Copertina
Autore Warren Fahy
Titolo Fragment
EdizioneCairo, Milano, 2009 , pag. 464, ill., cop.ril.sov., dim. 15,5x21,5x3,6 cm , Isbn 978-88-6052-231-3
OriginaleFragment
EdizioneBantam Dell, New York, 2009
TraduttoreGiancarlo Carlotti
LettoreGiovanna Bacci, 2009
Classe narrativa statunitense , thriller , fantascienza
PrimaPagina


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Indice


  Prologo                       7

                1971

  21 agosto                    15

                OGGI

  22 agosto                    25
  23 agosto                    53
  24 agosto                    71
   3 settembre                102
   4 settembre                141
   5 settembre                149
   7 settembre                172
  10 settembre                189
  15 settembre                270
  16 settembre                288
  17 settembre                439
  18 settembre                459

  Tavole                      460
  Ringraziamenti              462



 

 

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Pagina 15

1971
21 agosto



17:27

«Comandante, il signor Grafton sta tentando di sbarcare un uomo a riva, signore.»

«Quale uomo, signor Eaton?»

La H.M.S. Retribution, all'ancora a circa trecento metri dalla scogliera a strapiombo dell'isola, rollò su un'onda alta tre metri proveniente da terra. La corvetta era alla cappa, le sue vele grigie si gonfiavano in direzioni opposte per tenerla in posizione mentre l'ufficiale di rotta sorvegliava una formazione nuvolosa che stava montando a nord.

Alcuni dei marinai pregavano mentre osservavano in silenzio dalla tolda la scialuppa che si avvicinava a riva. La parete rocciosa, d'un arancione pallido alla luce del tramonto, era solcata da un crepaccio pieno di ombre azzurrine che correva lungo tutti gli oltre duecento metri d'altezza.

La Retribution era una nave catturata ai francesi, in precedenza nota come Atrios. Da dieci mesi il suo equipaggio stava dando una caccia senza quartiere al Bounty. L'ammiragliato britannico non aveva nulla da ridire quando si trattava di sottrarre navi alle altre marine militari, ma quando a scomparire era un suo vascello aveva la memoria molto lunga. Erano passati cinque anni da quando gli ammutinati del Bounty erano spariti assieme alla loro nave, ma la caccia proseguiva instancabile.

Il tenente di vascello Eaton posizionò il cannocchiale del comandante e ruotò il tubo d'ottone per mettere a fuoco: nove uomini stavano portando la scialuppa sotto la crepa nella parete rocciosa. Notò che il marinaio proteso verso la fessura aveva un berretto rosso in testa. «Mi sembra Frears, comandante» segnalò.

Il crepaccio buio partiva a circa cinque metri dal pelo dell'acqua e zigzagava per centinaia di metri come un fulmine lungo la parete scoscesa. I marinai britannici avevano quasi completato il periplo dell'isola lunga tre chilometri prima di trovare quest'unica breccia nella sua armatura.

Anche se il comandante insisteva per proseguire in tutte le isole la scrupolosa ricerca dell'equipaggio del Bounty, in quel momento gli uomini della Retribution avevano un problema ben più pressante. Dopo cinque settimane senza pioggia, invocavano un po' d'acqua fresca, altro che mettersi sulle tracce di una ciurma ammutinata. In quel momento 317 marinai stavano fingendo di compiere il loro dovere, ma in realtà gettavano tutti quanti occhiate furtive e speranzose alla squadra da sbarco.

La lancia saliva e scendeva nella schiuma delle onde mentre i nove si tenevano a distanza dagli scogli con i remi. Quando la scialuppa arrivò al culmine di un cavallone l'uomo con il berretto rosso riuscì ad afferrare il bordo inferiore della spaccatura e a rimanervi aggrappato mentre la barca si abbassava.

«Ha trovato un appiglio, comandante!»

Dalla ciurma sali un timido applauso.

Poi Eaton vide gli uomini sulla barca che gettavano alcune piccole botti a Frears. «Signore, gli stanno lanciando i barilotti da riempire.»

«Comandante, la Provvidenza ci ha sorriso» disse Dunn, il rubizzo cappellano che s'era fatto dare un passaggio per l'Australia sulla Retribution. «Era destino che trovassimo quest'isola! Altrimenti perché il Signore l'avrebbe messa qui, tanto lontana da tutto?»

«Certo, signor Dunn. Voi continuate a restare in contatto con il Creatore» replicò il comandante mentre strizzava gli occhi per vedere meglio la barca. «Signor Eaton, come procede il nostro uomo?»

«È entrato.» Dopo un intervallo che parve interminabile Eaton vide finalmente l'uomo col berretto rosso spuntare dalla spaccatura. «Frears sta segnalando qualcosa. Comandante, ha trovato l'acqua dolce! Sta lanciando un barilotto!»

Eaton lanciò un'occhiata stanca al comandante, poi sorrise mentre sul ponte esplodeva un applauso.

Anche il comandante abbozzò un sorriso. «Preparate quattro scialuppe per le provviste, signor Eaton. Caliamo una scaletta e riempiamo i barili.»

«È la Provvidenza, comandante» strillò il cappellano sopra l'applauso immediato dei marinai. A stato il buon Dio a portarci qui!»

Quando Eaton riaccostò il cannocchiale al volto vide che Frears stava gettando in mare dal crepaccio un'altra piccola botte. Gli uomini della lancia la issarono a bordo dalla fiancata.

«Ne ha buttata un'altra!» gridò.

Gli uomini applaudirono di nuovo. Adesso erano tutti indaffarati e ridevano allegri mentre prendevano i barili dalla stiva.

«Il Signore ci protegge.» Il cappellano annuì sopra l'abbondante cuscino di grasso del doppio mento.

Il comandante gli sorrise. In questi ultimi mesi il religioso doveva aver provato le più intense emozioni di tutta la sua esistenza toccando con mano la vita a bordo di una nave operativa della Marina di Sua Maestà.

Secondo la sua ciurma il capitano di vascello Ambrose Spencer Henders, con quella faccia piena di lentiggini che sembravano la Via Lattea, era praticamente identico a Nelson, l'eroe di Trafalgar, solo coi capelli rossi. «Un'isola di queste dimensioni senza frangenti, uccelli o foche» borbottò mentre osservava i tenui riflessi che scivolavano lungo la scogliera. Alcune strie di colore sembravano brillare come filoni d'oro alle ultime luci del sole al tramonto. Dopo avere ispezionato tutto attorno all'isola non avevano trovato un altro posto in cui gettare l'ancora, e già questo fatto lo sconcertava. «Signor Eaton, che mi dite di quest'isola?»

«Mah, è strana» rispose Eaton, abbassando il cannocchiale, che però risollevò di scatto perché aveva appena scorto Frears cadere in ginocchio sul bordo della spaccatura. Inquadrò l'uomo chino nel crepaccio e gli vide sfuggire dalle mani quello che sembrava l'imbuto di rame con il quale aveva riempito i barilotti. L'attrezzo rimbalzò sulle rocce fino all'acqua.

In quel momento si materializzò alle spalle del marinaio un lampo rosso, due fauci scarlatte parvero piombare dalle tenebre per serrarglisi sul torace e sulla testa, poi trascinarono di nuovo Frears nel crepaccio.

Deboli grida arrivarono sulle onde, echeggiate dalla scogliera.

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Pagina 86

Sin da quando era bambino, e da quanto poteva ricordare, Geoffrey era uno scienziato. Ogni volta che un adulto gli chiedeva che cos'avrebbe fatto da grande, lui letteralmente non capiva la domanda. A quattro anni conduceva già esperimenti rigorosi. Anziché chiedere ai genitori come mai certe cose rimbalzavano e altre andavano in mille pezzi, lui le mise alla prova per conto proprio, disegnando sui suoi libri illustrati un bel pallino evidente accanto alle immagini delle cose che erano riuscite a sopravvivere al suo test di gravità e un ghirigoro accanto agli oggetti che non ce l'avevano fatta, una classificazione che sua madre aveva scoperto con un misto di orrore e fierezza.

I genitori, che l'avevano cresciuto nel ricco sobborgo losangelino di La Cañada-Flintridge, riconobbero di avere tra le mani un bambino decisamente speciale quando una sera tornarono dal lavoro presso il Laboratorio propulsori a reazione della NASA e trovarono la baby-sitter acciambellata a dormire sul divano davanti al televisore e il bimbo di sei anni seduto nel patio sul retro con in mano un tubo da giardino aperto. «Benvenuti a Trifibiopoli» aveva detto il piccolo Geoffrey, presentando la sua prodezza ingegneristica con un imperioso gesto della mano.

Aveva allagato l'intero giardino proprio nel periodo in cui milioni di rospi deponevano le uova sulle rive della diga di Devil's Gate. Migliaia di minuscoli anfibi grigi erano riusciti a passare sotto la recinzione grazie alla piccola galleria costruita apposta per loro da Geoffrey e adesso popolavano una metropoli di canali e isolette presidiata da alcuni nanetti da giardino.

Da quel giorno i genitori avevano fatto il possibile per tenere impegnata l'innata curiosità del figlio in maniera più costruttiva. L'avevano mandato in campeggio sull'isola di Catalina, dove era stato quasi arrestato per aver dissezionato un pesce Garibaldi, il combattivo pesce simbolo della California, anche se i suoi compagni di campeggio avevano già infilzato tutti i pesci che potevano, proprio perché era vietato, e li avevano gettati sugli scogli.

Ma Geoffrey s'era sentito finalmente a casa solo quando era stato ammesso a un corso di neurobiologia per bambini prodigio al vicino Cal-Tech. Aveva esplorato da cima a fondo l'ateneo assieme agli amichetti geni ed era penetrato nel labirinto di tunnel del riscaldamento sotto il campus, rischiando anche stavolta di essere arrestato.

S'era diplomato al liceo di Flintridge a quindici anni ed era stato immediatamente ammesso a Oxford, con grande orrore dei genitori. Alla fine sua madre aveva ceduto, e così lui era rimasto a Oxford sette anni, laureandosi in biologia, biochimica e antropologia.

Negli anni successivi all'università s'era aggiudicato una sfilza di riconoscimenti, ma non li aveva mai esposti in ufficio come facevano tanti suoi colleghi. Guardarli gli faceva venire la nausea. Geoffrey diffidava profondamente degli obblighi che potevano accompagnare quelle onorificenze. Le accettava per buona educazione, ma sempre tenendosi a distanza di sicurezza.

Per essere un saggio scientifico, il suo ultimo libro era stato una specie di best seller, anche se con grande disappunto del suo agente letterario Geoffrey s'era rifiutato di diventare uno «scienziato opinionista», di quelli che pontificavano in tivù sull'ultima mania scientifica e ripetevano a pappagallo le opinioni della maggioranza senza una vera esperienza diretta nella pletora di materie su cui i giornalisti chiedevano un parere agli scienziati. Gli veniva la pelle d'oca quando vedeva i colleghi umiliarsi in quel modo, anche se di solito sembravano molto contenti di apparire in televisione.

Quanto a lui, preferiva ribalte come quella di stasera. Il leggendario Lillie Auditorium di Woods Hole era un vero e proprio tempio della scienza. Nell'ultimo secolo quell'umile sala aveva ospitato più di quaranta premi Nobel.

Quando all'inizio dell'Ottocento avevano costruito il piccolo auditorium, Woods Hole era già una fiorente comunità di laboratori pressoché indipendenti tra loro, ma legati da una cultura avanzata da campus universitario. In quella cittadina uomini e donne si erano trovati sin dall'inizio in una condizione di notevole parità, gli uomini in cappello di paglia e completo bianco, le donne in bustino, abiti di crinolina e ombrellini, fianco a fianco a scavare nel fango in cerca di reperti.

Il Lillie Auditorium poteva accogliere comodamente circa duecento persone sotto l'alto soffitto sorretto da grosse colonne vittoriane dipinte di bianco ormai ingiallito, simili a tante enormi candele di sego. Sotto i seggiolini a stecche di legno si trovavano ancora i ripiani di fil di ferro su cui un tempo i signori riponevano il cappello.

Gli appuntamenti estivi più attesi a Woods Hole erano le «conferenze del venerdì sera». Tra gli oratori comparivano immancabilmente i più importanti scienziati di tutto il mondo. Secondo la tradizione, comunque, le Chiacchierate Fuoco-e-fiamme si svolgevano il giovedì sera.

Otto anni prima la lezione d'esordio di Geoffrey aveva scatenato una mezza sommossa, e così quest'anno, in occasione della sua nuova visita, i responsabili della sala avevano prenotato alcune prime serate del giovedì sperando in una replica.

Geoffrey aveva inventato la tradizione delle Chiacchierate Fuoco-e-fiamme quando aveva convinto il proprietario del King's Head Pub a riservargli tutti i giovedì sera una saletta in cui lui e qualche altra testa calda di Oxford potessero perpetrare sacrilegi scientifici a scadenza fissa. Il loro pubblico entusiasta s'era presto allargato, tanto che dopo un po' c'erano solo posti in piedi. Era stato un periodo assai divertente nonostante le teorie ridicole, con il senno di poi, espresse in quella sede. Però il punto non era tanto avere ragione quanto sfidare il sapere convenzionale e innescare nuovi ragionamenti scientifici, anche se questo portava a demolire la teoria proposta. Per questi disastri era stato inventato un riconoscimento speciale, il Premio Icaro per la teoria che s'inabissava più in fretta.

Era scienza a botta e risposta, teoria in azione, metodo in movimento, ma spesso nel rogo di un'ipotesi era possibile intravedere i tizzoni di una soluzione brillante. Gettare un'idea coraggiosa in pasto ai lupi era musica per le orecchie di Geoffrey. Quando non distruggevano le sue teorie gli altri le miglioravano, perciò s'era portato dietro l'usanza ovunque andasse come banco di prova per le proprie ipotesi meno ortodosse. Per lui queste conferenze erano l'equivalente di una recensione accademica.

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Pagina 109

Alcuni altri scienziati erano impegnati ai comandi di varie trappole più piccole, ciascuna con un'esca diversa: un pezzo di wurstel, un'insalata di verdure, una pianta carnivora in vaso, una tazza di miele, un mucchio di sale, una ciotola d'acqua fresca, tutto fornito dalla cambusa della Enterprise, a parte la pianta carnivora, una compagna che Quentin era riuscito a far salire clandestinamente sul suo volo. Come punizione per aver violato le regole, il biologo era stato costretto a sacrificare alla scienza la sua amata «Audrey».

Traendo ispirazione da questo incidente, Nell aveva richiesto l'invio di decine di altre specie vegetali, compresi pini in vaso, frumento, cactus ed erba, il tutto da esporre all'isola nei dintorni del laboratorio per osservare gli effetti.

Altri scienziati sparpagliati lungo la mangiatoia controllavano le telecamere, puntandole sulla trappola recupero esemplari.

Quentin sganciò il meccanismo della chiusura ermetica in cima al cilindro. Appena sollevò il coperchio, dalla trappola sbucarono due creature che sembravano trottole volanti.

Decollarono come se fossero due elicotteri, rimanendo sospese nella mangiatoia senza ruotare su se stesse mentre le cinque ali spandevano tutto intorno una nebbia azzurrina. A un tratto il loro addome si curvò sotto il corpo come la coda di uno scorpione e si tuffarono dritte verso la trappola contenente il pezzo di wurstel.

La loro testa si guardava attorno attraverso un anello di occhietti mentre le zampe afferravano la carne e la ficcavano nelle fauci addominali. Il corpo dei due esseri s'ingrossò immediatamente.

Dopo un istante di stordimento, gli scienziati che controllavano la trappola si ricordarono di sigillare all'interno le due creature.

«Prese!»

«Ottimo lavoro!» sussurrò Nell.

Quentin rovesciò la capsula di prelievo esemplari per scaricare il contenuto sul pavimento bianco illuminato della mangiatoia. Assieme alla poltiglia azzurra caddero fuori parecchi corpi ancora distinguibili.

Quentin puntò il bocchettone di un rubinetto a molla installato sul lato della teca per ripulire con uno spruzzo d'acqua gli esemplari maciullati. Il sangue azzurro misto ad acqua colò negli scarichi disposti ogni mezzo metro nella mangiatoia.

Dal blocco di sangue rappreso rotolarono fuori tre grosse discoformiche, lasciandosi alle spalle una scia azzurra, poi ricaddero su un fianco e iniziarono a strisciare come se fossero lombrichi, con le zampe superiori che schizzavano goccioline di sangue quasi fosse inchiostro spruzzato da una stilografica. Dopo di che si ribaltarono e fecero altrettanto con le altre zampe prima di tornare in equilibrio sul bordo e darsi una spinta per sfrecciare verso le facce degli scienziati ipnotizzati.

Alcune rimbalzarono contro le pareti della mangiatoia, ritraendo le zampe in modo da formare tante punte bianche dure come il diamante che lasciarono tacche visibili sulla superficie acrilica. E ogni volta che rimbalzavano espellevano decine di discoformiche più piccole che rotolavano lungo le pareti, lasciandosi dietro una scia di liquido celeste.

Gli scienziati che controllavano le telecamere zummarono per seguire i cuccioli che rotolavano verso le trappole con le esche. I piccoli dischi si avventarono sullo zucchero e le verdure, e persino sulla pianta carnivora, che divorarono dall'interno mentre le trappole scattavano una dopo l'altra.

«Addio, Audrey» disse mesto Quentin. Nell gli diede qualche colpetto di consolazione sulla spalla.

Una grossa discoformica rotolò verso la trappola che conteneva il mucchietto di sale. Si girò su un fianco per iniziare a mangiare, ma prima che la trappola potesse scattare si fece indietro di colpo, si riportò in equilibrio sul bordo e rotolò via.

«Prendete le piccole separatamente, se ci riuscite» ordinò Nell. «E dobbiamo recuperare qualche campione di tessuto anche dagli altri esemplari, Otto, per le colture batteriche e i profili con la spettrometria di massa. È necessario sezionarle per vedere se hanno sacche di veleno che dobbiamo studiare.»

I suoi collaboratori fecero scattare le loro trappole e isolarono alcune dozzine di esemplari, poi infilarono le mani nei guanti a fisarmonica e sistemarono le trappole chiuse dentro le camere stagne distribuite lungo la mangiatoia. Nei primi piani delle telecamere in alto videro le minuscole creature saltellare sui loro guanti.

«Sembra che attacchino tutto quello che si muove» osservò Nell.

«Sì, per quanto grande possa essere» disse Andy.

«Niente paura, è impossibile che riescano a perforare la gomma butilica» li rassicurò Quentin.

«Hai mai visto Andromeda?»

«O Alien?» aggiunse Andy.

«Su, ragazzi.»

Gli scienziati misero le loro trappole nelle camere stagne, dove la superficie esterna dei contenitori fu sterilizzata con un bagno di varechina. Poi aprirono i portelli e trasferirono le trappole in teche di osservazione singole, dov'era possibile liberare gli esemplari viventi catturati.

Gli altri esemplari della prima trappola sembravano morti, vittime di un folle massacro. Il wurstel sembrava sparito.

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Pagina 172

7 settembre



19:32

LA CHIACCHIERATA FUOCO-E-FIAMME DI STASERA
PERCHÉ MORIAMO
con il dottor Geoffrey R. Binswanger


In quel freddo giovedì sera d'autunno il Lillie Auditorium era ancora una volta tutto esaurito.

Le luci si abbassarono quando Geoffrey salì sul palco con indosso scarpe gialle da basket, jeans, l'immancabile maglietta Kaua'i e una giacchetta di velluto verde limetta alla Nehru con i bordini rossi.

«Signore e signori, buonasera. Perché una tartaruga delle Galapagos vive centocinquant'anni, un'effimera un giorno e un essere umano difficilmente supera gli ottant'anni? Succede semplicemente perché le nostre parti si logorano a velocità diverse? Oppure c'è un motivo, o persino un vantaggio evolutivo, nella durata limitata della vita? E se davvero esiste uno scopo biologico positivo, significa che le lancette dell'orologio possono essere riposizionate, presumendo che l'evoluzione abbia utilizzato qualche meccanismo per "impostare" il timer della vita?»

Geoffrey premette il telecomando. Dietro di lui comparve il primo piano di un timer da cucina su un bancone in stile anni Cinquanta, accolto da alcune risatine nervose.

«Il problema che vorrei sottoporre stasera alla vostra attenzione e a cui vorrei offrire una risposta plausibile è: La velocità con cui arriva la morte potrebbe costituire un vantaggio per la sopravvivenza? A un primo sguardo, sembra un assunto ridicolo, tuttavia credo che potrebbe esserci una spiegazione semplicissima per il variare delle aspettative di vita: gli animali potrebbero invecchiare e morire al solo scopo di evitare di accoppiarsi con i propri figli.»

Geoffrey passò a un'immagine del cugino It della Famiglia Addams. Si udì qualche risatina tra il pubblico.

«Ovviamente abbiamo imposto da tempo immemore tabù rigorosi contro l'incesto. In realtà l'accoppiamento genitore-figlio provoca danni decisamente seri all'integrità genetica di quasi tutte le forme di vita terrestri, causando la sterilità sia nelle piante che negli animali nel giro di poche generazioni. Forse, ancor prima dei tabù umani, la natura ha fatto rispettare un proprio tabù introducendo una durata limitata della vita per impedire che si verificasse una simile catastrofe genetica.»

Geoffrey cliccò ancora, facendo comparire l'immagine di alcune cellule microscopiche su campo azzurro.

«Negli antichi mari della Terra in cui il DNA s'è formato e in cui la vita unicellulare ha contribuito a replicarlo per un miliardo di anni, non c'era alcun bisogno di limitare la durata della vita. I batteri e quasi tutte le cellule non si riproducevano sessualmente, e quando succedeva le probabilità di incontrare un proprio erede erano praticamente nulle. Alcuni scienziati hanno ipotizzato che certe forme di batterio potrebbero essere effettivamente immortali. Nell'anno 2000 i ricercatori della West Chester University hanno trovato batteri rimasti in vita per 250 milioni di anni, prigionieri dentro alcuni cristalli di sale sepolti a grande profondità.»

Geoffrey passò all'immagine di un terrario pieno di criceti.

«Ma gli animali che hanno accesso a gruppi di riproduzione molto più ristretti un problema ce l'hanno. Più figli fanno a ogni gravidanza, più costituiscono una grave minaccia al patrimonio genetico, a meno che il DNA non riesca a proteggersi piazzando una bomba a orologeria nell'animale, una bomba pronta a esplodere prima che possa concretizzarsi un accoppiamento transgenerazionale.»

La diapositiva successiva era il primo piano di un pilone di pontile coperto di cozze.

«Per verificare se questa correlazione può dimostrarsi vera, ho iniziato a raffrontare la durata della vita degli animali al loro comportamento riproduttivo. Le cozze possono campare fino a cento anni. Vivono in colonie e per riprodursi mescolano simultaneamente miliardi di gameti nell'acqua del mare. Dato che la marea fluisce in una sola direzione durante la loro fecondazione sincronizzata e grazie alla pura e semplice quantità di presenti, la possibilità di una riproduzione incestuosa è praticamente inesistente. Non si nota un meccanismo riconoscibile di limitazione della durata della vita. Le vongole giganti, che si riproducono più o meno alla stessa maniera, possono vivere fino a cinque secoli. Si ritiene che anche i vermi tubolari che proliferano sui fondali marini presso gli sbocchi di acqua calda e molti coralli che si riproducono in modo simile possano campare per secoli.»

Geoffrey passò a un altro primo piano.

«I cirripedi, d'altro canto, vivono anche loro in colonie, però campano solo uno o due anni. Perché? Perché i cirripedi si riproducono in maniera diversa. I maschi estroflettono un pene lungo nove volte il loro corpo, più lungo in proporzione di qualsiasi pene nel regno animale, in modo da poter copulare con altri cirripedi.»

Ilarità tra il pubblico. Anche Geoffrey rise.

«Le dimensioni contano, ma non così tanto. I cirripedi hanno forzatamente un piccolissimo gruppo di partner sessuali. Il rischio di fecondazione intergenerazionale è abbastanza alto da richiedere che muoiano prima che diventi feconda la generazione successiva. Il decesso avviene circa al doppio dell'età in cui diventano fecondi.»

Geoffrey cliccò per far apparire un'altra immagine, l'immenso tronco di una sequoia della California circondato da felci.

«Le conifere, i primi alberi che hanno usato il polline per riprodursi, l'hanno fatto ancor prima di essere aiutate dagli insetti, quindi, come le barriere coralline, dovevano espellere enormi nubi di gameti nelle correnti d'aria che passavano sopra le foreste, rendendo quasi impossibile l'accoppiamento intergenerazionale. Sappiamo di pini vecchi di quasi cinquemila anni, mentre le sequoie giganti, i cedri e i pini kauri della Nuova Zelanda sono tra gli organismi più longevi sulla Terra. Nel 2008 alcuni scienziati hanno scoperto un rigoglioso abete rosso di quasi diecimila anni.»

La diapositiva seguente mostrava quello che sembrava un gigantesco ratto dall'aria minacciosa. La coda priva di peli era attorcigliata attorno al ramo che stava scalando. Ai fianchi e sulla schiena aveva aggrappate alcune sue versioni in miniatura.

«L'opossum, l'unico marsupiale nordamericano, è un animale solitario, non migra e abita per tutta la vita nella stessa zona. Una sua nidiata può arrivare fino a tredici cuccioli, che approdano alla maturità sessuale dopo un solo anno. Se c'è un caso che renderebbe possibile la fecondazione intergenerazionale è questo. Tuttavia, visto che l'opossum non si limita a fingersi morto ma muore davvero all'età di uno o due anni, non si può verificare alcun accoppiamento tra genitori e figli.»

Il primo piano successivo fece contorcere gli spettatori sulle sedie per lo schifo.

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10 settembre



5:10

Nell era seduta nel soggiorno buio di fronte all'occhio azzurro e rigonfio del televisore.

Un rumore imprecisato rimbombava come un tuono in lontananza mentre Nell fissava il mostro che la guardava da dietro il vetro.

I due grandi occhi che oscillavano sui peduncoli erano fissi nei suoi. Le tre pupille erano allineate in verticale in ciascun globo, la vedeva sei volte nello stesso istante.

D'un tratto Nell si rese conto di essere sveglia, di avere le palpebre alzate!

Non stava sognando.

Una ragnotigre di cinque quintali era seduta sul finestrone sopra la sua cuccetta nella Sezione Tre.

La scarica di adrenalina le serrò il petto in una morsa. Non riuscì nemmeno a gridare quando riconobbe una di quelle cose che le avevano dato la caccia sulla spiaggia.

Rimase a guardare impietrita la creatura che inclinava la testa e sollevava le zampe, preparandosi a colpire.

Quando la creatura abbatté le zampe anteriori sulla robusta vetrata di policarbonato, proiettando un'onda d'urto in tutto il laboratorio, echeggiò un rumore che sembrava una cannonata.

Stordita dal contraccolpo, Nell si abbassò e si sfilò una Adidas. S'era addormentata prima di riuscire a togliersele.

La bestia la stava guardando minacciosa attraverso la finestra, con gli occhi che oscillavano da un lato all'altro, i denti scuri simili a ghiaccioli digrignati nelle fauci verticali, il pelo che pulsava di motivi arancione, rossi, rosa. Sembrava muoversi come un drago al neon, per quanto restasse perfettamente fermo.

Con uno scatto di rabbia Nell urlò e scagliò la scarpa verso il muso del mostro.

La testa schizzò istantaneamente all'indietro e gli occhi sparirono sotto l'affilato scaglione delle arcate sopracciliari.

Poi la bestia allungò di nuovo il collo, la testa inclinata come se fosse incuriosita mentre riemergevano i peduncoli oculari. La filigrana di strisce sul muso della ragnotigre vibrava di colori mentre un paio di narici ansimanti sul petto stampava colonne di vapore sulla finestra.

Prima che Nell riuscisse a sottrarsi al suo sguardo, l'essere sollevò di nuovo le zampe accanto alla testa e le abbatté sulla finestra, più volte, in un accanito assalto che fece tremare la lastra di policarbonato.

Stordita da quelle deflagrazioni, Nell notò a malapena lo sciame di creature volanti appena spuntato e sospeso in quel momento sopra la testa del mostro.

Gli insetti si tuffarono in picchiata sul dorso della ragnotigre, costringendola a sollevare il capo per lanciare un ruggito. Poi all'improvviso, in rapida successione, tre animali delle dimensioni di un tasso si abbatterono su un fianco del grosso animale.

Quando i tassi affondarono i denti nel suo torace tremante, la ragnotigre lanciò uno strillo che sembrava il fischio di un treno, poi catapultò all'indietro la coda, lasciando alcuni graffi sulla finestra mentre tagliava in due con un morso uno di quei piccoli animali e scagliava lontano gli altri assalitori.

Adesso la finestra era vuota, c'era solo il cielo azzurro. Per un intervallo interminabile dopo la scomparsa degli animali Nell rimase a fissare la volta celeste. Tre schizzi di sangue azzurro stavano colando lungo la lastra di policarbonato, che era riuscita in qualche maniera a reggere all'assalto.

Le ronzavano le orecchie, e riuscì appena a sentire Andy e Quentin che aprivano il boccaporto della zona notte e strillavano.

«Cos'è stato?»

«Nell, tutto bene?»

«Sembravano spari!»

«Non l'avete vista?» chiese.

«No.»

«Cos'era?» domandò Quentin.

Nell si sollevò sui gomiti e gettò le gambe giù dalla cuccetta. Ci sentiva ancora male, i suoni risultavano metallici, le orecchie e la testa pulsavano. «Un incubo.»

«Ma tu stai bene?»

Nell rise nervosamente. «Sono felice che l'abbia costruito la NASA questo aggeggio» disse a voce alta sopra lo scampanellio insistente che aveva nelle orecchie.

Si lasciò scivolare sul pavimento e andò ad abbracciare Andy, nascondendogli il viso nella spalla per un breve pianto controllato. L'amico si prestò gentilmente, drizzando protettivo le spalle strette mentre guardava Quentin.

Il biologo della NASA stava studiando i profondi solchi sulla superficie della vetrata. «Qualunque cosa fosse, spero che non si faccia più viva. Deve averti visto dal tetto. Per quell'essere eri come una meringa al limone su un banco di pasticceria, Nell.»

«Quentin» protestò Andy.

«Scusa.»

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Di norma la mangusta affronta il cobra con un atteggiamento quasi scherzoso, e il loro scontro è uno spettacolo piuttosto ridicolo. Il mammifero si prende gioco del tanto temuto rettile, scansando facilmente i suoi affondi con balzi pressoché impossibili da seguire e distraendolo con la scattante coda ad anelli mentre prepara l'assalto finale. È talmente coordinata in questo attacco conclusivo che dà per scontato di poter mordere la testa del cobra da dietro per assestare il colpo di grazia. È anche risaputo che spesso il mammifero tiene inchiodata la vittima, le strappa le zanne e poi irride la preda sdentata come fa un gatto col topo prima di degnarsi di divorare il serpente ancora vivo.

Naturalmente i serpenti velenosi non sono le uniche vittime dell'intrepido mammifero. Prima o poi dentro quello stomaco finiscono anche uccelli, roditori e altri rettili. Il suo olfatto finissimo riesce persino a scovare sottoterra gli scorpioni, una vera leccornia per le manguste.

In quel momento l'animale era immobile, i sensi in stato di massima allerta a causa di segnali strani, l'istinto disorientato da segni conflittuali di pericolo. Spaventata da un movimento di quel fogliame poco familiare, la mangusta saltò giù dal ramo sul terreno cosparso di penne.

Un ronzio sfrecciò verso di lei. Annusò l'aria e scosse la coda, gli occhi che scattavano di qua e di là mentre tentava di localizzare la fonte del rumore. Poi spiccò un balzo, girandosi sul dorso a mezz'aria come un tuffatore in un salto carpiato.

Un insetto sibilante le sfiorò la testa; la mangusta lo afferrò con le zampe anteriori prima di atterrare su quelle di dietro.

L'aggressivo esserino la morse sul naso con una forza sorprendente. La mangusta lanciò un sibilo e iniziò a lottare inferocita con la preda, sollevando qualche penna dal fondo della foresta.

La forza di quell'insetto la sconcertava. Le zampette affilate simili a chele le mozzarono due dita prima che riuscisse a spezzarlo quasi in due affondando i denti nel robusto esoscheletro.

Ma persino mentre la mangusta masticava il carapace l'essere continuò a lottare, facendo colare il suo sangue azzurro sul mento del mammifero. Quello strano gusto pungente ricordò alla mangusta quello degli onischi. Sputò immediatamente l'insetto senza smettere di controllare la foresta.

Uno sciame scese in picchiata tra i rami. La mangusta spiccò un balzo, evitando per un pelo un animale grosso quanto lei che aveva calcolato male la traiettoria.

E quando toccò terra cominciò a correre, facendo lo slalom fra tronchi e scivolando sotto i rami per seminare gli inseguitori.

Nella leggera foschia di una gola spuntò una forma che le ricordava un cobra, e la mangusta scartò di lato.

Agitò la coda e passò alla modalità d'attacco. Finalmente una vista familiare aveva risvegliato i suoi istinti disorientati.

Ma quando si avventò contro la forma serpentina, qualcosa le piombò addosso dalla destra.

Tentò una rotazione a mezz'aria, ma una fitta lancinante la piegò in due. Le avevano appena mozzato la coda.

Il mammifero atterrò ringhiando e si girò verso l'aggressore, la schiena inarcata e il moncone sanguinante della coda che scattava. Il suo avversario era un ratto di Henders.

Gli occhi bulbosi del «ratto» dondolavano avanti e indietro sui peduncoli diagonali, le lunghe e fitte zanne cristalline riempivano la bocca larga, le strisce di colori pulsavano attorno alle fauci. Le chele bianche da granchio della mandibola inferiore infilarono la coda che ancora si muoveva nell'apertura, boccone dopo boccone, come un tritarifiuti. Tenendo gli occhi fissi sulla mangusta tremante il ratto sputò la punta della coda, poi chiuse le labbra sopra le zanne e lanciò un fischio assordante dalle due narici in cima alla testa rotonda.

La mangusta sibilò, arretrò con i timpani perforati da quel rumore acutissimo, poi rimase immobile, annichilita dal dolore, i sensi sovraccarichi. Cercò di concentrarsi sull'avversario, sul cui grugno guizzavano abbacinanti strisce multicolori.

Il ratto dalla pelliccia di velluto teneva la grossa coda ripiegata sotto il corpo, incastrata fra le quattro zampe posteriori. Dalla punta uscì un cuneo ricurvo e affilato, simile all'aculeo di uno scorpione, che affondò nel terreno.

Il secondo cervello del ratto fece estroflettere gli occhi dorsali, pronto a dirigere i balzi dell'animale con le zampe posteriori e la «coda», capace di proiettare l'animale a sette metri d'altezza. Un attimo dopo l'essere si sollevò sulle quattro zampe di dietro e tese le lunghe braccia affilate verso la mangusta, come se la stesse rilevando con le antenne, le chele della mandibola inferiore già pronte a scattare.

La mangusta anticipò l'attacco partendo con un affondo e afferrò tra i denti il collo del ratto.

Poi diede un violento strattone con la testa per spezzare il collo al rivale, peccato che non c'erano ossa da rompere lì sotto. Ancora qualche scrollone, poi il ratto lanciò un altro sibilo stridulo. La mangusta continuò a mordere prima di decidersi a mollare la preda ferita a morte. Sentì avvicinarsi un'altra ondata di animali, perciò in preda al panico fece dietrofront e cominciò a scappare a balzi, sbilanciata dall'assenza della coda.

Un altro ratto di Henders la placcò in volo con le braccia taglienti, poi bloccò le zampe posteriori della mangusta con le sue e la inchiodò al suolo. Il dorso elastico della mangusta si fletté e scattò come una frusta mentre si dibatteva nella morsa mortale dell'aggressore, sollevando altre penne e nuvolette di polvere.

Ma l'invertebrato era ancor più flessibile di lei. Le chele ai lati delle ampie fauci del ratto affondarono nel ventre del mammifero.

Un delirio di creature attratte dai ringhi e dalle urla accorse per fondarsi su quel corpo a corpo al suolo.

D'un tratto l'obiettivo della Crittercam fu totalmente coperto da macchie rosse e azzurre.

Il collegamento s'interruppe.

La mangusta era riuscita a sopravvivere due minuti e diciannove secondi.

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