Autore Valerio Evangelisti
Titolo Il Sole dell'Avvenire: nella notte ci guidano le stelle
EdizioneMondadori, Milano, 2016, Strade blu , pag. 512, cop.fle., dim. 15x21x3,5 cm , Isbn 978-88-04-65988-4
LettoreRiccardo Terzi, 2015
Classe narrativa italiana , lavoro , storia sociale , movimenti , paesi: Italia: 1920 , paesi: Italia: 1940 , regioni: Emilia-Romagna












 

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Indice


         Parte prima — Tito

         Le orde

    11   Molti dubbi
    18   Prendersi Ferrara
    24   Terror dei comunisti
    30   Tutti proprietari
    37   Bologna a ferro e fuoco

         A poco a poco

    47   Conquista capillare
    54   Castello di carte
    60   Il giuramento
    66   Tattica e strategia
    72   Attrazione colposa

         L'assedio

    81   Judex
    87   Il chiavistello
    93   Molinella assediata
    99   Molinella ferita
   105   Arditi del popolo

         L'avanzata

   113   Vittoria
   119   Le rane scorticate
   125   Piccolo mondo
   131   Verso Ravenna
   137   Tercio de muerte

         Le mura crollano

   145   Nel trincerone
   151   Il vero nemico
   157   Sciopero legalitario
   164   Trionfo nero
   170   Amore alla finestra


         Parte seconda - Destino

         Regime

   181   Anni tranquilli
   187   I Poeti e gli Artigiani
   193   Prepotenze
   199   San Grugnone
   205   La rete clandestina

         I cospiratori

   213   Rivolta aperta
   219   Oltre confine
   225   Esuli rissosi
   231   Il cadavere gigante
   237   Signorinella pallida

         La prigioniera

   245   Bandiera grigia
   251   Spionaggio
   257   Il bartolaccio
   263   Virtù del Sangiovese
   269   La fuga

         Oltre il confine

   277   Il capitolato
   283   L'uomo di Stalin
   289   Le Ramblas
   295   La tranquillità
   301   Alle barricate

         Rosso, nero e rossonero

   309   Sangue e arena
   315   Democrazia di tipo nuovo
   321   Fratricidio
   327   Rottura
   333   Vivere in pace


         Parte terza - Soviettina

         In armi

   343   La Scansi
   349   I quarantacinque giorni
   355   Nel caos
   361   Come prima, peggio di prima
   368   L'inverno del Passatore

         Tra le montagne

   377   San Valentino
   383   Imprudenza
   389   Partigiani a cavallo
   395   Incontro ai vertici
   401   Allo sbando

         Gli invisibili

   411   L'armata dei topi e delle talpe
   417   Staffetta
   423   La rossa primavera
   429   Colpo su colpo
   435   Le trebbiatrici

         Sangue in palude

   443   Disfare la tela
   449   La corda al collo
   455   Un'altra fase
   461   L'isola degli Spinaroni
   467   Attesa e crudeltà

         Paure e speranze

   475   Maltempo
   481   L'orrore
   487   Il canto delle mondine
   493   Primi passi
   499   La Stella dell'avvenire


   507   Ringraziamenti e varie
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Pagina 11

1
Molti dubbi



Spartaco Tito Vezio Verardi – ma preferiva farsi chiamare col secondo nome, Tito – assistette al seppellimento del padre Canzio da lontano, nascosto dietro una cappella votiva. Non indossava la camicia nera, il fez, i pantaloni alla zuava e gli stivali con cui aveva partecipato all'assalto di palazzo d'Accursio. Si era messo un cappottone e aveva coperto la zazzera scompigliata con un cappello a tesa larga.

Si allontanò in fretta appena la bara venne calata nella fossa. Non voleva essere intercettato da qualche parente. Le mani in tasca, attraversò i vialetti labirintici del cimitero della Certosa, senza far caso ai monumentali sepolcri di famiglia eretti dal notabilato bolognese, amante dello sfarzo quasi più in morte che in vita.

La giornata era di un grigiore novembrino, flagellata da raffiche di pioggerella. Il clima invitava alla malinconia, ma Tito non era né triste né addolorato. Era solo confuso. Amava il padre più di quanto questi amasse lui. Li avevano divisi posizioni politiche divergenti. Canzio mezzo socialista e mezzo anarchico; Tito fascista, nazionalista, ex legionario fiumano.

In comune avevano avuto solo il carattere chiuso, asociale, tendente al mutismo e poco incline alla condiscendenza, minoritario in Romagna e tuttavia presente, specie fra i contadini. Alla componente maggioritaria dei romagnoli cordiali e chiacchieroni lo collegava una certa aggressività latente, pronta a riemergere di fronte a provocazioni più o meno gravi.

Tito attese il tram e, sceso in centro, raggiunse il suo alloggio in via Marsala. Abitava al numero 19, poco distante dal 30, in cui aveva sede il Fascio di combattimento. Incontrò sotto casa Luigi Landi, un camerata. Un piccoletto tutto nervi.

«Non ti si vede da un po'» disse Landi nello stringergli la mano. «Arpinati ha notato la tua assenza al funerale di Giulio Giordani, il martire. Non è importante, ma un ex combattente e legionario come te avrebbe dovuto esserci.»

«Ho perso un congiunto proprio in questi giorni. Dovevo partecipare alle esequie.» Tito si guardò dal fornire particolari.

«Capisco. Vieni assolutamente alla riunione di domani sera. I camerati ferraresi hanno chiesto l'appoggio dei fascisti di Bologna. Progettano un colpo riuscito come il nostro.»

«Ci sarò.»

Tito aprì il portone e scese nel sottoscala in cui abitava, un unico, grande stanzone umido, illuminato da finestrelle protette da grate poste in alto. Doveva di continuo detergere gli sputi che cadevano dalla via e rimuovere mozziconi di sigaro e sigaretta. Come odiava quei borghesi che passeggiavano oziosi in cerca del più vicino caffè, pronti a insozzare il sotterraneo in cui doveva vivere chi si era battuto per la patria!

Nell'alloggio c'erano un pagliericcio, uno scrittoio rubato durante l'assalto alla Camera del Lavoro, uno sgabello, un lavabo, un tavolo con qualche sedia e una stufa. Alle pareti, due ritratti di Gabriele D'Annunzio e una copertina di "La Testa di Ferro", il periodico degli arditi fiumani. Circolavano già fotografie di Giordani, il consigliere comunale liberale ucciso da qualcuno (un socialista? Un anarchico?) il 21 novembre. Tito, da testimone diretto, conosceva la dinamica della strage. Non voleva, con l'appendere quell'effigie al muro, farsi partecipe di un culto dalle origini tanto dubbie.

Stava mangiando una pasta e fagioli fredda in cui galleggiavano patate lesse quando qualcuno suonò alla porta. Prima di aprire accese un lume a petrolio: la corrente elettrica copriva la via ma non era ancora arrivata negli scantinati. Conosceva appena il visitatore: Mario Ghinelli, diciannovenne. Iscritto da poco al Fascio, però entusiasta.

«Salve, camerata» salutò Ghinelli. «Vengo da parte di Arpinati. Sono arrivate duecento pistole Glisenti. Chiede se ne vuoi un paio. Di proiettili ne abbiamo in abbondanza.»

Tito indicò lo sgabello dello scrittoio. «Siediti. Posso offrirti un bicchiere di vino?»

«Perché no? È un onore bere con te.»

Tito servì al giovane un vino rosso anonimo ma buono, che paradossalmente aveva comprato alla cooperativa di consumo socialista. Tornò a tavola e immerse il cucchiaio nella pasta e fagioli, più fredda che mai. «Chi ha pagato le armi?»

Ghinelli era un ragazzo biondo con la mascella brufolosa. Cercava di farsi crescere una barbetta, e peli radi e un po' ridicoli gli spuntavano dal mento. Aveva occhi fin troppo blu, che si intuivano sinceri. Pareva imbarazzato dal trovarsi nell'abitazione di un combattente decorato e dal ricevere un trattamento cordiale. Nel Fascio oltre la metà dei quadri era costituita da uomini di età inferiore a ventun anni. «Pagano industriali e agrari» rispose senza remore. «Oltre centomila lire di finanziamento. Si sono convinti, finalmente, che solo noi fascisti possiamo bloccare i bolscevichi.»

«Ciò in vista della spedizione a Ferrara?»

«Ne sei già al corrente? Sì, certo. Domani sera se ne parlerà in riunione. Aspettiamo un pretesto per prenderci Ferrara come abbiamo preso Bologna. Prefetti e questori sono con noi. La stessa trafila. Incidenti, commissariamento della giunta – nel Ferrarese quella provinciale e parte di quella comunale sono bolsceviche –, espulsione dei consiglieri socialisti, proibizione delle bandiere rosse. Pian piano ci prendiamo l'Italia.»

Tito abbassò le palpebre. Ripeté quello che aveva già detto ad Arpinati, a muso duro. «Non mi piace la svolta che sta prendendo il Fascio. Aderiscono cattolici, monarchici, esponenti putridi del liberalismo. Ora mi dici che agrari e industriali ci pagano le armi. Io mi ero unito a un movimento rivoluzionario, repubblicano e anticlericale, deciso a spazzare via, assieme alla canaglia socialista, la borghesia antipatriottica e speculatrice, non a fare gli interessi di grassoni più obesi dei loro gatti.»

«Quello resta il fine. Arpinati dice che conviene affrontare un nemico alla volta. Adesso è il turno del Pus.» Il "Pus" era, secondo "Il Popolo d'Italia" e l'intera stampa fascista, il Partito socialista italiano.

«Prendere i soldi dal padronato non è una buona mossa.»

«Chi ci finanzia, sennò? Al momento giusto i parassiti si accorgeranno di avere fatto un pessimo investimento.»

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4
Tutti proprietari



Fu lo stesso giorno in cui aveva deciso di andare a trovare sua madre Isa, non senza remore, che Tito lesse un abbozzo del programma economico fascista per le campagne. Fino a quel momento era consistito nel solo slogan: "La terra a chi la lavora e a chi sa fecondarla", che era echeggiato fin dal tempo di guerra. Troppo generico. Adesso veniva precisato.

Erano le 18.30 e si trovava nella sede del Fascio di combattimento, in via Marsala. I ritratti di D'Annunzio erano spariti, sostituiti da fotografie di Benito Mussolini, ormai definito "il Duce". Una grande stufa mitigava il freddo intenso dell'esterno. Il camerata Arconovaldo Bonaccorsi serviva il caffè via via che una napoletana lo sputacchiava.

Bonaccorsi era un bel tipo, dal faccione largo e dal temperamento artistico. Ex repubblicano interventista, dopo il servizio militare aveva fatto la guardia al giornale di Mussolini. Più volte arrestato per le sue intemperanze, in carcere aveva potuto coltivare la sua passione: comporre canzoni e stornelli a sfondo patriottico. Usava cantarli con voce baritonale, prima e dopo le riunioni, quando si alzava il tenore alcolico. La qualità dei testi era dubbia, ma la foga suppliva.

Tito, sfogliato "Il Popolo d'Italia", gettò un'occhiata a "Il Balilla", organo appena nato del Fascio di Ferrara. In piedi, si appoggiava con i gomiti al bancone. «Fantasio scrive cose interessanti. Chi sarebbe?»

«Il suo vero nome è Italo Balbo» spiegò Bonaccorsi. «Un tipo in gamba, ex repubblicano come me. L'uomo che mancava ai camerati ferraresi. Preparazione militare, carattere deciso.»

«Non so se ha scritto lui l'articolo di fianco a quello firmato Fantasio. Parla di una distribuzione di appezzamenti, in proprietà o in affitto, ai contadini che abbandoneranno le Leghe rosse per passare al sindacato fascista. Ne sai qualcosa?»

«Oh, sì. È stato raggiunto un accordo con l'Agraria. I grossi proprietari cederanno ai contadini e ai braccianti parte dei loro terreni, a patto che spariscano gli uffici di collocamento dei rossi e l'imponibile di manodopera. Sai, quella faccenda assurda per cui un padrone è costretto ad assumere un operaio ogni cinque ettari e a farlo lavorare per sei mesi.»

«Bel colpo» commentò Tito.

«Bel colpo sì. Lascia i socialisti in braghe di tela. Spero che nelle nostre campagne si faccia la stessa cosa.»

Tito pensò che i braccianti del Bolognese erano troppi perché ci fosse abbastanza terra per ciascuno di loro. Non si soffermò su quel ragionamento. Adesso doveva occuparsi di cose più importanti.

Finì il caffè e uscì in strada. Si diresse verso via San Vitale (ex via Liebknecht, ex via Spartaco) dove, al numero 13, abitava sua madre. L'edificio era stato una specie di fortilizio, dove Canzio aveva concentrato un bel po' di parenti vicini e lontani. Alla sua morte, però, la compagine si era dispersa. Quasi tutti, spaventati dal nuovo clima politico, erano ripartiti per la Romagna da cui provenivano.

Dai manifesti affissi a muri e colonne era quasi completamente sparita la propaganda socialista, che appena un mese prima rigurgitava. I rossi avevano paura e si vedeva. Invece erano numerose le affissioni non solo del Fascio, ma anche dell'Associazione combattenti, dei legionari fiumani, di società di commercianti, impiegati pubblici e industriali inebriati dall'aria diversa che si respirava. Uscivano dall'incubo di una rivoluzione sempre minacciata, ormai rimasta solo nei titoli incandescenti dei fogli sovversivi.

Il palazzo labirintico di via San Vitale 13 era divenuto spettrale e aveva il portone spalancato. L'illuminazione all'esterno scarseggiava. Le conseguenze della guerra si risentivano più adesso che nei due anni seguiti al conflitto. L'economia stentava a riprendersi, le risorse dei municipi erano agli sgoccioli. Quello di Bologna, poi, aveva un destino particolarmente incerto. Si illuminavano i quadrivi, mentre le singole strade rimanevano quasi al buio, con un lampione ogni tanto.

Per fortuna Isa abitava in un appartamento al primo piano. Fu facile arrivarvi. Tito bussò alla porta con il cuore in gola. Gli fu aperto subito.

La madre spalancò gli occhi. Aveva lineamenti sciupati e dimostrava molto più della sua età. I capelli le si erano imbiancati, tremava vistosamente. «Spartaco!» esclamò.

Tito non era più abituato a essere chiamato con il suo nome vero. «Sì, mamma. Sono io.»

Fece per abbracciarla, ma fu respinto da una mano ossuta dalla pelle grinzosa, ricoperta da reticoli di vene sporgenti. «Stammi alla larga. Hai ucciso tuo padre. Cosa vieni a fare qui?»

«Mamma, il babbo è stato ammazzato dai socialisti. Lo sai meglio di me.»

«Siete voi fascisti che avete scatenato la violenza. C'ero anch'io, cosa credi? Ora vattene. Non ti considero figlio mio. Sei un parricida, mi fai schifo.»

Tito chinò la testa. «Mamma, ascoltami, ti prego. Sono il tuo Spartaco, non ci vediamo da anni. Prova a sentire le mie ragioni. Basterà qualche minuto. Non ti chiedo di più.»

Isa, pensosa, esitò a lungo. Infine si fece da parte. «Entra. Qui proliferano gli scarafaggi. Posso accettare anche te.»

Tito si accomodò su un divano, in posizione raccolta, le mani giunte fra le gambe. L'ambiente, per quanto in completo disordine, era ospitale. Qualche poltroncina, un tavolo lungo dal piano di vetro, un caminetto acceso con ninnoli vari allineati sul bordo. La tappezzeria appariva molto usurata ma conservava tracce di colore. Sulle pareti, piatti celebrativi in ceramica imolese che ricordavano il trionfo del sistema ferroviario affiancavano ritratti di Andrea Costa, Bakunin, Malatesta, Cipriani e Serrati (Canzio era stato eclettico nelle scelte politiche), allineati attorno a quello, molto più grande, di un Garibaldi vecchio ma ancora fiero.

«Andreina, è pronta la polenta?» chiese Isa, rivolta alla cucina.

«Sì, l'ho già scodellata sul tagliere» rispose la voce di una donna anziana, che faticava ad articolare le parole.

«Fanne tre parti e aggiungi un'aringa. C'è qua tuo nipote Spartaco.»

«Ma io non ho nipoti!»

«Non si ricorda di me» osservò Tito. «Ci siamo visti troppo di rado.»

«Non è questo» disse Isa mentre stendeva sul vetro una tovaglia presa da un cassetto della credenza e disponeva stoviglie e posate. Si toccò la tempia. «È un po' svanita. Quando ti vedrà, forse le tornerà la memoria. Hai ucciso mio marito, tuo padre. Le verrà in mente chi sei. Sicuro.»

«Mamma, io non ho ucciso nessuno! Meno che mai il babbo!» Tito era angosciato. «Gli volevo bene! Sono i suoi stessi compagni che gli hanno tirato una bomba!»

«E tu eri là in piazza per caso? Bada che ti ho visto con la rivoltella in mano. Uno dei fascisti. Ora ti servirò la polenta. In qualche modo sei figlio mio e hai diritto anche all'aringa, con quello che costano. Spero solo che ti vada di traverso.»

L'inizio della cena fu triste, a dir poco. Andreina, quando vide l'ospite, disse: «Nipote mio quello? Non ci credo. L'ha una faza ed quaiòn!».

Per molto tempo nessuno parlò. La polenta era ottima, l'aringa fresca. Le fette, solide e rettangolari, erano innaffiate di pomodoro. Si beveva un Lambrusco calmo, qualità Salamino, proveniente dal Reggiano.

Dopo un bel numero di bocconi, Tito osò dire la sua. «Mamma, i fascisti non sono come pensi. Non nego che ci siano dei delinquenti, in mezzo, ma la maggior parte sono idealisti. Hanno dei valori. La patria da riscattare contro le prepotenze dei poteri stranieri. La fine delle violenze bolsceviche. Un socialismo adatto ai tempi, fedele agli ideali che lo ispirarono, quando erano incontaminati. Un fine di progresso generale e di affermazione dell'Italia, nazione degna del suo passato imperiale.»

«Sì, continua pure a blaterare» ribatté la madre. «Tanto, chi ti ascolta? Solo tu sei convinto che i fascisti abbiano un animo socialista, se ci credi davvero. Che cosa fanno nelle campagne? Bruciano le Camere del Lavoro, le sedi delle Leghe di resistenza. Annullano i patti già stipulati. Picchiano e a volte ammazzano i capilega, come in provincia di Ferrara.»

«Mamma, pensa a cosa facevano i rossi nel Ferrarese: scioperi continui, incendi, boicottaggi. Del resto, anche tu eri critica verso la piega che stava prendendo il socialismo. Ricordo i tuoi litigi con il babbo.»

Isa si irrigidì. «Se la polenta non si fosse intiepidita, te la tirerei in faccia.»

«Meglio di no» intervenne Andreina. «Quella che avanza può essere fritta e resta buona a lungo. È ottima con lo squacquerone.»

Isa accennò un sorriso involontario. «D'accordo, Andreina, non gliela tirerò. Mangia senza paura.» Strinse le labbra e fissò il figlio. «Ascoltami bene. Le mie liti con tuo padre avevano tutte una motivazione. Si discuteva sul modo migliore per aiutare il popolo a emanciparsi. Lui credeva nella rivoluzione, io no. Nulla a che vedere con un branco di sanguinari che distruggono quello che il proletariato ha conquistato in cinquant'anni.»

«Mamma, ti sbagli. Il castello di carte del socialismo sta cadendo da solo. Si era edificato sulla prepotenza e l'imposizione. I fascisti si limitano a dare una spintarella.»

«Fatta di omicidi e bastonature. Finanziata dai padroni di sempre.»

«Nessuno ci finanzia, salvo la gente onesta.» Tito sapeva che non era precisamente la verità ma non poteva dire altro. La sua dissidenza dal Fascio era una questione interna, da non divulgare.

«Chi credi di prendere in giro? Qui a Bologna le fabbriche chiudono a una a una e licenziano gli operai. Quando riaprono, riassumono solo quelli non iscritti al sindacato, oppure di nota fede fascista. Li fanno venire da tutto il Nord Italia. La polizia protegge i crumiri e dà addosso ai socialisti. Prova a negarlo.»

«Non sono gli industriali a far crescere il fascismo. È la situazione.»

«Se lo pensi davvero, vuol dire che non leggi "Il Resto del Carlino". I capitani d'industria, un tempo liberali, difendono i mussoliniani. Li esortano, anzi, a essere più aggressivi. Lo stesso fanno i clericali de "L'Avvenire d'Italia".»

«Vogliono farla finita con la tirannide socialista. Ma è l'unico contatto con il Fascio.»

«A parte i quattrini.»

«Una forza politica che nasce prende i soldi da dove vengono. Io non sono molto d'accordo, mamma, però è così che vanno le cose.»

Isa assunse il cipiglio che aveva spaventato persino Canzio durante i loro frequenti litigi. «La smetti di chiamarmi "mamma", tabàc ed mérda? Per me sei solo uno degli uccisori di mio marito, l'uomo che ho amato. Ti ho rimpinzato di polenta e aringa. Era mio dovere. Adesso alzati e prendi la porta. Non ti voglio rivedere mai più.»

«Ma sei mia madre!» protestò Tito, con un groppo in gola. «E dobbiamo ancora discutere della ripartizione dell'eredità!»

«Prenditi tutto. Eri socio di Canzio, dunque ti spetta la sua officina. Il resto dei beni te lo lascio. Mandami il tuo notaio. Anche senza casa me la caverò. L'importante è che io non veda più le tue mani sporche di sangue.»

«Mamma, non sai ciò che dici!»

Isa si rivolse ad Andreina. «Abbiamo ancora un po' di polenta bollente?»

«Era fritta. È rimasto dell'olio nella padella.»

«Prendilo e versalo sulla testa di questo degenerato. Si pretende figlio mio, ma non lo è più. Che provi sulla sua pelle una doccia di socialismo riformista.»

Prima che la minaccia fosse attuata, Tito era già in strada. Soffocato dal dolore e dalla confusione, in un gelo che contribuiva a stordirlo. Dovette appoggiarsi alle colonne dei portici per arrivare fino a casa.

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Un carabiniere sparò in alto un colpo di avvertimento, imitato da altri. Non poterono abbassare la mira perché un bracciante sparò a sua volta con una doppietta. Impossibile dire in quanti erano armati, ma sembravano parecchi. I carabinieri non si aspettavano niente di simile. Tirarono a casaccio, senza colpire nessuno, poi arretrarono in maniera disordinata.

Destino decise che aveva visto abbastanza. Tornò sul suo camion, lo rimise in moto e, percorrendo stradine in cui passava appena, abbandonò la città. Il mezzo, pur sbandando spaventosamente, lo assecondò, gemendo per la velocità troppo elevata.

Durante il viaggio pensò ai conflitti di lavoro di cui aveva avuto notizia negli ultimi anni. Nel 1927 c'erano stati scioperi e possenti manifestazioni di braccianti e disoccupati a Migliarino e nel resto del Ferrarese, nel Parmense e nel Modenese. A Ravenna, dopo una riduzione di salario, avevano sospeso il lavoro le cinquecentotrenta operaie dello Jutificio romagnolo. Il sindacato fascista e la direzione, di comune accordo, ne avevano licenziate dieci, scelte fra le più indisciplinate. L'agitazione era proseguita fino alla loro riassunzione.

Sempre a Ravenna gli operai agricoli erano sfilati con le tasche rovesciate, cantando Giovinezza a mo' di irrisione. L'anno dopo, il 1928, era stato anche peggiore per le autorità. Molinella non si lasciava domare, malgrado le epurazioni. La maggior parte dei confinati era emiliano-romagnola. Nel Bolognese era nato lo slogan "Pane e lavoro", così popolare. Scritto sui muri, urlato nei cortei.

E adesso la sparatoria di Faenza. Non era visibile una regia politica, in quei sintomi ripetuti di insofferenza al regime. Ogni tanto appariva sui muri il disegno della falce e del martello. Ma i socialisti non c'erano più. I comunisti e gli anarchici magari c'erano, ma la loro clandestinità non permetteva una presenza pubblica.

Giunto al podere verso sera, Destino raccontò ciò che aveva visto ai "figli" di Dora riuniti a tavola. «Nemmeno sotto Giolitti i braccianti sparavano ai carabinieri.»

Cincin si strinse nelle spalle. «Nessun giornale riporterà la notizia. Ci giurerei. Così, tra qualche decennio, un coglione di storico potrà scrivere che il consenso al fascismo era totale.»

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55
L'inverno del Passatore



Il durissimo inverno, che nel 1943 il freddo anticipò ai primi di novembre, fu di sofferenza e di tristezza. Gli Alleati occupavano il Sud della penisola ma erano ben lontani dalla capitale. Il governo monarchico era il simbolo stesso dell'impotenza e della vergogna. La repubblica di Mussolini prendeva forma, lentamente ma inesorabilmente, sotto il ferreo controllo germanico.

Il potere dell'armata di Hitler e la debolezza delle autorità locali furono resi evidenti da scelte che aggiunsero tragedia a tragedia. Fin da ottobre, i prefetti avevano richiesto manodopera volontaria. Non si trattava degli operai dell'Organizzazione Todt, reclutati ogni tanto e impegnati nella costruzione di fortificazioni sul territorio nazionale (la "linea gotica", di cui Max Emiliani aveva casualmente trovato i progetti durante una delle sue scorribande). Erano lavoratori da inviare in Germania, con compiti da manovale generico.

Si contava, vista la disoccupazione e il gran numero di sfollati, di reclutarne almeno quindicimila. In realtà i volontari furono nove in tutta la Romagna. Allora si passò all'uso della forza. Chi, in età idonea al servizio militare (furono chiamate alle armi anche le classi 1924-25), veniva scovato renitente era arruolato con la violenza e caricato sui vagoni merci di treni affollatissimi, diretti al Brennero. Un compito, quello dei sequestri di persona in massa, che i tedeschi affidavano ai fascisti italiani, zelanti nell'eseguirlo.

Tina, di sua volontà, si recò spesso a Faenza e a Forlì per intercettare treni di quel tipo. Portava pagnottelle fatte da Dora con la poca farina che aveva e raccoglieva i bigliettini dei deportati, che cadevano dalle grate dei vagoni bestiame. Se l'indirizzo era intelligibile, li spediva alle famiglie.

Una volta incappò in un convoglio carico di ebrei, in transito per la Germania e chissà quali altre destinazioni. I messaggi che raccolse erano più brevi ma molto più disperati: "In viaggio da tre giorni senza mangiare né bere"; "Già cinque morti che nessuno porta via"; "Addio a tutti".

Non riuscì nemmeno a passare le pagnottine perché intervennero soldati tedeschi, che imprecavano nella loro lingua. Con loro c'erano due o tre militi delle SS italiane, altrettanto bercianti. L'unica frase che colse, prima di scappare, fu: «Vattene, troia! Ti verremo a trovare presto!».

Quando Pistinega, ormai fidanzato ufficiale, venne a conoscenza dell'episodio, disse, nello stile conciso che gli era proprio: «Bei patrioti, i fascisti. Catturano i poveracci per consegnarli a Hitler. Se c'è giustizia, un giorno li accopperemo dal primo all'ultimo».

«E gli Alleati? Sono migliori?» obiettò Narda, per spirito di contraddizione. «Tre giorni fa hanno bombardato Rimini per ore. Scaricavano i loro ordigni sui civili, non sugli obiettivi militari. Hanno quasi distrutto l'intera città. Di noi se ne fregano, questa è la verità. E hai sentito i racconti degli sfollati del Meridione? Hanno più paura dei marocchini che dei nazisti. Violentano ogni donna italiana che trovano, dalla bambina alla vecchia. Gli ufficiali francesi lasciano fare.»

Pistinega scosse il capo. «Ci si allea con chi ti serve. Questa è una resa di conti fra italiani. Tedeschi, americani, inglesi e francesi non lo capiranno mai. È una lotta iniziata più di vent'anni fa. E prosegue.»

Pistinega non venne compreso da nessuno. Non gli importava. Aveva deciso, vista la situazione e il suo rapporto con Tina, di non tornare a Conselice e di rimanere nel Faentino, tra Modigliana, Tredozio e la Toscana, anche se non a carico di Dora, che non poteva permettersi di assumere dipendenti. Qualche famiglia facoltosa chiedeva falegnami, che scarseggiavano. Viveva di quello. Aveva incarichi, a termine ma frequenti, presso i Valensin, notabili in odore di antifascismo proprietari di alcune tenute.

La zona gli piaceva, non solo per l'aria buona e per il paesaggio, prima collinare e poi montuoso. C'erano meno nazisti, i fascisti sembravano vulnerabili, i partigiani moltiplicavano l'audacia delle loro imprese.

Una delle più clamorose avvenne lontano, a Massa Lombarda, il 4 novembre. Se ne ebbe notizia dopo. Pistinega la narrò così a Tina, mentre amoreggiavano in un fienile. «Hai presente il "camion fantasma" di cui parlano tutti? Quello che scompare e poi riappare in ogni luogo?»

«Certo.»

«Ebbene, giorni fa è arrivato a Massa Lombarda, sotto forma di camioncino. Sembra che i partigiani volessero vendicare un certo Fagnocchi, comunista, ucciso dai fascisti a Faenza. La sala del cinema del paese, alle undici di sera, era gremita. Il film stava per finire quando sul palco appaiono Max Emiliani, Silvio Corbari e altri due della loro banda armati di moschetto e di pistole. Emiliani ingiunge ai fascisti presenti di farsi riconoscere.»

«Cosa è successo?»

«L'imprevisto. Gli spettatori si alzano in piedi e applaudono i partigiani, gridano invettive contro il fascismo, lanciano "urrà" alla Resistenza. Emiliani e gli altri rimangono sorpresi. Ringraziano e se ne vanno, senza uccidere nessuno, soddisfatti di avere ripetuto, in piccolo, le gesta del Passatore.»

«Sono degli incoscienti. Corrono rischi enormi.»

«Io direi che sono sì spacconi, ma anche coraggiosi. Dopo Massa Lombarda assaltano a colpi di bombe a mano la caserma dei carabinieri di Conselice. Quindi vagano in cerca di qualcosa da mangiare, col camioncino e una Fiat Topolino rubata. Vedono illuminata la villa del dottor Avoni, vicino a Medicina. Fingono di essere del Fascio a caccia di imprecisati "comunisti". Si mettono a tavola e si fanno servire del prosciutto. Sono circa le due di notte.»

Tina sospirò. «Di prosciutto non ne vedo da anni.»

«Aspetta che ti finisco la storia. Il dottore riesce a mandare un garzone ad avvertire i carabinieri. Arrivano un maresciallo, un vicebrigadiere e una guardia comunale, a cui si aggiunge un nipote del dottor Avoni, che impugna una rivoltella. Fanno irruzione, con le armi spianate, mentre i partigiani si sono fatti portare una seconda razione di prosciutto. Il maresciallo intima alla banda di identificarsi. Corbari risponde, calmo: "Prima finiamo di mangiare", e così fa. Le forze dell'ordine restano sconcertate. Di scatto, dopo l'ultimo boccone, i ribelli si alzano con le pistole in pugno. Il maresciallo balbetta: "Fermi! Siamo militi dell'Italia repubblicana!". Corbari replica: "E noi siamo comunisti!". Inizia una sparatoria. I carabinieri, la guardia e il nipote del dottore restano uccisi. I partigiani hanno due feriti. Li caricano sulla Topolino e spariscono nella nebbia.»

Tina rimase ammirata non dalla vicenda in sé, ma dalla maniera in cui Pistinega l'aveva narrata. Le aveva fatto trattenere il fiato. «Parli poco, ma quando lo fai sei meglio di Fosco Giachetti.»

«Adesso parlerò meno. Chiudi gli occhi e alza la stanèla.»

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Partigiani a cavallo



I ribelli scesero di sella. Iris si mise lo Sten al collo e cominciò a portare i cavalli, due alla volta, in una stalla vicina. Corbari si piazzò a gambe larghe davanti alla chiesa. Si accese una sigaretta. Al suo fianco si mise Pistinega, con la bandiera rossa. Aveva visto Tina e l'aveva salutata con la punta delle dita. Lei aveva risposto timidamente.

Corbari si prese il tempo di un paio di boccate, poi esordì: «Cittadini di Tredozio, se siete venuti a messa è perché siete cristiani. Che cos'è il comunismo? È il cristianesimo realizzato. Che nessuno sfrutti più un suo simile e lo costringa a lavorare per lui. Oggi quanto vi resta in tasca di ciò che producete? Poco, pochissimo. L'agrario, il padrone vi danno appena di che vivere e si appropriano del resto. Vendono il prodotto del vostro lavoro e vi lasciano le briciole. L'unica soluzione è...». Corbari chiese sottovoce, a un altro partigiano: «Com'è che dice Celli?».

Quello rispose, a voce altrettanto bassa: «L'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione».

«... l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Niente più capitalisti e agrari succhioni. La terra ripartita secondo i bisogni delle famiglie, le attività industriali gestite dagli operai in prima persona. Chi lavora mangi, chi non lavora no. Dico bene?»

Dalla piccola massa intirizzita giunsero cenni di consenso e qualche applauso. Un vecchio intabarrato nella tapparella mosse un'obiezione. «I giornali dicono che in Russia, dove si fa come dite voi, si muore di fame.»

Corbari gettò lontano la sigaretta che, fumata nervosamente, cominciava a scottargli indice e medio. «I giornali dicono quel che vogliono, legati come sono al fascismo. È da quando è nata che la Russia socialista è sotto attacco. Mai un attimo di tregua, in quasi trent'anni. Adesso ha subito l'invasione degli eserciti di Hitler e Mussolini. La sta respingendo, con uno sforzo eroico. Se il suo popolo fosse così oppresso, non reagirebbe con tanta convinzione. Ma adesso il nostro problema è un altro, anche se il comunismo resta il fine ultimo.»

Corbari fece una pausa studiata. Oratore un po' approssimativo, sapeva comunque tenere desta l'attenzione. Da ragazzo aveva recitato nel teatro dell'oratorio. Probabilmente la sua passione per i travestimenti veniva da quell'esperienza.

«Cittadini di Tredozio! Compagni! Oggi il compito principale è combattere i fascisti e i tedeschi che ci hanno invaso. Mussolini fa ogni tipo di promesse, ma qual è il risultato? Una guerra ormai perduta. Giovani reclutati a forza, con la minaccia di essere fucilati se non si presentano. Lavoratori sequestrati e spediti in Germania su carri merci. Bestiame da consegnare obbligatoriamente ai nazisti, un capo su due. Cereali da portare all'ammasso. Uccisioni qua e là, per dare una lezione. Tessere annonarie buone per affamare. Questa è la cosiddetta "Repubblica sociale italiana". "Sociale" un accidente. A voi piace?»

Si alzò un "no" collettivo e convinto.

«Allora vi dico che i partigiani, in lotta da mesi, oggi prendono possesso di Tredozio. Sarà in vigore la legge partigiana. Nessuna requie per fascisti e nazisti. Giustizia per i poveri e i perseguitati. E adesso andate pure a messa, pregate per chi si batte per voi. Senza timore di rappresaglie future. Non ce ne saranno. Parola di Silvio Corbari.»

Scoppiò un applauso veramente fragoroso.

Mentre i popolani entravano in chiesa e i partigiani si disperdevano in ogni direzione, Pistinega, affidata la bandiera a un compagno, raggiunse Tina. «Che ne dici?» le domandò, eccitato. «Questa è la prima zona liberata d'Italia.»

«Dico che siete matti» rispose Tina. Indicò Corbari, in fondo alla strada. «E quello là è il più matto di tutti. Non sapete che pericolo correte.»

«Pericolo? Con pochi spari abbiamo occupato la caserma dei carabinieri e della GNR. Adesso stiamo prendendo il controllo delle vie d'accesso al paese. Il commissario prefettizio, Iacopo Vespignani, non ci è affatto ostile. Corbari sta andando da lui a stringere accordi. In pratica, qui governiamo noi.»

«Ma siete in quindici!»

«Sì, ma coraggiosi, in tempi di vigliaccheria. Non mi merito un bacio per questo?»

Dopo una finta esitazione, Tina baciò l'amato con passione, per poi tornare severa. «E se arrivano i tedeschi?»

«Stai calmina. I partigiani di Celli sono a Ca' Morelli e vigilano anche loro. Se ci sarà da combattere, combatteremo. Le armi le abbiamo. Ma tu come mai sei qua? Solo per vedermi?»

«Reglio è tornato. È giù al podere. Vuole un colloquio con Corbari. A nome della 28' brigata GAP.»

«Lo riferirò a Silvio. Adesso bisogna che vada. Dobbiamo svuotare l'ammasso e restituire il grano al popolo. Inoltre c'è da mettere una tassa sui ricconi legati al Fascio. Tu resti qua?»

«Volevo andare a messa. E vedere con te, al Dopolavoro, il film Fric-Frac. Dev'essere divertente.»

«Senz'altro. Ci troviamo davanti al cinema alle otto.»

«Non c'è il coprifuoco?»

Pistinega sorrise. «Già prima non era rispettato. Adesso è cosa dimenticata.»

Tina seguì la parte finale della messa e andò a trovare alcune famiglie che conosceva. I viveri scarseggiavano, ma nella zona molti erano cacciatori e si erano guardati dal consegnare le carabine. A casa Spazzoli le offrirono lepre in umido, che mangiò con degli sfollati da Bologna. Le parlarono dei disastrosi bombardamenti alleati sulla città, frequenti e crudeli. Il centro era un ammasso di rovine. Del palazzo della Mercanzia restava un mozzicone. Le due torri avevano retto per miracolo.

Alle venti in punto fu davanti al cinema. Pistinega era già là. Pagò per due ed entrarono. La sala era piena.

Non vi furono i consueti cinegiornali dell'Istituto Luce, che spacciavano le sconfitte per una sequela di vittorie. Invece, prima del film, i lampadari si accesero e Corbari camminò sotto lo schermo, bello come non mai, il mitra in spalla. Pareva quasi un damerino nella sua sahariana. Contrariamente agli usi maschili, aveva pettinato i capelli in avanti, per coprire con un ciuffo assai rado la calvizie incombente. «Signori» disse, in buon italiano ma con accento dialettale «non voglio rovinarvi lo spettacolo. Credo che i tempi nuovi, che a Tredozio cominciano oggi, vadano salutati anche al cinematografo. Vi prego dunque di alzarvi in piedi per cantare assieme L'Internazionale. L'inno della società che viene.»

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Attesa e crudeltà



Tina fu felice di potersi liberare dalle zanzare per intere giornate. In autunno inoltrato il tempo era variabile e bizzoso. Un bel sole occasionale si alternava a scrosci di pioggia e a cieli nuvolosi. Un peggioramento era in vista. A cominciare dal tardo pomeriggio faceva freddo.

Aveva con sé un falso documento tedesco che l'autorizzava a percorrere in bicicletta zone in cui quel veicolo era proibito. Non ci fu mai bisogno di esibirlo. Il suo aspetto un po' bambinesco ispirava fiducia.

I suoi primi incarichi, del resto, furono a breve raggio. Doveva portare missive a Ravenna, che trovò devastata dai bombardamenti. Parte della cattedrale era crollata, e molte vie del centro erano ingombre di macerie. I tedeschi imperversavano ovunque, GNR e Brigate nere anche. Manifesti minacciosi a colori vividi, rimasti dopo la campagna estiva contro le trebbiatrici, promettevano morte ai sabotatori.

Tina pedalava con apparente noncuranza tra le rovine. Bussava o suonava a porticine, consegnava in fretta i messaggi a chi veniva ad aprire e, senza indagare su cosa ci fosse dietro la facciata, filava via.

Il percorso più lungo, in quel periodo, fu fino a Madonna dell'Albero. Fu anche l'impresa più difficile. Doveva consegnare ai partigiani del luogo un pacco, forse di giornali.

Lo aveva legato sotto il sedere, schiacciato sul sellino e coperto dalla gonna. L'equilibrio era precario, e cadde rovinosamente davanti a un'abitazione di contadini.

Si sentì sollevare da una mano robusta.

«Ragazòla, ti sei fatta male?» le domandò un uomo baffuto, sulla cinquantina.

«No, sono a posto, grazie.» Tina si alzò e controllò le condizioni della bicicletta. Sembrava intatta. Così la corda che le serrava il pacchetto al didietro.

«Vieni almeno in casa. Mangi una fetta di salame e bevi un bicchiere di vino. Dopo sarai più in forze.»

«Non occorre. Mi sento bene. La ruota deve avere urtato un sasso.»

Intanto era sopraggiunta la moglie del contadino. «Tanto bene non deve stare, povera figlia. Guarda, le si è gonfiato il culo.»

«Non è niente, signora, non è niente.»

L'uomo si arrese. L'aiutò a raddrizzare il ciclo e a rimontarvi, un'operazione che risultò assai laboriosa. «Non dovresti andare in giro così» le disse. «È pieno di tedeschi, che sono cattivi.»

«E di partigiani, che sono più cattivi ancora» aggiunse la moglie.

Tina, che aveva già inforcato un pedale, si girò a guardarla. «Perché dite così?»

«Hanno catturato il tenente colonnello che presiedeva il distretto di Ravenna. Lo hanno legato a uno dei cavalletti su cui si segano i tronchi e gli hanno segato la gola.»

Il marito sbuffò. «Aveva fatto fucilare come disertori dei ragazzi piangenti, che da quattro giorni non tornavano in caserma. Il plotone d'esecuzione non osava fare fuoco, poi ha sparato in aria. Sono stati accoppati a uno a uno mentre imploravano pietà.»

«I partigiani hanno ucciso il sergente maggiore Andrea Bogi assieme alla fidanzata, che non c'entrava nulla.»

«Bogi detto "La bela sigaréra". Era proprio il comandante del plotone. Quando i giovani hanno cercato di scappare in ginocchio, con le mani legate, li ha raggiunti bestemmiando e li ha ammazzati con un colpo alla nuca. Moglie, quando accade qualcosa, una causa c'è sempre.»

Tina si allontanò. Di presunte atrocità attribuite ai partigiani ne aveva udite, e non si trattava solo di voci diffuse dai fascisti o dai giornali che li sostenevano, come "Il Resto del Carlino" o "Il Corriere della Sera"; due testate destinate a sparire dopo la liberazione, asseriva la stampa clandestina.

All'isola degli Spinaroni capitavano prigionieri catturati in azione, tra soldati, ufficiali e funzionari della Repubblica sociale. Erano sottoposti a processo, con un "avvocato" difensore, uno studente in giurisprudenza di nome Assirelli.

Questi faceva del suo meglio per interpretare il ruolo, ma le condanne a morte, pronunciate dai commissari politici (tra cui Reglio), prevalevano largamente. Sull'isola si fucilava con facilità. Si salvavano alcuni soldati semplici e militi stranieri, tedeschi compresi.

Mica tutti erano nazisti. C'erano stati casi in cui militari della Wehrmacht avevano lasciato scappare prigionieri, salutandoli con il pugno chiuso ed esclamando "Rote Front!". Rischiavano la vita.

Erano eroi destinati all'anonimato. Sia il regime hitleriano sia la propaganda alleata negavano l'esistenza di una Resistenza tedesca, che pure c'era. Il peccato originale che impediva di considerarla era l'orientamento comunista dei suoi appartenenti.

Molto severa era la giustizia partigiana verso le spie. Forse non tutte quelle uccise lo erano veramente, oppure avevano colpe minori. In questo campo regnava la paura sfrenata per il pericolo più insidioso. Nel dubbio si colpiva. Si trattava di "atrocità"? Tina sapeva che i partigiani non attuavano stragi indifferenziate di civili, di ogni sesso ed età. Nazisti e fascisti sì.

Non era una differenza di poco conto. Atroce era che si sterminasse quasi a caso, in nome di una repubblica inesistente e sociale solo di nome, di una supremazia germanica, di una superiorità razziale o della semplice legge del più forte, camuffata da filosofia universale. Per non parlare degli ebrei, uccisi o deportati per diritto di nascita, a prescindere dall'età.

Chiaramente le obiezioni mentali di Tina alle affermazioni della contadina erano più nebulose e intuitive, ma la sostanza era quella. Portò a termine il suo compito e tornò alla base, con il sedere alleggerito. Ma voleva di più. Rivedere i suoi cari.

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L'orrore



Tina fu ammanettata e spinta su un camion, che partì sotto la pioggia tra continue sbandate. Intanto suonava, su Faenza, l'allarme per l'ennesimo attacco aereo. Fasullo, come spesso accadeva. L'autocarro non si fermò.

Gli altri prigionieri erano in prevalenza contadine e contadini, tra cui giovani disertori. Una donna domandò a uno dei due brigatisti neri di guardia se li stessero portando in Germania. Fu messa a tacere con uno schiaffo. La destinazione autentica era Portomaggiore, in provincia di Ferrara. Nella città estense i fascisti avevano trasferito la ex prefettura con giurisdizione sulla Romagna, come se fossero consapevoli dell'imminente crollo della linea gotica. Ed era probabile che lo fossero.

I detenuti non potevano parlare, pena percosse affibbiate con le mani o con la canna dei moschetti. Il viaggio però era lungo, e i guardiani conversavano tra loro, in dialetto.

«Ieri abbiamo ammazzato Romeo Piccinini, soprannominato "Zampò". Un traditore» disse un brigatista.

«Non è quello che, da squadrista, castrò e accoppò un tizio perché cantava una canzone anarchica?» chiese un altro.

«Sì, è la stessa persona. Si era fatto mazziniano. Lo abbiamo portato in campagna e obbligato a correre. Centrato alla schiena, ha agitato le braccia. Sembrava voler fare il saluto romano. Non ci siamo presi la briga di seppellirlo. Non lo meritava.»

Tina, nell'udire la storia, uscì dal suo stato di disperazione. Suo padre le aveva raccontato il martirio raccapricciante di Giuseppe Vitali. Fosse stato vivo, Cincin avrebbe gioito nel sapere che l'aguzzino Zampò aveva provato sulla propria pelle il terrore fascista. Ma era ben difficile che il babbo campasse ancora.

Il viaggio proseguì sotto scrosci di pioggia che facevano risuonare il telone cerato del camion. Tina vide paesi rasi al suolo, terreni devastati, borghi irriconoscibili. Tratti di bosco seguitavano a bruciare malgrado l'acqua che cadeva dal cielo. Argenta sembrava una di quelle necropoli etrusche di cui non rimanevano che muri smozzicati.

Invece il carcere di Portomaggiore era intatto. Anonimo, simile per facciata a una fabbrica. Era stato una caserma, la Bevilacqua, destinata allo smistamento degli ebrei catturati. Non ne restava più nessuno. Tina e gli altri furono fatti scendere dal camion a spintoni. Militi delle Brigate nere li presero in consegna. Sollevarono quanti cadevano, incapaci di reggersi sulle gambe.

Lei fu perquisita e gettata in una cella grande e vuota, serrata da sbarre. Non c'erano donne tra i carcerieri. Chi la chiuse dentro fu un milite di mezza età, che non le disse una parola. Non seppe il destino dei compagni di viaggio, trascinati per altri corridoi.

Si guardò attorno. C'erano una finestrella molto alta, da cui entravano schizzi di pioggia, diverse brande, ciascuna con un cuscino e un materasso sottile, lenzuola, coperte e un bugliolo. Nient'altro.

Per molti giorni Tina ebbe la sensazione di essere stata dimenticata. A parte il carceriere, sempre lo stesso, non passava nessuno. Il cibo consisteva in una brocca d'acqua e una scodella contenente una pappa scotta, a mezzogiorno e alla sera. Il bugliolo veniva vuotato solo ogni tanto, quando traboccava. Il lezzo era atroce, e il milite eseguiva la bisogna con palese disgusto.

Tina perse la nozione del tempo. Non c'era ora d'aria, e vedeva il passare delle giornate dalla poca luce che entrava dalla finestrella. La notte erano accese solo le lampadine del corridoio. Non si udivano rumori. Talora giungevano echi attutiti di bombardamenti.

Il grande tormento di Tina era il freddo. Si rannicchiava sotto le coperte, mai cambiate né lavate. Il gelo la raggiungeva anche lì. Soffriva tanto che riusciva a dormire solo quando si sentiva veramente stanca.

Infine si ricordarono di lei. Fu condotta, una mattina, davanti al comandante del carcere. Si chiamava Borgatti, era un avvocato di Cento. Stava in un ufficio spoglio, seduto a una scrivania sormontata da un grande ritratto di Mussolini con l'elmetto. Sul piano c'erano una bomba a mano e una pistola Bernardelli 7,65. Aveva modi di fare gentili, se non amichevoli.

Borgatti aprì un fascicolo. «Soviettina Merighi, potrete essere messa in libertà oggi stesso se risponderete alle mie domande. L'importante è che siate sincera. Lo sarete?»

Tina non seppe che dire.

L'avvocato sorrise e proseguì. «La prima informazione è semplice. Dove si trova vostro padre?»

Tina provò un enorme sollievo. Dunque Cincin era vivo. «Non lo so. Quando mi hanno presa, ero andata a Faenza a cercarlo. Non è un partigiano. Non è un comunista. Racconta un sacco di frottole.»

Borgatti annuì, continuando a sorridere. «Lo sappiamo bene, è molto peggio. Ha venduto ai nostri amici tedeschi del carburante puzzolente prodotto da lui. Quattro carri armati sono andati fuori uso dopo avere percorso meno di due chilometri. Uno si è bloccato su un ponte e ha ostacolato la marcia di una compagnia.»

A Tina tornò in mente il pilegno. Allargò le braccia. «È fatto così. Si inventa delle cose e le vende. Fa mercato di non importa quale stranezza.»

Il sorriso sparì dalle labbra di Borgatti. «Fa mercato anche della coscienza nazionale. Fabbrica intrugli per sabotare i nostri mezzi. Voglio sapere dov'è.»

«Non ne ho idea.»

«E di questi avete idea?» Il comandante frugò in un cassetto e ne trasse due bottoni. «Li avevate in un cestino. Appartengono a un'uniforme tedesca. Per caso avete ucciso un soldato delle SS o della Wehrmacht?»

«Io non ho ucciso nessuno. Non ne sarei capace. Quei bottoni li ho trovati in un fienile.»

«O per caso ve li ha regalati il vostro fidanzato? Amerigo Foschini, detto "Pistinega", membro della banda Corbari, poi aggregato alla sedicente 28a brigata Garibaldi. Un bandito pluriomicida. Abbiamo testimonianze giurate di vicini di casa.»

Tina cadde nello sconforto. «Non lo vedo da un pezzo. Non so neanche dov'è adesso.»

«Basterebbe una risposta credibile perché vi mandassi libera. Anche senza dirmi nulla di vostro padre Cincin.»

«Me 'a 'n sò gnit!»

Borgatti tornò a sorridere. «Bene, bene. Mi accontento delle vostre dichiarazioni. Subirete qualche altro interrogatorio, è la prassi. Formalità. È evidente che siete sincera.»

Meno di due ore dopo Tina subiva la prima sessione di tortura, la più leggera. Due militi, uno della GNR e l'altro delle Brigate nere, la condussero in una piccola stanza. C'erano due sedie, una di fronte all'altra. La sollevarono di peso. Doveva tenere testa e spalle su una seggiola, i piedi su quella di fronte. Le intimarono di tenersi rigida mentre le chiedevano ossessivamente dove fossero Cincin e Pistinega.

Lei resse per alcuni minuti, quindi incurvò la schiena. Gliela raddrizzarono a calci, poi a colpi di manganello. Intanto le gridavano fino ad assordarla: «Tuo padre dov'è? E il tuo amante? Confessa, troia, puttana, sgualdrina comunista! Sai cosa possiamo farti? Tutto quello che ci passa per la testa!».

Tina non sapeva come rispondere a quelle domande. Non avrebbe avuto molto da dire, e comunque non l'avrebbe fatto. Sapere suo padre e Pistinega liberi la rendeva felice, e combatteva l'angoscia per la morte della mamma. Si concentrò su quel pensiero. Anche quando avvertì un dolore lancinante su un fianco, forse per via di una costola spezzata, seguitò a tacere.

La sessione successiva, meno di quattro ore dopo, fu più dolorosa. Fuori era notte, pioveva a scrosci. I militi incastrarono fra le dita dei piedi di Tina delle palle di carta, a cui diedero fuoco. Lei urlò, si divincolò. Gli aguzzini attendevano che la carta fosse bruciata per intero, rimuovevano le ceneri e la sostituivano. Le domande erano sempre le stesse. Per variare la scena, interrompevano quel tormento e la picchiavano.

Si andò avanti a lungo. La ragazza, a un certo punto, si lamentò di avere sete. Uno dei brigatisti raccolse un secchio e, mentre un altro le stringeva il naso per costringerla a tenere la bocca aperta, le versò in gola un liquido. Era orina. Tina sputò, vomitò.

L'uomo con il secchio disse: «Non avevi sete? Purtroppo abbiamo solo della limonata».

Ricominciarono con le palle di carta incendiate. Fu ricondotta in cella di peso, perché le ustioni le rendevano difficile camminare. Quella notte restò sveglia non per il freddo, ma per il dolore.

Ci fu un giorno di intervallo, poi si riprese. Nella sessione seguente i brigatisti cominciarono a percuoterla in quattro, con bastoni e manganelli. Tina, al centro del gruppo, cercava di riparare la testa. Le si spezzarono pollice e indice. Uno dei randelli, battuto sulle sue ginocchia, si ruppe e le schegge le penetrarono nelle gambe.

Vide su un tavolino, sotto un grande crocifisso, tenaglie, seghe e pinze. Avrebbe saputo solo più tardi che, se non avevano usato con lei quegli arnesi, era perché le sue colpe erano ritenute lievi. Non meritava un trattamento speciale.

Riuscì a non dire nulla. Non per eroismo: in effetti sapeva ben poco. Quel che non voleva era che i suoi cari subissero lo stesso inferno. Mai avrebbe immaginato di saper resistere al dolore. Da bambina piangeva anche per un semplice taglietto.

Quella volta, dopo le bastonate sul capo e sulle gambe, la portarono via in stato di semincoscienza, avvolta in una coperta che fungeva da barella. La misero in una cella diversa, a un piano più alto. Vide confusamente che c'erano altre donne, cinque o sei. Non ebbe il tempo di contarle, perché, stesa su un materasso (non c'erano brande né letti), perse i sensi.

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