Autore Valerio Evangelisti
Titolo Il Sole dell'avvenire
SottotitoloVivere lavorando o morire combattendo
EdizioneMondadori, Milano, 2013, Strade blu , pag. 534, cop.fle., dim. 15x21x3,5 cm , Isbn 978-88-04-63112-5
LettoreRiccardo Terzi, 2014
Classe narrativa italiana , lavoro , storia sociale , paesi: Italia: 1800 , regioni: Emilia-Romagna












 

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Indice


         Parte prima - Attilio

         CAMICIA ROSSA

    11   Camicia rossa
    18   Winchester '66
    25   Pugni e cappelletti
    32   Anni difficilissimi
    38   Agli amici di Romagna

         TAJEM LA TESTA AI SCIUR

    47   Teobaldo
    53   Acqua e zanzare
    60   Ritorno alla miseria
    67   La miglior vendetta
    74   Lotta elettorale

         SUCIALESTA

    83   Viva Amilco e Andrea Costa
    89   "Il Sole dell'Avvenire"
    96   Socialisti rivoluzionari
   102   Lavoro per tutti
   108   Vogliamo i comuni!

         SENZA FAMIGLIA

   117   Malaria
   123   Argini e terrapieni
   129   Organiamoci!
   135   Comicità e tragedia
   141   Bandiera verde

         LA COLONIA

   151   In terra ostile
   158   Scarriolare all'inferno
   165   Il fiume morto
   171   Lettera da casa
   177   Dura lex


         Parte seconda — Rosa

         L'UOVO BENEDETTO

   187   L'escomio
   193   In tribunale
   200   Nuovi padroni
   207   I bachi da seta
   213   Tensioni politiche

         PREPOTENTI E RIBELLI

   221   Il privilegio di essere mezzadri
   227   Germanico Piselli
   234   Gli anarchisti
   241   Gioie e soprusi
   247   Pane e formaggio

         SPARTACO ADOLESCENTE

   257   Decadenza
   263   L'asino e il maiale
   269   Un povero cristo
   275   Schiarite
   281   Altre schiavitù

         I TEMPI CAMBIANO

   291   Modernizzazione
   297   La pentola torna a bollire
   303   Pio Battistini
   309   Il diavolo in municipio
   315   Sottosopra

         PROGRESSO

   325   Il sarto di campagna
   332   Primo sangue
   338   La stretta
   344   L'uovo maledetto
   350   Colpo di fionda


         Parte terza — Canzio

         LA FAMIGLIA SCOMPARSA

   361   Ragazzo in fuga
   367   La cameraccia
   374   Falsa identità
   381   I socialisti freddi
   387   Hotel Byron

         VIOLENZA

   395   Stagione insanguinata
   402   Una voce da lontano
   408   Ventata
   414   La grande paura
   421   Separazioni

         PRIMO AMORE

   431   Un disastro dopo l'altro
   437   Ultima resistenza
   443   Verso la resa
   449   Imola
   455   Nuovi percorsi

         PUGNO DI FERRO

   463   Unificazione
   469   Piccole conquiste
   475   Castighi preventivi
   481   Fuorilegge
   487   Il ritorno di Rosa

         SEMPRE PEGGIO

   497   La prigione
   503   Un lungo viaggio
   509   L'ombra del padre
   516   Domokòs e ritorno
   523   Il Re Mitraglia


   529   Ringraziamenti e varie
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1
Camicia rossa



Attilio Verardi scivolò sulla neve che copriva via della Porta Aurea e finì per terra, battendo le natiche sul selciato incrostato di ghiaccio. Era furioso, non per il dolore ma per l'umiliazione. Si drizzò a fatica. Il gendarme che lo aveva gettato fuori di prigione con un calcio era ancora sulla porta. Ebbe l'impressione che ridacchiasse.

«Ridatemi almeno il coltello!» gli gridò.

«Non ci penso nemmeno. Ricominceresti a minacciare i galantuomini.»

«Galantuomo quello? Un fior di furfante! Ha osato insultare il mio generale!»

L'agente si spazientì. «Qui l'unico furfante sei tu, Attilio. Eri ubriaco fradicio, per questo hai passato in cella solo una notte. Non ci riprovare: la prossima volta andrai sotto processo. Cominciamo a essere stanchi delle tue bizzarrie. Et capé?»

Attilio volse la schiena e si incamminò, zoppicando leggermente, verso il centro della città. Ravenna non era grande, ma complicata sì. Troppa storia alle spalle – era stata persino capitale dell'impero romano morente – l'aveva caricata di circonvoluzioni, di strade tortuose in cui ci si districava per conoscenza o per istinto. Lui, per fortuna, le conosceva bene. Solo che la periferia degli insediamenti bracciantili stava molto a est, in Borgo Adriano, dove le case in pietra cedevano il posto alle baracche, alle capanne, alle bicocche. Spesso pure e semplici tane di una stanza assediate dai topi.

Attilio passò di fronte al forno che, in tempi dimenticati, aveva fatto la modesta fortuna dei Verardi. Suo padre, aiutato da un Attilio bimbetto, aveva cercato di tenerlo aperto negli anni più bui della tassa sul macinato. Faceva credito ai poveri con troppa facilità, era quello il problema. Sfornava pagnotte e le distribuiva a credito, aspettando compensi che non potevano rientrare. Adesso la sua bottega era un portone a volta dai battenti sbarrati.

Attilio non provava nostalgia per l'azienda paterna. Vendendola, alla morte del padre, ne aveva ricavato un gruzzoletto prossimo all'esaurimento. Chi aveva acquistato l'esercizio era finito a sua volta in rovina, come dimostravano le porte chiuse. Lui aveva intanto iniziato una nuova vita, col raggiungere, ventenne, Garibaldi in Francia. Era questa scelta che le autorità non gli perdonavano. La sera prima era stato incarcerato per un'ubriacatura tutto sommato modesta. Era vero, aveva minacciato con un coltello, in una bettola, un signorino che diffamava il generale venerato. Ma che delitto era? Quella stessa notte, in altre taverne, le lame avevano lasciato un cadavere e un ferito. Nessuno se ne era preoccupato. Si trattava di povera gente. In Romagna gli accoltellamenti fra miserabili erano all'ordine del giorno.

Le strade ghiacciate erano vuote. A quell'ora gli indigenti erano già al lavoro, o in cerca di lavoro; i ricchi dormivano ancora. Gli unici, radi passanti erano donne, domestici e qualche impiegato.

Per aiutare il passo, reso impacciato dai residui dell'alcol, Attilio canticchiava tra sé una canzone poetica e marziale, La rondinella di Mentana, appresa sul campo di battaglia di Digione.

Nel passare di fronte al Duomo cantò ad alta voce una delle strofe più oltraggiose:

    Maledetto di Francia il Signore
    vil monarca spergiuro il più tristo
    che al bugiardo Vicario di Cristo
    sta in difesa di trono e d'altar.

Se l'avesse udito un gendarme, sarebbe tornato in cella di filato. Era vero che Napoleone III non c'era più, però l'offesa a un monarca (anzi, a due) restava un reato. Ma poco importava, infastidire i preti era un dovere imprescindibile. Il parroco non lo udì, o almeno non corse fuori a invocare l'accorrere della forza pubblica, come era accaduto più volte in passato. Il sonno dei sacerdoti combaciava, in durata, con quello dei benestanti.

Attilio doveva trovare qualcosa da fare per guadagnare qualche spicciolo, visto che all'osteria aveva sprecato il poco denaro che aveva in tasca. D'inverno i campi non offrivano niente e le attività di arginatura erano ferme. Eppure lui aveva promesso alla fidanzata, Rosa Minguzzi, di portarla a ballare al Circolo Mazzini la domenica successiva. Lei viveva molto meglio di lui, visto che apparteneva a una famiglia di mezzadri di Santa Maria in Porto Fuori. Per continuare quella relazione doveva assicurarle qualche svago, che le facesse dimenticare quanto miserabile era il suo innamorato. Per fortuna la ragazza non sapeva delle sue ubriacature né delle sue frequenti carcerazioni.

Attilio ragionò che, con tutta la neve che era caduta, una spalatura era necessaria. L'ora gli sembrava quella giusta: gli uffici comunali avrebbero aperto di lì a poco. Accelerò dunque il passo, per quanto glielo consentivano il ghiaccio e la scarsa forza che si sentiva nelle gambe.

In piazza Vittorio Emanuele si aspettava di trovare gente, ma non così tanta. Un centinaio di capparelle nere e sdrucite spiccavano sul biancore dell'acciottolato, immerse nella nebbiolina del mattino. Cercò con gli occhi una faccia conosciuta. Inutile: quella gente cambiava ogni volta. Infine scorse, sotto il portico, un viso noto, anche se non tra i più graditi. Si avvicinò.

«Cosa fa questa gente?» domandò in dialetto.

«Spera in un lavoro di spalatore» rispose Claudio Zirardini, il tipografo.

«Anch'io.»

«Ho idea che siate in troppi. Molti resteranno a bocca asciutta.»

Ad Attilio Claudio Zirardini non riusciva simpatico. Era un uomo di poche parole, a differenza dei quattro fratelli e delle tre sorelle. Spesso la sua laconicità rasentava la scortesia: non era raro che, stanco di parlare, girasse le spalle all'interlocutore e se ne andasse, le mani in tasca.

Soprattutto, Claudio era un "internazionalista". L'anno precedente, 1874, aveva stampato i manifesti per una rivoluzione ridicola a Bologna, ispirata dal famoso anarchico russo Bakunin. Si erano ritrovati in quattro gatti, con le bandierine rosse da capostazione di un gruppo di ferrovieri imolesi, sotto il palazzo comunale. Bakunin era scappato vestito da prete, i più si erano dispersi, alcuni erano stati arrestati. Tra questi ultimi il più intelligente, Andrea Costa, anche lui di Imola. Non a caso, la città era nota per l'inclinazione degli abitanti alla follia, quasi pari a quella dei ferraresi.

Attilio avrebbe dovuto simpatizzare per gli internazionalisti, come facevano altri ex garibaldini. Bakunin e il Generale si erano abbracciati platealmente durante un congresso dell'Associazione internazionale dei lavoratori. Alcuni reduci da Digione avevano partecipato alla Comune di Parigi, ultima difesa contro i prussiani e, al tempo stesso, primo segnale di un rinverdire in forme nuove dell'afflato egualitario della Grande rivoluzione.

Lui, almeno da quando era diventato povero, diffidava degli idealismi astratti. Gli internazionalisti parlavano di continuo di proletariato da riscattare, di emancipazione dei lavoratori. Ma cosa facevano in concreto, a parte conati insurrezionali abortiti sul nascere? Meglio allora i mazziniani, che pure erano divisi dai garibaldini da un'ostilità che risaliva al 1860, se non da prima.

Claudio Zirardini aveva incrociato le braccia e si era girato per tre quarti, come se la conversazione fosse finita.

Attilio, malgrado il gesto, una curiosità l'aveva ancora. «Da dove vengono costoro? Di facce note ne vedo cinque o sei. Eppure, da quando ha nevicato, sono sempre qua.»

L'altro continuò a dargli le spalle, chiaramente infastidito. «Vengono da tutto il Ravennate. Ex contadini, ex mezzadri. Anche ex operai. Si produce troppo rispetto a quello che il popolo può comprare. Per chi lavora la terra i prezzi di vendita sono bassi, non c'è guadagno. Si importa in eccesso dall'America e dall'Argentina.»

Attilio non aveva afferrato per intero, ma qualcosa aveva intuito. Domandò: «Il governo non fa nulla?».

Claudio Zirardini alzò le spalle. «Il contrario di quello che dovrebbe fare. Non batte moneta, punta al risparmio. In questo modo i poveri aumentano. Perso per debiti il campo o il posto di lavoro, si riversano in città. Pensano che qui qualcosa da fare troveranno.»

«È anche il mio problema.»

«Allora, invece di perdere tempo in chiacchiere, fatti avanti. Quando dal municipio chiameranno, rischi di essere l'ultimo della coda.»

Era un buon consiglio, anche se pronunciato in tono brusco. Attilio si fece largo tra la calca di poveracci che assediava il palazzo comunale. Rimpianse di non avere indossato, il giorno prima, la camicia rossa dei garibaldini di Digione. La teneva ben ripiegata nella sua bicocca e la metteva solo nelle grandi occasioni. Nel municipio non mancavano i simpatizzanti, qualcuno lo avrebbe notato. Con gli abiti che aveva addosso appariva solo un miserabile tra i miserabili.

Raggiunse una buona posizione. Tutti si aspettavano che la chiamata venisse da Palazzo Veneziano, invece arrivò dalla sua ala detta Palazzo Merlato dalla merlatura ghibellina costruita solo un ventennio prima. E non fu una chiamata, purtroppo.

Un funzionario intabarrato, con una sciarpa attorno al collo, uscì nella piazza. La folla mosse verso di lui, lasciando Attilio, meno rapido, nelle ultime posizioni. Ciò non gli impedì di afferrare le parole del burocrate, fredde come il ghiaccio che aveva sotto i piedi.

«Brêva zént, vedete anche voi che non nevica e che le strade sono abbastanza sgombre. C'è ghiaccio, ma si scioglierà. Non è prevista neve neanche nei prossimi giorni. Non abbiamo bisogno di spalatori.»

Vi fu un mormorio di scontento. Qualcuno gridò: «E noi cosa mangiamo?».

Il funzionario allargò le braccia senza dire nulla.

«Non ci sarebbero altri lavori?» chiese Attilio.

«No, mi dispiace. Il comune è povero, e voi siete in troppi.»

La risposta era logica, anche se lui era convinto che il sindaco precedente, Gioacchino Rasponi, qualcosa avrebbe escogitato.

La moltitudine iniziò a defluire, emanando un sentimento di sconforto quasi palpabile. Attilio, avvilito quanto gli altri, si incamminò lentamente verso casa, al termine di via Massimo D'Azeglio, oltre Porta Adriana. Si sentiva stanco, avvertiva il dolore dei lividi.

Passò, in piazza Byron, davanti alla facciata scrostata del palazzo degli Zirardini. Uno stemma di famiglia testimoniava di un passato splendore tra il notabilato ravennate. Adesso l'edificio ospitava la tipografia di Claudio al primo piano e le abitazioni dei fratelli a quelli superiori.

Ad Attilio venne in mente di entrare a chiedere un piccolo prestito. Scacciò l'idea: lui era un garibaldino, non un tipo da elemosine. Un combattente. L'inverno del 1875 figurava tra i nemici peggiori che avesse mai incontrato, ma non importava. Ce l'avrebbe fatta.

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Argini e terrapieni



Sulla stampa nazionale continuava a prevalere l'immagine di una Romagna semibarbarica e quasi tribale, come l'aveva a suo tempo dipinta Marco Minghetti. Soprattutto di una regione immobile, malsana, fissa in forme di vita refrattarie al cambiamento. Chi l'abitava, però, sapeva che era una pura e semplice menzogna.

Percorrendo la regione con il suo carretto, o per lavoro o in cerca di un impiego, Attilio vedeva ferrovie in costruzione, argini brulicanti di manovali, pontili, tracciati di nuove strade. La legge Baccarini del 1882 aveva garantito un contributo statale del trenta per cento dei costi sostenuti per le opere di pubblica utilità (il resto era a carico dei municipi e dei privati). Le attività fervevano. Se tutto ciò non portava ricchezza, e anzi diffondeva miseria, era essenzialmente a causa del sistema dell'appalto e della gara per pagare al ribasso che costituiva lo sport preferito dai profittatori.

Questi ultimi li si vedeva, al pomeriggio o alla sera, assiepati ai tavoli del Caffè del Risorgimento, in compagnia degli amministratori locali, dei dirigenti delle opere pie, dei benefattori di società operaie tali solo di nome. Spesso li raggiungeva qualche magistrato, come il decrepito Travaglia che aveva condannato "Il Sole", oppure qualche ufficiale del regio esercito. Lì, tra chiacchiere vane e pettegolezzi, tra piatti di affettato, vini di pregio e sigari, confluiva quanto strappato alla massa miserabile dei braccianti, impegnati in una lotta quotidiana con la terra e con le acque.

Attilio non si recava quasi mai da quelle parti, se non la domenica mattina. Una sera andò a una riunione della Federazione socialista rivoluzionaria, per apprendere le eventuali novità. Aveva saputo che a Parma era stato eletto un secondo deputato socialista dopo Costa, un tale Luigi Musini. Gli era stato detto che aveva un passato di garibaldino, e ciò lo interessava. Forse era imprudente farsi vedere a una riunione di quel tipo, con Rosa che ancora non lavorava ed Eleuteria che, guarita dalla malaria, si mostrava cagionevole e soggetta a infezioni di ogni tipo. Ma vi andò principalmente per gratitudine verso Nullo Baldini, che continuava a procurargli lavoro nei pochi appalti gestiti dall'Associazione dei braccianti.

Incontrò nella saletta - decorata col numero 2403, quello che Amilcare Cipriani portava a Portolongone - Giovanni Zambelli.

«C'è il doppio di gente dell'ultima volta che sono venuto» gli disse sedendogli accanto.

«Il fatto è che crescono i poveracci, e di conseguenza crescono i socialisti.»

«Non capisco di cosa parlano. Che cos'è "La Questione Sociale"?»

«È un giornale di Firenze che si dice "comunista-anarchico". Attacca di continuo Andrea Costa, Luigi Musini e altri ancora. Li definisce "traditori", mentre tutti noi saremmo stati ingannati e presi per il naso.»

Attilio gonfiò il petto. «Dire questo di un romagnolo è come schiaffeggiarlo. Brutti boia. Quale sarebbe il tradimento?»

«Costa, secondo loro, ci trascina sulla via legale e ci fa dimenticare la rivoluzione.»

«Perché? Loro la fanno, la rivoluzione?»

«No.»

«E allora cosa vogliono quei somari?»

Zambelli alzò le spalle. «Chiedilo a loro.»

Tacquero per un poco e si misero ad ascoltare. Il dibattito su "La Questione Sociale" fu concluso da una mozione di solidarietà, e Claudio Zirardini venne a parlare di cose più concrete. Le leggi Berti, di disciplina del lavoro, erano un pericolo concreto. Riconoscevano alcuni diritti come quello di coalizione, ma nel contempo definivano legali solo le società operaie scelte dal governo e di fatto cancellavano la possibilità di scioperare. Facevano il paio con la proposta di Depretis di creare commissioni straordinarie di giustizia nelle province più esposte al rischio di agitazioni sociali, come quelle di Parma, di Forlì, di Ravenna, di Ferrara. Veri commissariati ad hoc dotati di poteri eccezionali. A un certo punto, Attilio cominciò a sbadigliare. «Io ho sonno, torno a casa.»

«Non ci facciamo prima un goccetto?» gli chiese l'amico.

«Perché no? Dopo dormirò meglio.»

Andarono in una piccola osteria da cui si vedevano, di scorcio, le vetrate illuminate del Caffè del Risorgimento. Quando Attilio mise sul tavolo gli spiccioli per pagare (in anticipo, come raccomandava un cartello) il litro di vino bianco che avevano ordinato, Zambelli osservò: «Un po' di soldi li hai. Ti credevo in miseria completa».

«È che lavoro come una bestia. Io e il mio mulo facciamo a gara a sfiancarci. Prendo molto meno di quando scarrozzavo Carlo Brighi, però un po' di pane riesco a portarlo a casa.»

«Claudio Zirardini ti fa distribuire "Il Comune", come faceva Tanino con "Il Sole dell'Avvenire"?»

«No. Nelle località minori lo spedisce per posta a gente di fiducia. A Ravenna lo fa diffondere dagli spazzacamini, e fa bene. È gente più povera di me.»

Gli spazzacamini erano il gradino più basso della derisoria "gerarchia" del bracciantato. Svolgevano un lavoro pericoloso, malsano, sporco e tra i meno pagati in assoluto. Per di più la domanda era maggiore in inverno, e ciò esponeva i malcapitati al freddo e al costante rischio di scivolare.

Non era nemmeno un mestiere vero e proprio, a parte un nucleo ristretto di giovani che non facevano altro. Finiva a spazzare i camini chi non aveva alternativa. Spesso erano gli operai troppo gracili o malaticci per essere assunti come terrazzieri, e invece idonei per magrezza ad arrampicarsi sui tetti, con sul dorso il carico dei loro strumenti. A Ravenna, come in tutta la Romagna, non esistevano compiti fissi o specializzazioni, ma piuttosto un fluttuare da una mansione all'altra di masse sempre in espansione di poveri diavoli. I diavoli più poveri in assoluto finivano sui tetti, oppure sottoterra, a spurgare le fognature.

Mentre consumavano il vino, Giovanni chiese ad Attilio: «Hai scoperto qualcosa su chi ti ha ammazzato il cavallo?».

«No. Rosa fa ipotesi fantasiose che non stanno in piedi. Non ho molti amici, ma neanche molti nemici. Questi, per farmi del male o per vendicarsi di me, avrebbero agito in altro modo.»

«Non ti è venuta in mente una cosa diversa...»

«Cioè?»

«Che volessero vendicarsi del cavallo?»

Attilio rimase così stupito che il vino quasi gli andò di traverso. «Di' su, Zvanèn, dopo un solo bicchiere sei già brillo? Chi gli avrebbe sparato, un altro cavallo?»

Giovanni rise. «Ma no, imbazèl! Pensaci un poco. L'animale non era tuo. Magari non hai nemici, ma il suo vero padrone ne ha una quantità.»

«Intendi Tanino?»

«Proprio lui! In quanti lo odiano, in Romagna? Tanti che c'è da perdere il conto. Gli hanno fatto persino un attentato. Adesso lui non c'è, ma il suo cavallo era rimasto qua.»

«E gli avrebbero fatto un agguato? Addirittura!»

«Forse non era un agguato. Forse lo sparatore passava di là con un fucile in spalla e ha riconosciuto il calesse di Tanino.»

«Un cacciatore? Non si caccia con la neve.»

«No, non un cacciatore. Chi altri va in campagna con la doppietta a tracolla? Dài, è facile.» Giovanni strinse gli occhi con leggera malizia, poi sospirò. «Visto che non ci arrivi te lo dico io. Il padrone, oppure uno dei suoi famigli. In questo caso propenderei per il padrone. Come si chiamava il contadino che ti ha dato riparo e riportato a casa?»

«Zappi.»

«Ti ha detto il nome del proprietario della tenuta?»

«Non glielo ho nemmeno chiesto.»

«Cerca di scoprirlo. Se ha, qualcosa a che fare con Tanino, saprai chi ha sparato. Ne sono sicuro.»

«Gli Zappi non hanno visto nessuno.»

«Certo non vedrebbero mai chi può dare l'escomio quando gli pare e condannarli alla fame. Quello è un uomo invisibile. Nel senso che è meglio che non lo vedano.»

Da un tavolo, per fortuna non vicino, un gruppetto di avvinazzati iniziò a cantare - in un coro che metteva i brividi per l'atroce stonatura - una versione eterodossa della Marsigliese.

    Su leviamo alta la fronte
    o curvati dal lavor!
    Già sul culmine del monte
    splende il sol dell'avvenir!

Attilio osservò, nervoso: «Ma è una canzone proibita! Socialisti anche qua?».

«No, semplici ubriaconi» rispose Giovanni. «È meglio che ce ne andiamo. Entro pochi minuti arriveranno i gendarmi.»

Uscirono mentre i canterini storpiavano l'ultima strofa:

    Pace, pace ai tuguri del povero!
    Guerra, guerra ai palagi e alle chiese!
    Non sia scampo all'odiato borghese
    che la fame e gli stracci insultò!

Incrociarono alcuni poliziotti che correvano verso l'osteria. Qualche spione, dei tanti sparsi ovunque, li aveva avvertiti. Adesso là si cantava Pellegrin che vien da Roma, una canzone sapida ma lecita. Ciò non avrebbe impedito alcuni arresti e una scarica collettiva di botte. Altrimenti le forze dell'ordine non avrebbero esercitato la loro funzione istituzionale.

Attilio e Giovanni si incamminarono in fretta verso Borgo Adriano. Nel passare di fronte al Caffè del Risorgimento incrociarono i pezzi grossi che, terminata la bisboccia, uscivano a prendere aria e rimiravano l'operato dei gendarmi. Più avanti ne incontrarono uno isolato, che doveva avere bevuto troppo. Barcollava, aggrappato a un lampione. Aveva ancora un sigaro spento fra le labbra.

«È un appaltatore, Achille Fuschini» sussurrò Giovanni all'orecchio di Attilio. «Un bastardo. Ha soffiato ai nostri braccianti un tratto della ferrovia Ravenna-Alfonsine e rifiuta di assumere gli iscritti all'associazione.»

«Ah, sì?» Attilio si portò di fronte a Fuschini e, con una manata, gli ficcò l'intero sigaro in bocca. «Mi dispiace, non ho da accendere.»

Lui e Giovanni corsero via ridendo come ragazzini, mentre alle loro spalle risuonavano colpi di tosse e conati di vomito.

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Il privilegio di essere mezzadri



L'anno 1887 iniziò sotto pessimi auspici. Riccardo andava e veniva da Forlì senza cavare un ragno dal buco. Il motivo fu chiarito solo dopo molti incontri con dirigenti repubblicani di vario livello: Bettino Raffaelli era uno di loro.

Riccardo non ne parlò in famiglia, ma si confessò con la sola, decrepita, zia Enrichetta. Dato che questa era sorda, dovette alzare la voce. Rosa, che era nella stanza accanto a tessere la poca canapa che rimaneva ai Minguzzi per uso personale, udì la conversazione.

«Per fortuna sono stato sempre cauto e non ho fatto nomi. Mai, in nessuno degli incontri. Sono riuscito persino a non sobbalzare quando mi hanno detto che, per i problemi di mezzadria, facevo bene a rivolgermi a Raffaelli, il repubblicano più influente di Faenza, dirigente della Società di mutuo soccorso. Ha scritto anche un opuscolo, Il privilegio di essere mezzadri, con prefazione di Aurelio Saffi. Sono finito su un binario morto.»

«Allora rinunci?»

«Sì, a malincuore. Mi è stato fatto il nome di un avvocato che forse sarebbe disposto ad aiutarci. Si chiama Alessandro Balducci. Ho saputo però che è un socialista, e io quella gente lì non la voglio nemmeno vedere.»

«Pagherai doppie onoranze?»

«Lo abbiamo fatto a Natale, zia, e non siamo finiti in miseria. Continueremo a farlo. Il podere rende, dicono tutti che abbiamo fatto un miracolo. Certo, è dura. Vorrà dire che torneremo a mangiare polenta condita con l'aria e che di vino berremo il terzanello. I Minguzzi sono forti e nessuno li può mettere a terra.»

Rosa, in seguito, si guardò dall'interrogare Riccardo e non disse nulla a Peppino, Gigino, Dina e Andreina. Capì dal clima cupo gravante in famiglia che tutti erano consapevoli della situazione non felice, senza conoscerne i dettagli. Un indizio era comunque evidente: Riccardo aveva rinunciato a viaggiare fino a Forlì, come aveva fatto per settimane col trenino che partiva da Meldola. O non aveva più soldi, o quelle trasferte si erano rivelate inutili. Ora sembrava che la sua sola preoccupazione fosse scavare fossi prima che finisse l'inverno, in modo che l'acqua del ruscello che costeggiava l'Uovo Benedetto raggiungesse ogni settore del campo.

Una mattina di febbraio, mentre gli uomini erano al lavoro e le donne in casa, Rosa vide una sagoma scura sfrecciare da un gelso all'altro, fermandosi ogni volta che raggiungeva il fusto. Ebbe la certezza che fosse il personaggio che l'aveva seguita mentre tornava dalla filanda. Rimase immobile, col cuore in gola. Finse di guardare altrove. Il personaggio, con uno scatto, corse dai filari di alberi senza foglie (c'erano ancora sul suolo tracce di neve) fino alla stalla. Non cercava lei.

Rosa si domandò se chiamare i fratelli. Erano lontani, e poi, con Riccardo di mezzo, poteva finire a coltellate. Raccolse uno stecco, si avvicinò silenziosamente alla stalla e vi entrò.

«Che cosa fate voi qui?» chiese con foga.

Canzio stava parlando con lo sconosciuto: un uomo alto, vestito con un certo decoro. Aveva barba e pizzo, un nastro nero e sottile che dal colletto della camicia bianca scendeva sul panciotto grigio. Aveva appena passato al bambino un sacchetto di carta. Sembrò ancora più spaventato di quanto lo fosse Rosa.

«Scusatemi, signora» balbettò. Si tolse il cappello. «Sono entrato di nascosto, ma non ho cattive intenzioni.»

La voce incerta del personaggio e il suo fare timido rafforzarono la determinazione di Rosa. Sollevò il bastone.

«Mesi fa mi avete seguito da Meldola fin qui. Non volevate mostrarvi.»

«È vero e me ne scuso. Cercavo di sapere dov'era finito Canzio.»

«Ma chi siete, dunque?»

«Mi chiamo Romeo Mingozzi. A Ravenna sono stato il maestro elementare di vostro figlio. Adesso mi sono trasferito a Forlì. Desideravo rivedere un bambino così buono e studioso, e se possibile aiutarlo.»

Canzio confermò. «È così, è stato il mio maiestro. Tu non lo conosci, ma il babbo sì. Erano amici.»

Rosa abbassò lo stecco, ma non rinunciò del tutto all'attitudine bellicosa. «Mio figlio non ha bisogno d'aiuto. Se davvero siete maestro elementare, come mai non siete a scuola?»

«Mi hanno sospeso per ragioni politiche. Ho fin troppo tempo libero.»

Rosa tolse il sacchetto di mano a Canzio e lo aprì. Conteneva un sillabario bisunto e il romanzo Ettore Fieramosca di Massimo D'Azeglio. Restituì i due libri al ragazzino. «Se capisco bene, signor Mingozzi, voi venite qui a dare lezioni senza che la mia famiglia ne sia informata.»

Il maestro aveva riacquisito sicurezza. Si rimise il cappello. «Magari potessi dare lezioni. Questa è solo la terza volta che vengo. So che vostro fratello Riccardo non vuole che Canzio continui a studiare. Io provo, quando posso, a non lasciare che un'inclinazione evidente del bambino vada sprecata.»

«Siamo poveri. Per noi, che non ci possiamo permettere un garzone, è importante che Canzio badi alla stalla. Lavoriamo tutti come bestie.»

Mingozzi fece un cenno affermativo. «Lo so. So anche che non siete finiti nelle mani del migliore affittuario in circolazione. Non ho intenzione di rapirvi il bambino per riportarlo a scuola né di fargli da precettore. Vi chiedo solo di poterlo venire a visitare ogni tanto e lasciargli qualcosa da leggere. Leggeva meglio degli altri scolari.»

Rosa scosse il capo. «Riccardo non vorrebbe mai.»

«Infatti lo chiedo a voi.»

«Nemmeno il signor Raffaelli sarebbe d'accordo.»

«Non lo verrà mai a sapere... A proposito di letture, conoscete Il privilegio di essere mezzadri? Si tratta di un librettino scritto da...»

«Lo so. Non mi interessa.»

«Vi dovrebbe interessare. Riporta un contratto colonico tipo, utile per conoscere la differenza tra teoria e realtà, quando il padrone si dice repubblicano.» Il tono di Mingozzi si era fatto ironico, addirittura tagliente. Di indole doveva essere meno timido di come fosse apparso. «Insomma, cosa rispondete? Posso venire qualche volta?»

Rosa tentennò. Non poteva non pensare a come era cambiato Canzio da quando riceveva le visite del maestro. Provò un'ultima obiezione. «Siete entrato qui come un ladro. Se vi scoprono, i miei fratelli mi ammazzano.»

«Non mi scopriranno. Finora è successo solo con voi. Del resto non è che mi nascondessi troppo. Sapevo che prima o poi avrei dovuto parlarvi.»

Rosa finì col sospirare. «Venite pure, ma avvertitemi. Senza farvi vedere.»

Mingozzi fece un gesto di saluto a Canzio, rimise il cappello e si avviò verso la porta della stalla. «Arrivederci, signora.»

«Un'ultima cosa...»

«Sì? Dite.»

«Voi conoscete mio marito Attilio. Avete sue notizie? Sapete come sta?»

«Non lo vedo da tempo e non lo frequentavo molto nemmeno prima. Ho sentito dire che si è ammalato, ma che poi si è rimesso. Ne sono contento perché, se mi è lecito dirlo, mi è sempre sembrato un gran bon omen.»

Mingozzi uscì con cautela e sparì tra i filari. Rosa udì Canzio che le diceva: «Grazie, mamma».

Ne fu sorpresa e quasi sconvolta, tanto che non seppe cosa rispondere. Si strinse nello scialle e corse in casa.

Fu per Rosa l'inizio di una vita diversa e più felice, pur tra le avversità circostanti. Tra madre e figlio nacque gradualmente un rapporto confidenziale. Ancora dominato da silenzi e reticenze, ma con una complicità che prima non esisteva. Rosa non parlava mai a Canzio del maestro Mingozzi. Quando questi veniva all'Uovo Benedetto, circa ogni due settimane, le faceva segno da lontano, nascosto dietro le siepi e i cespugli. Lei si accertava che i fratelli fossero distanti e che le donne si trovassero dentro casa oppure nel capanno dei bachi. Mandava i bimbi dietro le oche e scortava il visitatore nella stalla.

"Non più di mezz'ora."

"State tranquilla."

Si sfiorò l'incidente verso Carnevale, quando i mezzadri erano tenuti a regalare al padrone (e, nel caso dei Minguzzi, anche all'affittuario) fiordilatte e torta di riso. Riccardo scovò un sacchettino vicino a un fosso. Conteneva un quaderno a righe azzurre numero 3, con l'effigie di Garibaldi sulla copertina, una confezione di pennini e delle polveri multicolori per fare l'inchiostro.

Entrò in casa, dove le donne preparavano i dolci, e gettò l'involto sulla tovaglia. «Dobbiamo avere in casa dei sapientoni» esclamò con sarcasmo e acredine evidente. «Gente che non solo sa leggere, ma scrive anche. Chi ha perso questa roba?» Si rivolse direttamente a Rosa. «Canzio non c'entra per nulla? È il solo che sia andato a scuola, a parte me.»

«No» replicò la donna. Benché terrorizzata, ebbe il sangue freddo necessario per inventarsi una scusa. «Sai che il signor Raffaelli è passato di qui, ieri l'altro, per dirci quanti dolci spettano a lui e al conte Guarini. Scrive libri. Il quaderno e il resto sono suoi di sicuro.»

«Ci crederei se non fosse per il ritratto di Garibaldi.»

«Avrà comprato il primo quaderno che ha trovato.»

Tranquillizzato, Riccardo si sedette a tavola. «Questi repubblicani non li capisco più» disse. Parlava per sé, non certo per le donne. «A Imola un loro capo, Luigi Sassi, si dichiara addirittura "repubblicano collettivista". Vuole la proprietà collettiva della terra, esattamente come Andrea Costa. È nemico di fatto della mezzadria. Qui i repubblicani te li trovi contro. Del capitolato colonico esaltano gli aspetti feudali, come fa Raffaelli nel suo opuscolo. In nome della conciliazione tra capitale e lavoro. Rimpiango la Consociazione di Ravenna e il suo equilibrio. Giusta remunerazione al contadino, giusta remunerazione al capitale. Associarsi tra produttori, ecco la forza.»

Nessuna delle donne, intente a confezionare i manicaretti, capì nulla. Solo Rosa, un poco. «Pensi di lasciare il partito?» domandò.

«No, mai. Repubblicani si nasce. Piuttosto che tradire la causa vado a fare il bracciante. Sono i cattivi mazziniani che cercherò di combattere, con tutte le mie forze.»

Rosa pensò alle frasi secche e demolitrici di Romeo Mingozzi. Meno lo frequentava, più lo aveva in simpatia. Un sentimento inspiegabile. Ormai desiderava rivederlo.

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36
Decadenza



Venne il momento che Rosa temeva, ma che sapeva inevitabile. Sulla soglia della stalla Canzio la affrontò.

«Voglio vedere il mio babbo» disse con decisione. Serrava i pugni.

Faceva freddo. L'inverno era stato duro e lasciava propaggini di ghiaccio rappreso tra l'erba. Ciò sembrava influenzare anche gli umori. Riccardo era più intrattabile del solito, Eleuteria disobbediva quasi per partito preso. Rosa stessa si sentiva spesso preda di una tristezza incoercibile.

La congiuntura, del resto, non induceva all'ottimismo. I prodotti agricoli americani, e in particolare i cereali, si riversavano a valanghe sulla Romagna, e sull'Italia in genere. I prezzi erano così bassi che, in vista di raccolti scarsi, i Giacomelli erano quasi alla miseria. I Minguzzi li aiutavano, nei limiti del possibile, per cui si assisteva al paradosso di mezzadri che cercavano di dare una mano – con prestiti, doni, inviti a pranzo, servizi gratuiti – a piccoli proprietari.

Il gelo regnava sulla natura, nei cuori, nella vita sociale. Non raggiungeva le alture della Rocca delle Caminate, dato che Raffaelli era anche importatore di grano dall'America. Colpiva in basso, tra gli umili. Il governo Crispi, accecato dal dogma del libero mercato, non offriva riparo. Considerava l'importazione selvaggia un portato naturale del progresso e si guardava dall'imporre dazi, pur mantenendo quelli comunali. Piuttosto accentuava l'azione repressiva, con arresti senza fine e multe esorbitanti a chi turbava l'affermazione del liberoscambismo. Socialisti, anarchici, repubblicani coerenti, democratici radicali e anche commediografi e poeti troppo coraggiosi: questi i bersagli, che le prefetture non si stancavano di segnalare. Nel mirino era chi incitava i poveri a scioperare e a manifestare. Non le banche, che lesinavano i crediti e speculavano sulla crisi con operazioni azzardate e qualche volta criminali. Erano la colonna portante dell'economia, non si poteva incrinarle.

L'inverno permanente aveva nei dintorni di Meldola un suo periferico riflesso. La tensione si respirava con la brina e nascondeva disperazione. In un quadro di nervi tesi, Rosa accolse la protesta di Canzio con rassegnazione. In cuor suo la avvertiva giusta e tuttavia doveva contrastarla.

«Sai come me che il tuo babbo è a Ostia, con i braccianti ravennati.»

L'undicenne Canzio fece una smorfia da adulto. «Balle. Il maestro Mingozzi mi ha detto che è a Ravenna da un pezzo e che non tornerà più nel Lazio. Vi si è ammalato, non vuole ricaderci.»

«Riccardo non mi permetterebbe mai di accompagnarti a trovarlo.»

«Allora ci vado da solo. Ne sono capace. Basta che tu mi metta sul treno.»

«Hai solo undici anni. Ti farebbero scendere subito. E poi c'è un'altra cosa. Sai bene che il tuo babbo, se viene scoperto con te da un gendarme, rischia la prigione. Lo metteresti in pericolo.»

Canzio non si lasciò smuovere. «Accompagnami tu.»

«Te l'ho detto. Riccardo me lo impedirebbe.»

Rosa aveva una gran paura che quel dialogo compromettesse il rapporto che si era lentamente creato fra lei e il bambino, molto più affettuoso che dopo la separazione dal marito ma con dei confini. Non c'era autentica fiducia tra madre e figlio. Canzio restava incline alla solitudine, rotta solo dalla compagnia degli altri piccoli e, soprattutto, degli animali della stalla. Ciò nonostante esistevano adesso frasi gentili, scambi di carezze fugaci, momenti di silenziosa vicinanza. In fondo, in ambito contadino, difficilmente l'affetto aveva manifestazioni clamorose.

Alla fine fu Rosa a proporre una soluzione. «Senti, non ti dico di no. Bisogna solo trovare il modo. Mi è già difficile avere il permesso di andare a Forlì, figuriamoci a Ravenna. Quello che posso fare è parlarne a Romeo Mingozzi quando avrò modo di incontrarlo di nuovo. È una persona sveglia, si può far venire qualche idea.»

Il viso di Canzio si illuminò. «Oh, sì! Grazie, mamma!»

«Ci vorrà un pochino. Viene sempre più di rado.»

«Aspetterò.» Il bambino tornò raggiante dai suoi animali.

Rosa fu felice per quell'esito del dialogo, ma fu pure attanagliata da preoccupazioni di ogni genere. Anche lei sentiva forte il desiderio di rivedere Attilio. Si era abituata a soffocare l'aspirazione. Il suo impulso, del resto, non derivava dall'amore. Quello si era spento. Ciò che rimaneva era una specie di tenerezza, diversa sia dall'amore sia dall'amicizia. Ricordava un Attilio goffo, maldestro, incapace di difendersi dalle disgrazie. Impossibile vivere con lui, ma anche impossibile odiarlo.

C'era poi un secondo motivo di incertezza, più sfumato. A Romeo Mingozzi si era pian piano affezionata, forse troppo. Nemmeno in quel caso si trattava di amore, però il rischio che lo divenisse c'era. Provava una certa emozione ogni volta che lo vedeva, non poteva negarlo. Del maestro anarchico non sapeva praticamente nulla, a parte un grumo di idee balzane e spesso incomprensibili. Preferiva tenersene distante. Il dovergli chiedere aiuto per recarsi a Ravenna infrangeva il suo proposito. Eppure lo aveva promesso a Canzio e doveva farlo.

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Nello stesso 1889 ci fu una nuova visita dell'ex visconte Domenico Guarini, ora divenuto conte. Vivace e dinamico come sempre, si segnò davanti alla Beata Vergine del Buon Consiglio (particolarmente venerata a Faenza, da cui un ramo della sua famiglia proveniva), accettò un bicchiere di vino, fece onore ai dolcetti e si accese un sigaro.

«Mio buon Riccardo» disse «state producendo poco. Direi una miseria.»

L' azdòr, colto mentre imparava ad azionare la nuova spandiconcime Krell, sotto la guida di un "ingegnere", rigirò il cappello sformato tra le manone. «Il cambio delle colture comporta un periodo di stasi, signor conte.»

«Lo capisco benissimo. Ho studiato agronomia a Forlì. Tuttavia ammetterete che vi sto mandando bovini in quantità e macchine agricole moderne, le stesse mostrate all'ultima esposizione di Bologna. È un investimento notevole.»

«Certo.»

«Ne consegue che il capitolato di mezzadria è ormai inadeguato. Il contributo dei contraenti è troppo diseguale. Oh, non temete!» Guarini si era accorto del soprassalto di Riccardo. «Non intendo minimamente darvi l'escomio. Vi propongo, piuttosto, una modifica del nostro patto.»

«Quale?» chiese Riccardo con un filo di voce. Lui che aveva una cassa toracica tanto possente da far tremare i muri.

«Da mezzadria a terzeria. Sarete libero dalle obbligazioni feudali del mezzadro, come le onoranze. Riceverete un terzo dei guadagni, però nell'ambito di un'azienda al passo coi tempi, capace di far fronte alla crisi che ci sta mettendo in ginocchio. Ciò nel rispetto dell'apporto di capitale e lavoro. Che ne dite?»

Riccardo deglutì vistosamente ed ebbe bisogno di qualche secondo per rispondere: «Signor conte, già adesso faccio fatica a sfamare la mia famiglia. Se mi riducete le entrate non so più dove sbattere la testa».

«Ma io non vi riduco niente!» esclamò il conte. Tamburellò con le unghie sul tavolo. Quelle dei mignoli erano molto più lunghe delle altre, come si usava nell'ambiente dei gentiluomini. «Vedo che non avete capito il concetto, per cui ve lo rendo più chiaro. La situazione attuale è che voi producete cento e ne tenete la metà, cioè cinquanta. Se l'anno prossimo, invece, produrrete trecento e ne terrete un terzo, avrete cento: il doppio di cinquanta.»

«Comprendo, ma come faccio a essere sicuro di avere trecento?»

«Con le macchine e con le innovazioni colturali che io e i miei tecnici vi indicheremo. Non dovete prendere a base l'anno in corso, che è un anno di transizione. Pensate a come andrà nel 1890. Inoltre siete un uomo intelligente, capace di afferrare che se io investo in macchine, animali e scienza agraria ho diritto a una retribuzione del capitale adeguata. Come vedete, parlo quasi come un repubblicano, che Dio mi perdoni.»

Riccardo stropicciò il cappello tra le dita. «Devo pensarci sopra. Parlarne con la mia famiglia.»

«Oh, avete il tempo che vi serve.» Guarini aveva smesso di tamburellare ed era tornato cordiale. Vuotò il suo bicchiere di vino. «Domani vi manderò un mio emissario. Darete la vostra risposta a lui. Sono sicuro che sarà la più saggia.»

Il conte si alzò e fece per andarsene. Riccardo gli disse: «Un'ultima parola, se permettete. In un podere qui vicino abita la famiglia Giacomelli, con cui sono imparentato. Brava gente, ma sono piccoli proprietari che se la passano male. Avreste modo di aiutarli un poco? Facendo credito sulle sementi che vendete, oppure...».

«Sono al corrente della situazione» affermò Guarini, sorridente. «Sto appunto andando da loro, a portare cinquanta lire in regalo. Inoltre mi sono impegnato a offrire una buona somma per l'acquisto del loro terreno, casa compresa. Nessun Giacomelli morirà di fame o andrà in rovina.»

Rosa rimase di sasso. Riccardo anche. Il conte salutò con la mano e raggiunse il suo calesse, attorniato dagli "ingegneri".

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Pagina 319

L'intraprendenza di Paride Bucci trovò conferma, se mai fosse stato necessario, pochi giorni dopo. Aveva portato a Riccardo già da tempo carte, schizzi e disegni, senza dare spiegazioni. L' azdòr aveva guardato appena il materiale. Non vi aveva capito molto.

"Sembra il progetto di un casotto" aveva detto a Peppino, incuriosito. "Una specie di nuovo forno, con una canaletta sotto."

"Il forno che abbiamo va benissimo."

"Lo sa anche Bucci. Boh, staremo a vedere."

Gli schizzi erano finiti in fondo a un armadio e nessuno vi aveva più pensato. Fino al mattino di fine novembre in cui Bucci arrivò accompagnato da due muratori e da un carretto carico di mattoni.

«Si iniziano i lavori!» annunciò allegro il fattore.

«I lavori per cosa?» chiese Riccardo. Portava calcata sulle orecchie una galozza, un berretto invernale che lo faceva somigliare a un sanculotto della Rivoluzione francese.

«Ma per la costruzione del gabinetto, no? Vi ho dato le carte da un pezzo.» Vedendo che Riccardo sembrava non capire, spiegò: «Un cesso in muratura, con un canale di scolo collegato al fosso più vicino».

«E cosa ce ne facciamo? Mica siamo un albergo.»

«È utile per l'igiene e per la salute. Non dovrete più usare le foglie, che pungono e irritano. Potrete usare la carta di giornale fatta a strisce, e poi gettarla nello scarico.»

«Dovrei spendere i miei soldi per una cosa del genere?»

«Solo la metà. Il conte ha già anticipato la somma.» Bucci serrò le labbra. «Sapete che le migliorie alla casa spetta a me deciderle.»

Ciò era inoppugnabile. I lavori durarono tre giorni appena: due per erigere le pareti e imbiancarle a calce, il terzo per installare un tetto di paglia leggermente inclinato e sollevato, per proteggere dalla pioggia e disperdere gli odori. Il risultato fu un abitacolo con un sedile in pietra che aveva un buco al centro. Alcuni cerchi di legno avvolti di stoppie assicuravano la comodità. Un sostegno di ferro battuto reggeva una brocca smaltata da riempire d'acqua.

I Minguzzi erano molto esitanti a servirsi dell'innovazione. Riccardo diede l'esempio e sbatté dietro di sé la porta di legno che chiudeva il casotto. Restò dentro un buon quarto d'ora, mentre mezza famiglia lo attendeva trepidante.

Quando uscì, emise un sospiro di soddisfazione. «È comodissimo.» Si rivolse alla moglie Giuseppina. «Quel ritratto di re Umberto che ci ha mandato il conte Guarini è ancora incartato?»

«Sì, non sapevamo dove appenderlo.»

«Lo inchioderemo alla porta del cesso. In segno di gratitudine verso la monarchia, che ha portato l'igiene nelle campagne.»

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L'ombra del padre



Canzio si imbarcò a Brindisi, sul vapore greco Sannito diretto a Patrasso, alla fine di aprile del 1897. Indossava una sgargiante camicia rossa di tela, larga per lui, e un berretto dello stesso colore. A bordo gli fu consegnato un fucile Gras, che non dava l'impressione di essere un gioiello della tecnologia militare. I garibaldini, in quella traversata, erano una cinquantina. Gli altri volontari erano inglesi, scandinavi, francesi e americani. Criticavano gli italiani per l'equipaggiamento troppo leggero.

Spazientito nell'udire quegli appunti, Gaetano Zirardini fece stramazzare un inglese sul ponte con un calcio dietro il ginocchio. Estrasse la sciabola da ufficiale. «Attento a come parli. Siamo quasi tutti romagnoli. Anche male armati, uno di noi vale dieci dei vostri.»

Fu trattenuto dai compagni mentre stava per percuotere di piatto la testa dell'inglese. Da quel momento, nessun componente della "legione straniera" osò insolentire i garibaldini.

Durante una sosta a Santa Quaranta, miserabile villaggio della costa albanese, Tanino accostò Canzio, che guardava quei luoghi per lui stupefacenti appoggiato all'impavesata.

«Dev'essere stato duro, per te, allontanarti dalla tua Isa. Lei cosa ti ha detto?»

«Ogni improperio possibile.»

«Lo stesso all'inizio ha fatto Emilia, anche se in tono garbato. Ero appena uscito di prigione che già sparivo di nuovo, malgrado una figlia piccola. Le ho detto che andare in altre parti del mondo, a difendere la libertà, è dovere di ogni rivoluzionario. Suppongo che tu abbia usato con Isa lo stesso ragionamento.»

«No. Le ho spiegato che dovevo cercare il mio babbo. Senza di lui, la nostra famiglia sarebbe incompleta. Anche dopo che sarà nato il nostro bambino.»

«Lei ha capito?»

«Sì. È una che afferra le cose al volo.»

Il vapore, ripartito, aggirò Corfù e le rocce del promontorio di Sybots. Aveva imbarcato dei turchi con turbante e con molte mogli. Canzio se ne tenne alla larga, pur contemplandoli con curiosità. Erano troppo diversi da lui, malgrado gli somigliassero nella natura di poveretti. Apparivano niente affatto bellicosi e in buoni rapporti con i greci. Non familiarizzarono troppo con i garibaldini solo perché non erano pronti a condividerne l'inclinazione alle bevande alcoliche. La capacità di berne a piena gola senza ubriacarsi troppo sancì la superiorità degli uomini di Ricciotti Garibaldi sul resto della "legione straniera".

Da Patrasso un treno malandato condusse i soldati ad Atene. Nella stazioncina in cattive condizioni sotto la collina di Colonos Agoraios una folla enorme attendeva non i volontari in genere, ma quelli con la camicia rossa. Al vederli, le ovazioni si sprecarono. Si misero in marcia cantando La rondinella di Mentana, preceduti da una grande bandiera greca.

«Qui è nata la civiltà» spiegò il leader repubblicano Antonio Fratti a Canzio che, essendo il più giovane, era benvoluto da tutti. «La forma di governo che auspichiamo ha avuto la sua culla ad Atene.»

«E com'è che la città sembra a pezzi?»

Fratti era un uomo dai modi semplici, sbarbato ma con baffi, occhialuto, un poco somigliante ad Andrea Costa. Parlava volentieri in dialetto. Nessuno avrebbe sospettato che fosse un deputato. «La Grecia è in bancarotta da tempo. Pessima casa regnante, pessimo governo, corruzione anche tra il popolino. Ma soprattutto è strangolata economicamente da due nemici mortali: l'impero ottomano e il suo potente alleato, la Germania. Assieme, grazie all'enorme superiorità militare, si spartiscono le spoglie del paese, divorandolo pezzo per pezzo. Con le armi e con la finanza.»

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Pagina 526

Il 3 maggio Scudellari e Lugaresi, su un palchetto davanti al teatro, forse non si erano aspettati che la manifestazione da loro indetta avesse un simile successo. Operai e operaie, contadini, disoccupati erano confluiti in piazza provenienti non solo da Bagnacavallo, ma dall'intero territorio comunale. Molte donne avevano portato con sé i bambini. Gli animi erano esacerbati, e lo si vedeva. La folla trasudava miseria, disperazione, rabbia. Gendarmi e soldati, premuti, respinti, si sforzavano di tenere i ranghi.

I due socialisti non riuscirono nemmeno a cominciare a parlare. Le loro voci furono sommerse da un grido ossessivo: «Pane! Pane! Pane! Pane!».

Qualcuno reclamava anche lavoro, altri cantavano Bandiera rossa. Un inno repubblicano riadattato, che superava in popolarità e in aggressività il troppo complesso Inno dei lavoratori.

Canzio, assieme alla madre, osservava la scena sulla soglia del negozio. Il fornaio di fianco aveva la porta chiusa. Certi dimostranti cominciarono a percuoterne i battenti, come se li volessero sfondare a pugni e a manate.

«Vai dentro» disse Canzio a Rosa. «C'è pericolo.»

«Che pericolo vuoi che ci sia? Sono dei poveretti come noi.»

Iniziavano a volare sassi verso i gendarmi. Scudellari e Lugaresi si sgolavano, le mani alte: «Calma, compagni, calma!». Erano scesi dal palco, che fu distrutto in un minuto. Le assi furono lanciate anch'esse contro gli agenti delle forze dell'ordine. Echeggiarono tre squilli di tromba.

«Pane! Pane! Pane! Pane!»

Si udirono d'improvviso dei colpi di fucile, una decina almeno. Canzio vide cadere due operai, e altri che cercavano di allontanarsi sorretti dai compagni. Vi furono un coro di grida e una fuga precipitosa con tanti che, per le ferite o lo spavento, inciampavano e crollavano in ginocchio. La fucileria cessò solo quando un ufficiale riuscì a imporsi ai suoi uomini.

«Chiudiamoci dentro» disse Canzio alla madre. «Adesso cominceranno i rastrellamenti.»

Non ebbe risposta e si girò a guardarla. Rosa era scivolata lungo lo stipite della bottega. Aveva perso la sommità superiore del cranio, frantumata da un proiettile. Il corpo era un fagotto imbrattato di sangue.

«Mio Dio!» gridò Isa, affacciata al piano superiore. «Mio Dio! Mio Dio!»

Canzio rimase dov'era, imbambolato, senza pensieri coerenti. Riusciva solo a stringersi il viso tra le mani.


Sei giorni più tardi, dopo il funerale (ritardato per motivi di ordine pubblico), Canzio accompagnò alla stazione Giosuè Minguzzi, venuto da Cervia per la cerimonia. Reduce da una lunga latitanza, abitava là con Carlotta, sotto falso nome, e faceva il pescatore. Erano con lui Gigino, Edvige Marzelli, un'operaia che aveva lavorato con Rosa nella filanda Ronchi, e la figlia, la giovane Maria Goia. L'eccidio di Bagnacavallo aveva avuto ampia eco sui giornali locali. Meno su quelli nazionali, offuscato dalla notizia della strage spaventosa di Milano.

Una rivolta popolare per il pane aveva messo a soqquadro la città lombarda. Barricate, scontri, tutta la cintura insorta. Era iniziata con una manifestazione degli operai della Pirelli e della Stigler, per un loro compagno ucciso a Pavia mentre affiggeva manifesti di propaganda socialista. I gendarmi, a Milano, avevano fatto fuoco sui dimostranti, attizzando la collera del proletariato. La repressione, attuata dal generale Fiorenzo Bava Beccaris con il consenso di Di Rudinì e di re Umberto I, era stata spietata. Si era sparato sugli insorti con i cannoni. Risultato: più di ottanta operai uccisi e quasi cinquecento feriti, uomini e donne. In Italia non si era visto nulla di simile dall'epoca della dominazione austriaca sul Settentrione.

Gigino Minguzzi, che prendeva lo stesso treno di Giosuè, strinse Canzio in un lungo abbraccio. «Fatti forza, camicia rossa. Sei rimasto orfano in un anno appena, ma ormai hai capito che in questo paese, per vivere del proprio lavoro, bisogna combattere.»

Anche Giosuè premette il petto di Canzio sul suo. «Non finirà così» disse, emozionato. «Non potranno ucciderci tutti. Il re si illude, come i suoi servi e i suoi carnefici.»

Era una settimana che Canzio, laconico di suo, parlava il meno possibile. Una somma di dolori lo torturava. Il saluto che rivolse a chi partiva fu di tre frasi.

«Re Umberto non merita di vivere. Spero che lo ammazzino. Voglio che chi ha fatto uccidere mia mamma la paghi.»

Fu uno sfogo non meditato e certo non conforme al "socialismo scientifico". Gli valse un bacio da Maria Goia, ultima a salire sul vagone.

Il convoglio, dissipato il fumo della locomotiva, lasciò comparire un paesaggio ameno, per chi sapeva apprezzarlo. Terre asciutte e rigogliose, alberi da frutto, poderi ben tenuti, fattorie e canali. Una ricchezza che solo la legge della diseguaglianza sapeva sprecare. Lo Stato del Re Mitraglia era troppo impegnato a uccidere chi aveva conquistato quel tesoro, per capirlo.

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