Copertina
Autore Giovanni Falaschi
CoautoreH. Dorowin, I. Nardi, G. Santomassimo, M.C. Calabri, A. d'Orsi, L. La Rovere
Titolo Giaime Pintor e la sua generazione
Edizionemanifestolibri, Roma, 2005, La nuova talpa , pag. 368, cop.fle., dim. 145x209x23 mm , Isbn 978-88-7285-400-6
CuratoreGiovanni Falaschi
LettoreElisabetta Cavalli, 2006
Classe biografie , critica letteraria , storia contemporanea d'Italia
PrimaPagina


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Indice


Introduzione                                     7

Giovanni Falaschi

Un illuminista sulla «via orfica e tumultuosa»: 21
Giaime Pintor e la letteratura tedesca

Hermann Dorowin

Il saggista e la forma del saggio               59

Giovanni Falaschi

Il «lettore imperfetto»:                        95
Giaime Pintor e la letteratura italiana

Isabella Nardi

Giaime Pintor nel viaggio                      121
della «generazione perduta»

Gianpasquale Santomassimo

Della dissimulazione onesta:                   141
Giaime Pintor tra amici e censori

Maria Cecilia Calabri

Pintor, Ginzburg e gli altri                   211

Angelo d'Orsi

Un «viaggio non finito».                       237
Giaime Pintor e il postfascismo:
un'ipotesi interpretativa

Luca La Rovere

Appendice di testi inediti di Norberto Bobbio,
Paolo Bufalini, Filomena d'Amico, Aldo Garosci,
Antonio Giolitti, Laura Lombardo Radice,
Gastone Manacorda, Aldo Natoli, Geno Pampaloni,
Plinio e Lia Pinna-Pintor, Luigi Pintor,
Edgardo Sogno                                  265
a cura di Maria Cecilia Calabri

Indice dei nomi                                355

 

 

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Pagina 7

INTRODUZIONE
Giovanni Falaschi



BREVE STORIA DELLA MITIZZAZIONE DI UN «UOMO SENZA MITI».

Nel 1969 Luigi Baldacci pubblicò uno studio su I critici italiani del Novecento che si concludeva così:


Ma vogliamo chiudere il nostro discorso nel ricordo di un critico (1919-1943), la cui raccolta di scritti letterari e politici, Il sangue d'Europa, apparve postuma nel 1950. In Pintor molte cose lasciano sorpresi: l'incredibile vastità della cultura in così breve vita, la solidità e la chiarezza della formazione intellettuale e morale in un tempo così angusto come quello in cui operò, la chiara divinazione che a un critico non bastasse più un alibi letterario per essere un buon critico: donde l'avere affrontato su una rivista di fronda quale 'Primato', il problema concreto di un'Europa che non poteva e non doveva essere quella che era. Ma tutti questi motivi non bastano a spiegare la miracolosa maturità di Pintor: la sua perfezione di scrittore che ci ricorda Debenedetti, ma senza la minima concessione al lusso dell'ingegno. Pintor, a vent'anni, sia che parli di Verga o di Pascoli, di Papini o di Vittorini o di Cecchi, ha l'autorità – cioè la statura morale – di un maestro.


In tal modo Pintor, fino ad allora mai studiato per quel grande saggista che era (se si eccettua la prefazione di Gerratana al Sangue d'Europa), rientrava nella strategia di Baldacci di rivedere drasticamente la borsa valori dei critici letterari novecenteschi, togliendo peso ad autori eccessivamente quotati per aggiungerne ad altri. In particolare la strategia era questa: mettere in un angolo la critica accademica (Sapegno, Fubini e Binni erano liquidati con quattro righe ciascuno, qualcuna di più era dedicata a Russo); ridimensionare fortemente i rappresentanti del cosiddetto «saper leggere», fino ad allora veramente molto sopravvalutati: Serra, in particolare, con i suoi errori prospettici e il suo autobiografismo narcisistico e divagante; ridimensionare in aggiunta il ruolo del già fragile G. De Robertis e in particolare ridurre il peso di Cecchi, fatti salvi alcuni suoi meriti.

La cosa interessante è che Baldacci, apprezzando l'attività di Gramsci, dava invece un giudizio talmente limitativo del lavoro critico di Gobetti che a questo riguardo si può addirittura parlare di vera e propria stroncatura. Al contrario: i giudizi favorevoli nei confronti di critici non professionisti, in particolare di scrittori che avevano esercitato all'occorrenza la critica, come Boine o anche Slataper, rivelano in filigrana l'intelaiatura ideologica che sta dietro al suo saggio: la critica come militanza, l'etica a fondamento del giudizio, il giudizio come assunzione di responsabilità, la negazione dell'attività critica come scienza della letteratura (si era negli anni dello strutturalismo trionfante, e la posizione di Baldacci era in clamorosa controtendenza).

Nel suo saggio Pintor era considerato in una costellazione di nomi fra i quali spiccavano con altri Boine, il primo Soffici, Slataper, Debenedetti, nomi di per sé bastanti a indicare un progetto. A questi va aggiunto il caso più clamoroso di repéchage di nomi allora obliterati, quello di Borgese, un caso di esemplare sfortuna: partito come crociano per procedere poi per strada propria, e quindi bistrattato da Croce e per ciò stesso trattato con sufficienza dai crociani, messo da parte dal fascismo per motivi anche politici, non riabilitato dalla critica marxista del secondo dopoguerra, il nome di Borgese doveva rientrare nel giro per le sue pagine tozziane (molto importanti, anche se non fra le sue migliori) grazie a Debenedetti nei primi anni settanta.

Se si pensa che fino ad allora Pintor era stato considerato come caso isolato – certo un caso straordinario, ma pericolosamente isolato -, il saggio di Baldacci rappresentava il primo tentativo di fissarne l'insegnamento entro una struttura culturale molto ampia, ed è per questo che gli abbiamo dato ampio spazio.

Pintor ci appare ancora con la leggerezza e insieme la consistenza di un personaggio letterario. Il fatto è che gran parte della bibliografia su di lui, spontaneamente e in maniera compatta, aveva creato questo personaggio. Vediamo un po' più da vicino la cosa.


Così d'acchito, la bibliografia sembra potersi dividere in quattro filoni. Il più cospicuo è costituito dagli interventi che, a cominciare dalla liberazione di Roma, escono su quotidiani e periodici, e si rinnovano man mano nel tempo, in occasione dell'anniversario della morte o in quella della pubblicazione di cose sue, in particolare del Sangue d'Europa e successive ristampe: 1950 e poi 1961, 1965, 1975, 1977.

Questa bibliografia non è da sottovalutare, bilanciata com'è tra testimonianza e giudizio critico; e inoltre è numericamente la più consistente anche se chiusa nel giro di poche pagine. Basti pensare ai personaggi di spicco che firmano gli interventi: L. Lombardo Radice e Tecchi, A. Garosci e Alicata, Parri e Marpicati, G. Amendola e Montale. E più tardi, fra gli altri, Alvaro, Antonicelli, Pampaloni e ovviamente F. Balbo, ai quali sono da aggiungere le testimonianze (di Bobbio, A. Natoli, Sogno e altri) raccolte da Maria Cecilia Calabri alla metà degli anni Novanta, che pubblichiamo in appendice.

La creazione del personaggio Pintor e la sua monumentalizzazione da parte di uno stuolo di architetti è stata possibile perché la figura di questo intellettuale si offriva a loro come a tutti, con caratteristiche speciali, quali l'essere stato in vita un giovane di straordinario ingegno e di grande fascino personale, e l'essere incappato in una morte precoce, violenta e dalla parte giusta, in aggiunta lasciando in eredità ai posteri un messaggio nobile e drammatico come la cosiddetta «ultima lettera» al fratello Luigi. L'intera operazione, assolutamente non pretestuosa, è stata possibile mediante l'assimilazione di Pintor ai grandi nomi della martirologia antifascista o patriottica: alcuni testimoni lo accostano subito a Gobetti e Serra, significativamente il primo martire dell'antifascismo e il secondo morto in guerra; altri operano in una direzione simile a quella di Montale che, a botta calda, aggrega Pintor ad altri morti resistenti (Labò, Colorni) e alla generazione gobettiana, e più tardi (1965) a Gobetti, Gramsci e Rosselli, di nuovo includendolo nell'elenco dei personaggi famosi anche per il loro eroismo, mentre è evidente che Pintor non ha nulla a che fare con Gramsci. La stessa operazione la compie Mila nel 1950, con leggero mutamento dei nomi: Gobetti, Gramsci e Ginzburg, «non tanto maestri quanto compagni: solo il fatto d'essere i migliori, e non l'età, dava loro una posizione di preminenza e di guida».

L'immagine, costruita progressivamente nel tempo, si è poi consolidata perché molti di questi autori sono intervenuti più volte in tempi diversi rilegittimando ulteriormente i tratti più noti del personaggio; col risultato di stabilizzare il monumento a Pintor sul piedistallo dell'ultima lettera la quale, da testamento principe della qualità morale del critico, è diventata pian piano testo unico che lo ha fatto conoscere anche a generazioni diverse ma ha finito per assorbire l'attenzione che doveva essere concessa alla sua attività intellettuale. Inoltre ha preso consistenza col tempo l'accezione di un Pintor autore genuinamente resistenziale. In conclusione, anziché prendere la direzione opposta: partire magari dall'ultima lettera per allargare ulteriormente la ricerca, negli studi letterari in particolare – come si vedrà – si è consolidata la tendenza ad assolutizzare quell'immagine: il lungo saggio di Bocelli del 1958 lo proclama autore resistenziale fin dal titolo, contraddicendo vistosamente il fatto che Pintor non ha mai potuto esserlo se non con una lettera a Luigi e un paio di saggi dell'estremo 1943.

C'è un tratto dell'immagine di Pintor che è molto istruttivo considerare in dettaglio e che riguarda la sua «appartenenza» politica. Da subito alcuni testimoni lo rappresentano come un comunista, altri gli attribuiscono caratteri di matrice azionista, con tutte le sfaccettature pertinenti al termine. Vale la pena di segnalare una molteplicità di giudizi proprio in sede comunista, pronunciati nell'immediato dopoguerra, che réndono la comunistizzazione di Pintor come una costruzione più contrastata e meno lineare di quello che è stato sostenuto anche di recente. Lombardo Radice, per esempio, nel 1946 – ancora nella fase unitaria del PCI e dunque prima del suo arroccamento – parlava di Pintor come campione dell'unità antifascista, quindi non schierato decisamente accanto a un partito ma semmai al partito (che era trasversale) dei più unitari; Alicata nello stesso anno lo collocava genericamente «accanto agli operai, accanto ai contadini, accanto ai lavoratori, accanto al popolo». Sintomaticamente, in un passo trascurato da tutti della sua introduzione al Sangue d'Europa, Gerratana nel 1950 si opponeva esplicitamente all'appropriazione, già avvenuta ma non ancora consolidata, della figura di Giaime da parte dei suoi compagni di partito: «Un messaggio, quello [politico] di Giaime, che non è di partito e che nessun partito può pretendere, né in realtà ha mai preteso, di monopolizzare; anche se il corso della sua esperienza lo aveva sempre più avvicinato ai partiti di sinistra e negli ultimi mesi della sua vita espliciti consensi al programma politico del partito comunista siano ricordati da chi gli era più vicino, l'ideale politico per il quale lottò con chiarezza e decisione ed al quale quindi il suo nome ed il suo ricordo rimangono prevalentemente legati fu quello dell'unità dell'antifascismo» (SdE 1950, p.58). Mila, anch'egli già amico di Pintor e azionista, coglieva l'importanza e l'anticonformismo di questa posizione: «è merito di Gerratana d'avere in complesso resistito, con bella onestà intellettuale, e lui, uomo di forti e precise convinzioni, alla tentazione di forzare il significato dei testi e di sopperire arbitrariamente a quel tanto d'incompiuto che può apparire nel messaggio di Pintor [...] col tentativo di ammetterlo a questa o quella delle ideologie oggi divenute esplicite e urgenti». Effettivamente una dichiarazione più inequivocabile di quella di Gerratana non era possibile; ma nella seconda edizione (1961) egli «corresse» l'introduzione facendo scomparire il riconoscimento di un Pintor non organico a nessun partito, a testimonianza che senz'altro la sinistra ufficiale lo riteneva ormai definitivamente annesso al territorio comunista, senza alcun distinguo.

[...]

Giaime, geniale attivissimo calmo lucido elegantissimo, «magnetico» come qualcuno lo definisce nelle testimonianze qui raccolte, amatissimo dalle donne e ammirato da tutti, poteva ben offrire molte ragioni per non essere amato da un coetaneo. Mette conto di ricordare a questo punto la sgradevole stroncatura di F. Fortini, Vicini e distanti, pubblicata nel 1979 dopo l'uscita del Doppio diario. Fortini (nato nel 1917, Pintor nel 1919) nella sua lunga attività di saggista non aveva mai ricordato il nome di Pintor (rimuovere per cancellare?); aveva invece scritto una prefazione alla riedizione einaudiana delle poesie di Rilke (1955), ma in tal caso ci sarebbe da discutere se non fosse piuttosto il prefato a dar lustro al prefatore. Io comunque non accrediterei il suo saggio sul Doppio diario della titolarità di una nuova interpretazione del caso Pintor, come invece ha fatto di recente L. Mangoni, collocandolo a fronte di una nota pagina di Il midollo del leone di Calvino (1955), e credo che esso meriterebbe una risposta puntuale a tutti gli argomenti ivi addotti a danno della figura di Pintor – in parte già emersi nel dibattito più propriamente storico-politico che seguì la stroncatura -, ma in questa sede mi limito soltanto a osservare la malafede sottesa a due capi d'accusa: a) quella di aver scritto il diario prevedendo a un certo punto la possibilità di trarne successivamente un libro, come se con Pintor ci trovassimo di fronte a un esteta che viveva per scrivere, e b) quella ben più grave di aver prestato troppa «attenzione [...] ad autori come Drieu La Rochelle, Montherlant, Jόnger, Salomon, Malraux. Quasi sempre e quasi tutti li detesta eppure è attirato da quel mondo di eroismo politico-estetico, di ascendenza stendhaliana». Quanto al primo rilievo, tanto per fare un esempio molto illustre, nessuno si scandalizza del fatto che Fenoglio nei momenti liberi annotasse su un taccuino le vicende della sua giornata partigiana, con l'evidente intenzione di svilupparle alla fine della guerra (e come lui certo molti altri, senza suscitare scandalo nei posteri); e quanto ai «maestri» sopra ricordati, Pintor non fu mai attratto simpateticamente dai testi loro né da quelli di altri autori simili: i francesi, Malraux a parte che sarebbe da sostituire con Petitjean, gli parvero documentare il decadentismo estetizzante che, coniugato con l'accademismo più vuoto, dimostrava la crisi francese evidente nella sconfitta militare; Salomon, che Pintor volle fosse edito da Einaudi, era un testo chiave per capire lo sbandamento di molti giovani tedeschi dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale: documenti editi da L. Mangoni dimostrano come lo stesso Ginzburg trovasse ottima la scelta di pubblicare il libro di Salomon, di cui invece Fortini mena grande scandalo, e ne raccomandasse la lettura anche a Santorre Debenedetti. Quanto ai «maestri», Fortini non fa altro che rovesciare, forse ignorandolo, il giudizio espresso da Montale in occasione della ristampa del Sangue d'Europa nel 1965. Dopo aver citato Giaime a proposito di Pisacane, Goethe e Verga, Montale scriveva a commento: «come si vede il quasi ragazzo Giaime sapeva ben scegliere i suoi autori». Ed è opportuno ricordare che in quella stessa recensione Montale dichiarava di aver conosciuto Giaime prima della guerra, pur non ricordando l'anno esatto, e lo qualificava come uno già allora «antifascista». Comunque, alla breve lista montaliana si potrebbero aggiungere anche i nomi di Vittorini, e gli autori ospitati in Americana, e Pirandello, Pascoli e così via, per restare ai contemporanei, ma anche i grandi autori tradotti da Pintor, Rilke prima di tutti e, andando a ritroso, Kleist.

La stroncatura di Fortini pretendeva di poggiare su un fondamento 'nobile', quale la differenza di classe fra i due – il piccolo borghese Franco Lattes e il borghese Giaime Pintor – la quale, non si sa per quale motivo, avrebbe deresponsabilizzato il primo, ma la sostanza delle argomentazioni si rivela essere soltanto un lagnoso vittimismo; direi che Pintor funzionava per Fortini come un fantasma negativo, alla stregua di Pasolini, di Calvino e dello stesso Montale, di cui cercò di ridimensionare la grandezza. Premesso comunque che nessuno può essere accusato dell'uso che altri fanno dei suoi testi, va però registrato che l'intervento di Fortini poteva a sua volta creare equivocamente degli appigli per una drastica rivisitazione da destra della figura di Pintor qualora i tempi fossero stati propizi: cosa che è puntualmente avvenuta nel già ricordato volume della Serri. Diciamo che il Doppio diario si è malamente costituito piuttosto come un opposto morale al Sangue d'Europa, per cui la Serri, che nel 1978 lo aveva essa stessa curato annotato e prefato esaltando le "buone" qualità dell'autore, mutati i tempi lo ha preso a pretesto per una polemica erosione del Pintor fino a allora celebrato. In qualche modo comunque, non potendosi più procedere sulla strada della mitizzazione ed essendo ormai a disposizione degli studiosi materiali biografici preziosi che però risultavano insufficienti per un ritratto a tutto tondo di Pintor e semmai stimolavano a cercarne altri, la strada che doveva essere seguita era quella di un'indagine biografica esauriente sul personaggio; ed è quanto ha fatto Maria Cecilia Calabri in una monumentale biografia (si ricordi che Pintor è vissuto ventiquattro anni) che è di imminente pubblicazione presso l'editore Aragno.

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Pagina 95

IL «LETTORE IMPERFETTO»:
GIAIME PINTOR E LA LETTERATURA ITALIANA
Isabella Nardi



Ho chiamato Giaime Pintor «lettore imperfetto» avendo come orizzonte di riferimento il momento storico-culturale in cui egli compie i suoi studi umanistici e fa le sue prove di critico, dove la perfezione si misura sulla scala dell'adesione al magistero crociano, centro di gravità fisso del sistema intellettuale italiano. Se Amendola, riguardo a se stesso ventenne, scrive: «la lezione maggiore che io ricevevo da Croce era quella della severità: il culto del lavoro, l'obbligo degli orari, il disprezzo per le mezze calzette della pseudocultura, la serietà dell'informazione», Norberto Bobbio in Maestri e compagni ricorda, con riferimento a se stesso e a Leone Ginzburg, che «la familiarità coi libri di Croce era, allora, per un giovane che si avviava agli studi, la vera prova di maturità. L'iniziazione di Croce offriva un criterio indiscutibile per distinguere in modo alquanto settario [...] gli illuminati dai brancolanti nelle tenebre, gli spiriti moderni dai sorpassati, i liberati dai vari sonni dogmatici, da coloro che erano ancora avviluppati nelle ragnatele del conformismo religioso, del positivismo, dello scientismo, del filologismo, e via dicendo. Più che una dottrina – l'unica teoria crociata allora a noi nota era quella dell'arte come intuizione – il crocianesimo era un metodo, nel senso pregnante di via regia alla vera conoscenza», «l'autorità di Croce era indiscussa: armati dei suoi concetti, ci sentivamo superiori ai nostri stessi maestri[...] Croce era la voce del tempo: stare dalla parte di Croce voleva dire essere nella corrente della storia». Nel tratteggiare la Filosofia di Aldo Capitini – altro nome ricorrente anche nel carnet di Pintor – sempre Bobbio ribadisce l'importanza del magistero crociano per la sua generazione, affermando che «il colloquio quotidiano è con Croce.[...] Croce era presente in ogni angolo della cultura italiana.[...] Croce era il maestro vivente». Ma il punto per noi più interessante è certo il capitolo di Maestri e compagni dedicato a Eugenio Colorni: nel delineare la fisionomia intellettuale di Eugenio Colorni, Bobbio ribadisce che «i compagni e gli stessi docenti venivano salvati o dannati secondo che avessero o non avessero letto Croce» «la filosofia di Croce continuava ad essere[...] il punto di partenza obbligato per ogni preteso avanzamento non già verso l'anti-Croce [...] ma verso l'oltre Croce», e infine conclude proprio sul nome di Pintor la disanima della scelta politica del filosofo: «Per un uomo come Colorni, la politica è azione ed è azione guidata[...] da una scelta etica, ancora una volta da un imperativo categorico, com'è del resto in un Ginzburg o in un Pintor. Croce avrebbe detto: dalla coscienza morale». Sempre in ambito torinese, Davide Lajolo, ricostruendo i punti nodali della biografia di Cesare Pavese, organizza il racconto del periodo di «Strabarriera» e dell'Università proprio intorno al nome di Croce: «è anche il tempo della lettura affannosa di libri e dello studio e delle discussioni su Benedetto Croce. Pavese s'impossessa della sua filosofia e della sua estetica. Alla luce degli studi crociani modifica molti giudizi, e passa al vaglio tutte le sue teorie. Così come più tardi passerà al vaglio e modificherà molte posizioni che si era fatto studiando Croce»? La stessa tesi di laurea di Pavese, sulla poesia di Whitman, fornisce l'occasione di manifestare come «l'estetica crociana fosse stata completamente assimilata, senza concessioni di sorta alle teorie della pura filologia» tanto da venire respinta perché «quel professore dà un carattere politico all'influenza crociana». Né mancano riferimenti a Benedetto Croce nei ricordi biografici che investono direttamente anche Giaime Pintor: significativamente, Antonello Trombadori, inizia il suo ritratto di Pintor con il ricordo del rapporto, perseguito e poi mancato, dei giovani della «Ruota» con Croce, nell'inverno del '39, mentre Geno Pampaloni nel ricostruire nella memoria il corso allievi ufficiali che lo vide amico e commilitone di Pintor, Gerratana, Salinari, scrive: «Nelle ore libere, Gerratana, siculo-romano pelosissimo e nero, si sdraiava al sole leggendo qualche riga della Logica di Croce, accompagnata poi con la sua voce sonora e lenta un po' inceppata dalla balbuzie, da interminabili commenti». Dal canto suo Pintor stesso, scolaro insofferente e impaziente, in una pagina del diario del '35-36 ricorda: «Trovai Croce nella biblioteca di casa e incominciai a leggere gli scritti di critica letteraria». E ancora, in una pagina di diario del 1938, annota: «Alcuni nomi, Croce per esempio, facevano da indice comune ai discorsi.[...] Il terreno in cui ci esercitammo di più in quei tempi era l'estetica».

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Pagina 121

GIAIME PINTOR NEL VIAGGIO DELLA
«GENERAZIONE PERDUTA»
Gianpasquale Santomassimo



Giaime Pintor non può dirsi un esponente tipico della sua generazione, per ambiente familiare, formazione, predilezioni e gusti letterari; anche se così, in modo esemplare, fu raffigurato dopo la morte ed anche se così, in qualche misura, volle raffigurarsi egli stesso, inserendo la traiettoria della sua esistenza in quella più ampia di una particolare «generazione».

Generazione perduta è espressione che Pintor usa nell'ultima lettera al fratello Luigi del 28 novembre 1943. E la usa in rapporto alla guerra:

la guerra, ultima fase del fascismo trionfante, ha agito su di noi più profondamente di quanto risulti a prima vista [...] ha distolto materialmente gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciano i presupposti di ogni vita individuale, li ha persuasi che non c'è possibilità di salvezza nella neutralità e nell'isolamento (SdE, p. 186).

Il connotato di questa generazione si modella qui in rapporto ai suoi esponenti «più deboli»:

Nei più deboli questa violenza ha agito come una rottura degli schemi esteriori in cui vivevano: sarà «la generazione perduta», che ha visto infrante le proprie «carriere»...

Al contrario, la guerra «nei più forti ha portato una massa di materiali grezzi, di nuovi dati su cui crescerà la nuova esperienza». Dunque la formula non comprendeva l'intera generazione, ma una sua parte, che era probabilmente, nel giudizio di Pintor, la più cospicua. Ma qui si innestava una delle affermazioni più celebri, che avrebbero fatto di questo testo quasi «il» documento esemplare della scelta di impegnarsi, di prender parte, che solo la guerra aveva posto innanzi in maniera ineludibile:

Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari: avrei discusso i problemi dell'ordine politico, ma soprattutto avrei cercato nella storia dell'uomo solo le ragioni di un profondo interesse, e l'incontro con una ragazza o un impulso qualunque alla fantasia avrebbe contato per me più di ogni partito o dottrina.

Altri amici, meglio disposti a sentire immediatamente il fatto politico, si erano dedicati da anni alla lotta contro il fascismo. Pur sentendomi sempre più vicino a loro, non so se mi sarei deciso a impegnarmi totalmente su quella strada; c'era in me un fondo troppo forte di gusti individuali, d'indifferenza e di spirito critico per sacrificare tutto questo a una fede collettiva. Soltanto la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile.

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Pagina 237

UN «VIAGGIO NON FINITO». GIAIME PINTOR E IL
POSTFASCISMO: UN'IPOTESI INTERPRETATIVA
Luca La Rovere



Nel 1950 Felice Balbo, distaccandosi dai canoni agiografici allora in voga, metteva in luce il carattere problematico della figura di Giaime Pintor, la difficoltà di interpretarne la vicenda umana e intellettuale ricorrendo alle categorie di giudizio politico correnti. Recensendo la raccolta di scritti del periodo 1939-1943, il filosofo della Crisi dell'uomo, che era stato amico e collaboratore del giovane intellettuale sardo ai tempi del comune lavoro editoriale presso Einaudi, scriveva: «tutte le formule delle più vicine o più lontane tradizioni rivelano particolari deficienze nel giudicare Giaime Pintor. In questo sfuggire alle definizioni comunque consuete, in questo essere, in qualche modo, maggiore dei suoi contemporanei sta, a mio parere, l'importanza degli scritti di Pintor». La vera e propria «chiave di volta» per intendere correttamente la posizione di Pintor era rintracciabile, per Balbo, nel giudizio sul fascismo formulato nel saggio sul 25 luglio. In particolare, nel passaggio nel quale Pintor sosteneva che «il fascismo non era stato una parentesi, ma una grave malattia e aveva intaccato quasi dappertutto le fibre della nazione» e che, dunque, per produrre una totale rigenerazione morale e civile del paese sarebbe stato necessario realizzare, dopo quella falsa del fascismo, una «vera rivoluzione». Da quel lucido giudizio Pintor aveva sviluppato una serrata critica dell'antifascismo, che investiva in maniera spietata tutti quegli italiani che «pretendevano di criticare il fascismo o lottare contro di esso con i mezzi culturali e politici del pre-fascismo»:

«Uscire dall'antitesi fascismo-antifascismo» mi diceva testualmente Giaime «è oggi la condizione di ogni lavoro serio» e infatti egli concepì sempre l'unità antifascista come uno strumento per andare oltre. [...] Fin dai primi scritti, i più puramente letterari, c'è chiarissimo in Pintor il bisogno di uscire dagli «anti». Fin dall'inizio il suo abito intellettuale è: comprendere il più possibile e lavorare pulito per costruire pulito. Tutte le forze storiche del passato e tutte quelle del presente erano da Pintor considerate anzitutto come realtà e non come negativi.

[...]

Grazie ai contributi storiografici degli ultimi anni, le ambiguità e le contraddizioni che caratterizzarono il rapporto fascismo-intellettuali sembrano essere ormai sufficientemente illuminate. Non avrebbe senso, perciò, continuare a indagare il tema soltanto per stabilire la data esatta del passaggio all'antifascismo di questo o quell'intellettuale. Per evitare il rischio di fermarci a una valutazione solo ideologica o, peggio, sterilmente moralistica dell'esperienza dei giovani intellettuali nella transizione al postfascismo, ci sembra più proficuo tentare di inquadrare quella vicenda tenendo conto della natura del regime fascista e degli effetti prodotti dal suo ventennale dominio sulla società italiana. In altri termini, soltanto avendo ben chiaro il quadro complessivo nel quale si trovarono a operare gli intellettuali della generazione del littorio si riuscirà a comprendere meglio la complessità dei percorsi culturali ed esistenziali dentro il fascismo e, soprattutto, per uscire dal fascismo. Come ha evidenziato Gabriele Turi, anche quegli intellettuali che alla caduta del fascismo si presentarono come gli alfieri dell'antifascismo non nascevano dal nulla, ma provenivano, in un certo senso, dall'interno del regime. L'azione di cattura del consenso della giovane leva intellettuale da parte del regime era stata particolarmente intensa e, nella generalità dei casi, coronata da successo. Perciò quando Alfassio Grimaldi ricordò che i giovani intellettuali erano stati «fascisti naturaliter» espresse, in tutta la sua drammaticità, l'impossibilità di non essere fascisti nella quale si era trovata un'intera generazione.

Come sappiamo, il caso di Pintor è parzialmente diverso. In virtù della tradizione culturale familiare e della posizione sociale, egli non appartenne alla vasta schiera dei giovani che credettero ciecamente nel fascismo e che in esso riposero tutte le proprie attese di promozione sociale e di sviluppo della carriera intellettuale. E, tuttavia, anche la sua esperienza non può essere letta se non sullo sfondo della più generale esperienza totalitaria della gioventù intellettuale. Certamente Fortini coglieva un elemento di verità quando notava le diverse condizioni, psicologiche, prima ancora che sociali, nelle quali si trovava il «privilegiato» Pintor rispetto allo studente piccolo borghese che egli stesso era stato. Il primo si era trovato pienamente inserito nei gangli della vita culturale del regime e, allo stesso tempo, negli ambienti della borghesia antifascista. Questa condizione, suggeriva Fortini, se aveva consentito una precoce presa di contatto con settori dell'opposizione sia liberale sia comunista, la partecipazione a un dibattito politico-culturale che ad altri era ignoto o precluso, non era stata sufficiente a determinare, almeno fino alla caduta del regime, una decisa rottura con la vita organizzativa del regime, determinando quella situazione di sospensione tra ambiti ideologico-culturali diversi della quale ha parlato Zunino.

Θ proprio questa ambivalenza esistenziale e, dunque, culturale, che rende di difficile decrittazione i testi di Pintor, che non consente di attribuire ad essi un significato ideologico univoco nei termini dell'opposizione fascismo-antifascismo. Continuare a tentare di catalogare la riflessione di Pintor sulla base di quella opposizione appare pertanto fuorviante e, soprattutto, improduttivo ai fini della comprensione della reale esperienza della cosiddetta «generazione del littorio». Come conciliare, infatti, le pagine nelle quali Pintor sembra subire il fascino del meccanismo totalitario, individuato nella capacità di produrre stati d'animo collettivi, un senso di rassicurante oblio della personalità individuale inquadrando il singolo nella massa anonima e impersonale, con le numerose testimonianze diaristiche dalle quali emerge con nettezza la preferenza per la dimensione individuale, che sembra sconfinare, a tratti, nell'individualismo? Ancora: nel commento alla lettera di un soldato tedesco troviamo una chiara esaltazione della guerra come occasione che consente all'uomo virile, che voglia essere artefice del proprio destino, di rifiutare «i rimorsi di un'altra età e gli scrupoli della cauta riflessione» attraverso «un breve atto di forza». Per cui la condizione del soldato è salutata come «un esempio difficile di coerenza»:

Importante è vivere coi soldati la loro vicenda quotidiana, muoversi da un paese all'altro secondo gli ordini che si ricevono e lentamente accondiscendere a questa abitudine di vita così da farne la propria e da sentirla familiare e necessaria, più che un dovere. Chi non veda l'importanza di questo passaggio per la storia attuale è piuttosto maldisposto. Perché la traduzione di un tale stato d'animo sul terreno politico è chiara e precisa: significa adozione della guerra come modo di vita e conquista di un mito a cui sorreggersi con la stessa forza che si dedicava un tempo ai voti religiosi.

Il vero e proprio assillo di partecipare alla guerra fascista prima della sua conclusione era dettato dalla necessità di sfuggire al destino di «generazione perduta». Il conflitto costituiva l'occasione attesa per bruciare tutto un patrimonio culturale del passato inadeguato alle esigenze della nuova civiltà e per forgiare le nuove aristocrazie del valore. Perciò Pintor opponeva alla condizione di smarrimento della generazione della guerra precedente le certezze della sua generazione:

Che l'attuale generazione abbia sete di trascendenza, di lotta col demone, di miti eroici e di sublimi orrori, io non credo. Essa lascia ai vecchi intellettuali delusi questa confusione di propositi; le conversioni religiose e il distacco dal mondo. Posta di fronte a dei problemi vitali, educata fra avversità precise e sensibili, l'ultima generazione non ha tempo di costruirsi il dramma interiore: ha trovato il dramma esteriore perfettamente costruito. Solo sfruttando le armi di questa sua esperienza, unendo una estrema freddezza di giudizio alla volontà tranquilla di difendere la propria natura, essa potrà sfuggire alla condizione di servitù che si prepara per le minoranze inutili.

Si tratta, indubbiamente, di pagine che avrebbero potuto essere scritte da uno qualunque dei suoi coetanei catturati dal fascino della guerra, che costituiva l'elemento basilare dell'ideologia fascista. E che, tuttavia, – giova ripeterlo – stonano decisamente con quei passaggi nei quali Pintor riferisce della propria «incompatibilità con gli ordinamenti gerarchici» o scrive che anche dinanzi alla guerra «il valore della vita individuale non poteva essere intaccato». Si tratta solamente dell'emergere a tratti dell'insofferenza dell'intellettuale colto e sofisticato per la rozza disciplina esteriore imposta dal fascismo? Oppure l'adesione spirituale alla guerra costituiva un mero espediente letterario utilizzato per esaltare, sulla scorta di Jahier, il carattere eroico della rinuncia al proprio mondo borghese, il distacco da tutto ciò che di superfluo vi era nella propria formazione intellettuale? Insomma, quale è il vero volto di Giaime Pintor: quello del fine traduttore di Rilke o quello dell'osservatore della realtà contemporanea che semba non del tutto immune da un sentimento di ammirazione per l'impeto barbarico delle «grigie armate del Reich», espressione della vitalità del popolo tedesco a confronto con la decadenza spirituale della Francia sconfitta?

A queste domande non si può rispondere se non collocando la figura del brillante scrittore in quella zona grigia compresa tra il fascismo e l'antifascismo militanti. Un'area dai confini incerti e sfumati, dalla quale l'antifascismo ereditò, assieme a gran parte dei propri quadri dirigenti, anche molte delle confusioni ideologiche, degli smarrimenti morali, delle ambiguità che aveva caratterizzato l'esistenza di quegli uomini nel periodo immediatamente precedente.

[...]

In questo senso, come ricordò Trombadori, la posizione di Pintor era di «ponte» tra coloro che avevano già trovato la propria collocazione nel convulso processo di ridefinizione degli schieramenti e quanti, pur avendo già maturato una chiara coscienza della necessità di uscire dal fascismo e anche, come nel caso di Pintor, di combatterlo in armi, erano ancora alla ricerca di un saldo approdo ideologico.

Che l'adesione attiva alla causa dell'antifascismo non significasse l'automatica e piena condivisione del suo programma e dei suoi metodi è testimoniato anche dal dibattito sulla «generazione perduta» che si sviluppò nel dopoguerra. Il distacco – culturale e politico – tra le generazioni si tradusse in molti giovani intellettuali nella critica, se non proprio nel rifiuto, della nuova democrazia antifascista. Si trattò, in molti casi, di uno stato d'animo temporaneo, destinato ad essere superato con il maturare di una più esatta visione della funzione della politica e attraverso una lenta educazione alla democrazia. Il risultato fu, tuttavia, quello di mantenere settori rilevanti della giovane intellettualità distanti dal sistema dei partiti e dalla vita pubblica italiana. Altrove abbiamo sviluppato questo tema. In questa sede basterà citare un testo che, per ironia della sorte, avvicinava l'esperienza del suo autore a quella di Giaime Pintor, malgrado gli sforzi successivi per marcare le distanze. Recensendo il volume di Zangrandi nel 1948, Franco Fortini, individuava la caratteristica dei giovani della «generazione di mezzo» nel fatto di essere giunti all'antifascismo non per «una visione politica, ma piuttosto per una rivolta morale o religiosa», un dato, questo, che aveva segnato in maniera definitiva il loro modo di essere antifascisti. Ma questa «diversità» dell'antifascismo giovanile non aveva trovato spazio nel panorama politico italiano del dopoguerra. Fortini ricordava polemicamente l'«equivoco» nel quale erano caduti i partiti politici italiani, nessuno escluso: quello di essersi riaffacciati alla vita pubblica all'insegna dell' heri dicebamus, «senza aver sufficientemente tenuto conto della novità dell'esperienza vissuta dalle generazioni più giovani». Per questo motivo e per un disperato bisogno di non rinnegare completamente la propria esperienza attraverso l'adesione passiva alla «politica dei "politici"» a un antifascismo di maniera che nascondeva cosa era stato realmente il fascismo, per un'intima necessità di «non dimenticare le loro origini» e, in ultima analisi, per una sorta di «giovanile moralismo» che imponeva loro di vivere la politica come dimensione integrale, in maniera che non vi fosse distinzione «fra vita privata e pubblica, fra poesia e politica, tra cultura e politica», quello della gioventù intellettuale era «un viaggio non finito».

Senza dubbio, la critica di Fortini all'incomprensione da parte dell'antifascismo delle peculiarità della nuova generazione recava la traccia della disillusione dovuta alla concreta esperienza dei primi anni di regime democratico. Ma, in una certa misura, dava corpo e sostanza a quei motivi che nelle riflessioni di Pintor si erano manifestati soltanto come un'intuizione delle difficoltà che avrebbero caratterizzato l'incontro tra vecchio e nuovo antifascismo. Ossia, che la marcia di avvicinamento degli intellettuali della generazione fascista alla democrazia, lungi dal terminare con l'approdo all'antifascismo, sarebbe stata ancora lunga e faticosa, che il processo di formazione del nuovo antifascismo sarebbe stato il risultato di una lunga evoluzione intellettuale e politica, un processo che, se per una ristretta minoranza era cominciato negli anni del regime, per molti si sarebbe svolto ben oltre la caduta del fascismo.

Da questo punto di vista, la riflessione intorno al superamento dell'opposizione fascismo-antifascismo, lungi dal costituire una mera stravaganza intellettuale, una formula luccicante ma vuota nata dalla penna del brillante scrittore, conferma la profonda capacità analitica e l'avvertita coscienza dei problemi del proprio tempo che caratterizzarono l'attività politica di Giaime Pintor. La morte prematura del giovane intellettuale impedì che quelle idee, appena abbozzate, trovassero una formulazione compiuta o, alternativamente, un definitivo superamento nella piena adesione all'antifascismo e alla sua ideologia. Alternativa, questa, sulla quale allo storico non è dato fare alcuna congettura. Quel che è certo, da quanto sin qui detto, è che Pintor rappresentava – e rappresenta tuttora – un autentico «capo generazione». Una figura, si vuole dire, che, spogliata di ogni alone mitico, continua a essere paradigmatica del cammino compiuto dalla sua generazione: non più quello trionfale verso la conquista di una risplendente coscienza antifascista a partire dal buio della lunga notte del fascismo, ma quello tormentato e tortuoso della generazione del littorio per liberarsi compiutamente dalle suggestioni della cultura e della mentalità fascista e per approdare definitivamente alla democrazia.

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ALDO GAROSCI



Lei ha trascorso con Giaime Pintor quelli che sono stati gli ultimi giorni della sua vita. Nel suo articolo su «Mercurio» racconta e ricrea il clima in cui avete vissuto quest'esperienza decisiva. La vostra è stata una conoscenza molto breve, un mese e mezzo, ma anche molto intensa.

Ci siamo conosciuti quando lui è arrivato a Napoli. Giaime era di famiglia militare e sarda, questo è il punto di partenza. Lui aveva una stretta educazione militare e anche quel tipo di intelligenza e di abitudine. Per esempio, la cosa a mio avviso più indicativa della sua formazione è che quando qualcuno doveva eseguire un nostro ordine, lui glielo faceva sempre ripetere, per capire se l'ordine era chiaro. Giaime dava l'ordine e dopo aggiungeva: «Ripeti cosa ti ho detto». Era un metodo eccellente. Comunque, io portavo in questo incontro la mia esperienza di un lungo periodo da fuoriuscito, cioè di opposizione militante allo Stato con il fine di sostituirci a esso. Eravamo stati battuti e la nostra era la rivincita che questa emigrazione all'estero si prendeva sullo Stato, sullo Stato ufficiale che aveva dominato l'interno e che dominava ancora gran parte dell'interno, perché c'era ancora l'occupazione tedesca. Ma c'erano state le quattro giornate di Napoli, che evidentemente erano qualche cosa di molto importante, cioè la Resistenza era iniziata con serietà. Era già in fondo quello che noi ritenevamo l'inizio della rivincita possibile. Quando io e Giaime ci siamo incontrati, abbiamo deciso, venendo da questa duplice esperienza, di metterla insieme e siccome erano parecchi quelli che venivano al Sud per combattere, era necessario qualcuno che li organizzasse. Nacque così il Centro Italiano di Propaganda, sottolineo il fatto «italiano» per evidenziare, in fondo, l'indipendenza dalla forza alleata. Intendiamoci, se non ci fossero state le forze degli alleati che ci proteggevano dall'avanzata tedesca, avremmo dovuto iniziare nuovamente la clandestinità. Infatti nel Nord siamo stati clandestini a lungo. Dunque «italiano» sottolineava la nostra autonomia dagli alleati. Alleanza ma anche autonomia. Infatti questo era l'accordo con gli anglo-americani: «noi non faremo delle azioni che siano contro di voi. Potremo fare delle azioni su cui voi contate, ma nello stesso tempo ci battiamo per una cosa autonoma». Anche l'operazione in cui ha perso la vita Giaime era legata al fatto che noi abbiamo sempre pensato che non bisognasse aspettare la liberazione di Roma dagli altri. Noi ci mettevamo come protagonisti del presente che ci obbligava, chi più direttamente chi meno, chi attraverso la critica chi attraverso gli amici, a essere qualche cosa di più.

Ci volle molto tempo per finanziare la nostra azione. Furono i nostri compagni di Torino che riuscirono a farci destinare, inizialmente, quelli che erano i fondi per la IV Armata. Il generale che era il responsabile dei fondi lasciò prendere tutto. La nostra organizzazione in parte era a Napoli, dove c'era già l'insurrezione, in parte era accentrata a Roma ed era in contatto con il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI). Per questo io feci diverse volte avanti e indietro tra Roma e il Nord, perché il CLNAI nella sua rappresentanza del Sud, molto spregiudicatamente, con meraviglia dei comunisti che erano con noi e che non credevano ad una tale spregiudicatezza in gente venuta dalla borghesia, prese senza esitazione i fondi della IV Armata. A questo proposito ci fu anche una discussione con Giaime. La nostra posizione era: «Noi possiamo fare tutto quello che fanno i comunisti perché abbiamo la stessa loro forza, ma nello stesso tempo vogliamo essere autonomi da loro e porre i nostri problemi. Non c'è una ragione per non lottare direttamente per la libertà, perché possiamo essere forti quanto lo sono i comunisti, basta che non ci lasciamo assoggettare, basta che non abbiamo paura». Giaime non ebbe il tempo di diventare formalmente comunista e mi disse francamente, che avrebbe molto volentieri preso una posizione come quella di Giustizia e Libertà. Tuttavia Giaime sosteneva che le nostre forze non erano sufficienti e per questo, non fosse altro che per usufruire della spinta che ci dava il Sud, dovevamo essere subalterni al partito comunista. Poi purtroppo la nostra azione fu troncata in modo tragico. Mentre quando Giaime era venuto da Brindisi le linee erano ancora libere, a dicembre, quando provammo a riattraversarle, erano ormai tutte minate. Giaime cadde proprio sulla prima mina, il corpo rimase in un campo minato e non si potè recuperarlo se non dopolo sminamento, quindi soltanto dopo la liberazione fino a Pisa compresa.


Tornando al Centro Italiano di Propaganda, ad un certo punto le autorità alleate congedarono i volontari di Pavone, e voi vi trovaste di fronte al problema di non disperdere gli entusiasmi e l'energia di tanti volontari.

Non fu colpa degli alleati, erano i partiti del Nord che non volevano. I partiti del Sud invece ci appoggiavano. Il problema era che il CLNAI era composto di 5 partiti mentre il CLN del Sud era di 6 perché si era fatto un compromesso con quelli che erano stati nominati dagli alleati. Questi, essendo nominati dagli alleati, non furono mai considerati una vera forza politica. I partiti del Nord dicevano: «Che cosa vengono a fare questi qui che sono semplicemente della gente nominata dagli alleati?». Tutte le cose che accadevano lì, intendiamoci, erano le più strambe di questo mondo. Siccome gli alleati erano convinti della nostra capacità di lotta, soprattutto dopo gli scioperi, ci dissero che la vera forza eravamo noi, e ci davano la piena fiducia, ma la fiducia non la davamo noi al sesto partito. Quando noi entrammo in Firenze, entrammo con la nostra bandiera, dipinta da Carlo Levi, mentre la Martinella dava il segnale di insurrezione. Tuttavia entrammo al canto di «I figli noi siam di Potente», che era il responsabile comunista dell'insurrezione. Quindi, in realtà, c'era sempre questa mescolanza, per cui era molto difficile capire chi era comunista o chi no.


Torniamo a parlare della spedizione in cui morì Giaime e di come era stata organizzata.

Avevamo deciso di riattraversare le linee con l'intenzione di raggiungere i dintorni di Roma e collaborare ad organizzare la resistenza. Dovevamo partire insieme e poi, ad un certo punto, dividerci e procedere a piccoli gruppi in modo da eludere le truppe tedesche. Era impossibile infatti con la battaglia che si era stabilizzata pensare di passare le linee in formazione di dieci e armati. Quindi, pur facendo lo stesso percorso, dovevamo andare un gruppo prima e uno dopo, poi, una volta riunitici, valicare il Monte Fumaiolo per quella strada che avevamo fatto tante volte. Io avrei dovuto comandare la spedizione, ma la sera della partenza ebbi una terribile febbre. Giaime fu incaricato di prendere il comando per tutto il cammino comune. Mi venne a salutare, era raggiante e orgoglioso della tenuta da «partigiano elegante», come eravamo soliti chiamare per scherzo i nostri indumenti. Io rimasi a Napoli con altre due persone, una delle quali credo che fosse Petrucci e l'altro mi sembra un giovane laureando in chimica. La spedizione fu quindi spezzata in due, per un giorno, perché dovevamo rivederci il giorno successivo. Non potevamo rinviare troppo perché avevamo la certezza che le linee si stavano chiudendo. Infatti avvenne così e Giaime rimase a lungo insepolto, finché non ci fu lo sminamento. Non so poi chi ha recuperato il cadavere. Anche Paolo Petrucci è morto poco dopo: venne preso prigioniero e fucilato nelle Fosse Ardeatine. Era ufficiale e figlio unico.


E Dino Gentili avrebbe dovuto lasciare Napoli con lei, il giorno dopo?

No, Dino non faceva parte della spedizione. A Dino rischiare non piaceva, ma in questo non c'è niente di male. Lui rischiava politicamente ed era capace di fare delle cose estremamente coraggiose. Dino non lo troviamo mai in una posizione rischiosa nel senso normale della parola. Quando io lasciai Napoli lui rimase lì. E stato un grande amico, anche per Giaime. Avevo una foto in cui c'era Dino che teneva me da una parte e Giaime dall'altra, ma l'ho perduta. Mi ricordo che ridevamo molto. Bisogna dire che i rapporti tra di noi erano eccellenti. C'era questa mescolanza di aria fanciullesca e di disciplina militare, e c'era anche questo senso nobile che Giaime aveva forse più di tutti. Aveva un autocontrollo assoluto, però con allegria. Io ero sempre un po' angosciato, preoccupato. Anche ora sono rimasto ansioso.


Lo scopo della missione era, come dice Giaime nell'ultima lettera, «raggiungere gruppi di rifugiati nei dintorni di Roma, portare loro armi e istruzioni», avevate dunque un numero di armi sufficiente da distribuire?

Le armi poco alla volta vennero. Soprattutto dopo che si sfasciò la IV armata, le cui armi un po' andarono ai tedeschi, un po' vennero a noi... Il mio incarico, in teoria, era di raggiungere i luoghi dove già c'erano questi gruppi. Quando io riuscii a raggiungere il nord, iniziai a girare e trovai qualche ufficiale, e i preti che ci aiutavano ma solo con delle pagnotte, non volevano partecipare perché erano per la pace. Non era facile reclutare delle persone perché anche se c'era una grande stima, se uno non era stato attivo sul posto, non veniva ascoltato. C'è un film che si chiama Carosello a colori che rispecchia molto bene il clima dell'epoca.


Come è stata questa convivenza, questo «mese e mezzo con Giaime Pintor»?

Era una mescolanza, come avviene sempre in questi casi, di fantasticherie, di risate e di scherzi, di interessi e di tragicità. Ma c'era anche un clima infantile tra di noi. Tanto che quando gli alleati, liberata Napoli, concessero ai partiti il diritto di pubblicare un giornaletto e dettero a noi un secondo diritto, che era quello di disporre di un locale, mi ricordo che dicevamo: «Adesso marciamo al grido di Forza Sforza», che era il grido degli sforzeschi, quando si imposero a Milano ma era anche un divertissement con il nome di Carlo Sforza.

Ricordo che c'era in questo gruppo un clima molto risorgimentale. Il Risorgimento era molto caro a tutti noi e ancora di più doveva essere caro a Pintor che ne derivava direttamente. Lui in molte cose era uomo del Risorgimento. Non nei concetti naturalmente perché la dittatura del proletariato non era certo un concetto da uomo del Risorgimento! Ma lo ricordava perché era un giovane che aveva la stessa volontà di perdersi nella propria azione, di fede in essa, che avevano gli uomini migliori del Risorgimento. Avevamo anche voglia di scherzare, Giaime ci prendeva in giro per i nostri vestiti da montagna e scherzando ci diceva che era una nuova moda: «il partigiano elegante». Io me ne andai da Napoli con un pessimo abbigliamento perché se fossi stato preso non potessero identificarmi, avevo sopra un impermeabile relativamente moderno, ma i pantaloni e il resto erano di una lana che si spezzò subito. In Doppio diario, comunque, emerge bene il personaggio di Giaime: era una persona ironica e insieme cosciente, che credeva nel presente e perciò credeva nell'avvenire.

Mi faceva anche molto ridere, ridevamo molto al motto di: «Forza Sforza!». Eravamo una decina di giovani e abitavamo tutti insieme. Questo avvenne quando le autorità alleate congedarono i volontari di Pavone, quello che si chiamava il Corpo Italiano di Propaganda che poi divenne di Liberazione. Quando ci liquidarono noi non accettammo di tornare a fare la propaganda. Volevamo agire di persona, non avevamo fatto tutta quella strada per restare lì inermi. Allora Dino Gentili riuscì a farci dare un alloggio del Centro Italiano di Propaganda e vi sistemammo una decina di uomini. La radio chiaramente continuò a fare la propaganda. Gli alleati ci appoggiarono, anche se non ci dettero l'appoggio su tutto. Ci aiutarono negli allenamenti e ci dettero essenzialmente la loro fiducia. Il Corpo dei Volontari della Libertà da quel momento divenne un corpo militare. Tra i feriti nella spedizione di Giaime ci fu Max Salvadori.


Nell'articolo pubblicato su «Mercurio» lei traccia un ritratto di Giaime ricco di sfumature, che purtroppo la critica successiva ha sacrificato in nome di un'interpretazione più 'agiografica'. Un Giaime molto umano, non univoco, che «portava la luce di un giudizio umano e la passione di un cuore giovane, nella compostezza di un gentiluomo».

Aveva una maturità quasi sconcertante, anche nei tratti fisici, e una mescolanza di aspetti estremamente infantili e gioiosi, che era poi di tutti noi. La mia esperienza con Giaime è stata brevissima, ma intensa, perché ci ha permesso di stabilire questa diversità, di ricomporla in maniera armonica. In lui giovanissimo avvertivo la forza e l'amore della libertà che aveva animato la sua generazione. Il nostro incontro è stato occasione di capire, almeno per me, l'importanza di un addestramento militare, che forse non lo era tanto in se stesso, quanto per darmi sicurezza, altrimenti non avrei avuto il coraggio di attraversare le linee tante volte. Giaime invece era molto sicuro di sé, come carattere, ma era anche molto critico, militare e fanciullesco: sono tre cose che si contraddicono, ma solo in apparenza.


Il giovane e aristocratico letterato dunque non contrastava con il «partigiano elegante»?

Giaime, come ho scritto nel mio ricordo, aveva il dono di riuscire a portare, in quei giorni di caos, un criterio di organizzazione senza cedere mai alla tentazione di far pesare la propria posizione o la propria intelligenza. Ad animarlo, e questo è molto difficile, soprattutto nei giovani, era il sentimento di uguaglianza tra chi sta dietro la cattedra a dare gli ordini e chi invece li deve obbedire. Soprattutto se queste persone sono lì per combattere. Lui aveva questa straordinaria capacità, che era poi una capacità in parte naturale, in parte acquisita da militare. E in fondo una capacità che il superiore militare che parla con la recluta deve avere. Franco Fortini non ha mai capito questo di Giaime. Lui parla in termini di borghese o non borghese, ma queste distinzioni non hanno senso. Anche io del resto mi sono sempre considerato in questo senso un borghese e proprio per questo ho voluto fare questa esperienza proletaria, e ho imparato a fare tante cose che prima non sapevo fare. Allora il DNA non contava mica tanto come adesso. Del resto per questo tra me e Fortini c'è stato questo grandissimo divario. Era chiaro che non mi poteva piacere.


Lei ha scritto: «sussistevano tra noi delle diversità. C'erano i suoi gusti diversi dai miei, che avevano un significato profondo: il totalitarismo che mi pareva superstite anche nel suo spirito di umanista non si raccoglieva certo nella sua idea della rivoluzione, né nella sua idea che la dittatura fosse soprattutto necessaria per trasformare il mezzogiorno».

Giaime sosteneva che per un certo periodo nel Mezzogiorno era necessario instaurare una dittatura perché solo così le classi moderate, il proletariato, si potevano affermare attraverso una forza organica e compatta. Era chiaramente per una dittatura a fini liberali ma che servisse a dare la possibilità di superare lo stato di inferiorità in cui si trovava il Mezzogiorno, la quale, aggiungeva subito dopo, forse per il Nord non sarebbe stata necessaria. Tutto era molto chiaro nel suo progetto: un periodo di dittatura fatta per riportare il Mezzogiorno a una parità di condizioni politiche, dopo di che una volta raggiunta questa finalità sarebbe stata abolita. Questa dittatura sarebbe dovuta essere tenuta dai partiti antifascisti. Dittatura logicamente di un gruppo. In questo senso Giaime non fu mai comunista dipendente da Mosca. Il suo concetto era di una dittatura repubblicana, una dittatura di un gruppo repubblicano. Del resto Tito riuscì ad attuare questo grazie all'aiuto degli alleati. Io su questa concezione politica potevo consentire solo in parte e pertanto gli dicevo che non ero d'accordo, almeno non su tutto. Mi rispondeva: «non diremo mai che voi siete della borghesia solo perché avete un'opinione diversa dalla nostra. Voi avete ragione perché cercate direttamente la libertà», ed aggiungeva: «sarei anche io così se non ci fosse il problema del Meridione». E la stessa cosa del «dispotismo illuminato» di cui parla nel Doppio diario. Il dispotismo illuminato è il dispotismo di quelle forze borghesi che hanno fatto la rivoluzione borghese. Cioè di quelle forze che hanno imposto certi regimi per abituare i popoli a un comune obiettivo, ad un regime di vita superiore.

Le nostre conversazioni, quelle più serie, erano tutti discorsi in sè politici, si parlava del problema di una dittatura del proletariato o di una dittatura liberale. Giaime era un carattere estremamente piacevole, almeno per me.


Quando Giaime scrive la famosa lettera-testamento al fratello Luigi, manifesta la possibilità di un esito tragico dell'impresa.

Nessuno di noi avvertiva realmente la possibilità di morire. Era un'impresa rischiosa, ma non pensavamo nemmeno lontanamente che ciò potesse accadere. Giaime scrisse la lettera quando per la prima volta aveva pienamente svolto la sua funzione a Napoli. Anche per questo la lettera sembra impegnare il fratello a un'azione molto più forte di quella che poi il fratello sarebbe stato in grado di fare. Si, credo che l'abbia scritta poco prima di partire per passare le linee.

(Roma, 14 novembre 1995)

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