Copertina
Autore Jean-Henri Fabre
Titolo Le meraviglie dell'istinto negli insetti
SottotitoloBrani scelti
EdizioneArmando, Roma, 2007, Scaffale aperto , pag. 240, ill., cop.fle., dim. 16x24x1,6 cm , Isbn 978-88-6081-105-9
OriginaleLes merveilles de l'instinct chez les insectes
EdizioneDelagrave, Paris, 1913
PrefazioneGiuseppe Maria Carpaneto
TraduttoreGianlorenzo Pacini
LettoreGiovanna Bacci, 2008
Classe etologia , biologia , zoologia , natura
PrimaPagina


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Indice


Prefazione di Giuseppe Maria Carpaneto            7

JEAN-HENRY FABRE: CENTO ANNI DOPO
    La vita                                       7
    Tra scienza e poesia                         10
    Fabre e l'evoluzione                         12
    Il linguaggio e lo stile                     17
L'HARMAS                                         21
IL CAPRICORNO                                    29
I NECROFORI — La sepoltura                       43
I NECROFORI — Esperimenti                        57
LA MOSCA AZZURRA DELLA CARNE                     73
LA PROCESSIONARIA DEL PINO                       89
I RAGNI — La licosa di Narbona o
          tarantola dal ventre nero             105
    La tana                                     105
    La deposizione delle uova                   111
    La famiglia                                 115
I RAGNI — L'argiope fasciata                    125
    Costruzione della ragnatela                 125
    La trappola che impania                     129
    La caccia                                   133
    Il filo telegrafico                         143
GLI EUMENI                                      149
LE OSMIE                                        161
    Le abitudini                                161
    Ripartizione dei sessi                      170
    Determinazione facoltativa dei sessi        174
    Permutazione dei sessi                      181
LA LUCCIOLA                                     195
IL BRUCO DEL CAVOLO                             211

Glossario e note di sistematica                 231


 

 

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Pagina 7

Prefazione
JEAN-HENRI FABRE: CENTO ANNI DOPO



Nel 1907, Jean-Henri Fabre finisce di scrivere il decimo ed ultimo volume della sua opera principale, Souvenirs Entomologiques (Ricordi Entomologici), iniziata nel 1879. A cavallo di due secoli, nasceva così lo studio del comportamento degli insetti e prendeva forma il metodo sperimentale per le ricerche etologiche. Esattamente cento anni dopo, Fabre rimane uno dei personaggi più importanti e discussi di questo importante periodo della cultura occidentale.

Sono veramente pochi i naturalisti che, oltre ad aver contribuito notevolmente allo sviluppo della loro scienza, hanno anche lasciato una memoria di sé nel grande pubblico. Jean-Henri Fabre, Konrad Lorenz, Stephen J. Gould e Richard Dawkins sono i più famosi esempi tra questi scienziati che hanno impresso un segno indelebile nella cultura popolare grazie alla loro ars scribendi su argomenti di forte impatto emotivo e di grande rilevanza culturale. E la sapienza dei grandi divulgatori che trasferiscono direttamente il frutto delle loro scoperte scientifiche o delle loro riflessioni a chiunque voglia aprire la propria mente con l'aiuto di un libro. Fabre è forse il primo dei grandi naturalisti divulgatori: a lui va il merito di aver portato all'attenzione di un vasto pubblico un mondo animale considerato di serie B, organismi piccoli e apparentemente inutili che fino a quel tempo nessuno riteneva degni di uno sguardo.

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Pagina 10

Tra scienza e poesia

Lo scienziato e filosofo francese Jean Rostand scrisse di lui: "Jean-Henri Fabre est un grand savant qui pense en philosophe, vit en artiste, sent et s'exprime en poète" ("Jean-Henri Fabre è un grande uomo di cultura che pensa come un filosofo, vive da artista e si esprime con la poesia"). Altre definizioni di lui le dobbiamo a Charles Darwin che lo cita nel suo libro The Origin of species come "un osservatore inimitabile", e a Victor Hugo che lo chiama "l'Omero degli insetti". Inoltre, i poeti provenzali di Avignone lo chiamavano affettuosamente Le Felibre du Tavan (il poeta dei maggiolini).

Obbiettivamente Jean-Henri Fabre può essere considerato uno dei più grandi naturalisti di tutti i tempi. In particolare va visto come uno dei fondatori dell'etologia, la scienza che studia il comportamento degli animali nel loro ambiente naturale. Nessuno, prima di lui, aveva studiato il comportamento degli insetti così metodicamente e per un intervallo di tempo così lungo. Il periodo vero e proprio delle sue ricerche, a parte le osservazioni aneddotiche effettuate negli anni giovanili, va dal 1855 al 1915, anno della sua morte: quasi 60 anni dedicati ad argomenti che nessuno aveva indagato prima di lui. Senza contare gli altri saggi minori di argomento entomologico, Fabre ci ha lasciato la più grande opera mai scritta sul comportamento degli insetti, i dieci volumi di Souvenirs Entomologiques, scritti fra il 1879 e il 1907.

Osservare, sperimentare e descrivere: questo si propone Fabre in tutta la sua opera, sotto la spinta di un'accanita e intelligente curiosità che lo porta a rivolgere all'insetto "una folla di domande, alle quali, talvolta, egli si degna di rispondere". La fedeltà al metodo sperimentale emerge dalla dichiarazione sulle finalità dei suoi scritti, che Fabre stesso definisce, facendo finta di rivolgersi agli insetti: "L'esatta narrazione dei fatti osservati, niente di più e niente di meno, e chiunque vorrà a sua volta interrogarvi otterrà da voi le medesime risposte". L'intenzione è quindi quella di osservare e descrivere ciò che chiunque, operando nello stesso modo e nelle stesse condizioni, potrà prima o poi verificare, nel rispetto del metodo sperimentale di Galileo e Newton. La narrazione dei fatti, sempre secondo le sue affermazioni, deve essere esatta e limitata a ciò che si è osservato, senza mescolare la narrazione stessa con l'interpretazione. Raccontando i risultati delle sue ricerche sperimentali sui necrofori, insetti che sotterrano piccoli animali per nutrire le proprie larve, Fabre scrive: "Prima di voler far ragionare l'animale, cerchiamo di ragionare noi stessi e rivolgiamoci anzitutto alla prova sperimentale. Un singolo fatto rilevato per caso, senza sottoporlo a critica, non può creare una legge". Da qui emergono con evidenza due elementi importanti del suo metodo: da una parte l'attenzione ad evitare interpretazioni antropomorfiche dei comportamenti, difetto assai diffuso negli antichi osservatori; dall'altra il rifiuto verso le osservazioni aneddotiche, cioè quelle singole e casuali che da altri venivano riportate come verità assoluta.

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Pagina 21

L'HARMAS



Era proprio questo ciò che desideravo, hoc erat in votis: un pezzetto di terra, oh!, non molto grande, ma recintato e sottratto agl'inconvenienti di uno spazio pubblico; un pezzetto di terra abbandonato, sterile, bruciato dal sole, terreno ideale per i cardi e gli imenotteri. Qui, senza timore di venire disturbato da persone di passaggio, potrò interrogare l'ammofila e lo sfecide e dedicarmi a questo difficile colloquio in cui le domande e le risposte vengono condotte nel linguaggio della sperimentazione; qui, senza dover affrontare lontane spedizioni in cui si perde tanto tempo prezioso, senza quelle corse faticose che ottundono l'attenzione, io potrò studiare i miei piani d'attacco, tendere le mie imboscate e seguirne i risultati ogni giorno, a qualsiasi ora. Hoc erat in votis, sì, era proprio questo il mio desiderio, il mio sogno, sempre accarezzato e che sempre mi sfuggiva perdendosi nelle nebbie dell'avvenire.

Non è certo facile procurarsi un laboratorio in aperta campagna quando si è presi nella morsa terribile dell'angoscia del bisogno del pane quotidiano. Per quarant'anni ho lottato con un coraggio indefettibile contro le meschine miserie della vita, e finalmente il tanto agognato laboratorio è arrivato. Non cercherò neppure di dire quanta perseveranza e quanto lavoro accanito esso mi è costato. Finalmente è arrivato, e con esso, ma a condizioni più difficili, forse anche un po' di tempo libero. Dico "forse", giacché trascino tuttora attaccato alla gamba qualche anello della catena del forzato. Ma il mio voto si è realizzato. È un po' tardi, o miei begl'insetti! Ho una gran paura che il frutto della pesca mi venga presentato soltanto ora, quando comincio a non avere più i denti per gustarlo. Sì, è un po' tardi; gli ampi orizzonti dei miei inizi sono diventati una volta opprimente, schiacciata in basso e di giorno in giorno più ristretta. Pur senza rimpiangere nulla del passato, eccetto ciò che ho ormai perduto, senza rimpiangere nulla, neppure i miei vent'anni, senza neppure sperare più nulla, tuttavia sono arrivato a un punto in cui, stroncati dall'esperienza della vita, ci si chiede se vale davvero la pena di vivere.

In mezzo alle rovine che mi circondano un mozzicone di muro resta in piedi, incrollabile sulla sua base fatta di calce e sabbia: è il mio amore per la verità scientifica. Ma questo sarà abbastanza, miei industriosi imenotteri, per accingermi ad aggiungere degnamente ancora qualche pagina alla vostra storia? Le mie deboli forze non tradiranno la mia buona volontà? Perché vi ho abbandonato per così lungo tempo? Degli amici me l'hanno rimproverato. Ah!, ditelo voi a questi amici, che sono non soltanto miei ma anche vostri amici, dite loro che la colpa non era da attribuirsi a dimenticanza o a stanchezza da parte mia! Io pensavo sempre a voi, ero convinto che il nido delle cerceridi aveva ancora dei magnifici segreti da rivelarci e che la caccia allo sfecide ci riservava ancora nuove sorprese. Ma il tempo mancava, e io ero solo, abbandonato da tutti, in lotta contro la cattiva sorte. Prima di filosofare bisognava vivere. Ditelo voi a questi amici e loro mi perdoneranno.

Ci sono stati altri che mi hanno rimproverato per il mio linguaggio che non ha la solennità o, per meglio dire, la pedantesca austerità di un testo accademico. Questi temono che una pagina che si legga senza fatica non possa sempre essere l'espressione della verità. A starli a sentire non si potrebbe essere profondi che a condizione di essere oscuri. Venite qui, tutti quanti siete, voi armati di pungiglioni e corazzati di elitre, venite a prendere le mie difese e a testimoniare in mio favore. Dite loro in quale intimità io vivo con voi, con quanta pazienza io vi osservo e con quale scrupolo registro tutti i vostri comportamenti. La vostra testimonianza è unanime: sì, le mie pagine non sono gremite di vuote formule o di sapienti elucubrazioni, bensì contengono l'esatta narrazione dei fatti osservati, niente di più e niente di meno, e chiunque vorrà a sua volta interrogarvi otterrà da voi le medesime risposte.

Nel caso che voi, miei cari insetti, non riusciate a convincere queste brave persone perché non avete il peso e l'autorità dei pedanti, ebbene sarò io a dir loro: voi sventrate l'animale e invece io lo studio vivente; voi ne fate un oggetto d'orrore e di pietà e io invece lo faccio amare; voi lavorate in un laboratorio di torture e di smembramenti e io l'osservo sotto l'azzurro del cielo e al canto delle cicale; voi sottomettete ai reagenti chimici la cellula e il protoplasma, io studio l'istinto nelle sue manifestazioni più elevate; voi scrutate la morte e io la vita. E perché non dovrei esprimere fino in fondo il mio pensiero? I cinghiali hanno intorbidato l'acqua limpida delle fontane; la storia naturale, questo magnifico studio dell'età giovanile, a forza di perfezionamenti cellulari, è divenuta qualcosa di odioso e di disgustoso. Ora, se io scrivo per i sapienti, per i filosofi che tenteranno un giorno di fare un po' di luce sull'arduo problema dell'istinto, io scrivo anche e soprattutto per i giovani, ai quali desidero far amare questa storia naturale che voi fate tanto odiare. Ed ecco perché, pur mantenendomi scrupolosamente nell'ambito della verità, io evito la vostra prosa scientifica che troppo spesso, ahimè!, sembra redatta nell'idioma di qualche tribù degli Uroni.

Ma per il momento non sono queste le mie preoccupazioni; ora voglio parlare di questo fazzoletto di terra così agognato, destinato nei miei progetti a divenire un laboratorio di entomologia vivente, che sono finalmente riuscito a procurarmi nella solitudine di un piccolo villaggio. È un harmas. Con questo termine da queste parti viene chiamato un pezzo di terra incolto, sassoso, abbandonato alla vegetazione spontanea del timo. È un terreno troppo povero per compensare il lavoro dell'aratro. In primavera, quando per caso capita che abbia piovuto e che vi cresca un po' d'erba, le pecore vi vengono a pascolare. Tuttavia il mio harmas, grazie alla presenza di un po' di terra rossa annegata in una quantità sterminata di sassi, ha ricevuto un inizio di coltivazione; un tempo, a quanto si dice, vi erano piantate delle vigne. Ed effettivamente degli scavi eseguiti per piantare qualche albero hanno messo qua e là allo scoperto dei resti delle preziose radici mezzo carbonizzate dal tempo. Il vomere a tre punte, l'unico strumento di coltivazione che possa penetrare in un suolo simile, è dunque passato qui sopra e me ne dispiace molto perché la vegetazione primitiva è scomparsa. Non c'è più il timo, non c'è più la lavanda, non ci sono cespugli di quercia spinosa, la quercia nana le cui foreste si possono scavalcare alzando un po' la gamba. Siccome questi vegetali – soprattutto i primi due – potrebbero essermi utili per offrire agli imenotteri materiale da raccogliere, mi trovo obbligato a ripiantarli sul terreno da cui il vomere li ha scacciati.

Ciò che invece abbonda, e senza il mio intervento, sono le piante che invadono ogni terreno che sia stato lavorato e in seguito sia stato per lungo tempo abbandonato a se stesso. Ciò che vi si trova, anzitutto, è la gramigna, quell'erba detestabile di cui tre anni di lotta accanita non hanno potuto ottenere la definitiva estirpazione. In secondo luogo, per il loro numero, vengono le centauree, tutte di aspetto arcigno, irte di aculei o di alabarde stellate. C'è la centaurea solstiziale, la centaurea delle colline, la centaurea calcitrapa e la centaurea aspra. Ma è la prima a dominare. Qua e là, in mezzo all'inestricabile groviglio delle centauree, si leva in alto, simile a un candelabro le cui fiamme sono dei grandi fiori color arancione, il feroce scolimo di Spagna dagli aculei forti come chiodi. Ma lo scolimo è dominato in altezza dall'onopordo d'Illiria il cui stelo, diritto e isolato, arriva a un metro o due di altezza culminando con dei grossi pompon rosa. La sua armatura non ha nulla da invidiare a quella dello scolimo. E non dimentichiamo la tribù dei cardi, anzitutto il feroce cirsio, così bene armato che il raccoglitore di piante non sa come afferrarlo; quindi il cirsio lanceolato, dal ricco fogliame le cui nervature terminano in punte di lancia; e infine il cardo bruno che somiglia a una piccola rosa irta di aculei. Negli intervalli tra i cardi, strisciando per terra simili a cordicelle armate di uncini, si allungano i rami del rovo dai frutti bluastri. Per esplorare l'intrico spinoso quando l'imenottero va a farvi la sua raccolta di polline, bisogna calzare degli stivali alti fino a metà gamba oppure rassegnarsi a sanguinose punzecchiature sui polpacci. Finché il terreno conserva ancora qualche resto delle piogge primaverili, questa rude vegetazione non manca di un certo fascino quando, al di sopra del compatto tappeto formato dai capolini gialli della centaurea solstiziale, si elevano le piramidi dello scolimo e gli slanciati zampilli dell'onopordo. Ma poi sopraggiunge la siccità estiva e allora non resta nient'altro che una distesa desolata dove basterebbe la fiammella di un fiammifero a propagare l'incendio da un capo all'altro. Tale è — o, piuttosto, era quando io ne ho preso possesso — il delizioso Eden dove ormai conto di vivere a stretto contatto con l'insetto. Me lo sono guadagnato al prezzo di quarant'anni di lotta ostinata.

L'ho chiamato Eden e, almeno dal punto di vista che m'interessa, l'espressione non è fuori luogo. Questo terreno maledetto, a cui nessuno avrebbe voluto affidare neppure un pizzico di semi di rapa, è in realtà un paradiso terrestre per gli imenotteri. La sua possente vegetazione di cardi e di centauree li attira qui da ogni parte. Mai, in tutte le mie battute di caccia entomologiche, mi era capitato di trovare riunita in un punto solo una tale popolazione: tutte le corporazioni d'insetti vi si danno appuntamento. Vi si trovano cacciatori di ogni specie di selvaggina, muratori che lavorano la terra battuta, tessitori di cotonato, insetti dediti all'assemblaggio di frammenti ritagliati in foglie o in petali di fiori, costruttori in cartone, stuccatori che impastano l'argilla, carpentieri che forano il legno, minatori che scavano gallerie sotterranee, conciatori che lavorano le membrane intestinali dei bovini, e chissà quanti altri.

E questo chi è? È un antidio che raschia lo stelo coperto di peluria della centaurea solstiziale e ne fa un ammasso di cotone che poi si porta fieramente via sulla punta delle mandibole. Sottoterra ne ricaverà dei sacchetti di feltro ovattato per racchiudervi la provvista di miele e l'uovo. E chi sono questi altri che si dedicano così furiosamente alla raccolta? Sono le megachili che si portano sotto la pancia una spazzola per la raccolta del polline, spazzola che può essere nera, bianca o color rosso-fuoco. Esse abbandoneranno i cardi per esplorare gli arbusti nelle vicinanze e ritagliare dalle foglie dei frammenti ovali che verranno assemblati in un recipiente adatto a contenere la raccolta. E questi altri abbigliati di velluto nero? Sono le calicodome che lavorano il cemento e la ghiaia. Non sarà difficile ritrovare le loro costruzioni sui ciottoli dell' harmas. E chi sono questi altri ancora che si lanciano bruscamente in volo ronzando così rumorosamente? Sono le antofore che si stabiliscono nei vecchi muri e nelle scarpate soleggiate dei dintorni.

E adesso ecco le osmie. Una di esse costruisce le sue cellette nido nella spirale di un guscio vuoto di lumaca; un'altra attacca il midollo dell'estremità secca di un rovo e ne ricava per le sue larve un alloggio cilindrico che divide in tanti scomparti con dei tramezzi; una terza utilizza la naturale galleria di una canna tagliata; una quarta prende gratuitamente alloggio nelle gallerie resesi disponibili di un'ape muratrice. Ecco le macrocere e le eucere, i maschi delle quali sono muniti di lunghe antenne; le dasipode che, come organi per la raccolta del polline, posseggono un grosso pennello di peli aderenti alle zampe posteriori; le andrene, di cui esistono molte e varie specie; infine gli alitti dal ventre delicato. Ma ne tralascio una quantità, giacché se volessi proseguire l'enumerazione di tutti gli ospiti dei miei cardi dovrei passare in rivista quasi tutta la stirpe dei melliferi. Un sapiente entomologo di Bordeaux, il professor Pérez, al quale chiedo di confermare l'identificazione dei miei esemplari, mi ha chiesto se avevo speciali metodi di caccia che mi permettessero di inviargli una tale quantità di insetti rari e perfino delle specie nuove per la scienza. Ma io come cacciatore non sono affatto esperto e ancor meno zelante, giacché l'insetto m'interessa molto più mentre si dedica al suo lavoro che non quando lo vedo in fondo a una scatola trafitto da uno spillo. Tutti i miei segreti di caccia si riducono al mio vivaio fittamente popolato di cardi e di centauree.

Per un caso estremamente fortunato, a questa popolosa famiglia di accumulatori di miele si era associata una tribù di cacciatori. Degli operai avevano ammassato qua e là nel mio harmas dei grossi mucchi di sabbia e di pietre in vista della costruzione di un muro di cinta. Giacché i lavori si trascinavano per lungo tempo, questi materiali vennero occupati fin dal primo anno. Le calicodome avevano scelto gli interstizi tra le pietre come dormitori per trascorrervi la notte in gruppi serrati. La robusta lucertola ocellata che, quando viene incalzata troppo da vicino, si rivolta con le fauci spalancate sia contro l'uomo che contro il cane, si era scelta una cavità adatta per tendere il suo agguato allo scarabeo di passaggio; la monachella, con il suo abito da domenicano, saio bianco e ali nere, si era appostata sulla pietra più alta, a cantarvi il suo breve e rozzo ritornello. Doveva aver sistemato il suo nido, con le uova di un azzurro color cielo, in qualche mucchio di sassi lì accanto. In seguito il piccolo domenicano è scomparso insieme ai mucchi di pietre. Me ne dispiace perché era un vicino delizioso, mentre non rimpiango affatto la lucertola ocellata.

Invece i mucchi di sabbia offrivano asilo a una diversa popolazione. I bembici spazzavano la soglia delle loro tane lasciandosi dietro una parabola di polvere; lo sfecide della Linguadoca vi trascinava per le antenne la sua cavalletta; uno stizo andava a riporre nella sua cantina delle riserve di cicadelle. Con mio grande dispiacere, un giorno gli operai hanno fatto sloggiare la tribù dei cacciatori; tuttavia, se una volta vorrò richiamarla, non avrò che da ricostituire un mucchio di sabbia e ben presto si troveranno di nuovo tutti lì.

Quelle che non sono scomparse, giacché la loro dimora era un'altra, sono le ammofile, e le vedo svolazzare, una specie in primavera e le altre in autunno, sui vialetti del giardino o sui prati, alla caccia di qualche bruco; i pompilidi, che battono le ali, sempre in allerta, frugando in ogni angoletto per sorprendervi un ragno. Il più grande va a caccia della licosa di Narbona, detta comunemente tarantola, la cui tana si trova non di rado nel mio harmas. La sua tana è un pozzo verticale la cui vera è fatta di fuscelli di gramigna intrecciati di seta. In fondo al suo covo si vedono brillare come piccoli diamanti gli occhi del robusto aracnide, oggetto di terrore per quasi tutti. Che selvaggina e che caccia pericolosa per il pompilide! Ed ecco adesso, in un caldo pomeriggio estivo, la formica amazzone che esce in lunghi battaglioni avviandosi in lontane spedizioni a caccia di schiavi. Quando avremo un po' di tempo libero la seguiremo nelle sue razzie. Ed ecco anche, intorno a un mucchio di erbe convertite in terriccio, degli scolidi lunghi un pollice e mezzo che svolazzano pigramente per tuffarsi in quell'ammasso d'erba, attirati da una ricca selvaggina costituita da larve di Lamellicorni, come lo scarabeo rinoceronte e le cetonie.

Quanti soggetti di studio, e non è finito! Anche la casa era abbandonata come il terreno. Una volta partito l'uomo, l'animale è accorso in folla trovandovi il riposo assicurato e si è impadronito di tutto. La capinera ha eletto il suo domicilio nel lillà; il verdone si è stabilito nel folto rifugio delle fronde del cipresso; il passero ha ammassato straccetti e paglia sotto ogni tegola; in cima ai platani è venuto a gorgheggiare il verzellino il cui soffice nido ha le dimensioni di una mezza albicocca; l'assiolo ha preso l'abitudine di far sentire alla sera la sua nota monotona e flautata; la civetta, l'uccello di Atena, è accorsa qui anche lei a gemere e miagolare. Davanti alla casa c'è un grande bacino alimentato dalla stessa acqua che fornisce le fontane del villaggio, e lì, nella stagione degli amori, si riuniscono i batraci accorrendo da un raggio di un chilometro all'intorno. Il rospo dei canneti, talvolta delle dimensioni di un piatto, decorato da una stria gialla sul dorso, vi si dà convegno per fare il bagno; quando a sera scende il crepuscolo si può vedere saltellare sui bordi del bacino il rospo ostetrico, il maschio, che porta appesi alle sue zampe posteriori dei grappoli di uova grosse come granelli di pepe; arriva di lontano questo buon padre di famiglia per mettere in acqua il suo prezioso carico e quindi tornarsene sotto qualche pietra da dove ci fa sentire un suono simile a un tintinnio di campanella. E infine le raganelle, quando non se ne stanno a gracidare tra il fogliame degli alberi, si esibiscono in eleganti tuffi. E così di maggio, quando scende la notte, il bacino diventa un'orchestra che assorda rendendo impossibile chiacchierare a tavola e perfino dormire. Si è reso quindi indispensabile mettere un po' d'ordine ricorrendo a dei sistemi forse un po' troppo rigorosi. E del resto come fare altrimenti? Chi vorrebbe dormire e non ci riesce diventa feroce.

L'imenottero, più coraggioso, ha preso possesso dell'abitato. Sulla soglia della mia porta, su un suolo coperto di calcinacci, si è annidato uno sfecide dall'addome fasciato di bianco; entrando in casa mia devo stare attento a non danneggiare il suo covo e a non schiacciare sotto i piedi il minatore assorto nel suo lavoro. Era almeno un quarto di secolo che non avevo più rivisto il petulante cacciatore di cavallette. Quando feci per la prima volta la sua conoscenza dovetti andare a fargli visita a qualche chilometro di distanza, affrontando ogni volta una penosa spedizione sotto lo sfibrante sole di agosto. Oggi invece me lo ritrovo davanti alla porta; siamo così vicini da essere diventati addirittura intimi. Il vano di una finestra chiusa offre al pelopeo un appartamento a temperatura moderata. Il suo nido costruito con della terra è fissato contro la pietra da taglio. Per rientrare in casa sua questo cacciatore di ragni approfitta di un piccolo buco che si è formato accidentalmente nelle imposte chiuse. Sulle modanature delle persiane alcune calicodome isolate costruiscono il loro gruppo di cellette; sulla faccia interna delle imposte socchiuse una eumene edifica il suo piccolo duomo di terra sormontato da un piccolo collo svasato. La vespa e il poliste sono miei commensali e si posano sulla mia tavola per informarsi se l'uva è ben matura.

Ecco dunque – e l'enumerazione è ben lungi dall'essere completa – una comunità tanto numerosa quanto scelta, la cui conversazione ha senz'altro la capacità di affascinare la mia solitudine se mi dimostrerò in grado di provocare le loro risposte. I miei cari animaletti, sia i compagni e gli amici di lunga data, sia quelli di più recente conoscenza, si ritrovano tutti qui, intenti a cacciare, a raccogliere o a costruire, nella più stretta vicinanza tra loro e con me. D'altronde, se si rende necessario variare i punti di osservazione, a qualche centinaio di passi di distanza c'è la montagna con le sue macchie di corbezzolo, di cisto e di erica arborea, con le sue distese sabbiose così care al bembice, con le sue scarpate marnose sfruttate da vari imenotteri. Ed ecco perché, prevedendo queste ricchezze, sono fuggito dalla città per stabilirmi in un villaggio e sono venuto a Sérignan a sarchiare le mie rape e annaffiare le mie lattughe.

Sulle nostre coste oceaniche e mediterranee vengono installati, con forti spese, dei laboratori dove vengono sezionati i piccoli animaletti marini di ben scarso interesse per noi. Si fa sperpero di potenti microscopi, di delicati apparecchi per la dissezione, di ordigni per la cattura, di imbarcazioni, di personale addetto alla pesca, di acquari, e tutto ciò per sapere come si segmenta l'uovo di un anellide, cosa di cui non sono ancora riuscito ad afferrare l'importanza, mentre si disdegna lo studio dei piccoli animali terrestri che vivono perpetuamente in rapporto con noi, che potrebbero fornire dei documenti d'inestimabile valore alla psicologia generale e che troppo spesso distruggono i nostri raccolti compromettendo la ricchezza nazionale. Quando dunque verrà costruito un laboratorio di entomologia dove si studi, non l'insetto morto, macerato nell'alcool puro, bensì quello vivente, un laboratorio dove si studi l'istinto, le abitudini, il modo di vita, i lavori, le lotte e il modo di propagarsi di questo piccolo mondo che sia l'agricoltura che la filosofia dovrebbero tenere in seria considerazione? Conoscere a fondo la storia del flagello delle nostre vigne sarebbe forse più importante che sapere il punto di arrivo delle terminazioni nervose di un cirripede; stabilire in via sperimentale la linea di demarcazione che separa l'intelligenza dall'istinto e dimostrare, ponendo a confronto i fatti concreti riscontrabili nella serie zoologica, che la ragione umana è, o non è, una facoltà irriducibilmente a noi propria, ebbene tutto questo dovrebbe ben avere la precedenza sullo stabilire il numero esatto degli anelli presenti sull'antenna di un crostaceo. Per risolvere questi problemi di enorme importanza sarebbe indispensabile un esercito di ricercatori, e invece non c'è proprio niente. La moda attuale s'interessa ai molluschi e agli zoofiti. Le profondità dei mari vengono esplorate con uno spropositato uso di draghe, mentre il suolo che calpestiamo con i nostri piedi ci resta sconosciuto. Nell'attesa che la moda cambi, io apro un laboratorio di entomologia vivente nel mio harmas, un laboratorio che non costerà neppure un centesimo alla borsa del contribuente.

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LA LUCCIOLA



Nei nostri climi, pochi insetti possono rivaleggiare in popolarità con la lucciola, questa curiosa bestiola che, per celebrare le piccole gioie della vita, si accende un faro all'estremità del ventre. Chi non la conosce almeno di nome, chi non l'ha vista svolazzare tra l'erba, simile a una scintilla caduta dalla luna piena, nelle calde serate d'estate? Gli antichi greci la chiamavano "lampyris", cioè colui che porta una lanterna sulla groppa. La scienza ufficiale adotta lo stesso termine Lampyris noctiluca Lin. In questo caso, il termine oggi corrente in lingua francese non vale quello scientifico, così espressivo e così corretto nella traduzione.

Ed effettivamente ci sarebbe da cavillare sull'appellativo di "verme luminoso". La lucciola non è affatto un verme, non foss'altro che per il suo aspetto generale. Essa ha sei corte zampette di cui sa fare ottimamente uso: è un "trotta piano". Nello stadio adulto il maschio è correttamente vestito di elitre, da autentico coleottero qual è. La femmina è un'infelice alla quale restano sconosciute le gioie del volo, infatti essa mantiene per tutta la vita la conformazione larvale, simile, d'altronde, a quella del maschio che resta incompleto anche lui finché non è giunto all'età matura per l'accoppiamento. Ma il termine di verme è inadatto anche a questo suo stadio iniziale. E di uso corrente l'espressione "nudo come un verme" per indicare la mancanza di qualsiasi involucro difensivo. Ora la lucciola è vestita, cioè è rivestita di un'epidermide di una certa consistenza; inoltre è abbastanza vistosamente colorata di un marrone scuro su tutto il corpo, graziosamente variato di un rosa tenero sul petto, soprattutto sulla parte inferiore. Infine ogni segmento del corpo è decorato sul bordo posteriore di due piccole coccarde di un rosso piuttosto vivace. Ora un tale abito esclude l'idea di verme.

Lasciamo stare questa infelice denominazione e domandiamoci piuttosto di che cosa si nutre la lucciola. Un maestro di gastronomia, Brillat-Savarin, diceva: "Mostrami quello che mangi e ti dirò chi sei". Una tale domanda dovrebbe venire preventivamente rivolta a tutti gli insetti di cui si studiano le abitudini giacché, in tutti gli esponenti della serie degli animali, dal più grosso al più piccolo, il ventre è il sovrano del mondo e i dati relativi al cibo dominano per importanza su tutti gli altri della vita. Ebbene, nonostante la sua apparenza così innocente, la lucciola è carnivora, un cacciatore che esercita il suo mestiere con una eccezionale scelleratezza. La sua preda abituale è la lumaca.

Questo dettaglio è noto da lungo tempo agli entomologi. Ma ciò che è meno noto, anzi ciò che – mi sembra sulla base delle mie letture – ancora non è affatto noto, è il singolare metodo di attacco, un metodo di cui non conosco altri esempi in nessun altro insetto.

Prima di nutrirsi della sua vittima, la lucciola la cloroformizza, e in questo emula la nostra meravigliosa chirurgia che rende il paziente insensibile al dolore prima di operarlo. La preda abituale della lucciola è una lumaca di medie dimensioni, tali da raggiungere appena quelle di una ciliegia. Tale è l'elice variabile (Helix variabilis Drap.) che, d'estate, sui bordi dei sentieri, si addensa in grappoli sugli steli di robuste graminacee e su altri lunghi gambi secchi, e lì se ne resta, assorta in profonda meditazione, immobile, finché durano i torridi giorni dell'estate. E appunto in tale immobile posizione che mi è capitato molte volte di sorprendere la lucciola intenta a divorare la preda che aveva prima immobilizzato, per mezzo della sua tattica chirurgica, sull'oscillante appoggio dello stelo.

Ma alla lucciola sono ben note anche altre riserve di viveri. Essa suole frequentare i bordi dei canaletti d'irrigazione, su un terreno fresco, con vegetazione varia, luogo di delizie per il mollusco. In tal caso, essa si lavora la sua preda a terra e in queste condizioni mi è stato facile allevare la lucciola in domesticità, seguendo fin nei minimi dettagli la manovra dell'operatore. Cerchiamo di far assistere il lettore a questo singolare spettacolo.

In un'ampia ciotola fornita di un po' d'erba, sistemo alcune lucciole e una provvista di lumache di dimensioni convenienti, né troppo grosse né troppo piccole, tra le quali predomina l'elice variabile. Armiamoci di pazienza e aspettiamo. È essenziale che la sorveglianza sia assidua giacché gli eventi desiderati si producono all'improvviso e sono di breve durata.

Finalmente giunge il momento tanto atteso. La lucciola per un po' esplora la sua preda che, generalmente, si è interamente ritirata nella sua conchiglia, ad eccezione del bordo del mantello che sporge un po' fuori. È a questo punto che si scopre lo strumento del cacciatore, uno strumento molto semplice, ma che rende necessario l'ausilio di una lente per essere bene individuato. Esso consiste in due mandibole fortemente ricurve a uncino, molto appuntite e sottili come un capello. Al microscopio vi si può scorgere, in tutta la loro lunghezza, un sottile canaletto. E questo è tutto.

L'insetto pizzica a più riprese con il suo strumento il mantello del mollusco. La faccenda si svolge così dolcemente che si direbbe trattarsi di baci innocenti, piuttosto che di morsi. Un tempo, scambiandoci delle smancerie tra giovani compagni, noi chiamavano "buffetti" delle leggere pressioni con la punta delle dita, semplici solleticamenti piuttosto che vere aggressioni. Serviamoci di questa parola giacché, nella conversazione con l'animale, il linguaggio non ha nulla da perdere se resta infantile. E questo il vero modo di comprendersi tra ingenui.

La lucciola dosa i suoi buffetti, li distribuisce metodicamente, senza troppo affrettarsi, con brevi pause di riposo dopo ogni buffetto, come se essa volesse ogni volta rendersi conto dell'effetto ottenuto. Il numero di questi buffetti non è considerevole; una mezza dozzina, tutt'al più, sono sufficienti per domare la preda e immobilizzarla completamente. È molto probabile che altri colpi di mandibole vengano assestati anche in seguito, al momento della consumazione del pasto, ma su questo non posso dire niente di preciso perché le seguenti fasi del lavoro mi sfuggono. Ma sono sufficienti i primi morsi, sempre in piccolo numero, per determinare l'inerzia e l'insensibilità del mollusco, a tal punto è rapido, direi quasi fulmineo, il metodo della lucciola che indubbiamente inietta, per mezzo dei suoi uncini forniti di canaletti, un qualche veleno. Ecco le prove della immediata efficacia di queste punture apparentemente così benevole.

Sottraggo alla lucciola la lumaca operata dall'insetto a quattro o cinque riprese sull'orlo del mantello. Con un ago sottile pungo sul davanti la lumaca, sulle parti che il mollusco, ritirato nella sua conchiglia, lascia ancora allo scoperto. Le carni ferite non rispondono con alcun fremito, con alcuna reazione alle dure punture dell'ago. Un vero cadavere non potrebbe essere più inerte.

Ecco qualcosa di ancor più probante. Talvolta ho la fortuna di cogliere delle lumache che sono state assalite dalla lucciola mentre strisciano con il piede in leggera reptazione e i tentacoli turgidi in piena estensione. Alcuni movimenti incomposti tradiscono un breve turbamento del mollusco, ma poi tutto si arresta, il piede non striscia più, la parte anteriore perde la sua graziosa incurvatura a collo di cigno, i tentacoli diventano flaccidi, penzolano accasciandosi sotto il peso e si piegano a gomito come un bastone spezzato. Un tale stato è persistente.

Forse che la lumaca è davvero morta? Assolutamente no, giacché mi è molto facile resuscitare questo apparente cadavere. Dopo che sono trascorsi due o tre giorni in queste singolari condizioni, che non sono più la vita ma non sono neppure la morte, isolo il paziente e, sebbene ciò non sia indispensabile per il successo della resurrezione, lo gratifico di un'abluzione che rappresenta uno di quegli acquazzoni che sono così gradevoli per il mollusco in buona salute.

In circa un paio di giorni il mio prigioniero, che è stato ridotto a mal partito dalla perfidia della lucciola, riacquista le sue condizioni normali. In qualche modo risuscita, riacquista il movimento e la sensibilità. Reagisce alle stimolazioni del mio ago, si sposta, striscia, tira fuori i suoi tentacoli, come se non fosse successo nulla di anormale. Quello stato di generale torpore, simile a una profonda ebbrezza, si è completamente dissipato. Da quella morte presunta ritorna alla vita. Con quale nome si può definire quel modo di essere che, temporaneamente, abolisce l'attitudine al movimento e la sensibilità al dolore? Ne trovo soltanto uno che approssimativamente gli si adatti: lo stato determinato dall'anestesia.

Le prodezze di molti imenotteri le cui larve carnivore vengono approvvigionate di selvaggina immobile, ma non morta, ci hanno fatto conoscere l'arte sapiente dell'insetto paralizzatore che intorpidisce con il suo veleno i centri nervosi della locomozione. Ed ecco ora un'umile bestiola che pratica un'anestesia preventiva. In realtà non è stata la scienza degli uomini che ha inventato quest'arte, una delle meraviglie della chirurgia odierna. La lucciola ed altri insetti, a quanto pare, la conoscevano già molti secoli prima di noi. La scienza dell'animale ha anticipato di molto la nostra; soltanto il metodo è cambiato. I nostri anestesisti operano inalando dei vapori derivati dall'etere o dal cloroformio; invece l'insetto opera inoculando un veleno che viene emesso a dosi infinitesimali dagli uncini delle sue mandibole. Non sarà possibile un giorno mettere a profitto questo metodo indicatoci dall'insetto? Quante meravigliose scoperte ci potrebbe riservare l'avvenire se noi conoscessimo meglio i segreti di un piccolo animaletto!

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