Copertina
Autore Alessandro Esposito
Titolo Manuale del perfetto venditore di droga
Edizionezero91, Milano, 2010, , pag. 238, cop.fle., dim. 14x21x1,8 cm , Isbn 978-88-95381-22-0
LettoreGiovanna Bacci, 2010
Classe narrativa italiana , citta': Napoli
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Pagina 7

Io ho trentuno anni. Mia madre ne ha quarantasei.

Di lei scrivono: "Angelina si chiava mezzo rione".

E anche: "Angelina succhia alla grande".

"Andate al quarto piano che si scopa."

Al quarto piano abitiamo noi.

Mia mamma si chiama Angela, Angelina per noi tutti, per chi la scopa e per chi le scrive queste dediche sui muri dei palazzi.

A me, comunque, qui mi rispettano. Mi faccio volere bene, così di questo fatto non me ne parlano mai apertamente.

Ma io penso che sia vero: in fondo mia madre è una zoccola, né più né meno. Come tante di loro, qui sui ballatoi.

Ne ho la ragionevole certezza.

Di sicuro mia mamma si è portata a letto anche Frank o' Pacchero. Uno che comanda nel mio rione e che fa i soldi con la droga. Soprattutto con la droga.

Lo chiamano o' Pacchero perché mena bene le mani (il pacchero è lo schiaffo).

Io pure faccio qualche affare con lui.

Poi, sempre mammina, si è portata di sicuro a letto anche Luca Orzata e Giovanni o' Rosso che abita nel palazzo dirimpetto al nostro.

In verità si dice che, una volta, insieme a questo Rosso, ci stava anche un altro tipo a penetrarsi mia madre. Una cosa a tre, lei al centro.

Che poi io mica per queste cose me la prendo con lei. No, io me la prendo con quel cornuto di mio padre che è un bidello ed è una merda.

Chissà quanto poco cazzo le dà. Lei adesso lo va cercando negli androni dei palazzi e sui ballatoi.

Evidentemente vuole recuperare il cazzo perduto.

Io sono rimasto figlio unico. Perché quel cuore di coniglio di papà invece di riempirla di sperma diceva a mia madre che era meglio essere prudenti.

Meglio fare un solo figlio, che uno solo sicuramente sarebbero riusciti a mantenerlo, col suo stipendio da bidello.

Quando qui fanno otto figli a coppia e tutti mangiano strabene, cazzo!

Vorrei dirlo a quel bidello di mio padre: in otto mangiano meglio di noi tre messi insieme.

Si sa: ci si inventa qualcosa e si mangia.

In cinque, in sei, in otto, in dieci. Anche in venti.

Benvenuti a Scampia.

Qui funziona così: chi guadagna non lavora, chi lavora non guadagna.

Fanculo.

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Pagina 9

Sono le quattro di pomeriggio e io ho da fare.

Scendo in strada, senza preoccuparmi delle scritte su mia madre. Anche per altre donne del quartiere ci sono dediche spruzzate con lo spray.

Per una, Rosaria, avranno sprecato almeno tre bombolette: sono descritte le posizioni con tanto di bei disegnini, i fumetti di come urla, come vuole essere chiamata quando si mette a pecora e quanto è brava a bersi sempre tutto. Una cosa d'artista. In più, c'è anche un grafico supplementare che ritrae la sua vagina, con due nei evidenziati con una precisione che non lascia dubbi sulle conoscenze dell'autore in materia.

Mia mamma non è a casa, forse davvero se lo sta facendo battere nel culo da qualche ragazzo in qualche garage del quartiere.

Sicuramente non si sta facendo scopare da Frank o' Pacchero. Perché lui è davanti a me, ora. È con lui che devo faticare.

O' Pacchero e i suoi hanno trovato un buon business, un affare nuovo da affiancare a quelli di sempre.

Si tratta di limoncello. Sì, proprio limoncello. Produzione e immissione nel mercato di una bella bottiglia con tanto di etichetta con foto di costiera amalfitana. Tutto fatto da loro, ovviamente.

Hanno iniziato a venderlo a Napoli, su qualche bancarella e in spacci di terz'ordine. Adesso invece lo mandano pure al Nord. Un tipo di non so dove è riuscito a infilarlo nella grande distribuzione dei discount.

"Vero limoncello di Sorrento" c'è scritto sull'etichetta.

Ma niente è vero in questa bevanda gialla fosforescente.

È una merda e basta.

Di limoni di Sorrento, nemmeno l'ombra. Tutta frutta di battaglia.

Spesso — questo l'ho visto con i miei occhi — si tratta di agrumi andati a male.

Li tengono in buste marcite sotto il sole. Con un girotondo di moscerini e mosche a fargli la festa.

E anche lo zucchero, l'acqua, gli aromi: tutto è merda pura nel limoncello che produce o' Pacchero.

Tutto è falso, ovviamente anche la sigla della Comunità Europea e le altre certificazioni stampate sull'etichetta tanto per darsi un tono.

Qualcuno dice che Mennella, la vecchia che dirige le operaie che imbottigliano questa porcheria negli scantinati della sua vecchia casa, ci piscia anche dentro. Così, per dispetto.

Io non ci credo ma, per precauzione, non lo bevo mai.

Il mio compito è caricare duecento casse su un camion.

Io il muletto lo so usare — ho lavorato per quattro mesi in una fabbrichetta come addetto al magazzino — e quindi mi chiamano sempre per mettere la merce sui mezzi.

Sanno che sto zitto, non rompo le palle e faccio bene il lavoro.

O' Pacchero mi vuole bene. E in più, si scopa pure mia madre.

Insomma, ho la sua benedizione.

Inoltre se devo comprare droga per rivenderla, posso sempre prenderla da lui.

Ci troviamo tutti vicino alla casa di Mennella, mentre escono in fila — con gli occhi puntati ai piedi — le ragazze che, con l'imbuto, passano il limoncello dalle botti alle bottiglie. Hanno tutte sui sedici anni e sono alla fine del loro turno di lavoro.

Fanno tutto manualmente per venticinque euro al giorno.

Al Pacchero e i suoi le bottiglie costano novanta centesimi l'una e le rivendono ai grossisti a uno e cinquanta.

Nei negozi si trovano a due e ottanta. In Germania, perché arrivano anche lì, a quattro euro.

Viaggiano verso il mezzo milione di bottiglie già vendute.

Sono soldi, cazzo.

«Carica dai» mi dice un amico del Pacchero, dopo avermi offerto un caffè in un bicchierino di plastica.

Mi metto subito al lavoro. Di qua, di là, su, giù. Traack... traack...

Guido come il barone rosso dei muletti.

Avanti e indietro, come un pazzo, e dopo neanche tre ore è già tutto a posto.

Casse sul camion, bancali perfettamente incastrati.

«Ho finito.»

Loro annuiscono soddisfatti.

«Passa domani, che ti diamo anche il "vecchio".»

Il vecchio sono milleduecento euro che devo avere per alcuni lavori dei mesi precedenti. Li avanzo ancora.

Con i centocinquanta di quella giornata, sono milletrecentocinquanta.

Spero che magari mi allungheranno millecinque — cifra tonda.

Qualche volta lo fanno.

Torno a casa. Mia madre dorme, mio padre al suo fianco dorme e russa.

Russata tipica da bidello: insignificante e fastidiosa.

Vado diretto al frigo.

Ci sono prosciutto cotto e provolone.

Mangiati insieme sono ottimi, l'importante è dosarli bene (questione di equilibrio: il provolone non deve prendere il sopravvento sul prosciutto né tantomeno deve sostituire il pane, per questo deve essere tagliato a fette abbastanza sottili).

Poi c'è il vino di quel fallito di mio padre. Ne prendo un bicchiere.

Proprio come lui, il vino non sa di nulla.

Penso al da farsi, l'indomani dovrò prendere quei soldi. Mille e dispari. Più altri duemila che ho già, fanno tremila e più.

I duemila li ho guadagnati con Enzo Etiopia, un ladro che vive alla fine della mia strada.

Lo chiamiamo così perché è più magro di una penna Bic.

Gli ho fatto vendere a un mio conoscente un'intera refurtiva con una provvigione very good. Si trattava di oro, orologi di marca e gioielli per quasi ventimila euro.

A volte riusciamo a vendere anche gli stereo o altra merce varia.

Il mese prossimo dovrebbe arrivare un camion di jeans rubati in un magazzino del Nord.

Ma adesso mi basta pensare a breve termine. So già cosa fare: voglio comprare la polvere. Coca.

Con tremila euro posso comprare settanta grammi di roba buona.

E già ho a chi darli, stuort' o muort'.

Ho un buon aggancio con un tipo di giù Napoli. Uno di Posillipo, la via dei signori.

Sta sempre a cercare la bamba, lui e tutti i suoi amici, e io vado a vendergliela. Fanculo.

A novanta o cento euro al grammo, conto di farci sei o settemila euro.

Sono tutti figli di professionisti e di commercianti, gente con la grana che, durante la settimana, manco ti guarda negli occhi e che poi ti cerca il venerdì sera con le narici già larghe come le gambe di una troia in calore.

Tra noi di qua e loro in riva al mare ci divideranno sempre dieci chilometri, di strada e sessantacinque punti percentuali di disoccupazione.

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«...tredici, quattordici e quindici. Tieni.» Gli amici del Pacchero contano il money sotto i miei occhi e, come previsto, arrotondano a favore mio.

Siamo in un'autorimessa.

«Ci sta o' Pacchero?» chiedo a chi mi aveva appena dato i soldi.

«Sta dietro. Perché?»

«Volevo chiedergli una cosa.»

«Aspe'...»

Frank viene e mi saluta: «Ué, compa'... dimmi tutto...»

«Mi serve un po' di coca...»

Gli spiego cosa ho intenzione di fare. Gli parlo dei miei amici della Napoli bene. Ci metto poco a convincerlo, anche perché pago in contanti.

Trentotto ore dopo avrei avuto, diviso in due buste, sessantotto grammi di coca, di quella ottima.

Ne capisco di polvere magica e la controllo per bene.

L'ho anche fumata: bomba.

Come da copione, quei cannibali dei tipi di Posillipo – senza che io mi debba sforzare per venderla – comprano tutta la mia coca in due sole serate.

Io staziono con la roba nascosta nella macchina di mio padre che parcheggio in un vicolo distante.

Quando qualcuno vuole acquistare, gli dico di aspettare cinque minuti, vado in auto a prenderla e faccio la mia consegna.

Semplice e abbastanza sicuro. Lo faccio già da diversi week end. A Posillipo così ho fatto conoscenza con i drink altolocati, il mojito soprattutto.

Prima avevo bevuto solo birra, dividendomi equamente tra Peroni e — per le occasioni migliori — Ceres.

Insieme ai cocktail, a Posillipo ho conosciuto anche Sabrina, Olga, Francesca, Marilena.

Le amiche degli amici.

Alcune di loro sono più cocainomani dei maschi. Vere idrovore che tengono sempre il portafoglio gonfio e le labbra umide.

Si dice che per sniffare gratis qualcuna apre le gambe e se la fa leccare o sfondare. A me ancora non è mai capitato ma il business a Posillipo è buono e mi va bene così.

Inizio a passare i giorni della settimana nel mio quartiere e il week end tra la Napoli bene per vendere.

Intanto è apparsa una nuova scritta su mia madre: "Angelina mette le corna al marito con Pauluccio".

Pauluccio è il salumiere che tiene bottega sotto casa nostra. In effetti, è da un po' di tempo che vedo lì mia madre e non sempre torna a casa con la busta della spesa.

Chissà cosa pensa mio padre. So per certo che entra nell'androne con lo sguardo abbassato. Forse spera di essere invisibile.

Ma mica lo è: giorni fa i bambini gli hanno urlafo «cornutone» nella tromba delle scale e lui, come al solito, ha fatto finta di non sentire. Prova a convincersi che non ce l'hanno con lui, anche se intorno non c'è nessun altro. E poi mio padre non ha mica tempo per queste cose: la mattina deve alzarsi presto e andare a spazzare la scuola.

Altro che pensare alle corna.

Sto mangiando. Buono il provolone. Il cotto, invece, è così così.

Mi rimetto in movimento. Faccio il gioco della coca a Posillipo e piazza San Pasquale — altro ricettacolo di drink e soldi di papà — per alcune settimane di seguito.

Cazzo se va bene!

Anche altri spacciano lì, non sono tutti del mio quartiere ma tra noi c'è tolleranza.

Quegli avidi in griffe zucano la coca come animali.

Guadagnamo bene e ce n'è per tutti.

Intanto, a Scampia inizia ad arrivare quel caldo asfissiante che non lo trovi uguale da nessuna parte.

Alle undici di sera non c'è un cazzo da fare. Il dilemma è se scendere giù per incontrare qualcuno o rimanere a letto a tentare di fottere queste zanzare di merda.

Mio padre mi ha salutato da mezz'ora, già dorme.

Angelina vede una specie di fiction alla tivù.

Dalle mura in cartongesso, sottili sottili, sento le urla dei vicini e le voci che arrivano dalla strada. Riconosco anche quella di Gaetano Mezzanotte.

Lo chiamano così perché a mezzanotte, ora che corrisponde alla fine del suo turno di spaccio, si fa la sua tirata di coca.

L'unica della giornata.

Sono anni che fa così.

Sempre alla stessa ora, sniffa il suo mezzo grammo, poi resta ancora un poco nella piazza e si ritira a casa. Saluta i figli, si scopa la moglie e poi si cocca, va a dormire.

Decido di scendere: infilo Nike e calzoncini e salto come una lepre tutte le rampe di scale che mi separano dalla strada.

Mezzanotte è lì. Ha già tirato, si vede.

Ha lo sguardo appizzato e le mani che si muovono a mille all'ora mentre puliscono il naso che cola o mentre toccano il cazzo.

«Ué compa' !» gli dico.

«Ué...» la voce è strozzata dalla coca. Di sicuro ha appena tirato.

Si sforza comunque di parlarmi. Sa che io compro la roba dal Pacchero e la rivendo a Napoli. Mi fa i complimenti per questa bella attività.

Solo quello che non si fa non si sa, penso.

Soprattutto qui.

Ma pure lui è un dipendente di o' Pacchero, che a sua volta è in società con i padroni della piazza di spaccio ai piedi del mio palazzo.

Anche se Mezzanotte tira una pista di coca ogni sera, per lavoro lui vende solo eroina.

Nello scacchiere di quell'organizzazione, a lui sono capitati i tossici come clienti.

Dal fondo della strada si avvicina una macchina, una vecchia Ritmo rossa. Roba da museo.

Accosta vicino a Gaetano.

È Manuela, o' femminiello.

Un trans mezzo napoletano e mezzo brasiliano, o viceversa.

Chissà.

Faccia da troia su due spalle da nuotatore. Occhi da cerbiatta e un filo di barba tenuto a freno a botta di ormoni.

«Sto male! Sto male!» gli dice. È agitata. Sta come una pezza e non ha nessuna voglia di nasconderlo. La sua voce roca sembra arrivare da un sarcofago.

«Che c'è?» chiede Mezzanotte. Anche se lo sa già cosa c'è.

«Ho tirato troppa coca, Gaeta'. Ho bisogno di un po' di roba, devo calmarmi. Lo sai...»

«Hai soldi?»

«Sì, ce li ho.»

«O mi vuoi fare il servizio?»

«Va bene.»

Gaetano mi sorride malizioso. «Vieni anche tu» mi dice «basta che non lo dici a nessuno...»

Vado anche io. Non lo dirò a nessuno.

Scendiamo in un vano caldaia. Gaetano ha le chiavi, quel posto all'occasione serve per nascondere droga e soldi o per barricarsi dentro quando è il momento di scappare dagli sbirri. Manuela ha lo sguardo avido di eroina. Gli occhi sputano lance di adrenalina, senza un calmante magari schizzerebbero via dalla faccia.

Si spoglia subito. Ha il seno.

Gaetano, come una sporca zoccola thailandese che si sente una raffinata geisha, si sporge sinuoso in avanti.

Poggia le mani sulle condutture umide e calde e si mette a pecora per offrirsi a Manuela.

Lei caccia un arnese degno di due uomini.

Non è solo grosso e diritto, ma durissimo e venoso.

Gaetano si gira per vederlo, ma ha giusto il tempo di annuire. Manuela lo penetra così a fondo che sembra che gli abbia infilato il suo uccello nelle viscere.

Ci da sotto il trans. Questa zoccola con il membro di marmo pompa come una dannata.

Forse vuole scaricare in quella scopata e nel culo di Gaetano tutta la furia della droga e tutta l'ansia dell'astinenza.

Di certo vuole sborrare e poi farsi una pera.

Lui si trattiene per non urlare, però ansima forte.

«Arrivo!» urla lei.

Lui aumenta il ritmo muovendo il culo a favore di cazzo.

Sono incastrati l'uno all'altro come due pezzi dello stesso giocattolo.

«Aahhhh...» Manuela inonda quelle natiche avide con il suo sperma bollente.

Gaetano non parla, ora è rosso in volto. Solo il suo corpo ha dei leggeri sussulti.

Si riveste in un baleno e si gira verso Manuela. È incazzato.

«Vecchia troia! Quante volte ti ho detto che qua non devi venire?» Da cagna vogliosa si è trasformato in un leone furioso.

«Prenditi la tua roba e non farti più vedere.» Le getta addosso una busta e la mezza donna sparisce nella notte.

Ci guardiamo ma c'è poco da dire. «Buonanotte.»

«...'notte» risponde.

Torno a cercare il sonno. Però che peccato: a dir la verità, mi sarei fatto fare anche io un bel pompino da quella Manuela.

Forse glielo avrei anche picchiato nel culo. Forse sì.

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