Copertina
Autore Fabriano Fabbri
Titolo Lo zen e il manga
SottotitoloArte contemporanea giapponese
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2009, Campus , pag. 338, ill., cop.fle., dim. 17x22x2,4 cm , Isbn 978-88-6159-279-7
LettoreFlo Bertelli, 2009
Classe arte , fotografia , critica d'arte , paesi: Giappone
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Indice


 IX Introduzione
    Come arte comanda

 IX  Così lontano, così vicino
 XI  Tra performance e «kawaii»

  1 I due volti del Gutai

  1  Dall'Action painting all'Action painted
  7  Verso l'opera «aperta»
 14  «Koden» Tanaka
 17  Gutai va in scena
 22  Si spengono le luci

 27 Kusama "love & pixel"

 27  Flower Power
 34  Dalle fragole alla Grande Mela
 41  Una potente «esplosione anatomica»
 47  Dentro il videogioco
 52  Tokyo tra New Dada e happening

 57 Ono per tutti, tutti per Ono

 57  Voglio una vita tutta zen
 60  Fluxus, ovvero così parlò il Pompelmo
 66  Come Fluxus comanda
 70  Corpo a corpo
 72  Pensiero stupendo
 75  Altri protagonisti di Fluxus

 81 Mono-ha, il «grande freddo»

 81  Nel regno delle ombre
 82  La scuola delle cose
 87  Minimalismo sì, Minimalismo no
 91  La vita "accesa" a un filo
 94  Nagasawa da povero a ricco

101 Il sesso estremoriente di Araki

101  Araki tra fotografia e fotograf-io
105  Sex & zen
107  Sex and the city
109  Zero Jigen e The Play

115 Da Mazinga al museo

115  Un ritorno all'ordine robotizzato
119  L'insalata di matematica
121  Gli entomoidi di Amano
127  Il "copia e incolla" di Morimura
131  Sugimoto "meno di zen"
135  Autentiche finzioni
137  La Nuova pittura

141 Un nuovo nucleo di aria «fredda»

141  Miyajima e il numero innamorato
145  Come installazione comanda
154  Lo zen hi-tech di Shinoda
157  Un azzeramento "white-out"
167  Come foto comanda
170  Si affaccia il Biopop

173 Neopop, Pop Heart, Biopop

173  Yanobe ragazzo del futuro
175  Un Neopop interattivo
181  Gli "alter logo" di Murakami
185  Dob e il «superflat»
191  Le icone della Pop Heart
195  Come scultura comanda
198  Gli angiodiavoli di Nara
200  Tra Freud e South Park
203  Come pittura comanda
207  «Koden» Mori
211  Una performance "anime e corpo"
217  Tra micro e macrocosmi
222  Ujino, o dell'arte dei rumori

225 2000 e dintorni

225  Murakami o Nara?
234  Tra catastrofi e tradizioni
238  Bambine impertinenti
244  Una pittura più vera del vero
247  L'universo liquido dell'Afro Samurai
252  Il caos calmo del decorativismo
259  Si rivede il Minimalismo
262  E si rivede la fotografia
266  Stravolgere il readymade
273  Il ritorno dell'informe
282  La riconquista dall'ambiente
288  La morbida legge del PixCell: Nawa
291  Biopop organicista, Biopop di plastica
303  Come happening comanda
306  Come performance comanda

317 Bibliografia

321 Note

333 Indice dei nomi



 

 

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Pagina IX

Introduzione

Come arte comanda


Così lontano, così vicino

Nel 2005 ho avuto il piacere di tenere un corso di arte contemporanea alla Tokyo University, presso la prestigiosa Komaba Todaimae. Non è mia abitudine citare episodi personali, trovo sia sempre un po' celebrativo e volgare, ma stavolta è proprio il caso: siccome è difficile riuscire a esprimere l'impatto di una simile esperienza, davvero impagabile dal punto di vista dei rapporti affettivi e professionali, mi sono impegnato fino in fondo per riuscire a restituirne almeno una parte in questo libro. La mia dichiarazione d'amore al Giappone trapela da ogni pagina. Da ogni sillaba, perfino da ogni virgola. È la verità, non lo dico tanto per dire.

L'idea di un volume sull'arte giapponese, ovvio, è nata durante il soggiorno tokyota, sebbene la gestazione non sia stata per niente lineare, piena di entusiasmi ma anche di perplessità. Perché mai dovrebbe essere un occidentale a occuparsi di un tema del genere? O meglio, a che titolo? In Giappone ci sono ottimi critici, studiosi appassionati e molto preparati sulla cultura nipponica.

Il punto è che c'è più Giappone in noi di quanto non si possa immaginare.

Chi abbia visitato la terra dei Samurai atterrando a Narita, nel tragitto verso la città avrà provato una sensazione altalenante fra stupore e familiarità. I chilometri che separano l'aeroporto da Tokyo sono molti, eppure non si percepisce soluzione di continuità, la distesa di case e palazzi è ininterrotta, impressionante. Nulla di paragonabile ad altre città europee per densità e dimensioni, Tokyo è una megalopoli immensa. È risaputo. Forse è meno immediato un accostamento in apparenza piuttosto arrischiato e che tuttavia si raggruma in uno strano nucleo di verità; quando si visita New York per la prima volta si ha la sensazione di esserci già stati, e questo grazie agli innumerevoli film che ritraggono i suoi scorci più spettacolari. Tokyo invece al cinema l'abbiamo vista raramente, eppure l'aria del déjà vu non è meno palpabile; stiamo appena iniziando a scorgere le sue facciate fantasmagoriche e le trame futuribili delle autostrade, gli ideogrammi intermittenti o i cavalcavia in mezzo ai grattacieli, ma intanto, scavando nelle sensazioni, cerchiamo di capire da dove provenga quel sentore di confidenza visiva, fino a quando la soluzione arriva senza preavviso: sono sequenze apparse nei cartoni animati e nei fumetti. Non sono le stesse, intendiamoci. Possono esserlo, ma non è la corrispondenza filologica a colpirci, quanto piuttosto una parentela metabolizzata attraverso gli scenari di Neon Genesis Evangelion, di Ghost in the Shell, di Lupin III, di altri manga e anime che hanno fatto del Giappone una delle mete più in voga tra un pubblico di età compresa tra i quindici e i quarant'anni. La scommessa è aperta: scagli la prima pietra chi non ha mai immaginato di trasformarsi in un Super Sayan, di provare a essere Lamù, di bagherare con Mila e Shiro o di pilotare Gundam. E non sia detto con toni tanto scherzosi, dal momento che lo scopo del mio discorso punta a sottolineare come, a differenza di un altro gigante asiatico come la Cina, il Giappone sia un mondo così geograficamente lontano eppure così vicino a noi sotto moltissimi aspetti. Senza scomodare troppo moda, design e architettura, per citare i casi più popolari pensiamo alla tecnologia, dove il "made in Japan" è da sempre marchio di garanzia, o al settore automobilistico, o meglio ancora ai sogni a due ruote delle varie Honda, Yamaha, Suzuki. E i videogiochi? Altro propellente da nippomani. C'è una simpatia congenita verso il Giappone, un feeling di vicinanza e attrazioni automatiche al di là dei ciliegi in fiore e degli aceri in fiamme, che ci spinge a pensare a quella del Sol Levante come a una cultura ormai radicata nei gusti e nelle passioni dell'Occidente. E, ripetiamolo, tutto ciò per merito di prodotti che ci hanno conquistati e continuano a sedurci, dal tamagotchi a Hello Kitty, dal cibo ai tanti cartoni animati, a non finire. Ritrovarmi tra gli accalorati consumatori di nippolandia non mi autorizza a conoscerne i segreti, ma è pur sempre un piccolo passaporto, un vademecum per avvicinare non pochi aspetti della cultura estremorientale.

Chiusa la giustificazione sulla giapponesità di ognuno di noi o quasi, conviene rivestire gli abiti più seriosi del professore universitario per riprendere la rotta del libro e delle sue intenzioni. Un'altra ragione fondamentale che mi ha spinto a scrivere le tante pagine a seguire nasce da una constatazione abbastanza inspiegabile: nello svolgere le mie ricerche ho trovato campo libero, non a livello di esposizioni e di cataloghi, bensì di trattazioni omogenee capaci di mappare l'arte giapponese dal dopoguerra in poi con una certa completezza. In Europa e negli Stati Uniti studi approfonditi sull'argomento sono assenti, ma questa mancanza è per fortuna bilanciata da forti interessi da parte di musei e gallerie. Si è scritto qualcosa di più in Giappone, neanche più di tanto però, almeno non quanto merita un'arte da aggettivazione al superlativo – "esplosiva", "potente", "inevitabile", stando alle qualità rilevate da critici e curatori negli interventi più attuali –, un'arte al cui impatto estetico il mondo non può sottrarsi, ma che di fatto non si è ancora verificato: abbiamo visto il lampo, non abbiamo sentito il tuono. Non solo sono d'accordo sullo "scoppio" a breve dell'arte giapponese: sono a dir poco orgoglioso di alimentarne il boato con nove capitoli e centinaia di immagini. Puntando su artisti molto noti benché quasi mai inseriti in contesti internazionali, ho provato a rimediare a certe mancanze, per esempio con sezioni molto consistenti su Yayoi Kusama, Yoko Ono e altri nomi storici, senza comunque cadere nel vizio opposto di trascurare le nuove leve. Troppo comodo urlare "largo ai giovani" omettendo la verità nascosta del "purché dopo di noi"; così, indice alla mano, Lo zen e il manga lievita sensibilmente verso gli ultimi capitoli, che rappresentano la parte più estesa del libro perché ho sempre trattato gli emergenti al pari degli affermati. In queste pagine mi sono battuto per il Gutai e per sostenere l'arte delle ultime tendenze, fino al Biopop, includendo ogni sfumatura espressiva, dalla pittura alla performance, con l'approccio di un fan, o di un ultrà. Inoltre, con oscillazioni e ritorni di tecniche esposte in traiettorie precise, mi sono sforzato di impostare una griglia interpretativa basata sugli sviluppi delle varie vicende, cercando i fili sotterranei, le linee di contatto tra artisti lontani nel tempo eppure affini nelle soluzioni. Per il testo si troveranno riferimenti ai sentieri artistici del Novecento non diversi dalle ramificazioni di un albero genealogico, similitudine sparsa qua e là nelle varie sezioni. Su tutto, la persuasione di credere in una lettura "forte". Ogni modalità espressiva riguardante le tecniche dell'arte contemporanea è sorretta dalle diverse declinazioni di una formula linguistica, "come arte comanda", estesa via via alla pittura, alla performance, allo happening eccetera per ribadire il mio credo nell'impianto teorico della fenomenologia; questa impone, anzi "comanda", che siano le forme generali e non certo la falsa genialità del singolo a manifestarsi nei campi della cultura, in base a criteri sovraindividuali come la generazione, il potere della sfera basso-materiale alias della tecnologia, predominante — nell'uso che ne faccio io sull'onda di studiosi come Marshall McLuhan e Renato Barilli — nella forza del pixel e in genere della galassia elettronica.


Tra performance e «kawaii»

Chiuse le argomentazioni generali sulla gestazione del libro, veniamo a quelle più specifiche, ai poli che ne animano lo sviluppo come sostanze endocrine, soprattutto per evitare di spacciarlo per un prodotto polveroso e pesante. Il titolo non intende essere un'esca né per aspiranti monaci né per appassionati di fumetti, dato che l'arte del Giappone si bilancia tra i due principi dello zen e del manga, per altro molto ben presenti nell'arte del Novecento in generale. Sono molti gli artisti che hanno avvertito un'attrazione spontanea verso lo zen; pensiamo a Mark Tobey, a Georges Mathieu, a Yves Klein e a John Cage per citare i casi più eclatanti, con lista da estendere agli artisti che mirano alla meta fondamentale dell'arte contemporanea, ovvero lo smarcamento dalla bidimensionalità, il superamento del quadro e della scultura. Tra queste pagine, quindi, lo zen abbraccia i fenomeni artistici pronti a favorire la pienezza dei sensi attraverso il potenziamento del tatto, dell'udito e via così, in accezione piuttosto dilatata ma per niente lontana dai precetti basilari di questa filosofia. Ritroveremo spinte zen nei movimenti posseduti dal demone della performance e dell'ambiente, vedi Mono-ha e The Play, e non sono affatto estranei allo zen gli artisti degli anni novanta e degli anni duemila. Naturalmente, "arte comanda" che ogni ritorno di zen si verifichi con i modi e gli aspetti consentiti dai tempi, che oggi sono imbottiti di "special effects", ovvero, in sigla, di SFX; così ne vedremo a valanghe in corpi attrezzati con protesi hi-tech e in installazioni foderate con ogni sorta di stimolatore sensoriale. In altre parole, lo zen nell'arte contemporanea giapponese significa uso diretto del corpo, immersione nell'esperienza del mondo attraverso l'interazione con la realtà, secondo schemi proposti a suo tempo dalle avanguardie storiche. Nell'inseguire la conquista dello spazio e del movimento, infatti, dal gruppo Gutai in poi gli artisti hanno riproposto soluzioni già ampiamente concretizzate dal Futurismo e dal Dadaismo, rilanciate in pompa magna e senza alcuna reverenza devozionale in lavori che ne collaudano e ne amplificano la portata. Insomma, non è affatto arbitrario concludere che lo zen converge senza forzature verso correnti extra-artistiche, tese a innestarsi nel binomio arte-vita più che a produrre opere solo "da guardare". A integrazione di una filosofia estetica basata sui respiri dello zen soccorre un altro concetto cardine della cultura nipponica, il wabi-sabi: una sensibilità particolare verso gli aspetti della vita manifestatisi a uno stato dimesso, logorato, "povero". Volto alle energie nascoste della materia, oggigiorno anche l'approccio wabi-sabi subisce l'impennata tecnologica dello SFX per assonare con i funambolismi di un diffuso wabi-cyber.

Accanto alla via degli effetti speciali e della corporalità nello zen e nelle pieghe del wabi-sabi, esiste però l'alternativa opposta del manga, parola che non ha certo bisogno di presentazioni, stranota al pubblico dei lettori di fumetti e per estensione ai tanti consumatori degli "anime", termine che individua i cartoni animati nipponici. Non è il caso di dilungarsi qui sull'impatto e l'influenza degli animanga sulla cultura contemporanea, mi limito ad accodarmi fra i terrestri ammaliati dal fascino di autori di culto, molti dei quali segnalati nel libro, fermandomi invece su un aspetto tipico del mondo nipponico, il cosiddetto "stile kawaii". Intanto, meglio precisare che zen e manga sono gas instabili, mai fissati e fissabili una volta per tutte; al contrario, tra le due linee si instaurano oscillazioni incessanti, prevale l'una per un certo periodo, domina l'altra subito dopo, in un gioco di tendenze "esplosive" che includono appunto happening e performance, scalzati da fasi "implosive" di ritorno a una figurazione più tradizionale. Ed è proprio qui che si innesta il kawaii. Il termine è traducibile grossomodo come "carino", "dolce", "ciccettoso", "morbido", in senso letterale e figurato; si riferisce a ogni pupazzetto capace di suscitare le tenerezze più infantili, l'animaletto indifeso, tondeggiante, da accudire e accarezzare come se glassato di ossitocina, l'"ormone delle coccole". Pochi di noi sono immuni alla sindrome di Bambi. I gattini e i cuccioli ci commuovono con i loro vezzeggiativi e i loro diminutivi anatomici, ma fanno strage di cuori le creature kawaii culminate nei vivai dei Pokemon, i Charmender, i Jigglypuff e i Pikachu, che in campo artistico, specie nel Neopop, al di fuori del Giappone non hanno rivali. Le creature di Takashi Murakami o i bambolotti di Yoshitomo Nara incarnano solo alcuni esempi di kawaii rielaborato e rimaneggiato, addirittura incattivito con altri protagonisti dell'arte nipponica in un susseguirsi di invenzioni che fra le altre cose testimoniano un ennesimo punto di merito del Sol Levante. Da qualche anno è apparso sulla scena un numero sempre più consistente di artiste donne, abili e straordinarie, che hanno capovolto il primato di un'arte prettamente improntata al maschile nei secoli dei secoli; la tendenza rispetta lo stesso copione anche in Giappone, con la differenza per nulla trascurabile che si tratta di un processo in atto oramai da parecchio tempo, a partire guardacaso dalle esperienze del gruppo Gutai e ripreso da fuoriclasse come appunto la Kusama, la Ono, su fino a Mariko Mori, la Tabaimo e le altre numerosissime interpreti dell'arte contemporanea giapponese. Spero che questa ricognizione sia l'occasione buona per poterle conoscere e magari apprezzare assieme agli altri artisti del panorama nipponico, almeno quanto per me è stato un piacere poterne scrivere.

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Pagina 101

Il sesso estremoriente di Araki

Araki tra fotografia e fotograf-io

Dopo l'invasione dell'ambiente attraverso il poverismo del gruppo Mono-ha e di Nagasawa, è arrivato il momento di aprire una sezione dedicata a uno dei mezzi espressivi più amati dall'arte contemporanea, la fotografia. Di immagini fotografiche ne abbiamo viste in quantità dal Gutai a Yoko Ono, seppure con funzione nettamente diversa rispetto all'artista che esamineremo tra un attimo, ovvero, là l'immagine serviva a documentare una performance, un evento, quindi l'attenzione rispetto ai valori formali dell'inquadratura risultava scarsa se non indifferente, mentre ora vedremo un fotografo che punta su scatti ben fatti, incline, anche se non da subito, alla cura del taglio.

Cominciano intanto col ribadire quanto già detto a proposito del gruppo Mono-ha: l'arte nipponica sfiora il fenomeno della Body Art solo in modo periferico, mai associato agli atti radicali che portano a colpire il corpo con gesti di una violenza sanguinaria, da battaglia epidermica, proprio per la ragione molto semplice che in Giappone non è esistita una vera e propria Pop Art con la connessa sovrabbondanza di merci fatte in serie. Abbiamo rimarcato, e lo evidenziamo nuovamente, che ai prodotti dell'industria pesante l'arte giapponese preferisce quelli dell'"industria pensante", alleggeriti nei flussi e nei servizi delle tecnologie immateriali; ciò significa che sul corpo non scoppiano conflitti lacerativi per la mancanza di un nemico effettivo da sconfiggere, non c'è sovraffollamento oggettuale se non cautamente riscaldato con toni di riappropriazione vitalistica a intasare l'equilibrio dei canali di percezione. In formula, niente Pop Art, niente Body Art.

Detto questo, Nobuyoshi Araki qualche spezia bodyartistica o quanto meno concettuale la dimostra: un nato nel 1940 come lui non può sottrarsi alla «volontà d'arte» che pressa una generazione a esaltare le energie del profondo. Araki fa quindi dello sbrigliamento ormonale il suo "punto di vista", senza che il richiamo alla prospettiva, ovvero alla scatola illusoria, sia buttato lì a caso. Ha poi senso? Non abbiamo visto che tutta l'arte contemporanea tende a spazzar via il punto di fuga rinascimentale per godersi i piaceri del «superflat»? Non sarebbe allora un nostalgico conservatore, Araki, vorace di profondità illusionistiche, quando permea le sue foto con tagli così innegabilmente inscatolati nello spazio? Se le cose andassero in questo modo, effettivamente sì, al fotografo bisognerebbe porre un freno, anzi un "no" secco: non ne possiamo più di tramonti e di prati in fiore, le dame con l'ombrellino ci hanno stufato, non parlano più il linguaggio coinvolgente della contemporaneità; basta ninfee a pelo d'acqua, salutiamo con tante grazie e infiniti ossequi i treni che entrano in stazione sbuffando nuvole di fumo. Meglio le impressioni, non l'Impressionismo: le impressioni fotografiche. È chiaro che anche Araki le vede e soprattutto le scatta così; pertanto se lo spazio della sua fotografia si prolunga all'interno di una gabbia prospettica lo fa con l'intenzione, la convinzione, la tenacia e la coerenza di chi in quello sprofondamento ha il desiderio di immergersi per intero con un metodo che con molta efficacia teorica l'artista riconduce all'"io" in letteratura: «La mia carriera si è svolta per intero tra le righe di un romanzo in "prima persona". Credo che il romanzo all'"io" sia la cosa che più si avvicini alla fotografia». Nel gergo cinematografico si parlerebbe di una ripresa in soggettiva, con la telecamera che appunto aderisce per intero alle movenze del protagonista, mentre noi ne siamo incollati a rimorchio, "come se" quell'artificio ci facesse vivere le vicende a stretto contatto: abbiamo la sensazione di essere effettivamente lì dentro lo schermo, di un film o di un videoclip, secondo l'effetto così genialmente ottenuto da Jonas Akerlund nel famoso Smack my Bitch up dei Prodigy. Idem, chiaro, per le pagine di un libro dove il protagonista parla in prima persona, con il lettore costretto ad assumerne l'angolo di visuale e a viverne le esperienze per immedesimazione, di nuovo "come se" tra le righe ci fosse proprio lui. Inutile dire che lo spettro di opzioni esistenziali viene straordinariamente allargato, poiché "per finta" abbiamo l'onore e l'onere di essere tutto e il contrario di tutto, diavolo e acqua santa, di assaporare lo splendore di opportunità belle e brutte elargitoci con tanta generosità da un prodotto culturale che dice "io". La fotografia di Araki diventa allora fotograf-io, da leggersi come vera e propria simulazione di esperienza attraverso il piano virtuale di immagini che tendono a scaraventarci dentro la cornice. Infatti, se è vero che la prospettiva c'è, è altrettanto assodato che quasi tutti i protagonisti della sterminata produzione arakiana si comportano ben diversamente dai loro antenati: la prospettiva moderna – da Leonardo agli impressionisti – impone la logica inflessibile del "guardonismo", dell'osservare senza che l'osservato se ne accorga, da un'ideale parete invisibile se non dal buco della serratura, logica che aveva suscitato le urla di Filippo Tommaso Marinetti e dei suoi tuoni contro lo «stupido voyeur». Al contrario, fin dalla sua prima serie di immagini, la celebre Satchin del '65, Araki tratteggia le linee del suo credo in modo che i soggetti sappiamo molto bene di essere scrutati dall'occhio fotografico, con cui iniziano un gioco di relazione compartecipativa, sghignazzando come sanno fare i bambini ritratti, insomma guardando camera, artista e di conseguenza il fruitore dritti in faccia: Satchin, il bimbo che dà il nome alla serie, punta lo sguardo su di noi "come se" ci trovassimo davvero davanti a lui, creando il surrogato di un contatto reale. Noi, anzi, "io", fotograf-io, stiamo guardando e allo stesso tempo veniamo guardati.

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Pagina 225

2000 e dintorni

Murakami o Nara?

Forse non tutti sanno che il mondo dell'arte ha la sua crosta come il pianeta terra, o meglio ha le sue croste, di pittura, tante, infinite, in quantità a volte sconcertante, di una bruttezza così avvilente da chiedersi come mai ci sia qualcuno con il coraggio di ricamarci qualcosa di articolato a livello teorico, una paginetta o un catalogo che ci propongono un decotto di banalità spacciate per gioielli di saggezza. Forse non tutti sanno che il mondo dell'arte, meraviglioso, galleggia su un mare di luoghi comuni, di prostituzioni vere e proprie al gusto di qualche sempliciotto o peggio ancora all'incapacità di chi non ha neppure gli strumenti per dividere il buono dal brutto. Se nell'arte in generale è difficile scantonare dalla canea glutinosa del critico scadente e dell'artistucolo, nel campo specifico della pittura, apriti cielo, il distinguo non è facile, tanto più che in un'espressione artistica così collaudata dalla tradizione reperire qualche margine di novità e di ideazione capaci di superare la barriera dei lirismi, delle "emozioni" e della "poesia" è diventata una specie di caccia allo Yeti. Pura rarità.

E forse non tutti sanno che nel mondo dell'arte degli ultimissimi anni la pittura e il disegno si sono moltiplicati come funghi. Per reazione alla tempesta di «freddo» degli anni novanta, comprese le polivalenze del Neo e del Biopop, è nata una generazione di artisti anche molto giovani che hanno sentito l'impulso di usare canali espressivi dove, in luogo di mimetizzarsi, mano e manualità si mostrano in tutte le loro potenzialità artigianali. Tornano i tubetti di colore, tornano i pennelli e l'acqua ragia, e questo vale, appunto, per la pittura, che in Giappone non ha fatto eccezione spopolando nello stile kawaii. Fin qui nulla da eccepire: è fisiologica l'oscillazione del gusto che porta da un estremo all'altro nel balletto delle manifestazioni artistiche. Il fatto è, però, che di pittura così se ne vede troppa, davvero troppa. Come orientarsi? Come individuare e separare la crosta da un buon quadro? Per aiutarci possiamo contare sui poli stilistici rappresentati da Murakami e Nara, che hanno impostato due piattaforme di massima, da usare come bussole. La prima, murakamiana, consiste di figure tagliate con il raggio laser, sforbiciate con il bisturi in linearismo chiuso e netto spesso sorretto da morfologie tracciate al computer; mentre la seconda, capeggiata da Nara, come abbiamo visto mantiene una vocazione espressionista, molto più istintiva e immediata specie nei disegni, ben congeniale a un'arte grezza e infantilista, quasi realizzata dalla mente di un bambino. Quindi la duplice via del formalismo e del primitivismo, Murakami vs. Nara, è un buon criterio di valutazione, rappresenta la prospettiva raddoppiata del superflat così come questo viene ripreso, divulgato, testato dalle nuove leve, fra l'altro con reciproche invasioni di campo, dato che la discendenza murakamiana della Kaikai Kiki mostra alcune soluzioni vicine alle linee tremolanti degli angiodiavoli. Tuttavia, chiarita la validità di seguire la traiettoria formalista e quella espressionista, bisogna aggiungere che la scelta di per sé non basta, non è con un semplice quadretto che la pittura riesce a competere con l'appeal sensoriale della multimedialità. Servono idee, servono valori aggiunti, e cominciamo con l'annunciare che uno dei rimedi e anche delle qualità di questo massiccio ritorno all'uso della mano libera sta nell'invenzione di un nocciolo narrativo. Tra i pittori, i più dotati inscenano storie. Di adolescenti a disagio, di eventi surreali. Comunque storie. Allora ecco, la pittura si salva dal rischio di divenire un tappeto di crosta indurita se sa sviluppare una vicenda, si affossa in una fanghiglia di pigmenti se invece diventa – per carità – l'espressione dello spirito, la manfrina di ciò che proviene dal di "dentro", mali della critica che fanno gruppo con l'altra lagna dall'artista che "esprime se stesso". Se proprio vogliamo investire su una parola che somigli alla quanto mai ripudiabile interiorità si parli di una tendenza da "anime" in opposizione allo scadente spaccio dell'anima.

Su questi pochi nodi essenziali si adattano i pittori, diciamo, "puri", quelli che in pratica si attengono alla bidimensionalità di un supporto tradizionale pur rinvigorendolo di vitamine da individuare caso per caso e con varianti a volte sensazionali. Ma il discorso sulla mano e sulla manualità non si ferma qui, al diktat della tela molti artisti di ultima battuta preferiscono l'esuberanza di un'artigianalità che si riversa sull'ambiente, dal carattere indubbiamente pittorico, eppure pronta a sfociare in colorate installazioni e in un decorativismo estremo. Passi attraverso la pittura o fiorisca in una dimensione più vasta, il ritorno al fare arte e al mestiere rimane comunque uno dei tratti fondamentali delle tendenze più recenti, tant'è vero che anche gli artisti meglio specializzati in fotografia e performance ricorrono con disinvoltura a tecniche più manuali. In altre parole, non sono pochi gli artisti che affiancano la pittura al video, al comportamentismo o all'installazione, in un cortocircuito spesso geniale tra spinte verso la tradizione e guizzi di sperimentalismo: dopo il 2000 qualsiasi mezzo e qualsiasi mescolanza vanno bene. Chiaramente, "come Kunstwollen comanda", situazioni simili si estendono ben oltre i confini del Sol Levante; il ritorno alla pittura, in genere all'artigianalità e alla decorazione, è un dato consolidato per tutta l'arte degli ultimi anni, ma è anche vero che la via del manga e di conseguenza dell'illustrazione, del disegno e della pittura, in Giappone si manifesta con una certa intensità, grazie forse alla complicità di una cultura che a ogni livello si nutre di anime e fumetti.

Un posto in prima fila fra i pittori va riservato a Yumi Karasumaru (1960). Dal punto di vista generazionale la Karasumaru sarebbe da assegnare al club dei «freddi», di chi si occupa di realtà vere, di indagini condotte a stretto contatto con questioni sociali, ambientali. E di fatto sui contenuti è così; ogni suo quadro è il frutto di un'analisi che l'artista orienta su tematiche di vita quotidiana, dalla sfera personale a quella collettiva. La Karasumaru raccoglie frammenti di aggregazioni sociali, famiglie, adolescenti, poi allarga la sua documentazione nella ripresa di tragedie come la bomba su Hiroshima o efferati atti criminali, per poi ritornare su spaccati di vita più leggeri, da fenomeno neopop, come quando raffigura ragazzine in costume, appunto le cosplayer, impegnate in passeggiate interminabili tra le strade di distretti fashion come Harajuku, Akihabara. Pertanto, nulla da eccepire, l'artista ha fiuto e sa usarlo molto bene il suo sociometro: da reporter dell'arte sa dove e quando dirigere le sue ricerche. Ma il cosa non è mai disgiunto dal come; per i suoi contenuti, "pittura comanda" l'assunzione di un registro stilistico coerente e seduttivo. La Karasumaru usa quindi tinte sgargianti, con trapassi raramente stridenti e quasi sempre gestiti con piacevoli passaggi di tono molto caramellati e golosi. Ad attrarre ancora di più la nostra sete di cromie si aggiunge un secondo aspetto fondamentale del trattamento stilistico, ovvero, i colori sono stesi a placche sfrangiate, come i pezzi di un puzzle dalle dimensioni molto varie e soprattutto tremolanti, vibrati con gli arabeschi di una linea a china.

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Pagina 291

Biopop organicista, Biopop di plastica

Scavando tra le gibbosità friabili di qualche zolla di terra, la vanga di un ipotetico paleontologo sbatte contro una massa rigida. Pennello e paletta in mano, poco a poco iniziano a emergere delle canne, molte canne. Andava a caccia di dinosauri, il paleontologo, ma i denti che trova non sono quelli di un Velociraptor e nemmeno quelli di un Tyrannosaurus rex. Quando riesce a farsi spazio tra i granelli di sabbia e a isolare il fossile, resta paralizzato: da un cranio bitorzoluto spuntano decine di zanne affilate come lame. Se prima sperava di ritrovarsi tra le quinte reali di Jurassic Park, ora il ricercatore non sa se sentirsi catapultato tra le scene fantascientifiche di Alien o di Predator; sterrando tutt'attorno disseppelle uno scenario che non ha proprio niente a che vedere con qualcosa di lontanamente apparentabile alle forme di vita del nostro pianeta. Non di quelle conosciute. Il tempo ha calcificato le allucinanti morfologie del luogo, i denti aguzzi del predator si echeggiano in stalattiti zoomorfe, anche se per la verità non sapremmo a quale animale assegnarle.

Non siamo in un sito archeologico, siamo in «eterotopia», nel corpus di opere di Motohiko Odani (1972), uno dei maestri del Biopop di specie organicista. Organicista il Biopop lo è per definizione, ispirandosi al mondo della vita non può prescindere dal forgiarsene di conseguenza andando a ricavare le sue forme, come abbiamo già visto con Mariko Mori, dai serbatoi sconfinati del micro e del macrocosmo, quindi da una natura colta nei suoi fenomeni più vari e mutanti, nei suoi colori più vivaci, resi ancora più squillanti dall'immissione del fattore "pop" della plastica, delle materie sintetiche. Odani è un maestro sul versante della biologia «anti-form», che riveste di una pelle di visibile plausibilità, come un mago degli effetti speciali, imbattibile nel nascondere i trucchi di scena; proprio per questa ragione Odani è piuttosto refrattario a una scala cromatica squillante e antinaturalistica, rischierebbe di smentire il grado di realismo delle sue invenzioni. Inoltre, come molti artisti di questa generazione, anche Odani non opta per un mezzo espressivo univoco, con indifferenza e grande abilità maneggia scultura e fotografia, installazione e video, sempre mantenendo salda la vocazione per lo SFX. Che tutto il suo lavoro sia Biopop non c'è comunque il minimo dubbio. In Phantom-Limb Odani si fa togliere quasi un litro e mezzo di sangue che mescola a un erogatore di bolle di sapone, così un giochino popheartistico con cui tutti noi ci siamo trastullati da bambini diventa il mezzo per realizzare suggestive quanto inquietanti macchie ematiche: dall'alto, le bolle scoppiano a contatto con pareti bianche e le intridono di una spettacolare casualità biologica. I lavori dello stesso periodo confermano la medesima spinta verso elementi "poveri" come i capelli umani, uniti a formare un vestito, oppure pelli di lupo con teste imbalsamate e fauci aperte, ma intanto da sotto la pelliccia si intravedono due scarpe con tacchi a spillo. Dev'essere successo qualcosa di letale, qualcosa che ha incrociato le specie della Terra, qualcosa che ha parecchio in comune con mutazioni genetiche aberranti. Nessuna pietà neppure per l'ambiente: nell'installazione 9th Room lo spazio è riempito dal soffitto al pavimento da una rumorosa cascata blu; la massa informe assomiglia non poco a pilastri come Skeleton, quasi ne fossero lo stato fluido prima della solidificazione nei bubboni della colonna. Larve di altri predator? Di altri fatali ultracorpi? A giudicare dalle immagini del video Rompers non facciamo fatica a crederlo. Il tronco su cui siede la ragazzina ha un foro con bava colante, si capisce che una forza oscura si è impadronita del posto colonizzando l'albero, inclusa la disgraziata: ci guarda con gli occhi di un'aliena e, un secondo dopo, proietta una lingua da rettile per catturare un insetto. Gli esempi di un organicismo che si impadronisce della realtà come un batterio di un corpo ospite potrebbero proseguire a piacimento, con un involucro trasparente che fagocita un cuore, o fiori giganti appesi al soffitto, o altre piante sintetiche in cui si incistano strane bolle, ma nel repertorio odaniano non è meno pirotecnico un altro genere di Biopop, quello riguardante l'uso di protesi artificiali. La serie Erectro ce ne sciorina di impatto visivo sbalorditivo: un cerbiatto imbalsamato, dolce e carino nella sua innocenza commovente, è imbragato in una intelaiatura metallica che ne imprigiona gli arti.

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