Copertina
Autore Fabio Fabbri
Titolo Le origini della guerra civile
SottotitoloL'Italia dalla Grande Guerra al fascismo (1918-1921)
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2009, , pag. XXXVI+712, cop.ril.sov., dim. 15,5x23,5x4,3 cm , Isbn 978-88-02-08196-0
LettoreRiccardo Terzi, 2010
Classe storia contemporanea d'Italia , paesi: Italia: 1900 , paesi: Italia: 1920
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Indice

  IX Introduzione
XXIX Ringraziamenti
XXXI Tavola delle abbreviazioni

  3 Capitolo 1. La paura della pace

    - 1.1 La paura della pace, p. 3
    - 1.2 Cultura e l'eredità della guerra, p. 11
    - 1.3 La concessione delle «otto» ore, p. 21
    - 1.4 La fondazione del Fascio milanese, p. 26
    - 1.5 La «macchia del bolscevismo», p. 32
    - 1.6 L'incendio dell'«Avanti!», p. 38
    - 1.7 Il radioso maggio del 1919, p. 49
    - 1.8 I tumulti popolari per il caroviveri, p. 60

 70 Capitolo 2. Paese e parlamento: un terremoto politico

    - 2.1 Il Ministero Nitti, p. 70
    - 2.2 La «rivolta sistematica» e le «bande teppistiche»:
          i moti di luglio, p. 81
    - 2.3 Lo «scioperissimo» di luglio: un «male asiatico», p. 87
    - 2.4 L'attacco a Trieste, p. 97
    - 2.5 La marcia su Fiume e la Guardia Regia, p. 104
    - 2.6 Le agitazioni nelle campagne e
          le origini della violenza agraria, p. 113
    - 2.7 La demagogia armata fascista, p. 121
    - 2.8 La campagna elettorale di novembre, p. 125
    - 2.9 Un terremoto politico, p. 136
    - 2.10 O rivoluzione o reazione: i moti del dicembre 1919, p. 143

151 Capitolo 3. La primavera di sangue

    - 3.1 Scioperi e blocco d'ordine: propositi di reazione?, p. 151
    - 3.2 La «passività» di giudici e prefetti, p. 162
    - 3.3 Marzo 1920: Confindustria e Consigli di fabbrica, p. 174
    - 3.4 L'eccidio di Decima di Persiceto e la svolta di Nitti, p. 183
    - 3.5 Sciopero delle lancette e agitazioni contadine, p. 192
    - 3.6 La «festa» del 1° maggio 1920, p. 202
    - 3.7 Crisi e caduta del governo Nitti, p. 209

227 Capitolo 4. L'ora del fascio

    - 4.1 Giolitti al potere, p. 227
    - 4.2 La calda estate del 1920.
          Dal Balkan all'assalto all'«Avanti!», p. 241
    - 4.3 «Camarille» e mestatori, p. 251
    - 4.4 L'agitazione agraria nel bolognese, p. 257
    - 4.5 Guerra civile: l'ora del fascismo, p. 266
    - 4.6 «Un vento di follia»: l'occupazione delle fabbriche, p. 274
    - 4.7 Il concordato in fabbrica e la conquista dei Comuni, p. 285
    - 4.8 Le elezioni amministrative e la svolta di ottobre, p. 294
    - 4.9 La «reazione come psicologia diffusa»: il 14 ottobre 1920, p. 307
    - 4.10 L'assalto ai Municipi socialisti: la guerra dei simboli, p. 318
    - 4.11 La memoria del 4 novembre, p. 326

337 Capitolo 5. La trama delle complicità

    - 5.1 Bologna «culla del fascismo», p. 337
    - 5.2 I fatti di Palazzo d'Accursio, p. 350
    - 5.3 I «fattori concomitanti» del fascismo: prefetti e questori, p. 358
    - 5.4 L'appello di Turati: disarmare gli animi, p. 368
    - 5.5 L'attacco decisivo contro «la teppa rossa», p. 381
    - 5.6 I mercenari della guerra civile, p. 391

404 Capitolo 6. La guerra civile

    - 6.1 Livorno 1921:
          una «scissura cattiva, maligna e dissolvente», p. 404
    - 6.2 L'onda lunga della crisi economica, p. 412
    - 6.3 L'«incuneamento bolscevico», p. 419
    - 6.4 Il discorso di Matteotti: la denuncia della «barbarie», p. 426
    - 6.5 La «valanga» squadrista: fascismo e giolittismo, p. 435
    - 6.6 Persecuzione e crimini:
          il «sistema» Polesine e i moti pugliesi, p. 448
    - 6.7 La conquista della Toscana: una «piena controrivoluzione», p. 454
    - 6.8 La «pace sociale» e la «legalità» dei Prefetti, p. 471
    - 6.9 Tra crisi economica e reazione fascista:
          «Interrogare il paese»?, p. 483
    - 6.10 La strage del Diana, p. 495
    - 6.11 Dalla «Pasqua di sangue» allo scioglimento della Camera, p. 506

518 Capitolo 7. Il «colpo di Stato»

    - 7.1 Le «elezioni della reazione», p. 518
    - 7.2 Terrore e brigantaggio: le metamorfosi dello squadrismo, p. 527
    - 7.3 Le statistiche della guerra civile, p. 530
    - 7.4 La sconfitta operaia alla FIAT: «Uomini in carne e ossa», p. 535
    - 7.5 17 aprile: una domenica della gloria fascista, p. 538
    - 7.6 Il socialismo italiano tra mito rivoluzionario
          e repressione borghese, p. 550
    - 7.7 La tradizione e la conquista della piazza:
          il Natale di Roma, p. 556
    - 7.8 Quel Primo Maggio «di meditazione, di raccoglimento...», p. 568
    - 7.9 «Una tempesta di sangue»: l'ultima settimana elettorale, p. 587
    - 7.10 Il fascismo in Parlamento, p. 598
    - 7.11 Conclusioni, p. 608

615 Appendice I - Le statistiche della violenza
623 Appendice II - Cronologia delle violenze
637 Bibliografia
691 Indice dei nomi

 

 

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Pagina IX

Introduzione



Nonostante la storiografia italiana, da almeno una quindicina d'anni, abbia posto al centro della propria riflessione il concetto di guerra civile, è altrettanto vero che un'impostazione del genere ha interessato principalmente le ricostruzioni concernenti le diverse fasi della Resistenza, e le sue drammatiche conclusioni dopo il 25 aprile 1945. Già alla fine degli anni Ottanta, Claudio Pavone (1990, p. 30) sottolineava che nel primo dopoguerra – grazie anche alla «ambiguità di una guerra patriottica» – era stata «sfiorata, nei fatti e nelle parole, la guerra civile»; e che, solo dopo l'8 settembre, armi alla mano, furono finalmente chiusi «i conti aperti nel 1919-1922». Con la pubblicazione del suo Saggio storico sulla moralità della Resistenza egli sviluppò l'invito a considerare la guerra civile tra fascisti e antifascisti «come la ricapitolazione e lo svolgimento finale, sotto la cappa dell'occupazione tedesca, di un conflitto aperto nel 1919-1922»; e si fece carico del «recupero della memoria» dei duri scontri del primo dopoguerra, «operato da alcuni dei più anziani resistenti», i quali sostanzialmente «assimila[va]no nel ricordo del 1919-1921, il periodo cioè del biennio rosso e dello squadrismo, con quello del 1943-1945» (Pavone, 1994 poi 2004, p. 256). V'era íl messaggio che le guerre civili avessero un impatto di «lunga durata» sulla storia della società italiana: tanto che, di lì a pochi anni, si cercò di raccordare, attraverso il tema della violenza politica, gli studi sulle origini del fascismo con quelli riguardanti la sua caduta, di svolgere un'indagine «a tempi più lunghi per comprendere le fasi, le modalità e le costanti dello scontro sociale» (Dogliani, 1998, p. 15).

A Pavone (2004, p. 256), in verità, la «definizione del 1919-1922 come guerra civile» – secondo l'ampio uso (o abuso) del termine da parte dei protagonisti del tempo (da Nenni a Mussolini, da Turati alla Kuliscioff, da Grandi a Matteotti, da Serrati a Gramsci) – era apparsa ancora «discutibile», nonostante l'irruzione della violenza squadrista avesse costituito proprio l'anello mancante tra l'eredità della prima guerra mondiale e la legittimazione del fascismo come «depositario» dei valori patriottici. I sanguinosi e drammatici scontri che segnarono l'Italia uscita dal conflitto furono, infatti, vissuti dai contendenti come decisivi dello scontro interno, rappresentarono uno dei momenti fondanti della memoria e della coscienza civile del paese. Essi furono caratterizzati, soprattutto nelle campagne, da una «durezza estrema nei confronti dell'avversario di classe» (Crainz, 1992, p. 42), tanto che la pubblicistica coeva usò senza mezzi termini quella categoria di guerra civile resa poi «moneta corrente» (Legnani, 1990, p. 55) dal lessico politico quotidiano. «I contemporanei che parlarono di guerra civile non sembrano enfatizzare la realtà», ha osservato G. Crainz (1992, p. 188), a conclusione di una accurata ricerca sulle agitazioni contadine in Val Padana.

Eppure, come si è detto, gli studiosi delle cosiddette «guerre fratricide» — per quanto vi abbiano individuato «molti presupposti» — tendono ad escludere nell'Italia del primo dopoguerra «una vera situazione» (Ranzato, 1994, p. XXXVIII) di guerra civile. Con estrema cautela essi hanno denunciato «l'uso abusivo del termine» limitandone «i confini concettuali» (Ranzato, 1991, p. 319) strettamente al 1943-1945 e individuando taluni precisi «criteri di riconoscibilità» nel «fatto che i contendenti perseguano la meta della conquista dello Stato» (Ranzato, 1994, p. XXXIV) o nella «rottura del monopolio statale della violenza» (Pavone, 1991, p. 415). Un binomio, quest'ultimo, già presente nelle prime interpretazioni di P. Farneti (1975 poi 1981, p. 208) il quale, riflettendo sulla caduta dei regimi democratici europei, sottolineò come nel caso del fascismo italiano «l'occupazione di spazio politico avvenne attraverso l'uso di violenza privata per fini politici, per mezzo di un "esercito" privato che mise in discussione il "monopolio" della forza istituzionale». Una connotazione che, a sua volta, richiamava un noto articolo di Gramsci — elaborato fin dall'ottobre del 1920 — secondo cui «il terrorismo vuol passare dal campo privato al campo pubblico; non si accontenta più dell'immunità concessagli dallo Stato». In quel passaggio, per il comunista sardo, andava ricercato il significato della parola «avvento» della reazione. «Significa che la reazione è divenuta così forte, che non ritiene più utile ai suoi fini la maschera di uno Stato legale; significa che vuole, per i suoi fini, servirsi di tutti i mezzi dello Stato».


Del resto, per meglio recuperare il termine stesso di guerra civile, così come sorge all'interno della storia del Novecento, non possiamo rischiare di espungerlo da una visione più ampia e complessiva, e in particolare dal contesto successivo alla guerra e alla Rivoluzione d'ottobre, allorché tutti i governi europei, di fronte al pericolo del bolscevismo dilagante, non tardarono a prendere posizione a fianco di chi voleva estirpare le radici stesse del socialismo e, appunto «si identific[arono] con una delle parti belligeranti» (Ranzato, 1991, p. 322). Anzi, la più recente storiografia — sviluppando le suggestive indicazioni di E. Nolte (1988) e di E.J. Hobsbawm (1994, p. 66) sul «potenziale di crudeltà e di violenza» e sulla «crescita della barbarie dopo il 1914» — arretra ormai al primo conflitto mondiale «l'atto di nascita della guerra civile europea», e rende finalmente giustizia alle impressioni di testimoni e di protagonisti del tempo che asserirono per primi come quella guerra fosse stata «scatenata e condotta in Italia come guerra civile» (Traverso, 2007, p. 91). Tutto ciò si impresse nella memoria non solo perché «la violenza apocalittica» della guerra tramandò tutto il suo orrore in successive ondate di violenze contro civili, quali gli incendi dei villaggi di frontiera in Belgio e in Francia o gli stermini in massa di minoranze armene. Ma, soprattutto perché, durante il conflitto, come ha ben rilevato E. Traverso, la pratica delle truppe d'assalto di gettarsi in prima linea e terrorizzare il nemico — un'esperienza in cui era sistematicamente in gioco la vita — trasformò via via la paura in odio per il nemico. Coloro che più degli altri subirono questa metamorfosi, immedesimandosi totalmente nel culto mistico del combattimento, nell'aristocrazia del coraggio e nel disprezzo della vita, furono poi gli stessi arditi, incapaci a deporre le armi né più in grado di reintegrarsi nella vita civile. Il loro «nazionalismo vitalista e aggressivo» modellò, com'è noto, lo stile e le pratiche del fascismo delle origini. Essi fecero propria «l'angoscia che attanagliava i superstiti delle trincee come uno stato d'animo emotivo insormontabile», e la diffusero tra le pieghe di una civiltà che riemergeva a fatica dalla catastrofe.

Il fascismo aveva innescato il mito della minaccia bolscevica sull'inquietudine e la sicurezza diffuse nelle società europee del dopoguerra. Trasformava l'angoscia, che la psicanalisi definisce un sentimento di timore generico, incapace di focalizzarsi su un oggetto, in paura di fronte a un nemico concreto: il comunismo e la rivoluzione (Traverso, 2007, p. 155).


La necessità di sconfiggere una volta per tutte il bolscevismo nutrì le ragioni del sorgere del primo fascismo: ma anche la coeva pubblicistica liberale e cattolica alimentò quella interpretazione e, in tempi più recenti, senza soluzione di continuità, è stata individuata nell'antibolscevismo di razza la causa specifica del successo squadrista. Com'è noto, la storiografia sulle origini del fascismo ha sempre considerato l'assalto fascista a Palazzo d'Accursio (21 novembre 1920) — sede del Comune di Bologna — e i conseguenti attacchi in Val Padana come il momento iniziale e decisivo dello scatenarsi della violenza armata. Tutta la successiva pubblicistica sul caso bolognese ha restituito al lettore il clima di tensione e di violenze di quegli anni. Esso rappresentò, infatti, lo strumento vincente per tutelare interessi di classe di industriali ed agrari, minacciati dalla «grande paura» dell'occupazione delle fabbriche e dal protrarsi delle agitazioni nelle campagne; ma fu anche l'occasione per dar voce alla retorica nazionalista e a un diffuso sentimento antisocialista, maturato presso ceti medi e piccolo-borghesi, terrorizzati dal pericolo bolscevico, quasi sgomenti di un loro imminente disfacimento. Insomma, sostenuta dalla «convergenza solidale delle classi medie [...] rimaste fino allora separate» (Palla, 1987, p. 186), nell'autunno inoltrato del 1920, scattava la vera e propria reazione; il fascismo mostrava il suo volto di aggressore armato e organizzato.

Questa tesi, per giunta, fu avvalorata dalle testimonianze e dai giudizi degli stessi protagonisti di parte fascista i quali, negli scontri di Bologna, collocarono la rinascita — in città — di un compatto spirito nazional-patriottico e la fine — nelle campagne — del dominio delle leghe socialiste e delle loro «violenze». Dino Grandi, Pubblico Ministero al processo per i fatti di Palazzo d'Accursio, celebratosi a Milano dal gennaio al marzo 1923, rilevava:

La tragedia del 21 novembre 1920 ha trasceso l'importanza dell'episodio di cronaca giudiziaria cui si riducono tutti i delitti anche i più efferati, per salire alla considerazione e alla realtà d'un fatto storico importantissimo cui si legano rapporti di casualità e di effetto dai quali non si può assolutamente prescindere. La tragedia di Palazzo d'Accursio — egli precisava — ha segnato l'inizio di una trasformazione radicale in quelli che sono stati i fattori morali e materiali del nostro paese e negli stessi nostri istituti sociali.

È ovvio che, in quei primi mesi dopo la marcia su Roma, l'inizio — o quasi — d'una fase di normalizzazione della vita politica e civile fosse considerato come il risultato più percettibile e più rassicurante dei sentimenti di stabilità sociale della media borghesia italiana. Tuttavia, è altrettanto interessante constatare come lo stesso Grandi, in sede di requisitoria, non potesse esulare da tutta una riflessione sul recente passato al quale occorreva fare riferimento per intendere il fascismo: non già come rabbiosa reazione seguita a un episodio o a un fatto isolato, bensì come un fenomeno le cui origini erano da ricercare più indietro nel tempo: «La tragedia di Palazzo d'Accursio — asserì — è stata la fase finale e conclusiva di un lungo periodo storico che si era maturato lento, ineluttabile, fatale».


Inutile sottolineare che, con l'avvento di Mussolini al governo, l'obiettivo del Grandi consisteva proprio nell'esaltare, attraverso il collegamento ideale agli avvenimenti bolognesi, la missione nazionale e antibolscevica dei Fasci di Combattimento, fin dalla loro fondazione. Il richiamo a principi come «il patriottismo, la religione, l'amore per la famiglia, il rispetto verso l'autorità» fu una costante nella consacrazione della morale fascista, assunta a caposaldo da funzionari e storici di regime come L. Villari (1928, p. 55) impegnati ad esaltare, in nome di quei valori, la «vera e propria guerra civile» intrapresa fin dalle origini contro «il parossismo e il furore» dei socialisti. «Grandi porte aperte, tutti coloro che lo desideravano potevano entrare, nessuno escluso salvo i comunisti» rammentò Gioacchino Volpe, responsabile della sezione storica della Enciclopedia Treccani, invitato ad illustrare a un attento uditorio internazionale come nacque e s'impose il fascismo in Italia. «Si trattava di combattimenti e di azioni dirette, di distruggere l'organizzazione bolscevica in Italia, e tutti coloro che erano sedotti da questo progetto furono attratti dal fascismo e vi trovarono buona accoglienza». Del resto, anche nelle memorie che Grandi (1985, p. 103) pubblicò in tarda età, costante fu il ripensamento degli avvenimenti del 1919-1920, gli anni in cui «il massimalismo socialista organizzava nel paese l'assalto allo Stato, la guerra civile»:

Il disordine nei pubblici servizi, il dilagare degli scioperi politici, la costituzione di bande rosse armate ed istruite, dei consigli di operai, di soldati e di contadini, secondo la tecnica bolscevica di Mosca. Un vero antistato fu creato entro e contro lo Stato, coi suoi tribunali rossi, le sue milizie, le sue vessazioni. I recalcitranti furono puniti coll'arma crudele del boicottaggio che dalla privazione delle libertà civili e del diritto al lavoro, giungeva talora alla privazione del cibo quotidiano.


A questo punto, il riferimento alla categoria della guerra civile, in relazione ai duri scontri sociali e politici del primo biennio postbellico — e in tal senso ampiamente in uso sia nel lessico gramsciano che nella pubblicistica fascista del primo dopoguerra (Legnani, 1990, pp. 39 ss.) — può suggerire un percorso d'indagine e un metodo storiografico che guardino con occhi diversi alle origini del fascismo italiano e, in particolare, al periodo compreso tra la fine della guerra e le elezioni del maggio 1921: data epocale che segnò per la prima volta l'ingresso del fascismo nelle istituzioni dello Stato, «il punto di non ritorno» (Saija, 2001, p. 312) della crisi dello stato liberale. Del resto, anche le più recenti e documentate ricerche sul diciannovismo italiano, invitano a non «calcare il giudizio sul massimalismo e sulla propaganda socialista, ritenuta generatrice di quella violenza politica del "biennio rosso" che spiegherebbe meccanicamente la brutalità del "biennio nero" successivo, dimenticando il legame fondamentale tra la grande guerra e la brutalizzazione della politica nell'Europa del dopoguerra» (Bianchi, 2006, p. 196): un tema, quest'ultimo che ha costituito, com'è noto, l'asse portante della interpretazione di G.L. Mosse (1990) sulle profonde trasformazioni culturali e mentali che attraversarono la società europea, e ha rappresentato il punto di riferimento di più recenti studi che considerano orami il nesso violenza-politica un'eredità specifica e invasiva del conflitto mondiale.

In questa cornice, il canone interpretativo suggerito per primo da Luigi Fabbri (1922) e poi tout-court accettato da gran parte della storiografia — secondo cui il fascismo non fu altro che una «controrivoluzione preventiva» scatenata alla fine del 1920 per il timore di una rivoluzione bolscevica, ormai alle porte – va ridimensionato o almeno «smitizzato» (Lyttelton, 1990, p. 24). Certamente, la scelta della violenza armata irruppe come distintivo esteriore del vero squadrista e fu propinata come la strada obbligata della «sana» reazione al pericolo rosso, ampiamente giustificata dai lacchè e dagli intellettuali liberali proni a «nobilitare il servizio di teppismo politico e le velleità agitatorie dei capi» (Pombeni, 1996, p. 79). Certamente, lo squadrismo rappresentò «una fase dello sviluppo storico del fascismo», e dichiarò che «lo scopo della azione terroristica fu rimettere in ordine la casa borghese» (Gentile, 1982, p. 28). Ma l'autorappresentazione del fascismo, quale diga «ecumenica» eretta contro l'avvento dei Soviet e della dittatura proletaria si nutrì di una menzogna, falsificò la realtà. Più che dalla paura del bolscevismo e della rivoluzione alle porte, il clima politico e sociale fu condizionato dall'affermazione di un potere contrattuale fra i contadini, dalla richiesta del controllo sui ritmi di lavoro da parte degli operai, tutti principi democratici contro cui si scagliarono prima gli agrari e poi gli industriali. In uno scenario siffatto, «la violenza fascista fu prevalentemente una risposta alle forme più moderne di organizzazione del lavoro e del conflitto di classe», ha sottolineato Lyttelton (1981, p. 34). Non è vero che «i fascisti sconfissero la minaccia rivoluzionaria in Italia», ha ribadito lo storico inglese (1974, p. 60), rammentando che, a fine agosto, la disfatta dell'esercito rosso davanti a Varsavia aveva ormai segnato il riflusso dell'ondata rivoluzionaria nell'intera Europa. In Italia, dopo la «grande speranza» del settembre 1920, la classe operaia, sotto il peso di una pesante «disfatta psicologica» seguita all'abbandono degli stabilimenti, si ritrovò sempre più isolata, priva di un gruppo dirigente e soprattutto di una strategia in grado di opporsi all'imminente ondata reazionaria. Dopo il fallimento dell'occupazione delle fabbriche, il paventato «pericolo rosso» non era più tale: sia per il senso di prostrazione, d'isolamento e di sconfitta che di colpo annullò la grande speranza di settembre, sia per la sensazione di aver vissuto, fino allora, in una situazione di emergenza. La tensione interna che aveva alimentato le lotte per un biennio crollò di schianto. La crisi dei mercati interni sfoltì la mano d'opera e produsse disoccupazione e licenziamenti nei grandi stabilimenti metalmeccanici, siderurgici, automobilistici. Tra la fine del 1920 e i primi mesi del 1921, la recessione economica sanciva in tutta Europa «la fine dell'offensiva operaia» (Maier, 1999, p. 209) del dopoguerra. E, «sul cedimento della forza operaia passò la violenza squadrista, e non viceversa» (Revelli, 1975, p. 65).

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Pagina XIV

Come s'è detto, la riflessione sulle radici della reazione italiana e sulle cause del «venir meno dello Stato legale» fu sviluppata a più riprese da A. Gramsci il quale, nell'ottobre 1920, già rilevò: «Da due anni, dal giorno dell'armistizio, il popolo italiano vive in pieno terrorismo, in piena reazione; non esiste più sicurezza personale per la classe operaia, non esiste più nessuna garanzia civile di tranquillità e di pace». A conferma di un piano repressivo al quale, a suo giudizio, avevano provveduto, prima ancora dei fascisti, le forze dell'ordine, egli precisò nel marzo 1922: «Nell'anno 1920 che viene rappresentato come l'anno del bolscevismo in Italia sono caduti (sotto i colpi degli agenti dello Stato) sulle vie e sulle piazze del nostro paese 616 operai, 1734 sono stati feriti». Insomma, nonostante l'illusione che la reazione non rappresentasse «niente altro che gli ultimi spasimi rabbiosi di un organismo esaurito», il direttore dell'«Ordine Nuovo» elaborò la considerazione che lo Stato liberale non aveva costituito un ostacolo all'avvento del fascismo, anzi la repressione statale (eccidi, arresti) si era sviluppata senza soluzione di continuità tra «campo privato» e «campo pubblico». Per quanto reiterato, l'invito della storiografia più recente a «fare piazza pulita della riflessione della violenza fascista come reazione alla violenza massimalista socialista» (Albanese, 2004, p. 606), gode dunque di antiche origini: «Non è il fascismo che ha vinto la rivoluzione – avvertì per primo Tasca (1965, p. 129) – è l'inconsistenza della rivoluzione che provoca il sorgere del fascismo».

Del resto, senza sminuire il valore della tradizione e della simbologia popolare – che, sull'onda della rivoluzione francese, identificò nel rosso il colore della rivolta – non vanno nemmeno sottovalutate le considerazioni, già avanzate dalla storiografia italiana, sulla validità e la plausibilità di un termine di cui forse si è eccessivamente abusato. Già secondo E. Ragionieri (1976, p. 2069), il primo biennio postbellico non era «dominato da un unico segno», ma al suo interno «erano in atto contemporaneamente processi differenti e contrastanti». Di recente R. Vivarelli (1991, p. 6), sulla base di un'ampia ricostruzione, ha avvertito che «il termine biennio rosso è, tutto sommato fuorviante, in quanto suggerisce un modo di vedere che allontana dalla effettiva realtà delle cose». Non si tratta di sottovalutare lo snodo drammatico rappresentato da quegli anni, ma piuttosto di non racchiudere «in maniera univoca» il colore di quel biennio, in quanto «il vasto movimento in seno alla società italiana dell'epoca non era solo rosso, ma anche rosso e nero». [Anzi] «l'essere non solo rosso contribuì alla ricchezza e al fascino del primo biennio, ma anche alla sua incapacità a costruire alleanze e a proteggersi dalla reazione, quando giunse» (Ginsborg, 2006, p. 17).

In buona sostanza, in una visione di medio-lungo periodo, l'aggettivo rosso appare tanto più fuori posto quanto più si ricostruisca il «filo di continuità forte» che lega il primo biennio a quello successivo. In tal senso, anche la storiografia locale, «relativamente al biennio rosso e all'insieme di miti e pratiche ad esso connesse» (Baravelli, 2006a, p. 13) è tutta da reimpostare e rinnovare, senza tradurne le caratteristiche locali in un esasperato patriottismo provinciale. Solo attraverso una rinnovata proiezione temporale sarà possibile porre al centro delle indagini la condotta complessiva delle classi dirigenti italiane nel primo dopoguerra e interpretare gli sviluppi di un progetto nazional-conservatore a lungo periodo (Castronovo, 1996, pp. 35 ss.). Maturato da posizioni industriali di estremo conservatorismo, collegate prima con la destra salandrina, e poi cavalcato dalla ideologia produttivistica e corporativa del fascismo, esso perseguì con successo la possibilità di costruire un nuovo Stato capace di «incapsulare le classi inferiori all'interno di strutture che avrebbero eliminati i conflitti sociali e promosso la collaborazione di classe» (Baglieri, 1996, p. 365). Solo attraverso siffatto parametro interpretativo la storiografia potrà incasellare nella giusta angolazione, e nei tempi lunghi della sconfitta, il senso profondo delle lotte del 1919-1920, che a quel disegno si opponevano, sia nelle fabbriche cittadine che sui latifondi. Avrà, quindi, un senso non più circoscritto o territoriale ricostruire le vicende sociali e le storie quotidiane di quegli «uomini di carne e ossa» che, a Torino, fin dalla vigilia delle tragiche elezioni del 1921, si trovarono completamente «isolati nella nazione», «immersi in un ambiente generale di stanchezza, di indifferenza, di ostilità» per le lotte che avevano intrapreso contro i licenziamenti e le riduzioni d'orario imposte dalla FIAT. Sarà, pertanto, ben difficile, allora, non contestare la stessa espressione di biennio rosso quale un inscindibile binomio che tese «a cancellare completamente la forza di un progetto, quello della destra, che riuscirà nel corso dei due anni successivi a trovare gli strumenti per la propria realizzazione» (Albanese, 2006b, pp. 195-96).

Una riflessione, quest'ultima, che affonda le sue radici nelle considerazioni, avanzate già trent'anni or sono, da un osservatore attento come G. Amendola il quale rilevò come il biennio «rosso» fosse «in realtà un biennio di grande confusione, nel quale due processi avanzano intrecciati: il processo di radicalizzazione a sinistra e il processo di reazione a destra». L'invito della più recente storiografia, a coniugare l'immagine di un'esasperata mobilitazione operaia del primo dopoguerra con «una realtà più sfumata ed articolata» (Berta, 1991, p. 309), è stato accolto e rilanciato in opere di più ampio respiro e maggior divulgazione. G. Turi (2006, pp. 275-76), in un vasto contesto geografico, ha per esempio, osservato:

L'espressione «biennio rosso» con la quale sono stati definiti gli anni 1919-1920 in Europa, per sottolineare l'ascesa del movimento operaio guidato dai socialisti e le agitazioni dei lavoratori per migliori condizioni di vita, non appare appropriata per l'Italia. [...] Dipingere come «rosso» quel biennio non rende conto della complessità delle forze in campo, ed è funzionale solo a giustificare la reazione fascista, che in realtà si sviluppò quando il timore di un pericolo rivoluzionario era ormai finito.


A. Lepre, riprendendo gli spunti di una sua precedente Storia degli Italiani (2003), ha ribadito che quella di biennio rosso è «una definizione limitata e fuorviante. Limitata, perché tiene conto solo della lotta politica, trascurando gli aspetti della vita quotidiana, altrettanto importanti; fuorviante, perché quegli anni furono rossi soltanto nei sogni dei socialisti italiani e nei timori della borghesia» (Lepre, Petraccone, 2008, p. 151). Oltre a quelli già citati, anche i migliori studi di storia locale riconoscono che «lo squadrismo mosse i suoi primi passi quando il "biennio rosso" doveva ancora iniziare e ben prima che il Fascio mussoliniano potesse ottenere una visibilità pubblica di rilievo» (Bianchi, 2007, p. 378).

Eppure, l'immagine tramandata dall'epopea fascista, dello squadrismo senza macchia, nume tutelare di un paese che, dopo l'occupazione delle fabbriche, «stava scivolando rapidamente nell'anarchia», e fiero difensore di quanti «pensavano che fosse giunta l'ora di una risposta più energica» (Duggan, 2008, pp. 483-84) di quella espressa dallo Stato, tarda a perdere il suo suggestivo alone di «crociata». Anzi, riaffiorano in superficie incrostazioni alimentate dalla mitologia di regime. Così, nonostante il successo riportato dai costituzionalisti-conservatori nel corso delle elezioni amministrative del settembre-novembre 1920, i quali conseguirono la maggioranza in 4665 comuni su 8327 (oltre il 56%) e in 33 consigli provinciali su 69, ribaltarono la situazione del novembre 1919 e ritornarono nettamente la forza dominante, si continua ad avallare l'idea di «un'enorme avanzata» dell'estrema sinistra in tutta l'Italia centro settentrionale quale l'«ultima goccia» che fece scoccare «l'ora di una risposta più energica» contro la violenza socialista che «dilagava senza freni», contro «gli incendi dolosi, gli atti di sabotaggio, i furti e gli assassinii» della folla, contro gli «scioperi [che] continuarono imperterriti» (Duggan, 2008, pp. 481-82 e p. 484). Di lì – si ripete – sarebbe scaturito l'attacco armato a Palazzo d'Accursio, a Bologna, e alle roccheforti della Bassa Padana.


Sotto questo profilo, va evidentemente rivisitata, se non ridimensionata, la tesi che colloca solo alla fine del 1920, attraverso lo squadrismo fascista, la traduzione e l'irruzione violenta dei sentimenti antisovversivi, la mobilitazione dei ceti medi cittadini a difesa dell'ordine sociale, l'intervento e le manifestazioni repressive del latifondismo agrario e, poi, del capitalismo industriale. In realtà – è il caso di ripetere – le origini del fascismo o, meglio, «le propensioni autoritarie non vanno cercate in una sorta di reazione contro il cosiddetto "biennio rosso" o le rivoluzioni europee del 1917-1919, ma proprio nella Grande Guerra» (Bianchi, 2007, p. 345). Non fu tanto il socialismo, anche nelle sue manifestazioni massimaliste, a incutere paura nell'immediato e per l'avvenire, bensì la obiettiva condizione di incertezza, di agitazione, di disordine, in cui era piombata la società italiana, già durante la guerra. In seguito alla deformazione delle vecchie strutture della società, particolarmente evidente fu la crisi psicologica e morale di quella piccola e media borghesia che aveva sempre sentito l'orgoglio di servire lo Stato, e che immediatamente avvertì un profondo senso di disagio e d'inquietudine. Era una piccola borghesia che odiava, con tutte le sue forze, il socialismo e rifuggiva, come il peggiore dei mali, il processo di proletarizzazione proposto da esso. Il ristabilimento dell'ordine sociale non interessava, dunque, soltanto i grandi proprietari terrieri, colpiti dall'invasione dei latifondi o gli imprenditori industriali, lesi nella loro autonomia decisionale all'interno delle officine. La restaurazione degli antichi rapporti di classe non era auspicata solo dalla «sana borghesia del ceto medio» come Einaudi (Decleva, 1965, p. 165) definì professionisti, dirigenti, tecnici, magistrati e professori, ma anche «dal bottegaio e dall'impiegato di Stato, dal fattore di campagna e dal tecnico di fabbrica, specie se esso era capace di ammantarsi di quei miti nazionalistici cari a chi la guerra l'aveva voluta e combattuta» (Brunetta, 1984, p. 944). La deformazione o lo sgretolamento delle strutture della società liberale provocato dalla guerra minacciò da vicino un «mondo di abitudini, aspirazioni, esigenze» in cui si identificavano piccoli e medi ceti, quella pletora di «nuove borghesie proletarie» (Porro, 1969, p. 72), annidate negli apparati burocratici e amministrativi e dell'istruzione del paese, e minacciate dalla disoccupazione. Erano le variegate fasce della piccola borghesia «umanistica», ben rappresentate da Salvatorelli (1923, pp. 18-19), attrezzate anche di una tradizionale base culturale, ma incapaci a ricoprire un solido ruolo economico nei ranghi della moderna società industriale. Come percepì L. Sturzo, particolarmente attento alle inquietudini e alle aspirazioni dei piccoli proprietari, «non era l'ombra di Mosca la causa di tanti sgomenti del ceto medio» (De Rosa, 1973, p. 465), bensì la crisi generale di un sistema di valori e la nostalgia di un tempo antico in cui esso si sentiva certamente più al sicuro. La paura del bolscevismo e dello strapotere socialista costituì certamente «uno degli elementi psicologici della reazione» (Sturzo, 1926, p. 220) e del cedimento dei piccoli proprietari all'avanzata fascista, ma le radici di essa vanno cercate altrove: negli effetti devastanti della grande guerra, che ridusse «veramente in pezzi» (Quilici, 1932, p. 309) larghe fasce della piccola borghesia, nelle lacerazioni socio-economiche che aveva prodotto in tutta Europa, nella profonda revisione delle vecchie ideologie, nel nuovo protagonismo delle classi subalterne. Non va dimenticato, ad esempio, che, dopo i drammatici sconvolgimenti sociali e politici prodotti dalla guerra, in tutto il continente «le masse desideravano soprattutto il ritorno a condizioni pacifiche e ordinate e non a nuovi sconvolgimenti» (Carsten, 1978, p. 17 nonché Lindemann, 1977, p. 18).


Del resto, prima ancora che esplodessero gli entusiasmi rivoluzionari del dopoguerra, la «grande paura» inquietò i sonni della classe dirigente già all'indomani di Caporetto, un evento che segnò una «svolta decisiva» anche in politica interna ed ebbe immediate ripercussioni sulla politica di controllo sociale. «La ventata repressiva — ha sottolineato la Procacci (1997b, pp. 81-82) — non si limitò alla messa sotto accusa e alla riduzione al silenzio degli avversari politici. La persecuzione si allargò a tutta la popolazione». In quei mesi decisivi per la storia del paese, la battaglia ingaggiata contro il disfattismo «per la elaborazione di una ideologia mirante al consenso totale» passò senza soluzione di continuità dalle trincee di guerra ai campi e alle officine. Si diffuse, allora, all'interno della intensificata produzione bellica per la vittoria finale, la protesta di una «nuova» classe operaia nelle cui dimensioni culturali, sociali e politiche stanno le radici dalla «eccezionale capacità offensiva del quadriennio 1917-1920»: una periodizzazione — quest'ultima — più corretta di quella che confina l'esplosione rivoluzionaria al biennio «rosso», come suggerirono opportunamente A. Camarda e S. Peli (1980, p. 176). Anche il «principio, spesso confuso e contraddittorio, del controllo sindacale» (Berta, 2001, p. 44) su cui si misureranno e si logoreranno i vertici della CGdL e della Confindustria, non era nuovo. Esso s'era affacciato e aveva preso consistenza già durante la Mobilitazione industriale, e costituirà una costante di riflessione quando il gruppo torinese dell'«Ordine Nuovo», nel giugno 1919, solleverà per la prima volta il nodo della democrazia diretta in fabbrica e della partecipazione dei Consigli operai. Gli strumenti ordinari delle Commissioni interne e della mediazione sindacale dunque «mostrarono la corda» (Berta, 2001, p. 45) ben prima dell'occupazione delle fabbriche, allorché gli industriali (sia a febbraio che nell'aprile 1920) furono intransigenti nel rigettare il modello consiliare «comunista». Ed anche gli agrari, fin dalla prima ondata di invasioni di terre, nell'estate del 1919, temettero la diffusione di principi compartecipativi e si scagliarono contro l'affermazione di poteri contrattuali da parte dei contadini. «Mentalità di guerra civile» annotò Arrigo Serpieri di fronte alle prevaricazioni dei rossi e alla latitanza dello Stato. In realtà, nel corso di tutto il biennio rosso, le importanti conquiste delle leghe contadine in Val Padana, pure determinanti per il collocamento e l'imponibile della mano d'opera, mai rappresentarono una reale minaccia all'assetto della produzione né intaccarono i diritti di proprietà. Eppure, secondo il padronato agrario, le vertenze ed i miglioramenti conseguiti dalla forza-lavoro erano vissuti come «i prodromi della rivoluzione», come «un ennesimo gradino della scala che portava verso l'espropriazione, verso il baratro del bolscevismo» (Osti Guerrazzi, 2001, p. 141) contro cui occorreva opporsi con qualunque mezzo.


Il coro di voci che avversò la mentalità collettiva del movimento operaio «in chiave prevalentemente irrazionalistica» (Bigazzi, 1988, pp. 321-22) — secondo schemi antropologici che ripudiavano la contestazione dell'ordine in fabbrica e denunciavano il rifiuto della temperanza e del decoro, così come la tendenza tumultuaria dei ceti subalterni – rivelò in realtà la volontà di uno scontro definitivo e risolutivo tra le classi. In questo scenario di rigidi rapporti di forza, coloro che, fin dopo la guerra, militarono sotto la bandiera del nazionalismo, del futurismo e del fascismo, operarono una netta scelta politica, si collocarono a destra (Palla, 1987, p. 186), nell'arco delle forze conservatrici e antisocialiste, facendo dell'esaltazione (e dell'uso) della violenza il proprio metodo d'azione. Una violenza – ha ben sottolineato Lyttelton (1981, p. 33) – che non rappresentò uno dei tanti aspetti del movimento fascista, ma era «connaturata alla pratica», era «elemento preponderante nella sua ideologia», fin quando «dalle origini si era presentato come una organizzazione violenta che mirava alla guerra civile». Da allora il fascismo si sviluppò gradatamente, rafforzato dall'atteggiamento di uno Stato che durante il biennio rosso, fu repressivo per sua natura: non tanto per deliberata volontà di un singolo o di un gruppo dirigente, ma perché tale era il sistema di potere autoritario ereditato dalla Grande Guerra che fornì per prima l'ideologia di uno Stato «onnicomprensivo» (Corner, 2002, p. 62) e repressivo. «Il fascismo – sintetizzò Gramsci – è figlio spirituale di Giovanni Giolitti» sicché «domandare alla classe dirigente di schiacciar[lo], sarebbe come domandarle il suicidio». Chiedere l'imperio della legge e la restaurazione dell'ordine pubblico a quello Stato liberale che aveva sostanzialmente interpretato l'insorgere del movimento fascista come una sana reazione al pericolo del bolscevismo, che aveva condiviso il concetto della «rivoluzione fascista, come conseguenza e sanzione» all'«anarchia legale» (Orlando, 1960, p. 18) dell'immediato dopoguerra, sarebbe stato una contraddizione in termini. In essa tuttavia inciampò non solo la cultura liberale, da Croce ad Albertini, ma la stessa tradizione socialriformista e gli stessi popolari: sostanzialmente ancorati, fino alle elezioni del maggio 1921, alla convinzione che «la violenza fascista potesse giovare a ristabilire quell'equilibrio nelle campagne compromesso dal monopolio delle organizzazioni rosse» (Veneruso, 1973, p. 716).

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Gli anni post-bellici, mai come in precedenza, misero drammaticamente a nudo la marea montante delle agitazioni sociali e la carica rivoluzionaria del proletariato italiano di fronte alle quali le disposizioni dei singoli governi furono improntate ai più rigidi criteri della tutela e della conservazione dell'ordine pubblico. Anche sul tema dell'atteggiamento dei governi liberali, e di Giolitti in particolare, nei confronti del fascismo, la più recente storiografia ha meglio precisato il senso della «inadeguatezza» delle direttive ai prefetti emesse dal potere centrale, già individuata da G. De Rosa (1957, p. 76). In particolare, J. Dunnage (1992, p. 67) ha messo in luce come fossero contraddittori «messaggi e direttive [...] provenienti dai ministeri romani [...] indipendentemente dalle direttive ufficiali relative all'imparziale difesa della legge e dell'ordine»: al punto che gli stessi funzionari di polizia ricevevano dall'autorità centrale precisi «ordini in merito alla repressione del fascismo, mentre, contemporaneamente, quegli stessi governi erano spesso inclini ad accordare concessioni di natura politica ai movimenti fascisti locali». Meno evidenti e tutte da indagare sono invece le ragioni per cui le istituzioni e gli apparati complessivi dello Stato liberale, dalle «élites amministrative» (Melis, 1996, p. 282) alla magistratura, dall'esercito alla polizia, abbiano quasi ignorato i laceranti conflitti del paese, abbiano quasi rifiutato di intendere le ragioni espresse dalle classi sociali in rivolta, riproponendo inalterata la continuità degli interventi repressivi. «Spiegare il silenzio dei giuristi tra il 1918 ed il 1925 è cosa di notevole importanza» ha sottolineato ad esempio M. Fioravanti (1996, p. 202). «Si tratta di capire, infatti, [...], in particolare nel 1919-1920 [...] perché agli occhi dei nostri giuristi in quel torno di tempo [...] si sia andato eclissando il tempo del diritto a favore di quello della politica». Una riflessione che a suo tempo avanzò lo stesso I. Bonomi dal suo banco di Presidente del Consiglio, il 6 dicembre 1921 (ora 1954, pp. 519-36): «Lo Stato è pressoché rimasto assente, quasi soverchiato. La società italiana non potendo riprendere la sua forza vitale attorno allo Stato la trovò attorno al fascismo». Del resto, in una prospettiva di lungo periodo, non possiamo eludere – come annotò Quazza (1973, p. 16) – che «il fascismo è giunto al governo, nell'ottobre 1922, non attraverso un consenso elettorale [...] ma attraverso un'azione violenta» e che «quest'azione violenta deve quindi essere sopra ogni altra cosa sottoposta ad esame». Anche C. Pavone (1996, p. 21), in una ampia riflessione critica sulla violenza nel Novecento, ha voluto sottolineare che l'avvento del fascismo «non sarebbe pienamente comprensibile se non lo si ponesse in collegamento anche con la precedente presenza della violenza e della repressione nello Stato e nella società italiana». A fronte di un processo di indiscutibile rafforzamento degli apparati autoritari, ereditati dalla guerra, e di sopravvivenza della stessa classe dirigente, la concessione del suffragio universale o l'introduzione della proporzionale non furono evidentemente sufficienti ad innescare quel processo globale di «democratizzazione delle istituzioni» (Gentile, 2003, p. 73) che, peraltro, passò inosservato sia dal socialismo massimalista che dalla sinistra rivoluzionaria.


Sull'altro fronte, poi, non è nemmeno facile la ricomposizione e la comprensione di quell'universo culturale e mentale che presiedette alle azioni degli squadristi, fin dal loro primo apparire. Anche per questo, prima ancora di affrontare modi, forme e linguaggi dell'irruzione palese del fascismo armato, prima ancora di interpretare il grande affresco della «macroviolenza», esplosa nella primavera del 1921, ci è parso indispensabile ripercorrere, attraverso ogni singolo episodio, tutte le tappe del conflitto sociale e politico per individuare «le spie» della reazione che, come un fiume carsico, attraversò parallela il biennio 1919-1920. «Se le garanzie costituzionali fossero state rispettate, la violenza squadrista sarebbe stata stroncata sul nascere» ha osservato G. Sabbatucci (1997, p. 129). Solo l'accurata ricostruzione della fitta trama degli avvenimenti che si dipanarono dalla fine della guerra alle tormentate elezioni politiche del maggio 1921 rende, infatti, possibile coniugare assieme le cause determinanti all'avvento del fascismo e capire perché «la violenza squadristica costituì la chiave di volta del successo fascista» (Nello, 2006, p. 33). In tal senso – come dicevamo all'inizio – ci è apparso che l'assunzione della categoria della guerra civile quale leva di indagine storiografica possa finalmente assumere un carattere esplicativo e non solo descrittivo (Legnani, 1990, p. 39) di un drammatico dopoguerra in cui maturano le esperienze e le ideologie portanti dell'intero Novecento. In questa direzione, vanno davvero utilizzati «tutti gli strumenti atti a intendere fino in fondo le radici e i significati di una violenza che si manifest[ò] in forme e in gradi molto diversi» (Pavone, 1996, p. 22), senza dimenticare l'uso (se non l'abuso) della repressione preventiva da parte delle istituzioni e, soprattutto, le tensioni che scaturirono contro il «monopolio statale della violenza» (Pavone, 1994, p. 415) drammaticamente infrantosi anche nel primo dopoguerra. Ed anche allora, come poi accadrà nel corso della Resistenza, la «rottura di quel monopolio liber[ò] la violenza contro lo Stato dalla sua precostituita criminosità» (Bobbio, 1992, p. 304).

Connivenza di prefetti, riorganizzazione della pubblica sicurezza e istituzione della guardia regia, appoggio esplicito di ufficiali e alti gradi dell'esercito al primo squadrismo, intervento punitivo della magistratura nei conflitti di lavoro e verso i protagonisti delle occupazioni di fabbriche e di terre si manifestarono nettamente, e spesso anticiparono il sostegno ideologico che il fascismo riscontrò presso l'opinione pubblica ed i ceti medi in particolare. Del resto, appare improduttivo isolare sociologicamente il fascismo, interpretarlo come il portato autonomo di sentimenti degli strati intermedi, senza considerare il quadro di riferimento economico entro cui maturarono insofferenze e insoddisfazioni del ceto medio cittadino:

La svalutazione, mettendo in forse il valore del denaro, non solo metteva in forse il valore dello stipendio, del libretto di risparmio, della polizza di assicurazione, non solo distruggeva la sicurezza, la tranquillità, il benessere, ma metteva in forse tutti i valori, tutto il sistema in cui crede l'uomo medio, tutto quello che c'è di solido, di rispettato, di sacro per l'uomo medio (Basso, 1962, p. 31).


In una situazione di instabilità e di inquietudine permanente, il ceto medio continuò, infatti, ad aderire sostanzialmente all'ordine costituito, mostrando la mancanza di ogni capacità di azione politica autonoma, a differenza della classe operaia che da esso trasse la spinta verso posizioni di rottura e di superamento dei legami di classe esistenti. «Lo stato di piccoli borghesi timorosi di un paventato processo di proletarizzazione – ha osservato Brunetta (1986, p. 157) – li induceva a trascendere ad un vero e proprio odio di classe, inteso a rimettere ordine nella piramide sociale e a ricondurre le masse operaie e contadine al ruolo subalterno che si teneva loro proprio». Certo, i ceti medi impoveriti e delusi dalla guerra espressero la loro indignazione anche contro gli industriali e i capitalisti che avevano tramutato in profitto il sacrificio degli italiani in guerra; ma, di fatto, dal 1919 al 1922, essi orientarono il proprio malcontento soprattutto in direzione del proletariato e delle sue organizzazioni politiche e sindacali, offrendo al fascismo nascente la tutela e il catalogo dei propri risentimenti.

In fondo che i ricchi fossero ricchi o ancora più ricchi, che i capitalisti sfruttassero ogni situazione per trarne profitto era nell'ordine normale delle cose; quel che non era normale nell'ordine tradizionale delle cose era che la classe operaia o i contadini si avvantaggiassero economicamente sul ceto medio e mettessero in forse anche la tradizionale gerarchia sociale [...]. Vedere diminuito il distacco economico tra ceto medio e proletariato sembrava al ceto medio un intollerabile affronto proprio al suo prestigio di caporale dell'ordine sociale (Basso, 1962, p. 32).


Del resto se, in tempi più recenti, «un riscoperto approccio sociologico» ha fornito più adeguati strumenti d'indagine, va anche considerato «che il nuovo ceto medio piccolo borghese costruito dal fascismo, [fu] caratterizzato non tanto dal possesso di un diploma, o dall'esercizio di un impiego [...] quanto dalla sua collocazione dentro una struttura istituzionale specializzata nel governo politico della società» (Salvati, 1992, pp. 52-53). La irremovibile e rafforzata impalcatura dello Stato postbellico avrebbe offerto a quei ceti – ancora alieni «dall'idea stessa di dotarsi di un proprio strumento partitico» (Aimo, 20045, pp. 97-98) – la possibilità di un «persistente autonomismo» e di un loro netto predominio nei ruoli emergenti della burocrazia.

Non è un caso che, dietro le rivendicazioni estreme e le prese di posizione anticapitalistiche, antimonarchiche, anticlericali del fascismo sansepolcrista, campeggi altrettanto chiaramente il vuoto ideologico e la mancanza assoluta di qualunque riflessione sulla natura dello Stato. Come avvertì Rumi (1965, p. 442) «la possibilità di un radicale mutamento delle strutture sociali ed istituzionali del paese rimane abbastanza remota» dalle riflessioni del fascismo delle origini. L'oratoria del suo leader vagheggiò, subito dopo la fine della guerra, i termini di una «democrazia produttiva», ma all'interno del disegno di «un unico organismo sindacale svincolato dai partiti» (Cordova, 1974, p. 10) e, soprattutto, dal PSI; né la sua critica investì il processo di stabilizzazione e di rafforzamento del capitalismo. Significativamente, proprio nel momento in cui il PSI poneva come primo obiettivo del suo programma l'istituzione della dittatura del proletariato, Mussolini già richiamava le basi del sindacalismo nazionale: «Niente rivoluzione politica, niente estremismo, niente espropriazione e nemmeno lotta di classe, se i capi delle imprese saranno intelligenti». Contemporaneamente strinse i suoi legami con la vasta platea di reduci ed ex combattenti e particolare attenzione rivolse al contributo di ufficiali e sottufficiali «i veri artefici della vittoria», «l'élite della aristocrazia nuova». Maturavano in quel particolare contesto i rapporti sempre più stretti con gli arditi, per i quali si prodigò in seguito ad ottenere «aiuti economici da alcune banche milanesi, da ricchi interventisti, e dalle autorità militari locali». Né fu un caso che l'operazione di aggancio e di reciproco appoggio alle variopinte correnti che facevano tutte capo al più acceso nazionalismo decollò parallela all'esplosione di irruente manifestazioni di piazza, guidate dai più esasperati interventisti. Tutto ciò – come vedremo – avvenne, fin dal novembre 1918, nelle stesse ore in cui si risolveva il conflitto, sia a Milano che a Torino e a Bologna. Tre grandi città, ricche d'un tessuto economico ben configurato: culla, le prime due, dell'industria italiana e del movimento operaio organizzato, tipica rappresentante, la terza, di quel ceto di commercianti, bottegai, artigiani, i cui sentimenti di classe troveranno ampio respiro nella demagogia fascista.


In uno scenario di scontri sempre più drammatici tra l'immobilismo di ceti sociali rigidamente arroccati ai privilegi della ricchezza e l'aspirazione a nuovi bisogni rivendicati dal protagonismo delle masse popolari, la categoria della guerra civile fu continuamente evocata: sia dal socialismo riformista come «sintomo di smarrimento della ragione politica» (Legnani, 1990, p. 41), sia da Mussolini come inevitabile strumento finalizzato all'immediato ritorno alla normalità. In quella cornice avvenne il trapasso traumatico verso la nuova società di massa, e il suo difficile riconoscimento da parte delle istituzioni del vecchio Stato liberale.

«Una vera e propria guerra civile scosse l'Italia tra 1919 e 1922» ha commentato A. Banti (1996, p. 337) di fronte ai caduti di «morte politica». Una cifra esatta non è stata mai calcolata, se non per ipotesi. Ad ogni modo, se al «numero di 2000 morti durante il periodo della guerra civile 1921-1922», ipotizzato dal Salvemini (I, 64), si aggiungono i circa 1000 morti caduti dal 1919 al 31 maggio 1921, desunti (per difetto) dai dati riportati dalla PS e dalla stampa (cfr. Appendici I e II), possiamo realisticamente supporre che il numero totale delle vittime della guerra civile, fino alla «marcia» su Roma, sfiorò le 3000 unità. E tuttavia: al di là dei confronti statistici e dei contorni tragici che assunsero quegli eventi, compito della storiografia è quello di ridisegnare senza veli i termini aspri e violenti di quel contrasto, e stimolare una riflessione che deve essere sempre meno latitante e reticente: sia nei riguardi della guerra civile del 1943-1945 che di quella provocata dal primo conflitto mondiale.

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Per quanto riguarda la presente ricerca abbiamo voluto ricomporre le fila di quella azione repressiva che lo Stato condusse nel primo dopoguerra facendo ricorso, dapprima, alla legislazione eccezionale di guerra prorogata in tempo di pace, per snidare dovunque il «nemico interno»; e, poi, al sostegno dell'esercito, delle forze di polizia e della magistratura, nonché ai partiti d'ordine tra i quali si collocò il nascente fascismo. Decisiva è stata, a tal fine, sia una rilettura della pubblicistica coeva sia l'esplorazione dei fondi archivistici laddove, sullo sfondo di foschi scenari di guerra civile continuamente evocati, appare evidente il timore delle classi dirigenti che lo spettro del bolscevismo dilaghi nel paese. In particolare, per quanto riguarda gli avvenimenti che vanno dall'eccidio di Palazzo d'Accursio alle elezioni del maggio 1921, periodo in cui il movimento fascista divenne in prima persona il principale protagonista della violenta reazione anti-socialista, esiste una documentata bibliografia sull'argomento, d'ordine generale e soprattutto di storia locale. Abbiamo tentato però, anche in questo caso, di perseguire un obiettivo diverso. Quello cioè di misurare «la temperatura della guerra civile» (Franzinelli, 2003, p. 46) fin dalla sua fase iniziale. Di ricostruire, cioè, lo svolgimento quotidiano di quei tragici eventi, cercando di «guardare alle vicende del primo dopoguerra con gli occhi dei contemporanei» (Tarchi, 1996, p. 5), facendo ricorso sia ai dibattiti parlamentari sia alle cronache e ai commenti della stampa socialista e fascista. Tutte fonti, naturalmente, messe a confronto con documenti dell'autorità statale centrale e periferica (Governo e Prefetti) che, rispetto ai primi non producevano versioni meno «neutrali». Il tentativo è stato quello di offrire una narrazione sincronica degli eventi, di restituire «coordinate interpretative e metodologiche» alle tessere di un mosaico segnato dalla irruzione della violenza quotidiana. Spesso, eventi traumatici di storia locale che, però, vanno inseriti nel quadro generale della storia nazionale per superare «la eccessiva frammentazione degli studi» (Lodovici, 1993, p. 138). Tanto per fare qualche esempio: altro è ricostruire e documentare le origini del «sistema» terroristico imposto nel Polesine dallo squadrismo fascista, altro è collazionare quegli eventi con l'insurrezione dei contadini pugliesi contro la violenza fascista o con l'uccisione di Spartaco Lavagnini e i tragici fatti di Firenze, o con l'ennesimo assalto alla Camera del Lavoro di Trieste, a quella di La Spezia, alla cooperativa di S. Ilario di Reggio Emilia. Tutti episodi – si badi bene – che si svolgono sincronicamente, lo stesso giorno (27 febbraio 1921). E, come tali, vanno letti per restituire «la logica di guerra civile permanente che animò lo squadrismo» (Lupo, 2008, p. 7), per documentare situazioni allarmanti, talora confinate nelle pagine della cronaca cittadina: tutte «spie» utili a ricostruire la genesi di segnali preoccupanti che dalla periferia affluivano quotidianamente sulle scrivanie di funzionari del Ministero degli Interni: talora assenti o inerti di fronte alla violenza. E ancora: come ricomporre in un unico scenario tragici eventi come quelli che contemporaneamente insanguinarono l'Italia il 14 ottobre 1920: assalto e distruzione del «Lavoratore» di Trieste e delle sedi istituzionali del movimento socialista; uccisione mafiosa a Palermo, di Giovanni Orcel, protagonista delle lotte dei metallurgici nel corso dell'occupazione delle fabbriche e dei cantieri navali; tragici scontri a Bologna (fatti del Casermone), conclusisi con un bilancio di 5 morti (un ispettore di polizia, una guardia regia e tre operai) e di 15 feriti, quasi tutti anarchici, come i 32 lavoratori arrestati? E ancora: quello stesso giorno, gravi incidenti in Galleria a Milano, tra anarchici e giovani fascisti, offrirono immediatamente l'occasione per la più vasta retata e la «decapitazione» del movimento anarchico in tutta Italia; intanto a S. Giovanni Rotondo (FG) la forza pubblica, assalita dal timore di un assalto al Municipio, sparava contro un corteo festante per la vittoria socialista alle elezioni comunali, e provocava un eccidio senza precedenti: 11 morti, tra cui un carabiniere, ed oltre 40 feriti. E infine: perché negli annali delle nefandezze del 23 marzo 1921 fu subito iscritto il tragico attentato «anarchico» al Diana e non le rappresaglie che ,i fascisti, lo stesso giorno, anniversario di S. Sepolcro, eseguirono in Valdarno, a S. Giovanni, a Castenuovo dei Sabbioni? E infine, come interpretare l'atteggiamento di tutte le forze politiche che, dal 7 aprile al 15 maggio 1921, attraversarono nel sangue la campagna elettorale per il rinnovo della Camera: poco più di un mese durante il quale — secondo gli ultimi calcoli (Appendice II) — si registrarono circa 170 morti e quasi 500 feriti? E perché — in funzione della ricostruzione catartica della marcia su Roma — passò quasi inosservato nell'opinione pubblica che nel solo giorno della consultazione popolare, persero la vita oltre 40 persone?


Il 13 giugno 1921, l'ingresso di 35 deputati fascisti a Montecitorio segnò una data periodizzante nel paese, il culmine di un processo, ormai irreversibile, che si sarebbe concluso il 31 ottobre 1922 con la nomina di Mussolini a capo del Governo. Dire che con l'apertura della XXVI legislatura i giochi erano ormai fatti può sembrare eccessivo. Eppure, tutti i protagonisti del dramma avevano già recitato la propria parte: fin dal 3 febbraio 1921, quando la Camera, di fronte alla prime violenze fasciste, aveva espresso a maggioranza il sostegno al Governo Giolitti e respinto una mozione socialista che ne criticava l'operato. Da allora, aveva preso sempre più corpo, da parte di tutte le forze politiche, un atteggiamento che, nella sostanza, rimarrà inalterato sino alla marcia su Roma. Giolitti, attraverso i blocchi nazionali, «costituzionalizzò» il fascismo in funzione socialista, dimostrando di non essere più in grado di controllarlo, come sperava. I socialisti, consolidati nel peso elettorale del 1919, riuscirono a prevedere, per bocca di Turati, che «la nuova Camera nata nel sangue demolirà il regime rappresentativo, il regime democratico d'Italia»: ma nulla fecero — nell'ottica di una prassi riformistica — per formare un governo di maggioranza coi liberal democratici più avvertiti o con i popolari. Questi ultimi, eterni aghi della bilancia parlamentare, puntellarono di fatto lo status quo di ogni inefficienza governativa, convinti, pur dinanzi al terrore squadrista, che si trattasse di una reazione violenta ma giustificata dagli eccessi del bolscevismo. I comunisti, infine, presi d'assalto dalla reazione fascista all'indomani di Livorno, rigidi seguaci della concezione terzinternazionalista che considerava l'avvento del fascismo come guardia bianca ed espressione del braccio armato della reazione borghese, intravidero nel riformismo, nume tutelare della democrazia liberale, il vero pericolo, l'impedimento a qualunque soluzione rivoluzionaria e di abbattimento del regime capitalistico. Da parte sua, Mussolini, fin dal suo primo discorso alla Camera (21 giugno 1921), non si stancò di ribadire trionfante (tra l'approvazione dell'estrema destra) che «sul terreno della violenza le masse saranno battute» e di ripetere ai socialisti: «Se voi convenite e ammettete e confessate che su questo terreno noi vi batteremo, allora dovete concludere che avete sbagliato strada. La violenza non è per noi un sistema, non è un estetismo, e meno ancora uno sport: è una dura necessità alla quale ci siamo sottoposti».


Pareva insomma che, anche in quel senso, il dado fosse già tratto. E ben se ne avvide lo stesso Turati, quando, tre giorni dopo, in risposta all'indirizzo di governo e al discorso della corona, sentenziò che, con quelle elezioni, indette «prima che l'impero della legge fosse risorto e la tranquillità pubblica fosse restituita», si era lasciato fare «un colpo di Stato». Ma ormai era troppo tardi:

Quando le percosse, le minacce, il dileggio, l'assassinio non rispettano neppure le donne, i vecchi, i bambini; quando vi è gente che impazzisce sotto il terrore; quando insomma la lotta selvaggia è rivolta contro tutte le organizzazioni proletarie, o rosse, o bianche, o incolore, ossia contro il proletariato, ossia contro la patria; ebbene, allora non v'è più vita civile, non v'è più patria, non v'è più civiltà.

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