Autore Valerio Evangelisti
Titolo Gli anni del coltello
EdizioneMondadori, Milano, 2021, Omnibus , pag. 248, cop.rig.sov., dim. 14,5x22,5x2,2 cm , Isbn 978-88-04-73603-5
LettoreRiccardo Terzi, 2021
Classe narrativa italiana , storia contemporanea d'Italia , paesi: Italia: 1800












 

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Indice


        ALLO SBANDO

     9  Roma non domata
    15  Nessun compromesso
    21  Le Macchie
    27  Prima missione
    32  I cospiratori


        VERSO LA RIVOLTA

    41  In azione
    47  Un vecchio amico
    52  Toccata e fuga
    58  Nella pineta
    64  La capitale della sovversione


        INSURREZIONE OPERAIA

    71  Un possibile delatore
    77  L'organizzazione
    82  I commissari
    87  I duemila pugnali
    92  Pioggia di coltelli


        LE VIE DELLA RIVOLUZIONE

    99  L'ultima barricata
   104  Rifugi
   109  Fuga da Milano
   114  Ritorno a casa
   120  Il giustiziere


        ALTRI IDEALI

   127  Progetti di rivincita
   132  Farla pagare
   137  Amore e terrore
   142  Gli avvelenatori
   147  La scissione


        IN ESILIO

   155  Scappando ancora
   160  La Croce di Malta
   165  Breve quiete
   170  Pensare e agire
   175  Gli eretici di Genova


        TEORIA DELLA SOMMOSSA

   183  Un uomo serio
   188  Un uomo serissimo
   193  La Compagnia della Morte
   198  Dal coltello alla lima
   203  Regicidio


        ULTIME FUCILATE

   211  Parma nella paura
   216  Una lima per il giudice
   221  All'insurrezione
   226  La battaglia delle osterie
   231  Ripiegamento
   237  Conclusione. Una vita tranquilla


   241  Bibliografia


 

 

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1
Roma non domata



La tristezza non era un sentimento consueto in Giovanni Marioni da Forlì, detto Gabariol. Eppure uno stato d'animo molto simile lo invase il 2 luglio 1849, quando vide i suoi migliori amici lasciare la capitale, al seguito di Garibaldi. Erano un paio di migliaia e cercavano di mantenere ranghi ordinati. Cantavano, trainavano un cannoncino, rispondevano alla folla commossa venuta a salutarli. Ma non c'era allegria, né tra i militi né nel pubblico. Sapevano, gli uni e gli altri, che per la Repubblica romana quella defezione giustificata era la morte definitiva.

Gabariol non aveva voluto aggregarsi all'esercito in ritirata. Meditava vendetta, che solo nell'Urbe avrebbe potuto trovare. Ma ora che i più validi difensori erano partiti, dove andare? Si aggirò tra rovine ancora fumanti per i bombardamenti francesi, notò intere famiglie e frotte di bambini che rimuovevano i materassi, appoggiati alle facciate, con cui avevano tentato di riparare le loro abitazioni da diluvi di schegge.

Gabariol di amici veri non ne aveva, per la sua indole solitaria e ombrosa. L'unico che potesse considerare quasi tale, il fornaio ravennate Folco Verardi, si era incamminato verso la Romagna con la sua amante Adelaide. Difficile che raggiungessero la meta. Dovevano attraversare la zona settentrionale dello Stato pontificio occupata dagli austriaci, e questi fucilavano senza processo qualsiasi insorto caduto in mano loro. Uomini, donne e bambini.

Dovette scendere al Tevere, presso Ripetta, per imbattersi in un viso conosciuto. Era il muratore Gioacchino Cocchi, di circa vent'anni. Tarchiato, con una barbetta biondiccia e baffi appena accennati, aveva combattuto in Lombardia, quando sembrava che Pio IX auspicasse l'unità d'Italia. Là lui e Gabariol si erano conosciuti. In seguito, Cocchi era andato a Venezia a militare nel battaglione Hauch. La difesa di Roma lo aveva visto tra i più coraggiosi.

Cocchi batté sulla spalla di Gabariol, invece di dargli la mano. «Scommetto che non sai dove andare a dormire.» L'accento romanesco era spiccato, ma il parlare corretto.

«Esatto.»

«Vieni da me. Sto con mio fratello in Borgo Santo Spirito. Sarai al sicuro, per stanotte.»

«Vengo volentieri.»

Il cammino non fu breve. La via era prossima a Castel Sant'Angelo. Cocchi abitava al numero 67, al culmine di scale interminabili. Il fratello Filippo era sveglio e, alla luce di una lampada a olio, giocava un solitario con carte napoletane.

Salutò Gabariol con cordialità. «Non so chi sei, ma mi fido di Gioacchino. Abbiamo dei maccheroni, te li riscaldo.»

«Non ho fame.»

«Ti conviene mangiare. Ci aspettano giorni faticosi.»

Filippo abbandonò il solitario e si diresse in cucina. L'appartamento era misero, poco ammobiliato. Gli unici ornamenti della stanza erano un ritratto di Giuseppe Mazzini e un gagliardetto rosso con la scritta RR, circondata da alloro. Gabariol si lasciò cadere su una seggiola.

«Oggi non abbiamo combattuto, ma mi sento esausto.»

Gioacchino annuì. «Ti capisco, anch'io sono abbacchiato. Qualche segnale di speranza però c'è.»

«Io non ne vedo. Tu sì?»

«II popolo è con noi più di prima. I francesi ritardano l'entrata in massa. Si scontrano ovunque con segnali di aperta ostilità. Scarse luci sono accese, scoppiano mortaretti che spaventano i loro cavalli. Le finestre sono serrate.»

Gabariol alzò le spalle. «Segnali da poco. Vedrai, domani, in quanti acclameranno i vincitori.»

«Francamente ne dubito. Conosco i romani. Si piegano ma non si arrendono. Flectar, non frangar.»

«È una dichiarazione di resa.»

«No, è l'opposto.»

Dopo una cena silenziosa, Gabariol dormì su un divano, senza togliersi altro che le calzature. Fu un sonno profondo e più sereno del prevedibile, che si protrasse a lungo. Quando si svegliò, si trovò solo. I fratelli Cocchi dovevano essere andati al lavoro fin dall'alba. Dalle finestre entrava il sole quieto del primo pomeriggio. Si sentì in forma e meno pessimista del giorno precedente. Faceva molto caldo.

Quando uscì in strada, vide le prime tracce dell'invasione e dell'embrionale resistenza. Frotte di bambini cenciosi gridavano: "Chicchirichì! Chicchirichì". Il saluto irrisorio era rivolto ai soldati "galli" in marcia che stavano seguendo, imitandone il passo marziale. Volavano sassi, lanciati da mocciosi che sparivano rapidi. A Trastevere, dove qualche casa fumava ancora e si camminava tra cumuli di mattoni, negozi e osterie erano chiusi, così come le imposte delle finestre, con rarissime eccezioni.

Gabariol incrociò un altro conoscente, Gioacchino Selvaggi. Era il giovane orologiaio che aveva tentato di prendere a cannonate il palazzo del papa, nel '48, e si era distinto nelle orge sacrileghe entro Santa Croce in Gerusalemme. Aveva combattuto da garibaldino. Nessuno dei due fu contento di imbattersi in una faccia nota. Qualche parola, tuttavia, andava scambiata.

«Hai notizie?» chiese Gabariol.

«Poche ore fa il parlamento ha promulgato ufficialmente la costituzione. Non servirà a molto, ma servirà.»

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2
Nessun compromesso



Gabariol finì con l'andare a stabilirsi a casa di Cesare Lucatelli, in via dell'Oca. L'appartamento era di proprietà di una certa Francesca, che Cesare diceva amica del padre. In realtà, Gabariol capì subito che lei era molto di più, benché avesse un'età maggiore del suo ospite di una ventina d'anni. Non erano comunque affari suoi, e non fece domande. La donna cucinava da cuoca provetta, era amichevole e persino affettuosa. Tanto bastava.

A lungo Gabariol evitò di uscire. Non c'erano molte probabilità che qualcuno, riconosciutolo, lo denunciasse, ma non si sapeva mai. La sera c'era poi il coprifuoco, decretato dal governatore provvisorio Rostalan. Le notizie le aveva a tarda notte, quando rientrava Cesare. Questi era garzone di osteria e serviva in varie bettole o caffè. Una passata condanna a qualche mese di prigione per avere oltraggiato Pio IX gli rendeva difficile, restaurato l'antico potere, trovare un lavoro fisso.

«È in atto una specie di guerra dei sigari» spiegò Lucatelli a Gabariol, durante una delle loro cene tardive. «Se un francese chiede da accendere a un romano che sta fumando, quello lo accontenta. Dopodiché si guarda dal rimettere il proprio sigaro in bocca. Lo getta via, come se fosse contaminato.»

«Roba da poco» commentò Gabariol.

«Qualcosa di simile accade nei caffè. Ai francesi che ordinano una bevanda si dice che è finita. Invece, ai tavoli intorno, tutti stanno sorbendo la stessa bibita.»

«Robetta, ripeto.»

«Aspetta. Ieri, al Teatro Angelina, la cantante Rebussini ha rifiutato di raccogliere un mazzetto di fiori che le aveva lanciato un ufficiale di Oudinot. Il pubblico l'ha acclamata. Alla Minerva, quando un'orchestra ha eseguito l'inno a Pio IX, gli spettatori si sono allontanati. I musicisti hanno volutamente storpiato la melodia, con effetti comici. Solo dopo che gli orchestrali hanno cambiato repertorio, e suonato come si deve, gli ascoltatori sono tornati.»

«Bazzecole.»

Lucatelli spinse avanti le mani. «Non trascurarle! È tutto quello che i romani possono fare, dopo la sconfitta. Non si tirano indietro. A volte la reazione è violenta. Guai se un francese infastidisce una donna, anche di malaffare. Lo aspetta un buco nella pancia. E quelle poche signore che fraternizzano con i galli, quasi sempre aristocratiche, ricevono biglietti con minacce di morte.»

Gabariol non era del tutto persuaso. Lo convinse un pochino di più il sapere che la casa dei seguaci di Loyola di piazza del Gesù era andata a fuoco per la quarta volta in due mesi. Lui, comunque, ne aveva abbastanza di stare al riparo, mentre fuori si agiva. Pensava che fosse venuto il momento di tornare nella sua Romagna, terra di gente che repubblicana lo era nell'anima, ribelle ai compromessi, pronta di mano. Ma come fare per attraversare incolume l'Italia centrale, invasa dagli austriaci sguinzagliati sulle tracce impalpabili e volutamente confuse di Garibaldi?

L'occasione gli si presentò quando, in agosto, giunse a casa Lucatelli un ospite frettoloso. Si chiamava Augusto Bertoni, faentino. Nel povero appartamento sembrava fuori luogo. Aveva un aspetto distinto, occhi saggi dietro grosse lenti, parlava posato. Sedette su un divanetto scolorito, dietro al tavolo della cucina, e spiegò a Cesare il motivo della sua venuta.

«Sto visitando i fratelli patrioti che hanno appartenuto alla Falange sacra.» Era quello uno dei nomi che aveva assunto, in epoca repubblicana, la Giovane Italia, conosciuta anche come Alleanza popolare. «Il maestro Mazzini, che è in salvo, avvisa di tenersi pronti a una ristrutturazione organizzativa. Si continua la lotta nella clandestinità. Arriveranno direttive dall'estero. Non le porterò io, che sto per tornare a Faenza. Ci saranno messi, embrione di una nuova gerarchia. Si cerca di ricostituire il tessuto dei rivoluzionari.»

«In vista di cosa?» chiese Lucatelli.

«Di un colpo di mano o di una guerriglia prolungata. Si vedrà.»

Gabariol non aveva capito certe parole difficili, come "ristrutturazione". Quanto al "tessuto", gli ricordava una sartoria. Ma il senso lo aveva colto. Il suo interesse era al momento un altro, e lo espose.

«Anch'io sono romagnolo e vorrei tornare dalle mie parti. Mi dicono che è impossibile, che gli austriaci sono ovunque.»

Bertoni puntò su di lui gli occhi miopi. «Non ci conosciamo personalmente, però ti ho visto combattere a Villa Pamphili. È vero, Romagna, Umbria e Marche pullulano di croati.» Con quel termine erano popolarmente definiti i soldati austriaci, in senso dispregiativo. «Questo non ha impedito a Garibaldi di portare in salvo i suoi, fino a San Marino.»

Gabariol e Lucatelli spalancarono gli occhi per lo stupore. «Garibaldi ce l'ha fatta?»

«Sì, con miracoli di astuzia. Intende imbarcarsi per Venezia, se non l'ha già fatto. Quell'uomo è un dio della guerra.»

Gabariol abbassò lo sguardo. «Io non sono come lui.»

[...]


Sostarono a notte fonda a Foligno, nella locanda del Topino che ospitava la stazione di posta. La cucina era chiusa, e si accontentarono di pane con olio, formaggio e salumi. Sul caminetto spento troneggiava un grande ritratto di Pio IX, con l'espressione benevola che lo aveva caratterizzato agli inizi del pontificato. C'erano crocifissi su tutti i muri, e immagini sacre troppo vecchie e impolverate per capire cosa rappresentassero.

L'oste, un omone rubizzo e ciarliero, disse, mentre posava sul tavolo una caraffa di vino rosso: «Di solito, a quest'ora ci sono molti clienti, in viaggio per la Romagna. Stasera, invece, ci siete solo voi».

«C'è un motivo?» chiese Bertoni.

«I briganti. Si ha paura di Garibaldi e del suo esercito di sbandati. Sequestrano ogni animale, rapinano i municipi in cui mettono piede. Inoltre, a nord, imperversa la banda di Stefano Pelloni, detto il Passatore. La più crudele e audace mai vista. Fermano le carrozze, derubano i passeggeri, torturano e uccidono come se niente fosse. Un altro dei regali che ci ha fatto questo schifo di repubblica.»

«Il Passatore è repubblicano?» domandò Gabariol. Aveva letto di quel bandito, dal viso deturpato da antiche ustioni, temuto per la sua spaventosa ferocia.

«No, per niente. Approfitta dell'anarchia che è seguita alla fuga del santo padre per rubare e arricchirsi. Per fortuna ci sono gli austriaci, e prima o poi gli faranno la festa. Resti fra noi, ma hanno appena messo le mani su Ciceruacchio, e fucilato lui con molti dei suoi.»

Bertoni sussultò. «Ciceruacchio? Il capopopolo romano?»

«Esattamente. Stava con Garibaldi, ma ha voluto separarsene. Mal gliene incolse. I croati lo hanno messo al muro assieme al figlio tredicenne. Così si fa con le male piante, vecchie o giovani che siano.»

Gabariol avvertì uno stato d'animo sperimentato di frequente. Lo sguardo gli si intorbidò, una rabbia incontenibile lo invase. Mentre le tempie gli pulsavano all'impazzata, afferrò il coltello per tagliare i salumi e fissò la schiena dell'oste che si allontanava. Fece per alzarsi. Bertoni gli afferrò il polso, lo costrinse a ricadere sulla panca.

«Gabariol, non adesso» sussurrò. «Non è il momento.»

«Hai sentito cos'ha detto quel vigliacco?»

«È un nemico piccolo. Infame ma piccolo. Ce ne aspettano di più grossi.»

Gabariol sentì attenuarsi la collera. «Sono stanco di compromessi.»

«Nessun compromesso» gli assicurò Bertoni. «Prima dobbiamo colpire i grandi. Dopo passeremo agli omiciattoli.»

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I cospiratori



[...]


Aprì la riunione Augusto Bertoni. «Fratelli di Romagna, infuria la reazione. Le nostre terre sono invase dall'esercito austriaco, Roma è ancora in mano francese, il Lazio meridionale sotto il dominio napoletano. Il papa traditore, Pio IX, ha accettato di cedere allo straniero la sovranità effettiva, pur di restaurare la concezione che ha del potere. Persino peggiore di quella che vigeva prima della rivoluzione del 1848 e della gloriosa Repubblica romana.»

Bertoni portò qualche esempio dei passi indietro, attuati in pochi mesi, dal governo papalino, per quanto i presenti li conoscessero bene. Restituzione al clero delle terre e delle proprietà, sequestrate dalla repubblica a vantaggio dei contadini; ripristino delle tasse più odiose, a partire da quelle sul macinato e sul sale; privatizzazione clericale della scuola d'ogni ordine, università compresa, e licenziamento degli insegnanti sospetti di laicità; ripristino del Santo Uffizio e della discriminazione degli ebrei; istituzione di una pluralità di tribunali senza facoltà di difesa per il processato; e così via.

Tutto ciò era noto ai congressisti e, malgrado questo, suscitò qualche commento. Per cancellare i benefici del governo repubblicano erano bastati mesi. Ne sarebbe rimasta memoria? I fanghi di una palude in espansione non erano facili da arginare.

Bertoni continuò: «Inoltre, nelle province controllate dagli austriaci, cioè i due terzi delle legazioni, si è ripristinata la tortura, si fucila e si impicca senz'ombra di giudizio, si incarcera in prigioni malsane, invase dall'acqua sporca e dai topi, per non dire degli insetti. Con il ritorno al potere di Pio IX, e soprattutto della sua anima nera, il cardinale Antonelli, siamo stati rigettati nel Medioevo. Sono tornati gli scarafaggi, i gesuiti, i sanfedisti. Torna l'era dei gregoriani e dei centurioni».

I presenti annuirono. Il quadro descritto, terrificante, era persino meno fosco del reale. «Cosa fare, dunque?» chiese Ercole Conti, un medico attivo nel movimento fin da quando era studente.

«Sono stato a Bologna, ho parlato con Giuseppe Petroni, il Canonico» rispose Bertoni. Alludeva a un rivoluzionario repubblicano ormai quasi leggendario, portavoce accreditato di Mazzini e Saffi, presente da oltre un decennio su ogni barricata. «Comincia la vendita dei titoli di un prestito straordinario, destinato a finanziare il nostro partito. Chi sottoscrive ora sarà ripagato un domani, dopo la vittoria, dal governo dell'Italia unita, con ricchi interessi.»

«Bene, ma poi?» insistette Conti.

«Dovremo creare un Comitato centrale delle Romagne. Avrà sede in Faenza, la città più "calda". Non a Ravenna, dove parecchi fratelli sembrano contare più sulla monarchia piemontese che sull'insurrezione dal basso. Si illudono di una nuova guerra del regno sardo contro l'Austria. Non ci sarà mai, e comunque non avrebbe la repubblica per scopo. Si passi alla distribuzione delle cartelle di prestito stampate finora. Altre seguiranno.»

Gabariol, che fino a quel momento aveva ascoltato diligente e composto, sentì qualcosa rivoltarglisi dentro. Una sensazione più viscerale che cardiaca. «Augusto, ci parli di una dittatura terribile e poi concludi con una semplice vendita di buoni fasulli, quasi fossero cartelle di una lotteria. Nulla di meglio?»

Il conte Cattoli protestò. «Quello è uno della Squadrazza di Imola e della Macchia grande. Un tagliagole. Non so chi l'abbia invitato a casa mia.»

Bertoni lo mise a tacere con un gesto. «Sono stato io, anche gli esagerati hanno diritto di parola.» E, rivolto a Gabariol, chiese: «Hai qualcosa di migliore da proporre?».

«Sì. Tutti abbiamo un coltello, e ogni brigante ha una gola. I briganti, per essere tenuti a bada, devono sperimentare di persona questa verità. Quando meno se lo aspettano. È questo il dovere di ogni vero patriota. Bisogna che abbiano paura, che non osino mettere il naso fuori casa. Si tengano il giorno, la notte ci appartiene.»

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18
Fuga da Milano



[...]


Gabariol, quel giorno, prese visione della scena e tornò dalle Vandoni. Arrivò poco prima dell'ora di cena, e un odore di cipolla pervadeva ogni stanza. Emilia e Carolina erano in cucina. Brizi, in salotto, stava discutendo con uno sconosciuto, di aspetto elegante e di portamento autorevole. Gergics stava in un angolo, appollaiato su un alto sgabello.

«Non siamo affatto sconfitti» stava dicendo Brizi, accalorato. «Abbiamo perso una battaglia, ma la guerra prosegue. Ci sono stati scontri ai confini con la Svizzera e il Piemonte. Bologna è pronta a insorgere, Ancona pure. Soprattutto, la gente è con noi.» Elencò una serie di episodi che, il 6 febbraio, si erano svolti a Milano in alcuni quartieri di periferia. Fatti talora davvero eroici, ma addirittura epici nel racconto.

L'interlocutore, con aria serissima, scosse la testa. «Stiamo parlando di un'insurrezione durata due ore appena. L'esito? Diciassette impiccati, per ora. Centinaia di arrestati. Bastonature, il coprifuoco. Bel risultato.» L'uomo si interruppe e indicò Gabariol. «Chi è costui?»

«Giovanni Marioni, un fratello forlivese.» Brizi si rivolse a Gabariol. «Questi è Carlo De Cristoforis, patriota e teorico del libero mercato. Fa parte del Comitato dell'Olona.»

«Facevo parte» corresse De Cristoforis. «Non sospettavo che diventasse una manica di irresponsabili, animatori di rivoluzioni fasulle, innamorati di un socialismo che esiste nel mondo dei sogni. Carta è stato un pessimo maestro, Mazzini un esegeta della violenza gratuita. Per lui tutto è mistica e poesia, incluso il delitto.»

Fu come se un cardinale avesse bestemmiato nel mezzo di una funzione solenne. Gabariol meditò se strangolare l'infame. Era in una casa ospitale, non poteva. Mormorò a mezza voce: «Il tizio qui presente doveva essere tra i vigliacchi rintanati nella sala da scherma, mentre il popolo si batteva sulle barricate».

«Quale popolo?» replicò De Cristoforis, aggressivo. «Nelle strade si è vista solo feccia, plebaglia. Neanche una faccia onesta. L'insurrezione degli operai, degli straccioni. Non si andrà lontano, con una base del genere. Mazzini non la vorrebbe, ma ogni volta se la trova fra i piedi. Gente destinata all'ospizio dei poveri, non a fondare l'Italia unita. Quanto agli ungheresi, non se ne è visto uno.»

«Io esserci!» obiettò Gergics. «Aspettati gli altri, ma non venuti.»

«Quale altra via avreste in mente?» domandò Brizi a De Cristoforis.

«C'è un nuovo re in Piemonte. Vittorio Emanuele II di Savoia. Non ha concluso la pace con gli austriaci, li odia. Solo con il potente esercito piemontese l'invasore può essere sconfitto.»

Gabariol era rimasto ammutolito per l'indignazione. Trovò voce per chiedere: «E la repubblica?».

«Illusione per gli sciocchi. È stata provata a Roma, e si è visto il disastro. Meglio un re costituzionale, democratico, italiano, che il trionfo dei facchini, dei cappellai e dei garzoni di bottega. La pensano come me in tanti anche a Bologna, a Genova, a Roma. Mazzini ha preteso da noi troppo sangue. Ora basta.»

Al culmine dello scandalo, Gabariol preferì lasciare la stanza. Sentiva montare in sé una ben nota furia che sovente, nella sua vita, era sfociata in omicidio. Incrociò Carolina Vandoni, che portava in tavola una teglia fumante di brasato.

«Sbattetela in faccia al traditore in marsina» le disse ad alta voce. «Siano maledetti i signori che fanno la rivoluzione, quando la fanno, per cambiare di re.»

«Ma il signor De Cristoforis è un patriota stimato!» protestò la ragazza. «Uno studioso timorato di Dio!»

«Il suo Dio non è il mio. È quello dei venduti.»

Gabariol trovò Marietta intenta a rassettare la camera che condividevano. Senza una parola la gettò sul letto, la spogliò, la strinse. Lei lo lasciò fare, piacevolmente sorpresa. Si amarono con furore, come assatanati. Non durò molto. Dopo Gabariol sedette contro il cuscino, esausto.

«Scusa la brutalità. Avevo bisogno di sfogare nella bellezza sentimenti che potevano volgere al peggio.»

«Nessuna brutalità, è stato sublime» rispose Marietta, anche lei ansimante. «Che cosa ti ha irritato?»

«Nulla che ti riguardi. È Milano che mi va stretta. Vi si fanno discorsi che in Romagna si pagherebbero con la vita. Devo raggiungere la mia gente. Domattina me ne andrò.»

«No!» esclamò lei. Gli occhi le si riempirono di dolore. «Gli austriaci giustiziano chiunque cerchi di scappare. Mezz'ora di processo e poi la forca.»

Gabariol arricciò i capelli della giovane con le dita. «Ho studiato un modo per evadere. Ci sono molte probabilità che riesca.»

Sulle guance di Marietta scesero due lacrime. «Portami con te.»

«Non posso farlo, è troppo rischioso. Te l'avevo già detto, ti chiamerò appena possibile.»

«Me lo, giuri?»

«Te lo giuro.»

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29
Pensare e agire



Gabariol prese a frequentare Carra, di tanto in tanto. L'artigiano era di poche parole, per non dire scostante. Questo piaceva al forlivese. Aveva inoltre lineamenti da persona franca e onesta, malgrado un pallore diffuso e capelli troppo lunghi, che gli davano un sembiante per qualche verso sinistro. Si incontravano non nella botteguccia da tappezziere e sellaio, bensì, la sera, alla Croce di Malta, nella stanza 14 rigurgitante di patrioti chiassosi. Trascorrevano interi quarti d'ora senza dire una parola. Tuttavia, quando conversavano, erano discorsi seri.

Quindici giorni dopo la loro conoscenza, Gabariol tornò su un tema che lo aveva colpito fin dall'incontro nell'Oltretorrente.

«Mi hai parlato di una Repubblica federale, diversa da quella che intende Mazzini. Come ti è venuta questa idea?»

«Non è un'idea mia» rispose Carra. Si tolse di bocca la pipetta di gesso tipica dei plebei parmigiani. «L'ha messa per iscritto un importante filosofo francese, che si chiama Piergiuseppe Pruzòn.»

«Hai letto dei libri suoi?»

«Scherzi? Quello scrive in francese. Io riesco a leggere a malapena frasi semplici in italiano, e ci metto del tempo.»

«Cosa direbbe questo filosofo?»

«Che come la schiavitù è assassinio, la proprietà privata è un furto. Mica quella mia o dei piccoli artigiani padroni di un bugigattolo, oberati dalle tasse e dagli affitti. Pruzòn parla dei padroni degli stabilimenti più grandi, con molti operai, dei proprietari terrieri, dei banchieri, dei locatori di case, di chi vive di rendita. In una vera repubblica, chi campa sul lavoro altrui dovrebbe essere espropriato e costretto a guadagnare solo col proprio sudore.»

Ogni tanto, ormai da anni, Gabariol si imbatteva in discorsi del genere. Una minoranza dei mazziniani li coltivava, per quanto Mazzini li aborrisse. Secondo l'Apostolo, erano stati socialisti e "comunisti" a guastare la rivoluzione repubblicana del 1848 in Francia e a spianare la strada verso l'impero a Napoleone III.

Senza nascondere il proprio scetticismo, né un'intenzione sottilmente provocatoria, domandò a Carra: «Se non puoi leggere Pruzòn, da dove ti vengono queste idee strambe?».

Il sellaio agitò la pipa, come se indicasse terre lontane con le volute di fumo.

«A Genova ho conosciuto un grande patriota, Carlo Pisacane. Un espatriato. Ho tappezzato la casetta in cui abita, in collina.»

Gabariol emise un'esclamazione. «Credo di averlo incrociato. Non era uno dei capi militari della Repubblica romana?»

«Esatto! È un pozzo di scienza, che legge un libro dietro l'altro. Conosce a menadito Pruzòn e una quantità di pensatori. Li sa spiegare come un maestro in cattedra.»

«Eppure segue Mazzini, che odia i socialisti almeno quanto il papa e i gesuiti.»

«Siamo tutti allievi di Mazzini, l'unico che da trent'anni incita alla liberazione dell'Italia dallo straniero. Ci ha insegnato a pensare e agire. Cosa farne dopo la vittoria, dipende dall'indole e dalle conoscenze di ciascuno.» Carra rimise la pipetta in bocca e ne morse forte la canna. «Adesso lasciami fumare. Non sono abituato a parlare così a lungo. Mi stanca la lingua.»

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30
Gli eretici di Genova



[...]


Gabariol si tolse dal percorso del cameriere ed entrò nel locale. Era spazioso, bene arredato e profumato di fritture varie. Vagò da una sala all'altra, finché una inserviente non lo pregò di sedersi.

Il forlivese obbedì e le sussurrò: «Leone di Castiglia».

La donna scosse il capo. «Controllo, ma non credo che lo abbiamo, oggi. Vi consiglierei, in alternativa, le alici fritte, come apertura. Il caffè si è fatto un nome con questa specialità. Cosa le servo da bere, mentre decide?»

Un uomo aveva colto brani della conversazione. Si avvicinò e allontanò l'inserviente. «Dopo, dopo.» Rimirò Gabariol. «Che deve fare il Leone di Castiglia?»

«Ridestarsi.»

Il viso barbuto dello sconosciuto fu attraversato da un sorriso smagliante. Porse la mano a Gabariol. «Tu devi essere Goffredo Zambelli, l'uomo che aspettavamo. Permetti che mi sieda?»

«Prego» rispose il forlivese, con un gesto di invito.

«Mi chiamo Mauro Macchi, esiliato a Genova dopo essere stato espulso dalla Svizzera. Può esserti capitato tra le mani il mio primo giornale, "Il Proletario", che ebbe buona diffusione in vari Stati italiani, incluso il Lombardo-Veneto schiavizzato dagli austriaci.»

«Mai visto né sentito.»

Gabariol osservava quell'uomo con diffidenza. Senza traccia di lusso, appariva ben vestito, in ordine. Abiti immacolati, di buona stoffa, che nessun popolano avrebbe potuto comperare nemmeno dopo sei mesi di risparmio. Guance paffute, sotto la barba, a riprova di una corretta alimentazione. Ricordava al forlivese certi faentini, patrioti delle classi alte. Gente da cui era meglio tenersi alla larga.

Macchi dovette cogliere la circospezione dell'interlocutore. Ordinò cibo e vino, e gli disse: «So di avere l'aspetto di un intellettuale, e in effetti lo sono. Campo dei miei libri, e dei giornali che dirigo, finché la censura non me li chiude. Malgrado ciò non sono affatto un fusionista. Il mio maestro è stato Carlo Cattaneo, aspiro a una Repubblica italiana federale. Detesto i Savoia. Non mi basta la democrazia formale, voglio il socialismo, purché rispetti la proprietà privata e la piena libertà individuale. Vanno smembrati i latifondi e sorretti gli artigiani».

«Sono le idee di un tizio francese, Pruzòn.»

« Proudhon » corresse Macchi. «Autore di pagine geniali, salvo un punto su cui discordo. L'insurrezione.»

Gabariol provò stupore. «In che senso, non approvi il filosofo? Il modo di insorgere? Il concetto stesso di rivolta armata?»

«La seconda cosa. Ogni ribellione in armi sfocia nel sangue e nella tragedia. Non è neanche detto che conduca a una società migliore. Guarda l'esperienza della Francia. Enormi speranze nel 1789, bagni di sangue nel 1793. E alla fine del percorso Napoleone I, un dittatore, a ristabilire l'ordine borghese, in chiave autoritaria.»

A Gabariol, scandalizzato, quasi andò di traverso il boccone. «E ti dici mazziniano? Sono in molti, qui, a pensarla come te?»

«In verità ci sono solo io. Finito di mangiare, posso presentarti dei fusionisti, che stanno nella saletta accanto.»

«No, grazie.»

«Oppure accompagnarti a visitare il mio amico Carlo Pisacane, che sta in collina. Lui, che non è per niente seguace di Mazzini, nelle virtù dell'insurrezione popolare crede fin troppo. Potreste trovarvi d'accordo.»

«Questo mi interessa di più.» Gabariol ricordava che il suo mandato prevedeva l'incontro con questo Pisacane. «Ma fammi capire. Non esistono più, a Genova, fratelli di fede repubblicana pura?»

«Forse Maurizio Quadrio e pochissimi altri. La sconfitta di Milano del 6 febbraio ci ha fatto capire che le direttive di fratel Pippo generano martiri e perdenti. Ognuno a modo proprio, si cerca altro.»

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Un uomo serio



[...]


«Ricordo un'Enrichetta che, durante gli ultimi giorni della Repubblica romana, firmava un manifesto per arruolare infermiere volontarie.»

«Era lei» confermò Macchi. «Una donna eccezionale, nemica dei preti e di quel condensato di bugie e superstizioni chiamato Chiesa cattolica.»

«Sei protestante?»

«No. Sono ateo. Non c'è chiesa, moschea o sinagoga che tenga. Per l'emancipazione del popolo bisogna liberarlo dalle false...»

Macchi si interruppe perché era entrato un personaggio che, fin da un primo sguardo, ispirava rispetto. Non era alto di statura, e tuttavia lo pareva. Portava una barba lunga e nerissima, quanto i capelli radi sulla fronte che gli arrivavano al collo. Gli occhi grandi, mobili e acuti sembravano capaci di sezionare l'anima di qualsiasi interlocutore. Indossava uno spolverino pesante, con i baveri sollevati, poco idoneo alla stagione. A giudicare dai pantaloni, forse sotto aveva un pigiama.

«Mauro, stai forse tentando di convertire questo gentile ospite all'ateismo?» domandò con inflessione ironica.

«Carlo, non cerco di convertire nessuno.»

Le labbra dell'uomo si atteggiarono in una piega sottilmente ironica. «Mi chiedo perché, tra noi, gli anticlericali più accaniti siano quasi sempre i più moderati sul piano politico. Ammazzare i preti va bene, insorgere invece è omicidio.» Mosse due passi verso Gabariol e gli porse la mano. «Mi dicono che sareste Goffredo Zambelli, un romagnolo inviato da Mazzini e Saffi.»

«Esattamente.»

«Allora tornate da dove siete venuto. Il presunto Apostolo ci ha presi in giro abbastanza, con le sue rivoluzioni da commedia. Che se ne stia a Londra e si tenga tranquillo. Ne abbiamo abbastanza, dopo Milano e Belfiore, di martiri e di stragi dei nostri.»

Gabariol, che si era alzato in piedi, ricadde seduto. «Non vi credevo un fusionista. Siete, penso, Carlo Pisacane.»

«Fusionista sarà vostra sorella» rispose Pisacane, con freddezza. «Se avrete presto occasione di incontrare Mazzini, porgetegli i miei saluti. Quindi ditegli che me ne fotto di lui, del suo mistico pensiero borghese e degli attacchi che ricevo dal suo lurido giornale, "Italia e Popolo".»

Gabariol rimase sconcertato. Deglutì prima di trovare le parole idonee per una risposta. «Vi credevo un repubblicano» mormorò.

«Bruto era meno repubblicano di me. Quanto a Vittorio Emanuele II, lo vorrei morto. Assieme agli altri re e principi che schiacciano l'Italia sotto il peso delle loro ambizioni dinastiche. Incluso l'ultimo imbecille sceso in campo: Lucien Murat, pretendente al Regno delle Due Sicilie. Spazzatura in forma umana.»

Lucien Murat, secondogenito di Joachim, l'ex re di Napoli, aveva da poco accettato l'investitura a possibile sovrano dell'Italia meridionale, sostenuta da un numero consistente di nemici dei Borboni. Con lui la penisola, cacciati gli austriaci, sarebbe stata divisa in tre regni: i Savoia al Nord, il papato al Centro e i "murattiani" al Sud. Un progetto che piaceva sia al conte di Cavour, ministro degli Esteri di Vittorio Emanuele, sia a Napoleone III.

Mauro Macchi intervenne a moderare gli accenti troppo aspri di Pisacane. «Goffredo, non ve la prendete. Carlo è fatto così, è un uomo d'assalto. Ciò dipende dalla sua carriera militare, come ufficiale borbonico, stratega della Repubblica romana, milite della Legione Straniera francese. È impulsivo anche quando non occorre.»

«E voi diffidate di Mauro, signor Zambelli» replicò Pisacane. «Ha orrore della violenza, eccetto quando rivolta contro i suoi peggiori nemici, la pretaglia. Vorrebbe la lotta per l'indipendenza e l'unità italiane affidata all'educazione, laica e graduale. Come se agli austriaci importasse qualcosa della cultura degli schiavi.»

«Non puoi diffondere l'idea nazionale tra masse ignoranti e analfabete, asservite dal clero» rispose Macchi.

Pisacane scosse il capo con energia. «Sbagli. Non puoi convincere gli oppressori a lasciarci liberi se non a colpi di spada e a fucilate. Il popolo lo intuisce, voi borghesucci no. Il potere sono le armi in mano agli operai, non le diatribe filosofiche. Con quelle, Radetzky si spazza il brebo.»

Malgrado i termini forti, la discussione si era andata stemperando. Pisacane aveva preso una seggiola di incerta stabilità e vi si era seduto. Gabariol capì che tra i due amici - il militare e l'anticlericale - schermaglie di quel genere dovevano essere frequenti. Persino rituali.

Sentì che era arrivato il suo momento di parlare. «Non conosco le vostre divergenze e, per essere franco, non mi interessano nemmeno. Sono qui su mandato del Comitato italiano di Londra. A Genova, come a Bologna, Milano, Ancona e Roma, sta prendendo corpo una scissione grave. C'è chi rinuncia all'idea repubblicana e affida la liberazione d'Italia a un'alleanza con i fusionisti, che delegano il combattimento decisivo alla monarchia piemontese.»

Pisacane, ora più pacato, sogghignò. «Siete venuto nella capitale stessa del fusionismo. A Genova il Comitato di Londra ha smesso di contare qualcosa. Il caffè della Concordia è una mangiatoia di rinnegati. Li odio, però in fondo li capisco. Mazzini, con la sua smania di azione, ci guida di disfatta in disfatta, ogni volta più vergognosa.»

«Alludete alla sconfitta del 6 febbraio a Milano?»

Pisacane accese una pipetta in gesso, da operaio, e fin dalle prime boccate saturò la stanza di un fumo greve, non troppo profumato. Si chinò in avanti, i polsi sulle ginocchia. «Da bravo ispettore di un comitato fantasma, certamente non sapete quel che è accaduto due o tre giorni fa. Felice Orsini , incaricato di suscitare una guerra per bande in Toscana, è giunto a Sarzana, pronto a passare il confine. Aspettava un carico di ventimila fucili e centinaia di volontari. Nessun fucile è arrivato, i volontari non raggiungevano la trentina. Vista la situazione, ha preferito arrendersi a un battaglione di bersaglieri piemontesi. Secondo me ha fatto benissimo.»

In effetti, Gabariol non sapeva nulla di quell'evento. «Cosa criticate in questo tentativo?»

«La sua idiozia! Mazzini pensa che un'influenza dall'esterno possa scatenare il popolo e incitarlo all'insurrezione. È vero il contrario. Se occorre una miccia, ben venga. In seguito la massa farà da sé. Senza capi, obbedendo alle proprie necessità.»

Macchi fece, con la mano, un cenno di diniego. «Carlo, un popolino poco istruito si darebbe al massacro. Le sue prime vittime sarebbero i ribelli.»

«E massacro sia!» esclamò Pisacane, di nuovo infervorato. «Se a compierlo saranno gli umili, sarà un gesto sacro. L'importante è che le classi sottomesse divengano protagoniste. Solo loro potranno dare forma all'Italia futura!»

Gabariol ne aveva abbastanza di quella chiacchierata, che avvertiva sfociare nel delirio. Si alzò e raggiunse l'uscita. Sulla porta incrociò Enrichetta, che entrava con un vassoio carico di tisane, dal grande aroma ma di aspetto tristissimo. Notò la bellezza della donna, che prima aveva trascurato.

«Scusatemi, signora, un impegno mi chiama in città.»

Fu la sola persona che salutò, nell'andarsene.

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