Copertina
Autore Euripide
CoautoreChristoph Martin Wieland, Rainer Maria Rilke, Marguerite Yourcenar, Giovanni Raboni
Titolo Alcesti
SottotitoloVariazioni sul mito
EdizioneMarsilio, Venezia, 2006, Grandi clssici tascabili , pag. 288, cop.fle., dim. 125x190x20 mm , Isbn 978-88-317-8579-2
CuratoreMaria Pia Pattoni
TraduttoreMaria Grazia Ciani, Cesare Marelli, Luca Coppola, Giancarlo Prati
LettoreAngela Razzini, 2006
Classe classici greci
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Indice

  9 Introduzione
    di Maria Pia Pattoni

 49 Euripide
    ALCESTI

 95 Christoph Martin Wieland
    ALCESTI

145 Rainer Maria Rilke
    ALCESTI

151 Marguerite Yourcenar
    IL MISTERO DI ALCESTI

205 Giovanni Raboni
    ALCESTI O LA RECITA DELL'ESILIO


267 Gli autori e i testi

281 Bibliografia

 

 

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Pagina 9

INTRODUZIONE



La migliore delle donne: l'Alcesti di Euripide


Il mito di Alcesti, la donna che accetta di morire per amore del marito Admeto, re della tessala Fere, proviene da un antichissimo motivo folklorico, di cui si sono conservate tracce in un'area molto vasta: si spazia dalla fiaba nordica attestata con molte varianti in area germanica, nelle regioni baltiche e in Russia, alla leggenda bizantina di Digenis Akritas, al Mahabharata, nonché a un variegato complesso di narrazioni greche e slave. Si tratta del tema del sacrificio per amore, che si svolge secondo determinati moduli ricorrenti. In un giorno inaspettato, che in varie versioni (e forse nel nucleo originario) coincide con le nozze, arriva la morte a reclamare la vita della propria vittima, ma questa, con uno scarto nel meraviglioso che è tipico dell'elemento fiabesco, ottiene di continuare a vivere, a patto che qualcuno accetti di morire al posto suo. Non si trova però nessuno disposto al sacrificio, né tra gli amici né tra i familiari legati dai vincoli di sangue più forti, come gli stessi genitori: è soltanto l'amata ad offrire spontaneamente se stessa alla morte. In quasi tutte le versioni della fiaba, destinata all'esaltazione del legame matrimoniale, la vicenda ha tuttavia un lieto finale: la divinità come premio per la virtù rifiuta il sacrificio e consente alla donna di continuare a vivere a fianco dello sposo.

La prima versione letteraria a noi nota del mito di Alcesti è l'omonima pièce euripidea, in cui l'antica favola viene trasformata in versione teatrale e dialettizzata. Con la nascita del teatro tra il VI e il V secolo l'approccio alle storie tradizionali subisce un importante snodo: da una forma essenzialmente narrativa e rievocativa del mito, nella quale l'attenzione si concentra in prevalenza sui fatti e sulla fabula, si passa alla sua drammatizzazione, con implicazioni incalcolabili per quanto riguarda l'analisi delle motivazioni morali e psicologiche che muovono i personaggi della saga a compiere le loro azioni. Il materiale ideologico e concettuale tende ad organizzarsi per opposizioni, creando contrasti più o meno accentuati tra i personaggi che si fanno veicolo delle istanze contrapposte; e sono appunto questi contrasti che vanno a costruire la trama strutturale su cui si basa l'esperienza tragica del teatro occidentale.

Il caso di Alcesti è un paradigma di questo processo. Ciò che nella favola, in quanto narrazione fantastica, appariva del tutto normale – giustificato e anzi richiesto dalle convenzioni del genere – una volta drammatizzato e fatto argomento di sofistiche discussioni sulla scena finisce per rivelare tutte le sue contraddizioni e ambiguità. Innanzi tutto, a rendere maggiormente conflittuale la vicenda, la divinità che nelle versioni folkloriche è solitamente unica – dio della morte e della vita insieme – in Euripide si articola in tre distinti personaggi: Thanatos, il dio della morte; Apollo, il dio che ha ottenuto lo scambio a favore di Admeto, come contraccambio dell'ospitalità ricevuta; Eracle, il semidio che, in virtù della sua doppia natura mortale e divina, si trova nelle migliori condizioni per interagire fra i due mondi e farsi salvatore di Alcesti, ingaggiando una lotta con Thanatos. In Euripide, dunque, la divinità della morte non consente la salvezza spontaneamente, ma ne è costretta con la forza.

Un altro aspetto che contraddistingue la rielaborazione euripidea rispetto ai racconti popolari è l'enorme dilatazione temporale introdotta dal drammaturgo ateniese tra il momento della scelta del sacrificio, relegato tra gli antefatti, e il giorno della morte, che sopraggiunge parecchio dopo: Alcesti è vissuta molti anni accanto allo sposo, gli ha dato anche due figli, il maggiore dei quali è grande abbastanza da avvertire la sofferenza della separazione. Se nelle versioni folkloriche della leggenda la protagonista femminile offre se stessa in sacrificio e subito, con un eroico slancio che non lascia spazio ai ripensamenti, va incontro alla morte, l'Alcesti euripidea, convivendo a lungo con l'idea della morte, ha modo di apprezzare ancor più la vita, dopo aver rinunciato ad essa. Di qui derivano le due caratteristiche fondamentali e antitetiche nella strutturazione del personaggio di Alcesti in Euripide: la componente emotiva, in cui si esprime il dolore di abbandonare la vita unito al rimpianto per ciò che ella si lascia dietro, e il momento della progettazione lucida e razionale, proprio di chi da tempo ha già disposto e sistemato ogni cosa prima della dipartita, e che si esprime nel lucido discorso con cui ella chiede al marito di non risposarsi, per non dare una matrigna ai propri figli.

Nel drammatizzare questo intreccio fiabesco Euripide dà precoce ma già compiuta espressione alle tendenze alla contaminazione e al rovesciamento dei modelli, destinate a emergere ancor più distintamente nel suo teatro più tardo, che ingloba nella forma tragica tradizionale temi e situazioni apparentemente disomogenei.

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Pagina 49

Euripide
ALCESTI



(La scena è a Fere, in Tessaglia. Dal palazzo di Admeto, re di Tessaglia, esce il dio Apollo. Ha l'arco in mano)


APOLLO Casa di Admeto, io ti saluto. Addio. Me ne vado dal luogo dove ho diviso la mensa con i servi, dove io stesso sono stato un servo, io, che sono un dio. Ma è così che mio padre Zeus ha voluto punirmi. Lui uccise Asclepio, che era mio figlio, lo colpì in pieno petto con un fulmine ed io allora, travolto dall'ira, sterminai coloro che gli avevano fabbricato le folgori, i Ciclopi.

Sono stato costretto a servire per un anno un uomo mortale, Admeto, ho portato le sue greggi al pascolo, ho vegliato sulla sua dimora. E poiché il mio ospite è un uomo pio, ho voluto salvarlo dalla morte che lo minacciava. Ho ingannato le divinità del destino, le Moire, e loro mi hanno concesso di scambiare la sua vita con quella di un altro.

Ma con chi?

Admeto ha cercato fra tutte le persone care, gli amici, gli anziani genitori, ma nessuno voleva chiudere per sempre gli occhi alla luce e morire al posto suo. Solo la sua sposa, Alcesti, si è offerta: è lei che ora sta morendo, là, nel palazzo, è lei che oggi deve abbandonare la sua vita.

Ecco Thanatos, il dio della morte. Stava in agguato, spiando questo giorno, ed ora è qui, al momento giusto, per condurre la sposa di Admeto nelle dimore di Ade.

(Entra Thanatos)

THANATOS Che cosa stai facendo davanti a questa casa? Dove stai andando con quell'arco in mano? Il regno dei morti ha le sue leggi, vuoi calpestarle ancora una volta? Non ti basta di aver sottratto Admeto al suo destino, ingannando le Moire? Vuoi forse impedire che Alcesti, la figlia di Pelia, compia la sua promessa di morire al posto del suo sposo?

APOLLO Non temere. Le mie ragioni sono buone e giuste.

THANATOS E allora perché quell'arco in mano?

APOLLO Lo porto sempre con me, è un'abitudine.

THANATOS Anche favorire questa casa è un'abitudine, ma va contro la giustizia.

APOLLO Quell'uomo mi è caro, la sua disgrazia mi addolora.

THANATOS Per questo vorresti togliermi anche lei?

APOLLO Non ti ho tolto Admeto con la forza.

THANATOS E perché allora non sta sottoterra?

APOLLO Ha scambiato il suo destino con quello della sposa: è lei che ora tu vieni a prendere...

THANATOS ...e la porterò nel regno dei morti, giù nell'Ade.

APOLLO Prendila e vattene. Non credo di poterti convincere.

THANATOS A risparmiare chi deve morire? Non è questo il mio compito.

APOLLO Non mi concederai la grazia per Alcesti?

THANATOS No. I miei modi di agire, li conosci.

APOLLO Li conosco, e sono odiosi agli uomini e agli dei. Eppure dovrai cedere anche tu. Io ti dico che un uomo sta per giungere alla casa di Admeto: lo manda Euristeo a catturare le cavalle di Diomede nelle gelide lande della Tracia. Sarà ospite di Admeto e ti strapperà, con la forza, questa donna. Così sarai costretto a fare quello che non vuoi e io non ti dovrò nessuna riconoscenza e potrò continuare a odiarti come ti odio. (Esce)

THANATOS Parla quanto vuoi, non otterrai nulla. Quella donna scenderà nell'Ade. Ora vado da lei per reciderle un capello con la mia spada: è il rito che consacra i mortali alle divinità di sotterra. (Entra nel palazzo)

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Pagina 151

Marguerite Yourcenar
IL MISTERO DI ALCESTI



SCENA I


Apollo, poi la Morte


Apollo compare da sinistra, drappeggiato di porpora. Il lembo del mantello pende dal suo braccio alzato facendo da schermo tra noi e lui. Quando lo abbassa distinguiamo il suo volto.

APOLLO. Io sono Apollo, fuoco celeste, torcia inestinguibile. Le piante, gli animali, gli uomini mi riconoscono come benefattore, e non a caso scolorano quando mi allontano; tremano quando mi eclisso; i dormienti riposano tranquilli perché sanno di ritrovarmi ad ogni risveglio. Sono io che faccio mutare le messi; io faccio nascere gli alberi sotto i quali, a mezzogiorno, i pastori si proteggono da me. In mancanza di luce, regalo il mio calore ai ciechi. Da me gli astronomi imparano a misurare il passare del tempo e i bambini a giocare con la loro ombra; sono io che traccio sulla polvere un affresco in movimento, processione di spettri sotto i piedi dei vivi. Preso in trappola da uno specchio infocato, incendio la paglia dei roghi funebri, trasformo la putrefazione dei morti in un mucchio di ceneri imperiture. Nei bei pomeriggi assolati, i vegliardi seduti sulle soglie delle loro case, la testa rovesciata all'indietro, bevono attraverso tutti i pori il nettare della luce, e nei cortili delle fattorie i cani da guardia si spulciano tranquilli. Ma tutto il mio oro non basta a consolare la miseria umana. Questa casa, rosa da una segreta malattia, è la casa di Admeto, il mio unico amico. Solo Admeto mi venera, lui solo mi ama; si sazia dei miei raggi più puri di qualunque amore. Mi segue fin nei miei mutamenti più umili, nei miei travestimenti da lucciola e da candela da cucina; sa riconoscermi nei riverberi delle pozzanghere e nello sguardo degli scemi dei villaggi. A volte, quasi bestemmiando in un delirio d'estasi, si distoglie dalla mia presenza fiammeggiante per raggiungere, oltre la notte, il profondo, l'astratto, l'indissolubile sole... Ma ora i suoi tentativi, le sue preghiere sono sospesi; non vaga più con la sua panciuta lira tondeggiante, in cerca di accordi che mi avvicinino agli uomini... Alza le mani, geme; chiede anziché benedire, infatti Alcesti, la sua sposa adorata, è condannata a morte. Qui, in questa umana dimora soggetta alle complicate leggi della Sorte, una vecchia maledizione familiare esige che a ogni generazione l'amante muoia per l'amata, o la sposa per lo sposo. Per questo marito, a lei più caro di tutto, Alcesti si è votata in segreto alla morte. Il suo sacrificio dura da mesi, da anni; in principio passò inosservato, come l'insinuarsi di una malattia mortale. Poi le sue guance sono impallidite, gli occhi e i capelli le si sono spenti; colei che correva serena dalla fontana all'alveare, dalla casa al giardino, si è accasciata su un letto che non lascerà più. Ahimè, io ho un bel filtrare da ogni fessura, entrare a fiotti da ogni porta... Che cosa può il Sole contro la Morte?

La Morte scoppia a ridere.

APOLLO. Una nube passa sul mio volto. Ah! Questo riso, capace di agghiacciare perfino gli dei, lo riconosco.

La Morte strisciando esce dalla casa di Admeto. I suoi lunghi drappeggi neri le strascicano dietro come ali.

LA MORTE. Io sono la Morte, levatrice velata di nero. Nell'ora della siesta, mentre tutta la casa era immersa nel sonno, io, protetta dall'estate, ho potuto entrare di soppiatto nella camera regale per esaminare l'ammalata. E molto pallida, me ne rallegro. Alcesti mi appartiene: questa sera la sgraverò della sua anima e lei morirà uccisa da questo parto.

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Pagina 205

Giovanni Raboni
ALCESTI
O
LA RECITA DELL'ESILIO



I quattro personaggi entrano o sono appena entrati nel Teatro. Uno — il Custode — indossa una specie di uniforme; il modo in cui sono vestiti gli altri — una giovane donna, un uomo ancora giovane, un uomo molto più anziano — suggerisce la loro appartenenza a una borghesia colta e agiata. Sebbene nessuno dei tre chiami gli altri per nome, possiamo supporre che i loro nomi siano, rispettivamente, Sara, Stefano e Simone.


    CUSTODE
        Ecco, siete arrivati. Sistematevi
        come meglio potete. Io devo andare.
        Ma state tranquilli: con questa nebbia
        sarete più al sicuro che in un bunker.

    SIMONE
        Credo che abbia ragione:
        se avessimo avuto una guida
        meno esperta di lui
        ci saremmo certamente perduti
        e questo fa sperare
        che nessuno, almeno fino a domani,
        sia in grado di trovarci.

    STEFANO
        Eppure c'è qualcosa
        che mi tiene sul chi vive — qualcosa
        che ancora m'impedisce di capire
        se siamo in un rifugio o in una trappola.

    SARA
        Siamo in un teatro.


    STEFANO
        Questo lo so,
        grazie tante! Ma ospiti di chi,
        e a quali condizioni?

    SIMONE
        Ti dimentichi
        che tua moglie non ha i problemi
        di noi comuni mortali: un'attrice
        è sempre a casa sua
        in tutti i teatri, compresi quelli
        dove non è mai stata.

    SARA
        Che cosa? ma io qui
        ci sono stata, mi sembra incredibile
        che non vi ricordiate! O forse allora
        non ci conoscevamo, è stato prima
        di Venezia, prima di tutto,
        ero così giovane... Due battute,
        massimo tre, la parte di un'ancella
        — sì, ma in quale tragedia? Non importa,
        mi verrà in mente, basterà
        che mi guardi un po' in giro.

    CUSTODE
        Be', io vado. Non accendete luci
        oltre a quelle che trovate già accese.
        Tornerò fra non molto: la partenza
        se non ci sono intoppi
        è questione di ore — comunque
        prima che faccia giorno.
        Ma tu, ti prego, non dimenticare
        quello che ti ho detto venendo qui.

    STEFANO
        Certo. Se anche volessi,
        credo proprio che non ci riuscirei.


    (Esce il Custode)


    SARA
        Cos'è che non devi dimenticare?

    STEFANO
        Oh, niente di speciale:
        dettagli del viaggio — volevo dire
        del trasporto.

    SARA
        Trasporto?

    STEFANO
        Eh sì, mia cara,
        dobbiamo abituarci
        a non ragionare da passeggeri
        ma da colli...

    SARA
        Da colli? che significa?

    SIMONE
        È molto semplice, mia cara:
        per metonimia, collo è tutto ciò
        che si porta sul collo — un sacco,
        un involto, un fardello...

    SARA
        Anche la testa?

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