Copertina
Autore Franco Fabbri
Titolo Around the clock
SottotitoloUna breve storia della popular music
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2008 , pag. 248, cop.fle., dim. 15x23x2,1 cm , Isbn 978-88-02-07925-7
LettoreLuca Vita, 2009
Classe musica , storia sociale
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Indice


  3 Capitolo  1 - Premesse per una storia della popular music

  5 Capitolo  2 - Precursori: Stephen Foster, il minstrel show,
                  la nascita di Tin Pan Alley

  9 Capitolo  3 - I sogni di Edison, l'industria di Berliner

 14 Capitolo  4 - La canzone napoletana

 20 Capitolo  5 - Dal Salone Margherita al Cafè Aman.
                  Aristide Bruant e la canzone francese

 25 Capitolo  6 - Origini del flamenco, del fado, del tango

 32 Capitolo  7 - Ragtime, blues, jazz

 37 Capitolo  8 - Musiche del Mediterraneo orientale
              8.1 Il rebetico, p. 37
              8.2 Umm Kulthum e la canzone araba, p. 39

 42 Capitolo  9 - Il Kabarett

 48 Capitolo 10 - Il cinema sonoro. Canzoni e musica da film

 54 Capitolo 11 - L'età dell'oro del musical e gli «American Classics»

 59 Capitolo 12 - Voci e musiche alla radio

 64 Capitolo 13 - Race, hillbilly, crooners:
                  le voci dell'America al microfono

 69 Capitolo 14 - Musica leggera in Italia nel Ventennio

 74 Capitolo 15 - Il dopoguerra negli USA:
                  dal rhythm & blues al rock 'n' roll

 79 Capitolo 16 - Il trionfo del rock 'n' roll

 83 Capitolo 17 - Il dopoguerra in Italia. Il Festival di Sanremo

 88 Capitolo 18 - Nuovi poeti, nuovi disturbi:
                  gli «chansonniers», la bossa nova

 94 Capitolo 19 - Cantacronache, cantautori, il Nuovo Canzoniere Italiano

101 Capitolo 20 - Dopo il rock 'n' roll:
                  dalle alternative «perbene» a Dylan

106 Capitolo 21 - L'era dei gruppi

112 Capitolo 22 - L'Italia del boom e del bitt

119 Capitolo 23 - L'«estate dell'amore»

124 Capitolo 24 - La «Woodstock Nation» e l'altra «altra America»

129 Capitolo 25 - Canzone politica e canzone d'autore, intorno al '68

137 Capitolo 26.- Cantautori in America Latina

144 Capitolo 27 - Cantautori in Europa

153 Capitolo 28 - Psichedelici, sperimentatori:
                  da Zappa ai Pink Floyd, al progressive rock

161 Capitolo 29 - Musiche urbane e post-coloniali dopo la crisi del petrolio

167 Capitolo 30 - Compact disc, campionatori, videoclip

174 Capitolo 31 - Il potere di «rappresentare»: rap e rock a confronto

183 Capitolo 32 - Il mondo entra in scena

192 Capitolo 33 - Bricolage elettronico: techno, rave, musica sulla rete


199 Bibliografia

203 Indice delle canzoni, degli album, delle trasmissioni radiofoniche
    e televisive, dei film, delle pubblicazioni

229 Indice dei nomi


 

 

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1. Premesse per una storia della popular music


Musiche destinate specificamente all'intrattenimento esistono, in diverse culture, molto prima dell'inizio di questa storia. Ma nel corso del XIX secolo, e poi in modo decisivo nei primi decenni del XX, in varie parti del mondo (prima in Europa, nelle Americhe, in Asia Minore e Medio Oriente, nel Maghreb, poi in tutto il pianeta), si determinano le condizioni di una separazione funzionale, economica, ideologica, fra musiche di intrattenimento da una parte e musiche d'arte (di tradizione scritta oppure — fuori dall'Europa — orale) dall'altra, e al tempo stesso fra musiche popolari «commerciali» e tradizionali/rituali. Schematizzando, riducendo la complessità dei fenomeni a dimensioni più facilmente maneggiabili, si può dire che alla dicotomia musica colta/musica popolare si sostituisca progressivamente una tricotomia musica colta/musica d'intrattenimento/musica popolare, dove la musica d'intrattenimento incorpora elementi precedentemente categorizzati negli altri due insiemi, segnandone la commercializzazione, e poi l'industrializzazione. Ma è tutto il campo musicale, l'universo delle musiche, che si ristruttura, nelle funzioni e anche nelle categorie, quindi nella nomenclatura. Tracciare dei confini è impossibile, e anche poco utile, se è vero — come sostenne Iannis Xenakis — che «gli universi della musica classica, contemporanea, pop, folkloristica, tradizionale, d'avanguardia, ecc., paiono formare in sé delle unità, a volte chiuse, a volte compenetrate. Presentano diversità incredibili, ricche di nuove creazioni ma anche di fossilizzazioni, di rovine, di residui, e tutto questo in continua formazione e trasformazione, come le nuvole, così diverse e così effimere». Se le musiche sono nuvole (o così possono essere rappresentate mentalmente), ciò che si può osservare, nel periodo accennato, è un movimento che porta all'addensarsi di un nuovo aggregato di generi, individuato da nomi diversi e a loro volta in continua trasformazione: musica leggera, musica di consumo, U-Musik, popular music, chanson. Non c'è omogeneità fra questi termini: alcuni sono entrati nel senso comune, altri sono tecnici; quasi tutti implicano un giudizio di valore, alcuni aspirano alla generalità, altri (come chanson) sottintendono una sineddoche o l'indicazione di un prototipo. A partire dagli anni Ottanta del XX secolo, si è formato un consenso fra gli studiosi di queste musiche di utilizzare il termine popular music, sia come riconoscimento dell'inglese (dal quale l'espressione è intraducibile in molte lingue, compreso l'italiano) come lingua franca, sia in omaggio all'importanza storico-economica della musica anglosassone e afroamericana, sia per accettare un'espressione di larga diffusione che (con tutti i suoi limiti) non presenta connotazioni dispregiative e si presta meno di altre a equivoci epistemologici. Quale musica, oggi, non è «di consumo»? E quante musiche popular (dal rock 'n 'roll alla bossa nova, dalla canzone d'autore al rap) sono nate proprio in opposizione alla «musica leggera»? Di conseguenza, anche qui si userà, come termine generale, popular music. Cercando di tener presente, e di far notare, che in molti luoghi e in diverse epoche le musiche che ci interessano sono state indicate con altri nomi, particolari e generali, e che comunque, anche nel contesto del quale ci occupiamo, è stata messa in rilievo una dialettica fra popular culture e mass culture, per rendere ancora più esplicita l'ambivalenza di una musica che ha origini e radici in ampi strati sociali e che allo stesso tempo è prodotta industrialmente su vasta scala.

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4. La canzone napoletana


Il caso della canzone napoletana, sotto il profilo appena discusso, è esemplare. In quanto musica popolare, di tradizione orale, si è sviluppata fin dal Medio Evo in una relazione molteplice con le diverse culture con le quali Napoli e tutto il meridione sono stati in contatto, conservandone e formalizzandone alcune caratteristiche (come la risoluzione di semitono discendente, di più che probabile origine araba, codificata poi nel linguaggio melodico-armonico europeo come «sesta napoletana»). Notevoli, in un ampio arco di tempo, le relazioni tra canto popolare napoletano e opera, con una successione di scambi e furti di melodie, cosicché dietro alle più note canzoni della tradizione si possono nascondere nomi che vanno da Pergolesi e Paisiello a Rossini e Donizetti, e in molti casi anche viceversa. Con l'ultimo nome (sia pure in seguito a una falsa attribuzione, dovuta a Salvatore Di Giacomo) ci si avvicina a quegli anni Quaranta dell'Ottocento che abbiamo già visto segnare l'avvio della popular music in America. Te voglio bene assaje, testo di Raffaele Sacco, musica di Filippo Campanella (non di Donizetti, che aveva comunque pubblicato negli anni precedenti cinque raccolte di canzoni), vince nel 1839 il primo concorso canoro abbinato alla festa di Piedigrotta. Il successo della canzone è grandissimo: la si canta ovunque, se ne vendono 180.000 copielle (i fogli volanti con il testo della canzone: nel mondo anglosassone questo tipo di pubblicazione si chiama broadside). L'editoria musicale è presente a Napoli dal 1809 (i Girard, ginevrini, e poi i Cottrau, di origine francese, la Calcografia Calì, i Fratelli Fabbricatore, i Fratelli Clausetti, milanesi, il tipografo Francesco Azzolino), e una parte rilevante dell'attività editoriale si concentra sulle canzoni, sia quelle tradizionali sia quelle prodotte da professionisti. È più che probabile che questo materiale faccia parte dei repertori che in quegli stessi anni circolano e vengono studiati anche in America, se è vero che quando nel 1854 Stephen Foster pubblicherà la sua Social Orchestra, una raccolta di trascrizioni strumentali per l'intrattenimento domestico, 13 su 73 brani saranno di Donizetti, e vari altri saranno Italian melodies. Ma per cogliere il ruolo anticipatore che la canzone napoletana della prima metà dell'Ottocento avrà rispetto alla popular music (non solo americana) basta ascoltare Te voglio bene assaje: la sua concisione, l'efficacia con cui la strofa narrativa prepara (testualmente, melodicamente, armonicamente) il ritornello breve, curvilineo, memorabile, dimostrano che uno dei modelli principali della canzone — adottato fino a oggi nella popular music di numerosi paesi — è già allora perfettamente delineato. D'altra parte, sebbene per vent'anni il concorso di Piedigrotta e l'attività editoriale alimentino i repertori con canzoni che in alcuni casi vi sono sopravvissute fino a oggi — come Santa Lucia (1848), di Teodoro Cottrau (1827-1879) ed Enrico Cossovich — anche a Napoli bisogna aspettare gli ultimi decenni del secolo perché la produzione di canzoni assuma i connotati della modernità, individuandole come artefatti chiaramente distinti sia dalla canzone tradizionale sia dall'opera e dai suoi derivati (arie, romanze da salotto). Anche in questo caso, come in quello americano, le importanti trasformazioni sociali intercorse a partire dai rivolgimenti politici degli anni Sessanta del secolo (qui l'unità d'Italia, là la Guerra di Secessione) richiedono un tempo di incubazione perché la canzone e la sua industria prendano il corso che poi manterranno nei decenni successivi. A Napoli la caduta dei Borboni incide sulla regolarità degli intrattenimenti popolari che il vecchio regime incoraggiava: l'arrivo di Garibaldi, che assiste alla parata di Piedigrotta del 1860, segna l'inizio di una fase di transizione durante la quale la rassegna canora subisce varie interruzioni.

Il segnale della nuova stagione — anticipata dalla riapertura del concorso di Piedigrotta nel 1876, e dalla fondazione nello stesso anno della Bideri, che diventerà il nome più importante dell'editoria musicale napoletana — viene convenzionalmente identificato con il successo grandioso di Funiculì funiculà (1880), la canzone composta da Luigi Denza (di passaggio a Castellammare di Stabia dalla sua residenza londinese) su testo del giornalista Giuseppe Turco, il quale voleva richiamare l'attenzione dei napoletani sulla funicolare del Vesuvio, aperta pochi mesi prima e disertata dal pubblico. Grazie al formidabile incitamento del famoso «Jamme jamme ja'» la funicolare ottiene una clientela, e gli intellettuali che avevano incominciato a interessarsi alla canzone hanno un riscontro immediato della sua popolarità (l'editore Ricciardi vende nel giro di un anno un milione di copielle), del suo potere di influenza sull'opinione pubblica, della varietà di argomenti trattabili, della possibile contiguità fra mestieri ancora in corso di definizione: il paroliere, il giornalista, il pubblicitario. Se a tutto questo si aggiunge la fondazione a Milano della SIAE, la Società Italiana degli Autori ed Editori (1882), si comprende come i tempi siano maturi per l'affermazione definitiva di un'industria della canzone, della popular music, anche in Italia.

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7. Ragtime, blues, jazz


Come si è visto fin qui, le origini della popular music sono fortemente segnate – non solo nelle Americhe – dalla presenza di una matrice africana, e dalla rielaborazione che i canti e le danze provenienti dall'Africa hanno subìto nel nuovo continente. In altre parole, la popular music americana (del Nord, del Centro, del Sud) e in parte quella europea hanno fin dalle origini radici afroamericane. Non è possibile neppure immaginare una storia della popular music che non sia anche una storia della musica afroamericana. Eppure, a un certo punto, una storia della popular music deve affrontare il problema epistemologico di una cultura musicale che è nata popular, che conosce origini e sviluppo del tutto simili a quelle di altre musiche popular (impressionanti le coincidenze temporali e socioculturali non solo col tango, ma con tutte le altre musiche meticce nate nelle periferie di città portuali a cavallo tra Ottocento e Novecento), e che nonostante questo, e nonostante sia una cultura musicale eminentemente afroamericana, non è considerata parte della popular music, ma anzi le viene spesso contrapposta. Si sta parlando del jazz, naturalmente. Non esiste una prova migliore che qualunque teoria dei generi musicali che si basi su caratteristiche immanenti, che cerchi di individuare ragioni universali in base alle quali una musica debba essere distinta da un'altra, è destinata al fallimento. Il jazz non è popular music perché in un tratto decisivo della sua storia la popular music nordamericana era saldamente in mano ai bianchi, e il jazz era soprattutto una musica dei neri. I musicisti afroamericani, e i critici (in larga parte bianchi) che ne hanno raccontato e commentato le vicende, hanno coltivato un'alterità anticommerciale del jazz rispetto a Tin Pan Alley, che era commerciale per definizione e bianca per ragioni ideologiche e di classe. D'altra parte, né un atteggiamento anticommerciale né l'aspirazione a collocare il proprio lavoro nella sfera dell'«arte» sono estranei per definizione alla popular music. In tutto il periodo che va dall'Ottocento fino a oggi tendenze di questo tipo sono state presenti, si sono incarnate in figure di rilievo, sono state alla base della costituzione di generi. Ma solo nel caso del jazz hanno determinato l'individuazione di una cultura musicale distinta o contrapposta rispetto all'universo delle musiche popular. Di questa distinzione (del tutto convenzionale, ma proprio perciò densa di significato) non si può fare altro che prendere atto, ricordando però alcune dissimmetrie implicite: a) che esistono generi della musica afroamericana che – in quanto non-jazz – sono considerati popular (gli esempi forse più appariscenti sono il rhythm and blues e il rap); b) che esistono musiche pacificamente riconosciute come jazz che non sono né anticommerciali né «d'arte»; c) che i «confini» fra jazz e popular music sono – in quanto ideologici – oggetto di continua rinegoziazione storico-critica.

Riportando la nostra attenzione agli Stati Uniti dei primi anni del Novecento, dovremo quindi prendere in considerazione musiche e musicisti che una razionalizzazione successiva ha annesso a un genere (o a un insieme di generi) diverso dalla popular music. Nel farlo, sarà utile tenere conto delle relazioni che comunque queste musiche e questi musicisti hanno avuto con la popular music, americana e non.

Il cakewalk, come si è detto a suo tempo, è la prima di una serie di danze che travolgono con le loro mode gli Stati Uniti e l'Europa. Deriva da una parodia afroamericana dei padroni bianchi (a sua volta ripresa dai bianchi travestiti da neri del minstrel show), e la torta (cake) menzionata nel nome è la ricompensa per una gara, al tempo di una goffa marcia. Si inserisce nella lunga tradizione di parodie reciproche a catena (neri che imitano i bianchi che imitano i neri) che alimenta per tutto l'Ottocento il minstrel show e le coon songs. Ciò che rende particolarmente attraente il cakewalk è il suo ritmo di marcia sincopato, che comunica uno stimolo motorio irresistibile. Come accompagnamento preferenziale di questo ballo si impone, al volgere del secolo, un genere di musica pianistica, che della musica originaria del cakewalk riprende l'implacabile meccanismo ritmico, disciplinandolo con una forma rigorosa: prima emergenza di una musica scritta da compositori afroamericani, prenderà il nome di ragtime.

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31. Il potere di «rappresentare»: rap e rock a confronto


La caduta del muro di Berlino nel novembre del 1989, ma soprattutto la dissoluzione dell'URSS nel dicembre del 1991, lasciano il mondo quasi inaspettatamente privo del bipolarismo che aveva segnato gli ultimi quarant'anni di storia. Occultate a lungo dalla divisione in blocchi, le rivendicazioni nazionali, regionali, locali acquistano forza, in modi diversi: dalle diverse nazionalità dell'ex-Unione Sovietica, che diventano autonome quasi sempre in modo pacifico (o avviano guerriglie infinite, come in Cecenia), si estendono ai paesi confinanti, e già nel 1991 inizia una guerra civile sanguinosa nell'ex-Jugoslavia. Ma tutto il mondo, anche quello occidentale, è percorso dalle parole d'ordine dell'autonomia locale, basata su identità culturali alle quali già da molto tempo la musica ha offerto la sua capacità aggreganti: nel Québec francofono dello chansonnier Gilles Vigneault (1928) come nella Catalogna del cantautor Lluís Llach. La questione delicata e politicamente ambigua — rispetto ai vecchi schemi — delle minoranze, del relativismo culturale, della critica delle ideologie dominanti si fa forte di un dibattito filosofico e politico che già da tempo percorre soprattutto le università del mondo anglosassone, basandosi sulla filosofia di Jacques Derrida (1930-2004): le discussioni sulle etnie, sulle differenze di genere, sui rapporti fra culture assumono un ruolo centrale, con una forte insistenza sul linguaggio, al quale si chiede di essere rispettoso della diversità, politically correct. Le comunità vogliono prendere la parola, consapevoli che il controllo del linguaggio è potere.

In questo gli afroamericani hanno un vantaggio storico, legato alle lotte contro il razzismo e per i diritti civili: non è anche una questione di political correctness che la propria musica sia chiamata race music, o rhythm and blues, o soul? Ma la parola, il suo controllo, la sua rappresentatività diventano centrali con la nuova cultura che si manifesta pubblicamente negli anni Ottanta e dilaga nel decennio successivo, il rap.

Con origini che risalgono a rituali africani, ma anche agli hollers e ai canti di lavoro, al talking blues, ai discorsi ritmati di predicatori e leader politici, e non da ultimi ai dj degli anni Cinquanta, il rap si sviluppa dalle forme di intrattenimento diffuse in alcune comunità afroamericane (i ghetti neri del South Bronx o di Harlem) fin dall'inizio degli anni Settanta. Dj come Kool Herc, Afrika Bambaataa, Grandmaster Flash, interagiscono con i dischi, non limitandosi alle dissolvenze incrociate e sincronizzate fra brani successivi, ma selezionando all'interno dei brani i frammenti più ritmati, come i break percussívi. La musica che ne viene fuori, una sequenza quasi parossistica di stacchi e lanci, viene chiamata break-beat music, e la danza che i ragazzi ci improvvisano sopra è battezzata break-dance. La break-dance, così, diventa la forma di danza tipica della cultura hip hop, che a sua volta è un modo di distinguersi rispetto alla cultura più convenzionale e commerciale che gira intorno alle discoteche. Un gruppo di danzatori californiani, gli Original Lockers, aggiungono alla break-dance newyorkese i movimenti da robot che si diffonderanno soprattutto nel decennio successivo. Già nel 1976 il giradischi è diventato uno strumento che con la tecnica dello scratching permette di creare ritmi e timbri nuovi. Mentre il DJ (in lettere maiuscole, come vuole l'etichetta dell' hip hop) è impegnato sui suoi giradischi, il pubblico è intrattenuto dal maestro di cerimonie, il Master of Ceremonies, o MC, che commenta la situazione con linguaggio ritmato; da una formazione tipica con un DJ e un MC si passa presto a gruppi formati da vari MC, che si passano la parola, e alla fine degli anni Settanta gli MC hanno un ruolo preminente rispetto ai DJ, in gruppi come Double Trouble, Treacherous Three, Funky Four Plus One, Furious Five. I primi successi discografici per i gruppi di rap, nelle zone basse della classifica, arrivano nel 1979, con Rapper's Delight, della Sugar Hill Gang. La moda del rap e della break-dance comunque esplode, e l'industria dell'intrattenimento ne approfitterà rapidamente, suggerendo nel 1983, con il film Flashdance, l'idea che lo stile sia stato inventato da una danzatrice bianca.

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33. Bricolage elettronico: techno, rave, musica sulla rete


La diffusione della world music è parte di quel fenomeno più generale del quale negli anni Novanta si parla sempre più animatamente, fino a che non diverrà uno dei temi più rilevanti (se non il tema) dell'agenda politica: la globalizzazione. Tutti gli elementi principali della globalizzazione sono presenti nella produzione musicale da decenni: la virtualità (il disco finge di riprodurre un'esecuzione che non esiste), l'identificazione del prodotto col marchio (l'immagine di un cantautore, di un gruppo, di un genere), l'automazione dei processi produttivi (sovraincisioni, sequencers, campionatori), la velocità degli spostamenti (non si spediscono prodotti finiti, ma i master per realizzarli, e durante la produzione viaggiano le registrazioni, non i musicisti), la concentrazione e la finanziarizzazione del potere economico (sempre più si trattano diritti, non prodotti concreti), tanto che si potrebbe dire che la globalizzazione inizi quando evoluzioni tecniche, politiche ed economiche rendono possibile applicare il modello dell'industria della popular music anche alla produzione di scarpe o di automobili. Oltre al crollo delle barriere dovuto alla dissoluzione del blocco sovietico, contano in modo determinante le tecnologie informatiche, soprattutto quelle di rete: il mercato finanziario si globalizza grazie alle reti, che non ammettono ostacoli o rallentamenti. In campo musicale, il continuo aumento della potenza dei personal computer rende possibile concentrare in un'unica stazione di lavoro l'insieme di funzionalità che solo qualche anno prima richiedevano registratori digitali a 24 piste, banchi di missaggio automatizzati, effetti ingombranti. Quando Fabrizio De André tra il 1995 e il 1996 registra il suo ultimo album Anime Salve, gran parte del lavoro è svolta nell'appartamento del suo produttore Piero Milesi (1953), e questo è solo l'ultimo passo (certificato dall'importanza e dal carattere della produzione) di un'evoluzione iniziata molto tempo prima in un altro ambito, quello della musica da discoteca. Già negli anni Ottanta gran parte della musica da ballo veniva realizzata con strumenti elettronici automatici a buon mercato, e già allora in questo fai da te avventuroso (che poteva rendere ricchi, se il brano aveva successo in discoteca) erano particolarmente attivi produttori italiani, per lo più dj che conoscevano i desideri del pubblico notturno. Lo stile della cosiddetta dance italiana era tanto caratterizzato da quelle batterie elettroniche e da quei sintetizzatori economici, che quando iniziano a diffondersi i primi software per pc che simulano e automatizzano il processo produttivo della dance, le sonorità pre-programmate restano quelle degli strumenti vintage, nonostante le tecnologie permettano di usare qualsiasi suono e timbri molto più ricchi e affascinanti.

Per la sua natura, la produzione di musica dance tende a sfuggire al controllo delle grandi multinazionali: i costi iniziali sono bassi, la promozione è più legata a un tam tam fra dj e frequentatori di discoteche che ai canali tradizionali, la distribuzione non ha bisogno della capillarità necessaria ai prodotti propagandati dalla televisione. Di conseguenza, questo genere musicale – anzi, un vasto e articolato insieme di generi, nel quale piccole sfumature producono continue ramificazioni – finisce per avere caratteristiche «di base», quasi clandestine, paragonabili a quelle del rock delle origini; il suo potenziale democratico, per così dire, è testimoniato dalla pratica dei rave parties, raduni autoconvocati e non autorizzati in fabbriche o altri edifici dismessi, dove i dj e il pubblico collaborano alla gestione dell'evento. Temuti dagli adulti non meno di quanto lo fossero i primi raduni rock degli anni Cinquanta (in questo caso per preoccupazioni sul consumo di alcolici e di ecstasy o altre droghe eccitanti), i rave parties spesso sono proprio un modo dei giovani di evadere dalle sollecitazioni delle discoteche commerciali, e dalla loro atmosfera competitiva. C'è comunque in molta musica da ballo, specialmente in quella non afroamericana, una forte simbolizzazione ed esorcizzazione dello «stare sulla cresta dell'onda», come metafora dell'incertezza e dell'instabilità sociale nelle economie di mercato neoliberiste, e questo suggerisce che il mondo della dance, della techno, della «musica elettronica» da ballo sia percorso da rituali di resistenza a volte più espliciti ed efficaci di quelli di altre musiche apparentemente più impegnate.

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