Copertina
Autore Antonio Esposito
Titolo Tadao Ando
EdizioneMotta Architettura, Milano, 2007 , pag. 120, ill., cop.ril., dim. 20x26,5x1,2 cm , Isbn 978-88-6116-017-0
LettoreCorrado Leonardo, 2007
Classe architettura , paesi: Giappone
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Indice


  8  Portfolio


     Introduzione

 21  Tadao Ando architetto giapponese
 29  Cronologia

     Le opere

 34  Casa Row, Sumiyoshi - casa Azuma, Osaka
 38  Rokko housing I, II, III, Kobe
 42  Chiesa sull'acqua, Shimukappu
 46  Chiesa della luce, Ibaraki
 50  Museo d'arte contemporanea di Naoshima
     con foresteria annessa, Naoshima
 54  Fondazione Pulitzer per le arti, St. Louis
 58  Fondazione Langen, Hombroich
 62  Museo Hiroki Oda (Museo della luce naturale), Hino
 66  Museo d'arte moderna di Fort Worth, Forth Worth
 70  Teatro Armani, Milano
 74  Palazzo Grassi, Venezia

     I progetti

 80  Fondazione Nakanoshima 2 - Stratificazioni spaziali
     e Uovo urbano, Osaka
 82  Chiesa dell'anno 2000, Roma
 84  Fondazione d'arte contemporanea François Pinault,
     Ile Seguin

     Il pensiero

 88  Dalla periferia dell'architettura

     I fotografi

 98  Mitsuo Matsuoka
106  Shigeo Ogawa
111  Tornio Ohashi

     La critica

114  Architettura, corpo, spirito

119  Bibliografia

 

 

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Tadao Ando architetto giapponese


Falegname, boxeur, architetto: la formazione

La formazione architettonica da appassionato autodidatta, arricchita dai viaggi di studio frequenti in Europa e negli Stati Uniti, non deve essere stata secondaria nel determinare in Tadao Ando un atteggiamento autonomo rispetto al panorama dell'architettura giapponese del dopoguerra.

Cresciuto al di fuori delle istituzioni architettoniche e, per così dire, senza un pedigree di appartenenza, egli stesso ha sempre confessato di non aver mai amato molto la scuola e di essere stato, da adolescente, uno studente di scarso profitto che passava più tempo in strada che sui banchi di scuola. Lo interessava di più l'apprendistato che in quegli anni svolgeva in una falegnameria, esperienza che costituisce un tassello anomalo nel bagaglio formativo di un architetto.

All'età di quattordici anni, prendendo giustamente sul serio la dimensione ludica della propria formazione, costruisce assieme a un suo amico falegname, una casetta di legno, come fanno tanti adolescenti in ogni luogo del mondo, ma lui la realizza di ben 23 metri quadrati: segno di passione e vocazione inequivocabili.

Il quadro poco ortodosso si completa poi con la nota non secondaria, sebbene possa apparire folcloristica, della sua passione per la boxe che pratica con impegno da professionista, che gli consente di effettuare i suoi primi viaggi all'estero e che, a suo dire, contribuisce a rafforzare l'anomalia della formazione personale.

La sua sensibilità si è dunque sviluppata attingendo più alla sfera del fare empirico che non alla trasmissione codificata della conoscenza disciplinare o alla frequentazione della critica architettonica e dei dibattiti teorici, dimensione — quella teorica — che invece non disdegnerà di praticare negli anni della maturità da posizioni originali, offrendo punti di vista raffinati.

Negli anni giovanili coltiva, del tutto senza guide, due passioni apparentemente contrastanti. La prima riguarda l'architettura tradizionale giapponese che conosce e apprezza visitando i templi e le case dei quartieri sottratti alla modernizzazione del dopoguerra nelle città di Nara e di Kyoto, vicine alla sua Osaka. La seconda riguarda l'architettura moderna e in modo particolare le opere di Le Corbusier, incontrate a vent'anni attraverso le pagine di un libro che usa fino alla consunzione, per ridisegnarne piante, prospetti e sezioni innumerevoli volte.

Questa sua duplice passione personale, coltivata in proprio, costituisce il nucleo forte delle motivazioni profonde che muovono la sua opera. Dallo scontro tra i valori e i canoni dell'estetica tradizionale giapponese con quelli del modernismo occidentale, nasce il carattere della sua architettura o almeno trova fondamento una possibile convincente chiave di lettura. Dal conflitto la sua poetica produce un amalgama, un intreccio di condizionamenti che non tralasciano nulla della sensibilità accumulata nella cultura millenaria di un popolo, senza tuttavia indugiare in un passatismo confortevole.

La sua concezione della modernità non rinuncia a nessuno stato di avanzamento culturale, tecnologico, sociale conquistato dall'uomo ma, poiché questi provengono in larga misura dalla civiltà occidentale, Tadao Ando ne ricerca una interpretazione in equilibrio con i caratteri culturali autoctoni.

Per lui che è nato nel 1941, gli anni Sessanta sono quelli dell'apprendimento dell'architettura, della formazione della personale coscienza delle cose che riguardano l'abitare. Sono per il Giappone, gli anni dell'accelerazione di quel processo di americanizzazione dei gusti e dei modi di vita cominciato già negli anni precedenti la seconda Guerra Mondiale e denunciato da Jun'ichiro Tanizaki come vera e propria perdita di senso per la cultura dell'abitare giapponese, nel piccolo libro In'ei raisan (letteralmente "elogio della penombra"), del 1933, che certamente Tadao Ando avrà letto e meditato.

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Luce e materia

L'architettura tradizionale giapponese è costruita quasi esclusivamente con materiali di origine vegetale: il legno per la struttura e per il pavimento, il bambù per le recinzioni, le stuoie di paglia del tatami per il pavimento delle camere, la carta intelaiata in listelli di legno per i pannelli scorrevoli, la paglia per il tetto. La sensazione che trasmette è pressoché monocromatica con una infinita variazione di sfumature e di toni. È ammesso un uso più che discreto della decorazione, efficace soprattutto in relazione alla penombra in cui è ambientata. Al contrario il giardino, che non è un luogo entro il quale muoversi, bensì un paesaggio-scenario da osservare e ascoltare dal portico e dagli ambienti della casa, ingloba tra le piante un gran numero di materiali minerali, che esaltano l'artificio che l'uomo esercita sulla vita vegetale, fino a essere del tutto minerale nei giardini karesansui fatti di rocce e ghiaia.

"La spoglia eleganza delle stanze giapponesi è fondata, per intero, sulle infinite gradazioni del buio. [...] Niente di manierato e di artificioso: solo uno spazio spoglio, la semplicità del legno, la nudità delle pareti. I raggi luminosi che vi penetrano provocano, ora in questo, ora in quell'angolo, il raggrumarsi dell'ombra" sostiene Tanizaki e il suo libro sull'abitare tradizionale ci trasmette immagini, suoni, profumi e sapori soffusi. Ci comunica un'idea di accoglienza e di confortevolezza sobria, fatta di misura espressiva millimetricamente controllata, rilassante e quasi meditativa. Il benessere ambientale quanto più è scarno, fatto di sensazioni tattili, luminose, acustiche, rapportato alla esaltazione di sensazioni corporee, tanto più stimola quelle che Tadao Ando definisce qualità non razionali dell'abitare, qualità dello spazio architettonico in grado di accogliere e confortare la profondità dell'animo di chi lo abita.

Tadao Ando eredita dalla tecnica moderna del costruire il cemento armato e lo adotta, spesso in forma di muratura continua, come materiale dominante delle sue opere, in grado di conformare gli spazi e attribuire loro carattere cromatico, tattile e acustico, in parallelo con il ruolo che il legno e gli altri materiali vegetali svolgevano nell'architettura tradizionale. La diversa resistenza non deve lasciar pensare a una diversa idea di durata dell'architettura. Se Ando può orgogliosamente riferire nel suo discorso alla cerimonia per il conferimento del Pritzker Prize del 1996, che nessuno dei suoi edifici era risultato danneggiato dal terremoto devastante che l'anno precedente aveva colpito la regione di Kobe, allo stesso modo possiamo constatare come la costante manutenzione e sostituzione di parti, rendono di fatto immutabile l'aspetto delle architetture tradizionali, fino all'estremo rappresentato dal ciclo di sostituzione e ricostruzione dei templi di Ise ogni vent'anni, da secoli. Questo si oppone alle regole dell'economia edilizia che ormai prevedono tempi di durata degli edifici sempre più brevi.

L'uso del cemento armato a vista, esteso su tutto l'edificio, comporta la soluzione di problemi progettuali complessi nella definizione delle casseforme, quasi un progetto parallelo, per controllare la qualità delle superfici, dei giunti, dei raccordi tra i piani e le superfici verticali.

L'affinamento della tecnica di controllo di questi aspetti progettuali, richiede la reiterazione di soluzioni e il conseguente tentativo di standardizzarle e adottarle come se facessero parte di un bagaglio del saper fare, patrimonio dello studio Ando, una sorta di manuale di progettazione in continua evoluzione depositato negli esempi realizzati. Dalla dimensione del tatami (90 x 180 centimetri) che era il modulo del dimensionamento della casa tradizionale, Tadao Ando ricava la dimensione del suo pannello da cassero, che attribuisce al cemento a vista la propria impronta e diventa così modulo costruttivo e unità di misura dell'intero sistema progettuale.

Nell'accuratezza progettuale delle casseforme, in grado di determinare le qualità percettibili dei suoi muri, Tadao Ando recupera lo spirito della meticolosità e complessità dell'elaborazione artigianale della casa giapponese, che perseguiva la massima semplicità e asciuttezza espressiva attraverso il massimo rigore di esecuzione. L'abilità nell'uso delle casseforme non è dissimile dalla sua maestria nell'uso del legno come materiale da costruzione che egli adotta e sperimenta in diverse occasioni e con diversi gradi di difficoltà. Allo stesso modo degli edifici in cemento, anche in queste opere la luce naturale e artificiale viene usata come commento delle qualità estetiche e tattili delle superfici, ma qui, negli intrecci di travi e listelli, si moltiplicano i giochi di ombre, di traguardi, di riflessi.

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Dalla periferia dell'architettura


Un corso d'acqua, denominato fiume Isuzu, attraversa la zona cintata del Tempio di Ise. La vista del suo limpido corso è davvero emozionante e magnifica. Tornando a visitare il fiume a distanza di anni, ho ritrovato sensazioni che credevo cadute nell'oblio. Fissare il lungo muro ininterrotto che si erge dalla superficie dell'acqua all'altezza dello sguardo è stranamente rilassante. Forse perché quel muro presso l'acqua perdura anche se la natura soggiace ai mutamenti e il tempo incede inesorabile nel suo eterno fluire.

L'acqua ha lo strano potere di stimolare l'immaginazione e di renderci consapevoli delle possibilità della vita. È una materia monocromatica, in apparenza pigmentata ma di fatto incolore: un mondo monocromo in cui si distinguono infinite gradazioni di colore che l'acqua stessa riflette fungendo da specchio. Credo che esista un legame profondo tra l'acqua e lo spirito umano.

Le piante dei miei primi edifici, tutte simmetriche, danno l'impressione di specchiarsi nell'acqua. Nel tempo, la simmetria dei piani si è andata riducendo e, ripensandoci, credo fosse determinata dalla profonda influenza che l'architettura tradizionale giapponese ha avuto su di me. Da giovane mi recavo spesso a Kyoto e a Nara per visitare antichi edifici giapponesi: opere di architettura sukiya, e i tradizionali machiya (abitazioni a schiera strette e lunghe).

Tuttavia, agli albori della professione, guardavo all'occidente come modello per la mia architettura, convinto che l'architettura stessa si identificasse con lo stile occidentale. Rinnegai la tradizione giapponese, ma ne ho serbata sempre viva in me la coscienza. Per quanti esempi di architettura straniera — e in particolare occidentale — abbia osservato, devo riconoscere che, per qualche strana ragione, solo la vista di edifici in stile giapponese mi emoziona nel profondo. Ho riscoperto un Giappone che pullula di costruzioni meravigliose. E dal momento che l'architettura tradizionale giapponese presenta svariate soluzioni per la questione, oggi quanto mai controversa, del rapporto tra uomo e natura, in questi ultimi tempi ho deciso di riprendere a studiarla.

Sono riflessioni che mi colgono per la prima volta nel corso dei miei viaggi. Ritengo più importante acquisire la conoscenza con il corpo e con la mente che derivarla dai libri. Quando sono lontano, in un paese straniero, riesco a percepire meglio le congiunture e il contesto culturale nipponico in cui vivo, ma al tempo stesso mi espongo alla cultura del luogo in cui mi trovo. In realtà, recandomi all'estero, mi avvicino sia al Giappone sia alla nazione straniera, e le suggestioni che già erano in me si fondono con quelle che mi pervengono dall'esterno, per poi stimolarsi reciprocamente.

Il mio atteggiamento, sin dalla prima gioventù, è consistito nel tentativo di comprendere le cose con il corpo e con lo spirito, facendo di questa comprensione il mio punto di partenza. Desidero creare edifici che io stesso trovo interessanti da esperire. Per edificio "interessante" intendo un'opera stimolante, che in qualche modo contraddica — cioè tradisca — le nostre aspettative.

Ho cercato di creare opere che tradiscano le aspettative di quanti esperiscono i miei spazi. Ad esempio, un edificio che si mostra simbolico o simmetrico nel prospetto esterno, sarà all'interno asimmetrico, e ciò che appare semplice rivelerà una complessa suddivisione degli spazi. Quanto più complessa è la suddivisione di uno spazio apparentemente semplice, tanto più questo diverrà incisivo e interessante. Quanto più grande il divario tra lo spazio così come viene esperito e una rigorosa geometria dell'architettura, tanti più stimoli esso procurerà ai suoi fruitori. Desidero creare, attraverso il dramma del tradimento, un vissuto indimenticabile dello spazio, che incida profondamente nell'animo umano.

Per me, l'architettura fluttua perennemente tra due estremi e assume una forma definita solo quando sono io a stabilirlo. Oscilla tra interno e esterno, Occidente e Oriente, astrazione e rappresentazione, tra la parte e il tutto, tra storia e presente, passato e futuro, fra semplicità e complessità. Non assume mai una posizione definita. Forse ciò è dovuto al mio timore di sigillare in una singola entità la completezza del tutto, ma è una paura che si ripresenta anche quando devo progettare edifici isolati. Persino quando sono fermamente convinto di una decisione presa, i ripensamenti mi attanagliano, lasciandomi preda di uno stato d'ansia in cui si combinano in me stesso fiducia e insicurezza. Quando progetto lavori di architettura oscillo perennemente tra questi estremi: e quanto maggiore è l'ampiezza delle oscillazioni, tanto più dinamico risulterà il prodotto finale.

Oggigiorno i presupposti culturali sono, in un certo senso, limitati. In architettura, in particolare, si sono rese astratte le espressioni della cultura regionale e storica, sostituite da tratti basati sul razionalismo economico: semplicità e mediocrità sono ormai divenute predominanti. Funzionalità e razionalità sono alla base di tutto ciò che si costruisce, sicché ovunque prevalgono spazi omogenei privi di personalità. Gli spazi omogenei dell'era moderna sono l'effetto di una logica che si prefigge come unico obiettivo il funzionalismo.

Si espande lo spazio in modo indefinito, si attira la gente in strutture enormi, si cancellano i tratti distintivi dello spazio. Si stanno creando luoghi caratterizzati dall'astrazione e dall'estensione. Li si sta privando dell'umanità e ciò che ne risulta è quella condizione definita come "perdita del centro". L'architettura si sta trasformando in un prodotto. D'altro canto, un'economia forte consente a molti architetti di realizzare progetti perseguiti con determinazione, soprattutto nel mio paese. Quando, tuttavia, gli architetti non tollerano alcuna restrizione alla libera espressione della propria individualità, il contesto umano e urbano viene dimenticato e l'architettura finisce per configurarsi come un mero indulgere al proprio sentire. Presupposto della mia architettura è che si debba trovare il modo di sfuggire da questa condizione.

Con l'auspicio di rimanere sempre sensibile ai movimenti sociali e alle tendenze dell'architettura, non intendo con ciò lasciarmi sopraffare; cerco invece di trarre dalla enorme quantità di informazioni disponibili solo quanto può risultarmi utile.

Negli ultimi vent'anni, diversi movimenti architettonici sono nati e svaniti. Qual è la loro eredità? Post-Modernismo e Decostruzionismo criticavano il Modernismo per aver perseguito l'uniformità e l'omogeneità. Tuttavia il Post-Modernismo considerava un unico aspetto del Modernismo e, per reazione, recuperava gli stili del passato, limitandosi a un dibattito superficiale riguardo a quali forme fossero di maggior interesse. Dal canto suo, il Movimento decostruzionista, che si prefiggeva di demolire la cultura occidentale fondata sul linguaggio (come dimostra l'influenza che su di esso ha esercitato la critica filosofica elaborata da Jacques Derrida ), andrà discusso nel contesto della cultura occidentale; sarebbe quanto mai opportuno, inoltre, riprenderne la rilevanza per la cultura giapponese.

Negli ultimi vent'anni, mentre nascevano vari movimenti architettonici, ho continuato a chiedermi cosa desti profonde emozioni in alcune opere di architettura. Giungendo alla conclusione che, per tentare di aprire nuovi orizzonti architettonici, dovevo comprendere le problematiche dell'architettura non tramite l'astrazione, ma in una simultanea percezione corporea e spirituale.

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