. Il Novecento si chiudeva alle nostre spalle a colpi di bilanci, tutto era repertoriato, classificato, valutato, le scoperte, le opere letterarie e artistiche, le guerre, le ideologie, come se si dovesse entrare nel nuovo millennio con la memoria immacolata. Un'entità temporale solenne e accusatoria, «il secolo», incombeva sulle nostre teste, ci chiedeva il conto, ci privava di ricordi che erano soltanto nostri, di ciò che non avevamo mai percepito come una totalità compatta ma piuttosto come uno scivolare di un anno dentro il successivo, tra periodi più o meno salienti a seconda dei cambiamenti occorsi nelle nostre vite. Nel secolo che si apprestava a cominciare, le persone che avevamo conosciuto nell'infanzia e che non c'erano più, genitori e nonni, sarebbero morte definitivamente.


Gli anni Novanta che giungevano al termine non avevano avuto alcuna valenza particolare, anni di disincanto. Considerata la situazione in Iraq – che gli Stati Uniti affamavano e tenevano sotto la costante minaccia di attacchi aerei, dove i bambini morivano per mancanza di medicine – oppure a Gaza e in Cisgiordania, in Cecenia e in Kosovo o in Algeria eccetera, tanto valeva dimenticarsi della stretta di mano a Camp David tra Arafat e Clinton, dell'annunciato «nuovo ordine mondiale» o di Eltsin sul suo carrarmato. Di fatto restava ben poco da ricordare se non le sere nebbiose del dicembre del '95, ormai lontane, durante quello che fu forse l'ultimo dei grandi scioperi del secolo. E semmai la bella e sfortunata principessa Diana uccisa in macchina sotto il pont de l'Alma e il vestito azzurro di Monica Lewinsky macchiato dello sperma di Bill Clinton. Ma soprattutto ci si ricordava dei Mondiali di calcio. Le persone avrebbero voluto rivivere le settimane d'attesa, gli assembramenti davanti ai televisori nelle città silenziose attraversate dai pony express delle pizzerie a domicilio, un'attesa che, di partita in partita, aveva condotto a quella domenica di luglio, a quel clamoroso momento estatico in cui si sarebbe potuti morire tutti insieme dalla gioia – solo che si trattava dell'esatto contrario della morte –, completamente abbandonati in un solo desiderio, una sola immagine, un solo racconto – le giornate abbaglianti di cui i manifesti pubblicitari dell'acqua Ιvian e dei supermercati Leader Price con il volto di Zidane sulle pareti della metropolitana costituivano le irrisorie vestigia.

Davanti a noi non c'era niente.

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