Copertina
Autore Manuela Falorni
Titolo E se andassi in paradiso
EdizioneFandango, Roma, 2010, , pag. 150, cop.fle., dim. 14x21x0,9 cm , Isbn 978-88-6044-156-0
LettoreLuca Vita, 2010
Classe narrativa italiana , biografie , erotica
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


1.  Festa di compleanno                       5
2.  All'ombra del cacalibri                  23
3.  Nel falò delle vanità                    35
4.  L'amore ai tempi del composit            51
5.  Indovina chi viene a cena                58
6.  Nozze col botto                          62
7.  Animale in libertà                       71
8.  Togliersi i vestiti è un'arte            81
9.  L'estasi non è un reato                 108
10. La battaglia della mia vita             121
11. Io, Dio e gli altri                     138


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 5

1

Festa di compleanno


Anche stasera è successo.

C'è lo spettacolo, e io ci sto dentro. Alla mia età è un prodigio.

Sono concentrata per eseguire al meglio ogni dettaglio del mio show.

Ho il reggicalze slacciato, mi siedo in braccio a un uomo. Odore di maschio. Sento che prova a dirmi qualcosa ma non ci riesce, gli viene fuori un rantolo, attorno a me ho decine di uomini. Aspettano il loro turno, mi vorrebbero tutti, e in quel preciso istante, mentre mi sollevo maestosa dalle gambe dello sconosciuto, qualcosa mi colpisce alla testa salendo dai talloni. Mi arriva come una frustata.

È la mia estasi.

Tutto è iniziato quaranta anni fa, quando la provai per la prima volta.

Una scossa che attraversa la schiena, piega le gambe, riempie la bocca di saliva e svuota la mente. Loro la chiamano Esibizionismo, la chiamano Trasgressione; la chiamano Scandalizzare.

Io la chiamo estasi. Con la minuscola, perché è solo una piccola parte di me.

Dentro la mia estasi trovo euforia e brividi.

Fuori trovo gli sguardi della gente.


1968, ero una bambina.

Sentivo che stavano cambiando molte cose attorno a me, lo capivo dai discorsi della gente, ma quali cose cambiavano?

Dicono c'è stata la rivoluzione sessuale.

Per me il 1968 era la fila delle cabine del bagno Mascotte a Lido di Camaiore.

Correvo dietro gli spogliatoi. Erano dipinti di azzurro, il colore dominante al lido, e mi bruciavo i piedi sulla sabbia. Sapevo che lì dietro ero al sicuro, nessuno mi avrebbe vista. C'era un bambino un po' meno bambino degli altri che mi piaceva tanto, la tipica cotta dell'adolescenza. Una volta scostai il costume per fargli vedere le mie parti nascoste. Non ricordo come mi saltò in mente quell'idea disperata, e nemmeno come reagì lui. Ricordo solo la sensazione: la mia estasi.

Fu allora che sentii il lampo per la prima volta.

L'ho sentito centinaia di volte. Alle prime sfilate di moda, al mio primo casting, quando facevo la modella per rappresentanti, quando mi scelsero per la pubblicità di un aperitivo, quando decisi di diventare un'attrice porno e ho iniziato con i miei spettacoli. Quando centinaia di persone invocano nei miei show. O all'Erotica tour, in migliaia ai miei piedi. Eccitati, ipnotizzati. Rapiti.

Manuela Falorni, ma mi conoscono come la Venere Bianca.

Faccio il porno da quando ho compiuto trentatré anni, età in cui molte colleghe hanno smesso da un pezzo. Riconvertite a una vita ordinaria in cui cercano di nascondere i segni indelebili che il porno lascia addosso.

Scegliere questo a trentatré anni non è stato un colpo di testa, ma una decisione ponderata, pensata per molto tempo. Volevo dare uno schiaffo alla mia vita.

Sono stata valletta, modella, presentatrice, spogliarellista, attrice pornografica.


Oggi compio cinquant'anni, e conduco uno spettacolo erotico in giro per l'Italia.

Poco fa mi hanno portato nel camerino una torta di compleanno. Ho soffiato sulle due candele, un cinque e uno zero, di cera.

La cera.

Quante volte ho usato la cera sul palco durante uno spettacolo?

Ho perso il conto. Così come ho perso il conto delle mie serate, degli uomini che mi hanno applaudito, di quelli che si sono eccitati, di quelli che mi hanno fatto godere e poi arrabbiare.

Ma la cera stasera mi ricorda mio padre e i suoi racconti. Del tempo di guerra, quando la cera si raccoglieva dai portacandele e si masticava per non sentire la fame. Una volta ci ho provato anch'io. Avevo fatto una pallina con la cera di una candela bianca che avevo usato per il finale di un mio show. Poi la dimenticai tra le mie cose in camerino. Una sera la ritrovai per caso e l'accesi. Una goccia cadde sul tavolo. Attesi che si raffreddasse e la misi in bocca, e infine la masticai. Masticare cera è come rimuginare in bocca una palla di pane.


A cinquant'anni sono ancora su un palco a spogliarmi.

A farmi toccare e annusare. Diciotto anni che vivo di spettacoli erotici.

Giro il mondo con mio marito e i miei trucchi, con i travestimenti e i dischi. Scelgo tutto io, le musiche, le scenografie, i locali. Gli uomini da portarmi sul palco. Quando ho iniziato pensai che sarebbe durato solo qualche mese. Una breve concessione all'estasi che mi tormenta da sempre, o forse una delle mie solite pazzie, impetuose e sfrontate.

Oggi, giunta a un'età difficile per una donna, sento di aver vinto una sfida. Provo una sensazione di pienezza. E sempre più spesso, nel pieno dello show, quando lascio cadere un pezzo di stoffa sul palco e il mio corpo offre la sua luce alla folla, penso al giorno in cui non sarò più una pornostar.

Immagino il mio futuro. Quando quel pezzo di stoffa che ho appena sfilato sarà meglio tenerlo addosso. Il giorno in cui vestita sarò molto più attraente che spogliata. Quel giorno terrò i capelli lunghissimi e argentati, raccolti in uno chignon. Forse perderò la mia linea armoniosa, ma cercherò ancora di giocare col sesso, di mettere a nudo una delle mie tante identità.


Sul palco ho interpretato molti ruoli.

Sono stata una suora infelice ed erotomane. Sono stata un'eroina, una squillo e una danzatrice del ventre. E poi un'impiegata, una segreteria, una professoressa, una poliziotta inguainata nel latex. Qualsiasi personaggio interpretassi, qualunque pezzo di stoffa o lustrino indossassi, non ho mai smesso per un attimo di provare il piacere di essere adorata dagli sguardi della folla.

Ho conosciuto migliaia di maschi, ho accompagnato le loro vite.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 62

6

Nozze col botto


Ciò che accadde il giorno prima del matrimonio e durante la notte di nozze, avrebbe dovuto farmi capire che razza di futuro mi aspettava.

Trascorsi la vigilia di quell'evento così importante nell'astanteria del pronto soccorso per tentare di nascondere i segni di un incidente automobilistico. Poi passai gli ultimi interminabili minuti della festa nuziale a convincere Nino che la prima notte di nozze bisognava passarla con la sposa e non con gli amici in giro per locali.

Il matrimonio era fissato per lunedì 16 dicembre.

Scegliemmo quel giorno per far sì che i nostri amici, quasi tutti sportivi e attori, potessero venire. Il giorno prima stavo andando a Torre del Lago con Nino e un suo amico venuto dalla Francia, quando in viaggio avvenne l'incidente. Avevo da poco cambiato macchina e guidavo un'auto parlante, un prototipo della MG che invece delle spie luminose aveva un nastro che ripeteva istruzioni all'infinito, diceva di fare rifornimento quando mancava la benzina, assillava con le cinture di sicurezza, gracchiava cosa fare e cosa non fare, se inserire la marcia o no, se frenare o accelerare.

Il viale alberato che porta a Torre del Lago è costeggiato da campeggi, che d'inverno sono deserti. In quella strada quasi altrettanto deserta schiacciai il pedale a tavoletta, e proprio mentre stavo sorpassando un macinino, spuntò una macchina da una strada laterale. Per evitarla mi spalmai su un albero.

Ricordo i tronchi che mi sfilavano davanti agli occhi mentre l'auto girava su stessa, poi arrivarono le stelle del crash. Una grande lampada di cristallo che portavo nel baule rimase intatta. Molto meno intatti eravamo noi tre. Nino e il suo amico si ruppero la testa, io me la cavai con un occhio blu, proprio il giorno prima delle mie nozze. L'ambulanza ci portò via mentre la voce metallica della mia macchina ripeteva: "Allacciare le cinture di sicurezza... Allacciare le cinture di sicurezza...".

In ospedale fummo medicati e sottoposti ai controlli di routine.

Fu allora che scoprii che aspettavo Antonio.

La rabbia per l'incidente passò di colpo, ma la notizia si diffuse come polvere portata dal vento.

Alcuni giornali riportarono l'avvenimento annunciando che la cerimonia nuziale era sospesa. La cosa m'infastidì, ma erano problemucci. Ero felice, avevo appena saputo di essere incinta e l'idea di diventare madre mi dava un'energia potentissima.

Ci sposammo nonostante i lividi.

La sposa con l'occhio nero, lo sposo con un cerotto in faccia, uno degli invitati vistosamente bendato. Questo il quadro che si poteva ammirare ai piedi dell'altare della Cappella dei Frati a Montecatini, poco prima del nostro "sì".

La festa fu bellissima, e culminò con un monologo di Walter Chiari, grande amico di Nino. All'una tutto finì. Io rimasi con i miei genitori, mentre Nino e l'amico francese tutto fasciato decisero di andare al night a proseguire i festeggiamenti. Entrambi ubriachi fradici.

Situazione a cui mi sarei dovuta abituare presto.

"Ma è la nostra prima notte di nozze...", dissi, sollevando timidamente la questione.

Pensavo alla biancheria che indossavo sotto l'abito da sposa, pensavo al letto che ci aspettava, alla camera addobbata con i fiori, la frutta e lo champagne.

"La prima notte di nozze dovresti passarla con tua moglie!", insistevo con quella che mi sembrava un'ovvietà, ma lui non volle saperne. Preferiva restare col suo amico venuto da Parigi, portarlo al night, bisognava festeggiare a modo loro.

I miei genitori riuscirono a convincerlo a rimanere con me.

Mi sentii umiliata nell'implorare il mio uomo a passare la notte delle nozze con me, ma finalmente riuscimmo a raggiungere la camera.

Morale, mi ritrovai in stanza da letto un pugile ubriaco.

Non dimenticherò mai la mia prima notte di nozze.

Quando arrivammo in camera il livello di tensione tra noi era altissimo.

Iniziammo a spogliarci discutendo.

"Che mi hai sposato a fare? Perché non ti scopi la tua ex di Genova?"

Mi ritrovai sbattuta contro il muro, in reggiseno e collant.

Il mio astio in un attimo si era trasformato nella sua furia. Ero seminuda e appiccicata al muro, sentivo che Nino stringeva, non voleva scuotermi e basta, voleva farmi male. Strillai ma lui non smetteva, anzi stringeva ancora di più. Con tutta la forza che avevo riuscii a divincolarmi e a raggiungere la porta, ma lui mi placcò alle gambe proprio mentre stavo arrivando alla maniglia.

La porta si aprì e qualcuno entrò per bloccarlo. Dormivamo allo stesso piano di molti invitati, e molti di loro si erano precipitati da noi, richiamati dalle urla.

Fuori c'erano il direttore dell'albergo e il manager di Nino, Bruno, con sua moglie.

Si trovò una soluzione di compromesso. Bruno dormì con Nino e io finii in stanza con sua moglie.

Mi sciacquai il viso e mi struccai.

L'occhio destro era ancora nero a causa dell'incidente del giorno prima, ma si stava sgonfiando. Forse l'incidente era stato un ammonimento. Ma dovevo ancora imparare a leggere i segnali che mi lanciava il destino. Sorrisi pensando al discorso di Walter Chiari. Aveva scherzato sull'incidente. Aveva detto che il botto mi aveva fatto nera, e alla fine tutto si era risolto per il meglio: con un matrimonio esplosivo. Mi sono spesso domandata cosa avrebbe detto Walter se avesse saputo del litigio.

Il giorno dopo la sbronza Nino non ricordava più nulla. Mi cercò con molta dolcezza, chiamando il mio nome per l'albergo.

"Manuela... Manuela..."


Di quella storia passionale, a tratti furiosa, in cui tutto sembrava possibile, mi è rimasta la cosa più importante, mio figlio Antonio.

Ma ho perso tutto il resto. La prima ad andar via è stata la passione. Per Antonio e per la sua tutela ho affrontato una lunga battaglia giudiziaria, anzi una vera e propria guerra, il pozzo senza fondo in cui ho riversato ogni mia energia e molti dei miei guadagni.

Il passato era disintegrato.

Tendo a rimuovere dalla memoria il periodo della convivenza. Una volta sposata avevo vissuto dozzine di serate identiche all'indimenticabile prima notte, a cominciare dalla luna di miele.

In crociera, mi ritrovavo da sola in cabina ad aspettare Nino che rientrava a notte fonda, puntualmente ubriaco.

Ero terrorizzata per il bimbo che mi cresceva in grembo. A pochi giorni dalle nozze, mi ero già resa conto di aver commesso il più grande sbaglio della mia vita.

La nascita di Antonio fu segnata dall'impronta inequivocabile del destino.

Avevo sposato Nino così in fretta... Fu l'ennesima sventatezza della mia vita, e subito dopo ero rimasta incinta di Antonio. Il giorno del matrimonio ero raggiante. Provavo una felicità sotterranea. In seguito capii che a darmi la gioia profonda che manifestavo agli invitati non era l'idea di sposare Nino, ma il fatto di sapere che ero incinta.

Nino mi fece un giuramento. Promise che non avrebbe mai più toccato un bicchiere se fosse nato un bambino. Promise che avrebbe messo la testa a posto. Nelle settimane successive fui attraversata da due sentimenti, uno di felicità totale e l'altro di estrema angoscia. La felicità si rivelava ogni volta che mi guardavo allo specchio. Scrutavo la forma della mia pancia e la trovavo lievemente aumentata di volume. Credevo d'essere una creatura assoluta, l'unica donna al mondo in procinto di avere un figlio. Una sensazione folle che mi rendeva piena, soddisfatta di me stessa. Mi veniva il desiderio di camminare per strada e gridare a tutti la mia ebbrezza.

Eppure la gioia si frantumava ogni sera, quando rimanevo sola con Nino. Non funzionava tra noi. Le cose non andavano, litigavamo continuamente. Al secondo mese di gravidanza il recinto domestico era già una polveriera.

Decisi di abortire.

Non ricordo le ragioni dell'ultimo litigio ma ricordo bene la telefonata in cui presi accordi con la clinica Torregalli di Firenze. Fissai un appuntamento per l'intervento dopo che ero stata respinta dal mio ginecologo, un obiettore di coscienza. Per me fu il primo shock.

Nei giorni precedenti finsi di essere ammalata.

Avevo architettato un piano per far credere a tutti che l'aborto fosse spontaneo.

Avevo paura di Nino, ma temevo sopratutto le persone che mi conoscevano. Ero perseguitata dal senso di colpa per quello che stavo facendo. E l'unica volta che ho provato un senso di colpa in vita mia, e ora so quanto sia opprimente.

Passavo ore a letto, sempre a letto, e sotto le coperte vedevo passare tutta la mia esistenza.

Fingevo. di stare male, manomettevo il termometro, comportandomi come quand'ero studentessa, l'eterna liceale di San Miniato che combinava guai e non voleva andare a scuola.

Aggrappandomi alla finta malattia guardavo ore e ore la televisione. Mi resi conto che trasmetteva solo spot di pannolini, latte, biscotti, omogeneizzati e altri prodotti per l'infanzia. La spensi e non la riaccesi più.

Mi sentivo soffocare. Scesi in strada e iniziai a camminare. Passeggiavo per la città. Ero circondata da donne incinte, ne incontravo tantissime. Tornavo a casa e mi sentivo perseguitata.

Arrivò il giorno del ricovero.

L'ospedale Torregalli è a Soffiano, una piccola frazione di Firenze.

Arrivai alle cinque e mezzo del mattino, una rampa d'asfalto in mezzo ai pini, e il pronto soccorso, un edificio a forma di parallelepipedo, si spalancò come la bocca di un serpente bianco. Era l'alba, la luce del giorno era pallida. Sembrava il riflettore giusto per dare un senso lunare e lugubre a quello che di lì a poco sarebbe accaduto.

In ospedale c'ero finita poche volte nella mia vita. La prima, per un intervento al naso. Non mi piaceva, perché avrei dovuto tenerlo com'era? Mi dissero che ero una squilibrata, che avrei perso il naso. Esorcizzai le malevolenze leggendo un racconto di Gogol dove il protagonista perdeva il naso.

Lo leggevo e ridevo.

Avevo ventidue anni, e prima di addormentarmi con il soffio leggero dell'anestesia annunciavano alla radio la morte di Bob Marley.

Insomma, bisturi e bende non mi hanno mai spaventato. Ma il giorno in cui mi presentai per abortire la sala d'attesa era deserta, male illuminata dal neon e io piena di angoscia.

Attesi un'ora, due ore. Alle otto non era ancora arrivato nessuno.

A un tratto, sulla soglia del corridoio che portava ai reparti ginecologici, comparve una donna dalla pelle diafana. Era una donna matura, portava il camice da infermiera, e mi guardò con due occhi luminosi.

"Cosa fa lei qui?"

"Avevo preso un appuntamento per...", risposi, poi tacqui di colpo.

Non riuscivo a pronunciare le parole "interruzione di gravidanza", mi sembrava una formula complicata. Ma non volevo dire nemmeno aborto.

"In quale reparto?"

"Ginecologia."

"È qui per un intervento?"

"Sì."

"Mi sa che deve prendere un altro appuntamento, oggi c'è sciopero dei medici."

E l'infermiera sparì nel nulla.

Alcuni anni dopo ho pensato addirittura di averla immaginata. Forse era un'apparizione. Lo sciopero lo interpretai come un segno celeste: Antonio doveva nascere.

Corsi in pasticceria per festeggiare e mi riempii di dolci, togliendomi tutti gli sfizi e le voglie che erano cresciute a dismisura in quelle settimane. Panna, crema, cioccolato. Mentre la felicità esplodeva nel mio cuore.

| << |  <  |