Autore Marta Fana
Titolo Non è lavoro, è sfruttamento
EdizioneLaterza, Bari-Roma, 2017, Tempi nuovi , pag. 174, ill., cop.fle., dim. 14x21x1,5 cm , Isbn 978-88-581-2926-5
LettoreGiovanna Bacci, 2017
Classe lavoro , politica , economia , paesi: Italia: 2010












 

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Indice


Prologo. Di precariato si muore                                IX


Miserie e splendori del lavoro: un immaginario da ricostruire   3

Dal lavoro a chiamata ai voucher, andata e ritorno             15

La chiamavano modernità (è il cottimo)                         31

Logistica                                                      43

Precarietà e sfruttamento nei servizi pubblici                 57

Lavoro gratuito                                                72

Il merito dell'alternanza scuola-lavoro                        81

Abbiamo fatto il possibile... per le imprese                   91

Fedeli alla linea: flessibilità!                              118

La flessibilità è di destra                                   134

Conclusioni                                                   151


Appendice

Caro Poletti, avete fatto di noi i camerieri d'Europa         163


Bibliografia                                                  169


 

 

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Pagina IX

Prologo
Di precariato si muore



«Io non ho tradito, io mi sento tradito» sono le parole di un ragazzo, appena trentenne, che decide di abbandonarsi al suicidio denunciando una condizione di precarietà, un sentimento di estrema frustrazione. Non è l'urlo di chi si ferma al primo ostacolo, di chi capricciosamente non vede riconosciuta la propria 'specialità'. È l'urlo di chi è rimasto solo. Di precariato si muore.

Tutto questo ha a che fare con le trasformazioni della nostra società, a partire dai diritti universali, dal lavoro, dall'umanità e dalla solidarietà negate. Quelle cose che si è deciso di escludere dalle nostre vite, non potendogli dare un prezzo. C'è più di una generazione a cui avevano detto che sarebbe bastato il merito e l'impegno per essere felici. Quella di chi si è affacciato al mondo del lavoro cresciuto a pane e ipocrite promesse, e quella di chi si affaccia oggi, quando la promessa assume il volto di un'ipocrisia manifesta. Oggi ci si suicida perché derubati di possibilità, di diritti, di una vita libera e dignitosa. Qualcosa è andato storto e c'è chi continua a soffiare sul fuoco delle responsabilità individuali, delle frustrazioni che la solitudine sociale produce.

Di precariato si muore. E non è un caso. Il precariato è la risposta feroce contro la classe lavoratrice, il tentativo più riuscito di distruzione di una comunità che aveva in sé un connotato, quello di classe, che si caratterizza per una comunanza di interessi in costante conflitto con gli interessi di chi ogni mattina si sveglia e coltiva il culto dell'insaziabilità, dell'avidità che si fa potere. Il potere di sfruttare, di dileggiare tutti quelli che contribuiscono a creare le fortune dei pochi che se le accaparrano.

Di precariato si muore quando al concetto di società si antepone quello di individuo.

Ed è esattamente ciò che è stato fatto dalla Thatcher e da Reagan in poi, quello che hanno fatto tutti i governi che hanno tradito i lavoratori, dalla fine degli anni Settanta fino alle più recenti riforme del mercato del lavoro. È stato un impegno quotidiano. Costanza e tenacia. Le hanno provate tutte e ci sono riusciti perché sono rimasti coerenti con la loro idea e ogni giorno e ogni notte hanno lottato per raggiungere quell'obiettivo. Uniti. Loro hanno vinto nel momento in cui sono rimasti uniti perseverando nel disaggregare i lavoratori in quanto corpo sociale. Per farlo hanno avuto bisogno di molta creatività, di imporre, con una buona dose di maquillage, un nuovo volto al lavoro: eliminando dall'immaginario i bassifondi, gli operai; escludendo dal racconto quotidiano la fatica dello sfruttamento; mascherando l'impoverimento dietro l'obbligo di un dress code.

Come scrive Owen Jones a proposito del 'thatcherismo': «L'obiettivo era quello di cancellare la classe operaia come forza politica ed economica della società, rimpiazzandola con una collezione di individui, o imprenditori, che competono gli uni contro gli altri per i propri interessi. [...] Tutti avrebbero aspirato a rimontare la scala [sociale] e coloro che non l'avessero fatto sarebbero stati responsabili del loro stesso fallimento».

Né sulla Manica né sul Tirreno è bastata la poesia a fermare questa deriva. Nostalgicamente ascoltiamo ancora De André, capace come pochi di riflettere su un'umanità che sembra persa, spiegarci che esiste «ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell'errore».

Così, negli ultimi decenni, è andata diffondendosi sempre più la figura del giovane con la partita Iva: libero di solcare i contratti a progetto, le prestazioni occasionali, di non arrivare a fine mese e di non avere diritto al reddito nei periodi di non lavoro. Non vincolato da un contratto, libero di esser pagato quanto e quando vuole l'azienda e di non avere alcun potere negoziale. Nel frattempo, il giovane precario poteva consolarsi e crogiolarsi del racconto della sua specificità, di essere unico, di non essere uguale a 'quegli altri', quelli impiegati da più di vent'anni con gravi lacune nell'utilizzo di Microsoft Office o, peggio ancora, quelli vestiti male, un po' sporchi di polvere, di grasso e vernice. Nei cinque minuti tra il parcheggio e la porta d'ingresso, o tra la caffettiera e la piccola scrivania, separate dal lungo corridoio di una casa in affitto, il giovane precario pensa di essere indispensabile. Pensa che tutto andrà meglio, che questo contratto è solo l'inizio, potrà rivendicarlo al prossimo colloquio, quello che non esiste, perché il curriculum lo mandi a un indirizzo di posta elettronica. Lui è solo e a volte pensa che in fondo è l'unico uomo al comando. Di cosa non gli è ben chiaro. Però i sindacati mai.

E del resto, per molti anni, i sindacati non si sono accorti che questi avevano la partita Iva ma erano degli sfruttati e quando se ne sono accorti hanno procrastinato. Un circolo vizioso che ha portato alla sconfitta. Era in atto la trasformazione antropologica e culturale del lavoro subordinato, mascherato dalle collaborazioni. All'inizio degli anni Duemila chiunque poteva essere un lavoratore a termine. Una generazione in fin dei conti abituata dai tempi della scuola: le verifiche a crocette, i quiz ogni quindici giorni erano già l'emblema del 'mordi e fuggi'. Al diavolo il diritto a una conoscenza lenta, approfondita, critica. Gratta e vinci. Usa e getta. Come quei gadget che, ora, soddisfano gli attacchi di consumismo bulimico, mentre un operaio muore sotto un camion durante un picchetto. È il momento in cui, controllando il codice a barre che traccia la spedizione, il giovane collaboratore inveisce contro Poste Italiane perché non ha consegnato il gadget in tempo. Ma Poste Italiane è stata privatizzata, i postini sono sempre meno e quelli che son rimasti lavorano dieci ore al giorno, le spedizioni sono state appaltate a un corriere esterno, gli sportelli chiudono perché i cittadini sono stati trasformati in clienti. E vanno su internet, le filiali non servono più.

Sono gli anni in cui molti più giovani potevano dirsi liberi dal lavoro subordinato, lo dicevano alla televisione, lo dicevano i giornali. Purtroppo continuano a dirlo. I costi del lavoro diminuiscono, le imprese non devono pagare í contributi, ma non devono pagare neppure la formazione ai propri collaboratori. E i giornali tornano a titolare che le imprese non trovano giovani adatti a ricoprire le mansioni cercate. La colpa della disoccupazione e della precarietà è stata accollata alla scuola, che non prepara al mercato del lavoro. Devono uscire precisi e perfetti per il prossimo annuncio. Ma guai a investire nella formazione: meglio pretendere che sia la scuola, e quindi lo Stato, a pagare, anche per far lavorare gratis nelle aziende i propri studenti.

È così che nasce l'alternanza scuola-lavoro, i cui protocolli d'intesa del Ministero del Lavoro e di quello dell'Istruzione e della Ricerca danno il diritto a grandi multinazionali di impiegare migliaia di studenti nei propri locali, per fare i commessi. Una velocità che lascia interdetti. È stato un attimo, dal susseguirsi di stage umilianti o inutili al dovere del lavoro gratuito. Sarà un'esperienza fantastica, recitavano le pubblicità dell'Expo 2015 a Milano. Vedrete cose, conoscerete gente, gratuitamente. Lavorerete gratis finché altri vorranno. Poi il nulla. Anzi no, poi Garanzia Giovani, il progetto europeo per l'inserimento lavorativo dei Neet (Not in Education, Employment, Training), cioè per coloro che non studiano, non lavorano e non sono coinvolti in programmi di formazione. Più di un milione di persone tra i 15 e i 29 anni si sono presentati ai centri per l'impiego o strutture convenzionate, con la speranza di trovare un lavoro. L'ha detto la pubblicità, il Ministero del Lavoro non fa che vantarsi di questo programma. E allora proviamoci, come in un reality, sia mai che ci dice bene. Altri ci sono arrivati celando l'umiliazione, mettendo da parte l'orgoglio della laurea, dei master da fuori sede. Tirocini come se non ci fosse un domani, per tutti!

Masse di lavoratori che la sera tornano a casa con le proprie storie personali, alcuni aprono un blog e si raccontano. Una questione privata. Nessuno ha inventato il sito di incontri per partite Iva, un mega raduno di chi ha partecipato al grande show di Garanzia Giovani. Lo sciopero generale dei tirocinanti. Ognuno a pregare che quella promessa di assunzione possa un giorno farsi realtà.

Loro, i potenti, gli avidi, gli sfruttatori, hanno vinto perché sono stati coerenti, uniti, perché sono stati più forti nel 'tutti contro tutti', dove i morti li abbiamo contati solo noi. Hanno vinto quando ci hanno chiamati «bamboccioni», imponendoci una partita Iva, e siamo stati educati, silenti, accondiscendenti. Hanno vinto quando ci hanno detto che eravamo «choosy» e abbiamo porto l'altra guancia. Hanno vinto quando abbiamo smesso di credere che, uniti, si vince anche noi.


Indagare sulle condizioni di lavoro e non lavoro in Italia è una vera e propria discesa agli inferi. Il dilagare del lavoro povero, spesso gratuito, la totale assenza di tutele e stabilità lavorativa sono fenomeni all'ordine del giorno, che si abbattono su più di una generazione, costretta a lavorare di più ma a guadagnare sempre di meno, nonostante viviamo in una società il cui potenziale produttivo già permetterebbe di ridurre e distribuire il tempo di lavoro mantenendo e/o raggiungendo un tenore di vita più che dignitoso. È la realtà contro cui si infrange la narrazione dominante sulla 'generazione Erasmus' e sui Millennials, la stessa che con facilità dichiara che coloro che sono nati negli anni Ottanta dovranno lavorare fino a 75 anni per avere una misera pensione.

Come se fosse un fatto naturale, inevitabile, ma soprattutto irreversibile, e non invece il risultato di scelte politiche ben precise, che hanno precarizzato il lavoro, la possibilità di soddisfare bisogni che dovrebbero essere considerati universali, come l'istruzione, la sanità, la casa, il trasporto pubblico. Le stesse politiche che hanno provocato l'inasprirsi delle diseguaglianze sociali spostando reddito e ricchezza dai lavoratori, che li producono, alle imprese, che a loro volta hanno scelto di trasformarli in vere e proprie rendite. Il furto quotidiano operato a danno dei lavoratori, di oggi e domani, è stato sostenuto dall'ideologia del merito, imposta per mascherare un inevitabile conflitto tra chi sfrutta e chi è sfruttato. Ma soprattutto per negare la matrice collettiva dei rapporti di lavoro, dei rapporti di forza in gioco: è la retorica per cui ognuno è unico artefice del proprio destino.

Il risultato è l'avanzare di forme di sfruttamento sempre più rapaci che pervadono ogni settore economico, con labili differenze tra lavoro manuale e cognitivo: dai giornalisti pagati due euro ad articolo ai commessi con turni di dodici ore, dagli operai in somministrazione nelle fabbriche della Fca ai facchini di Amazon.

Sono questi gli argomenti trattati in questo libro in cui l'analisi delle trasformazioni economiche e sociali che hanno attraversato i diversi settori si intreccia con le storie di quanti vivono quei luoghi – e non luoghi – di lavoro. Per ragioni oggettive e soggettive, ho scelto di analizzare e descrivere solo alcuni settori economici e forme di lavoro, in particolare la logistica, la grande distribuzione e i servizi pubblici, ma anche i lavoretti dietro la gig economy, le forme di lavoro gratuito, il lavoro a chiamata e il sistema dei buoni lavoro (i voucher). È una scelta dettata da poche ragioni di fondo, tra loro collegate. Primo, essi costituiscono gli esempi più significativi della ristrutturazione del capitalismo, dove la frammentazione del lavoro segue la frammentazione del processo produttivo. Secondo, sono la più nitida rappresentazione di come la valorizzazione del capitale necessiti la creazione di vere e proprie avanguardie dello sfruttamento, che coinvolgono sia i lavoratori immigrati della logistica, sia quelli italiani della grande distribuzione o dei servizi pubblici. La matrice di classe che opera in questi settori è la medesima, nonostante la narrazione dominante tenda a separare e a diversificare una soggettività, quella del nuovo e trasversale proletariato, con espedienti retorici e di facciata. Terzo, il riemergere dei conflitti che popolano questi settori e le modalità con cui le lotte si affermano son spesso taciuti o relegati a meri fatti di cronaca locale quando, invece, sono espressione di un mondo affatto pacificato. D'altra parte, frontiere del precariato come il lavoro a chiamata e il lavoro gratuito si configurano non soltanto come forme di totale estrazione del valore prodotto dai lavoratori che ingrassa solo gli utili d'impresa, ma agiscono come strumenti di estremo ricatto: la promessa di un futuro migliore se si è disposti a farsi sfruttare senza mai alzare la testa.

Mettere in luce la comunanza di interessi, palesando la natura di classe di questi conflitti, ha l'obiettivo di far convergere e amplificare le lotte e le pratiche in atto.

Infine, sebbene con estrema sintesi e in modo affatto esaustivo, si è provato a descrivere il processo politico che ha portato all'impoverimento della classe lavoratrice e soprattutto di quelle generazioni che si affacciano oggi al mondo del lavoro. Per ribadire, in fin dei conti, che il divorzio tra la sfera economica e quella politica è solo un inganno: i processi economici non sono nient'altro che processi politici di potere, di riproduzione di rapporti di forza. In Italia come nel resto d'Europa, la scelta dei governi è stata quella di avallare il progressivo smantellamento dei diritti in modo da restituire forza e dominio alle imprese, a discapito del progresso sociale, cioè del miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza.

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Pagina 3

Miserie e splendori del lavoro:
un immaginario da ricostruire



Durante gli ultimi decenni, la rappresentazione del lavoro, della quotidianità dei lavoratori, è scomparsa dall'immaginario, dalla cultura. La creazione di vere e proprie periferie nel mondo del lavoro è stata inizialmente giustificata come l'unico strumento efficace per affrontare le difficoltà a trovare il primo impiego da parte di categorie poco partecipi, come le donne, o più vulnerabili, come i giovani e gli immigrati. Una volta create, tuttavia, queste periferie sono state utilizzate dalla narrazione dominante per giungere al fine ultimo: la precarizzazione di ogni forma di lavoro, anche quelle finora garantite da tutele, come i contratti a tempo indeterminato. Dal punto di vista della composizione sociale, lo scontro alimentato è stato quello generazionale: i padri garantiti stanno togliendo lavoro e possibilità di lavorare ai propri figli. La stessa identica narrazione assoldata per giustificare e imporre antidemocraticamente dosi massicce di austerità sul piano fiscale e dei conti pubblici.

[...]


La frantumazione del mondo del lavoro vive dentro e fuori i luoghi di lavoro, soprattutto fuori dalle coscienze di chi per vivere deve lavorare. Senza mezzi termini, l'oggetto della discussione è la coscienza di classe, motore della storia, la cui esistenza è negata nella retorica dominante per sgomberare il campo dalla resistenza a tutte le scelte politiche che in questi anni hanno decretato l'inasprirsi delle diseguaglianze economiche, politiche e sociali.

[...]


E quando non si deresponsabilizza per legge, si chiude un occhio, come di fronte al lavoro nero, di fronte al disinvestimento in manutenzione e sicurezza: vengono tagliati i controlli e le ispezioni sul lavoro mentre si spendono soldi pubblici, dei lavoratori, per i rastrellamenti degli immigrati. Così se un operaio muore mentre lavora, è distrazione. Un incidente. Le morti bianche, cioè quelle sul lavoro, compaiono per poche ore sulle pagine dei giornali. Stando ai dati dell'Inail, nell'ultimo quadriennio sono morti sui luoghi di lavoro circa mille lavoratori ogni anno. Cifre che sottostimano il fenomeno, in quanto non tutti i lavoratori sono registrati presso l'Inail, come i liberi professionisti, i vigili del fuoco o proprio quei collaboratori che popolano i coworking o le camere in affitto in centro città. Ogni giorno, in Italia, più di tre persone muoiono sui luoghi di lavoro, a cui vanno aggiunti gli infortuni e tutte le malattie che si manifestano lentamente, quando ormai il lavoratore è andato in pensione. Secondo i dati ufficiali, nel 2016 le denunce per infortunio sul lavoro sono oltre seicentomila. Neanche fossimo in guerra!

[...]


Un atteggiamento paradossale, quello degli italiani di fronte al concetto di sicurezza. Prevale oggi nell'opinione comune un bisogno incondizionato nei confronti della propria sicurezza verso il prossimo, specie se più povero, se sta peggio di noi. Una costante richiesta di protezione della nostra non ricchezza, ma pur sempre proprietà di fronte all'indotto pericolo del ladro che invade le case o il garage o l'orto di casa. Si pretende addirittura il diritto di sparargli contro, di ucciderlo se necessario. Perché la proprietà non è più un furto e non può essere oggetto di furto. Sentimenti o risentimenti che sfociano il più delle volte in vere e proprie forme di razzismo e di odio verso il basso; posizioni che conquistano quotidianamente spazi di riflessione e azione politica. Ancora una volta, il racconto è strumentale a evitare che emerga e si consolidi la consapevolezza che il conflitto vive all'interno del processo di produzione e riproduzione sociale, ed è quello che contrappone sfruttati e sfruttatori, oppressi e oppressori.

Cedendo alla narrazione tossica che arriva dall'alto, di fronte al sopruso dei potenti si abbassa la testa, di fronte al furto quotidiano di diritti e salari ci si rivolge con remissività, con l'illusione che da quell'autorità, il capitale e chi lo governa, si può sempre ricevere qualcosa. Un atteggiamento di subalternítà che quasi penetra a livello antropologico. Su questo terreno vanno concentrati gli sforzi di una resistenza attiva che rivendichi come sopruso lo stipendio che non arriva da mesi, gli straordinari mai pagati, il contratto a tempo determinato dopo più di tre anni di rinnovi, i contributi non versati, le molestie al lavoro. Rifiutando la guerra tra sfruttati di ogni genere, età, nazionalità.

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Pagina 72

Lavoro gratuito



È bastato davvero poco per passare dalla generazione mille euro al mese dei primi anni Duemila a quella dei cinquemila euro l'anno con i voucher e altri dispositivi precari. Ma, soprattutto, in un batter d'occhio si è giunti fino alla normalizzazione del lavoro gratuito. Masse di giovani vivono nell'inganno per cui essere disposti a lavorare senza alcuna remunerazione è un vantaggio, soprattutto per i lavoratori. La gratuità del lavoro è assurta a precondizione per ottenere un lavoro remunerato domani. Pare che non si possa fare a meno di questo lavoro gratuito per ottenere l'attestato di potenziale lavoratore. Poco più di un decennio fa, la retorica dominante era quella del posto a tempo determinato come passaggio necessario per poi ottenere un contratto permanente. Nella realtà, il reiterarsi dei contratti a termine ha reso quello a tempo indeterminato un miraggio per molti. Oggi comunque questa narrazione del «lavoro a due tempi» è tale per cui il primo tempo è rappresentato dal lavoro gratuito e il secondo da qualsiasi forma precaria, tra cui vi è anche il contratto a tempo indeterminato così come esce dalla nuova formulazione a tutele crescenti introdotta dal Jobs Act. Senza il rischio di esagerare, si può affermare che il vecchio contratto è ormai un contratto precariamente stabile.

Ad ogni modo, per giustificare e far metabolizzare una condizione di auto- ed estremo sfruttamento, viene invocata una molteplicità di fattori positivi che sprigionano dal lavoro gratuito. Primo, essere disposti a lavorare gratis significa comunque lavorare: non si rimane disoccupati e si mostra al resto del mondo che non si è disposti a rimanere con le mani in mano. Secondo, ciò darà l'opportunità di aggiungere qualche riga al curriculum e mostrare di avere delle competenze da rivendere. Domani, forse. Peccato che poi arriva sempre un ministro del Lavoro, nel caso specifico Giuliano Polettil, a riportarci alla realtà e a segnalare a questa moltitudine di soggetti che è più proficuo andare a giocare a calcetto piuttosto che stare a casa e spedire curriculum in giro.

Con semplicità Poletti ha dichiarato banalmente una cosa vera: in Italia si cerca e si trova lavoro più per conoscenze e relazioni che attraverso i canali ufficiali, primi tra tutti i centri per l'impiego e le agenzie interinali. Secondo rilevazioni Istat, la pratica più diffusa – oltre l'80% dei casi – per la ricerca di un'occupazione è quella di rivolgersi a parenti, amici o conoscenti. A completare il ragionamento, omesso dal ministro, è che le relazioni sociali non sono aperte ma fortemente legate al contesto di riferimento. Disperati giocheranno a calcetto con altri poveri cristi, i ricchi e i benestanti scambieranno il pallone con altri ricchi e benestanti. Ciò è tanto più vero quanto più è polarizzato il territorio, tra centro e periferia. La responsabilità politica di cui un ministro avrebbe dovuto farsi carico non è la presa di coscienza di un'ovvietà, risaputa, bensì agire concretamente per contrastare questo fenomeno, che è rappresentazione nitida della questione di classe, e quindi di produzione di diseguaglianza. Il lavoro gratuito, nella forma di stage e tirocini, è stato un iter per i laureati – i lavoratori più qualificati – che ambivano a un'occupazione nel settore dei servizi: professionisti del design, del marketing, della contabilità. Un meccanismo che dalle posizioni più qualificate è stato poi adottato e normalizzato a trecentosessanta gradi, a tutti i settori. Paradossalmente – ma anche provocatoriamente – lavoratori più qualificati hanno spalancato le porte allo sfruttamento generalizzato, anche nei settori considerati meno qualificati, nei cantieri, nei ristoranti, nelle officine.

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Pagina 79

La trasversalità con cui l'assalto del capitale contro la dignità del lavoro si esprime non lascia alcun dubbio: non è l'immigrazione che ci impoverisce, è il capitalismo! Basterebbe un sussulto di dignità e prendere coscienza prima di tutto che lavorare gratis fa bene solo alle imprese e a quella visione di mondo che ambisce a sostituire il diritto con il favore, la dignità col merito, il bisogno con il debito.

Livellare verso il basso i diritti e il lavoro non farà altro che aumentare i già inquietanti livelli di povertà in Italia (ma non solo), per tutti quelli che non hanno potere in questo sistema economico. Bisognerà tenerne conto senza distrazioni quando si discute di crescita economica, perché in un contesto simile, nella migliore delle ipotesi, lo sfruttamento di molti produrrà un aumento del reddito nazionale, del Prodotto interno lordo sulle spalle di quella maggioranza che non trarrà alcun beneficio da tale crescita. Quel che viene negato è il progresso sociale. Questo sistema deflattivo che impoverisce il lavoro è direttamente proporzionale alle disuguaglianze, nel lavoro e nella società, che si perpetuano nel tempo e aggrediscono l'intera sfera riproduttiva: dal welfare al consumo.

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Pagina 81

Il merito dell'alternanza scuola-lavoro



«L'Italia esce con le ossa rotte dai dati dell'Ocse diffusi ieri: dati che ci mostrano come gli italiani siano poco 'occupabili', perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro»: così parlò Enrico Giovannini, ministro del Lavoro del governo Letta il 9 ottobre del 2013.

I dati però dicono altro. Secondo quanto riporta il rapporto Noi Italia Istat del 2015, il numero di persone occupate che possiede un titolo di studio superiore a quello maggiormente richiesto per svolgere la propria professione ha continuato a crescere: l'ammontare complessivo nel 2015 è stato pari a 5.298.000 occupati, il 23,6% del totale (era il 23% nel 2014). Ancora una volta, la narrazione politica ignora la realtà e punta dritto verso la progressiva svalutazione del lavoro, ma anche della formazione.

E quindi che si fa? Si tolgono ore di formazione frontale nelle scuole e si obbligano gli studenti delle scuole secondarie superiori a lavorare gratis. C'è chi raccoglie cozze anche se a scuola va all'industriale, chi è iscritto a un liceo classico e fa fotocopie, chi fa le pulizie negli hotel perché studia lingue e sognava di fare l'Erasmus a Volvograd (la vecchia Stalingrado), chi prepara i cocktail in un bar. Poi c'è chi pulisce i giardinetti degli ospedali, rubando il lavoro agli immigrati.

Stiamo parlando dell'alternanza scuola/lavoro — versione 2015 —, «obbligatoria per tutti gli studenti dell'ultimo triennio delle scuole superiori, anche nei licei: una delle innovazioni più significative della legge 107 del 2015 (la 'buona scuola') in linea con il principio della scuola aperta. La scuola deve, infatti, diventare la più efficace politica strutturale a favore della crescita e della formazione di nuove competenze, contro la disoccupazione e il disallineamento tra domanda e offerta nel mercato del lavoro. Per questo, deve aprirsi al territorio, chiedendo alla società di rendere tutti gli studenti protagonisti consapevoli delle scelte per il proprio futuro. [...] L'alternanza favorisce la comunicazione intergenerazionale, pone le basi per uno scambio di esperienze e crescita reciproca. [...] In questa chiave si spiega il monte ore obbligatorio: 400 ore negli istituti tecnici e professionali e 200 ore nei licei che rappresentano un innovativo format didattico rispetto alle tradizionali attività scolastiche e possono essere svolte anche durante la sospensione delle attività didattiche e/o all'estero. Il nostro modello supera la divisione tra percorsi di studio fondati sulla conoscenza ed altri che privilegiano l'esperienza pratica. Conoscenze, abilità pratiche e competenze devono andare insieme». Così viene definita dal Ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca scientifica sul proprio sito dedicato.

Purtroppo non è un brutto sogno, ma la realtà: per combattere la disoccupazione bisogna lavorare gratis. Ma a lavorare gratis ci vanno gli studenti, non i disoccupati. Anzi no, anche i disoccupati, a dire il vero, hanno il diritto di lavorare gratis, coinvolti nei progetti degli enti locali e del Terzo settore.

[...]


Un capitolo dolente, quello della scuola e del suo rapporto con il mondo del lavoro. Fin dalla riforma Berlinguer la scuola, come il resto della Pa, è stata trasformata progressivamente in un percorso funzionale al mercato, dove ogni cosa andava gestita in virtù del valore che avrebbe potuto assumere in termini di mercato: il sapere come capitale umano, la scuola e l'università come un'azienda il cui obiettivo è il pareggio di bilancio, la ricerca come affermazione del merito, brevettabile, capitalizzabile. Tutto questo risponde pienamente all'idea di Stato e di bene pubblico, antitetico alla giustizia sociale e alle possibilità di riscatto, che ci ha restituito il neoliberismo. Afferma Nicos Poulantzas: «Gli apparati statali, tra cui la scuola in quanto apparato ideologico, non creano la divisione in classi, ma vi contribuiscono in tal modo alla sua riproduzione allargata».

La retorica, tutta ideologica, assurta a difesa dello smantellamento dell'istruzione pubblica è stata quella del merito, la stessa che imperversa in tutta la società, in modo sempre più feroce. È l'idea dell'uomo solo al comando della propria vita il quale, dotato di qualche risorsa o opportunità agli inizi della vita o della carriera, è il solo responsabile della propria affermazione. Ciò che conta è esclusivamente il proprio impegno.

Dal quadro ideologico ai fatti. L'Italia è nel 2016 il paese europeo che spende meno in istruzione: il 4,2% del Pil nel 2013 contro una media europea del 5,3% e un massimo della Svezia col 7,3%. Tra il 2008 e il 2013 la spesa è diminuita del 14%, riporta l' Education at a Glance dell'Ocse del 2016. Per ciascuno studente, in Italia si spendono in media 4.300 euro all'anno contro i 6.200 euro della Germania e i 21.000 euro della Norvegia — secondo i dati Eurostat aggiornati al 2014. L'Italia era al penultimo posto – subito prima del Sudafrica — tra i paesi Ocse già nel 2013 per spesa in università (ricerca esclusa) con lo 0,8% del Pil. Per non parlare di quel che accade nel settore della ricerca, che merita un discorso a parte. A questo drammatico disinvestimento, aggravatosi di anno in anno, si aggiungono le riforme della scuola incentrate sul merito, sulla valutazione, ma soprattutto sull'odio verso la conoscenza, il sapere come bene in sé, utile a orientarsi nel mondo, a criticarlo, a sviscerarlo e magari pensarlo diverso.

Il problema allora non è che gli italiani siano poco «occupabili». Il problema è che il 75% degli italiani risulta analfabeta funzionale: non capisce ciò che legge. Ancor più preoccupante è che l'Italia registra un elevato tasso di abbandono scolastico (19,2% nel 2009, sceso di poco, al 17%, nel 2013), associato a un calo delle immatricolazioni all'università.

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Pagina 110

Sul piano generale, il ricorso al welfare aziendale come forma di remunerazione ha a che fare con il ruolo dello Stato e della sua funzione democratica nel definire e soddisfare quei diritti che dovremmo considerare non già di cittadinanza ma proprio universali, quali la casa, la sanità, la pensione, la cura delle persone e l'istruzione, che prescindono dallo status di lavoratore. Da un lato, infatti, in un sistema basato sulla fiscalità generale, cioè sulle tasse versate dai cittadini, principalmente lavoratori, una riduzione del gettito fornisce un assist ai tagli di bilancio per sanità, istruzione, trasporti pubblici, assistenza di vario genere. Dall'altro, delegando la definizione del welfare alle imprese, si compie una vera e propria privatizzazione dello Stato sociale, lasciando, quindi, un diritto di cittadini in balìa dell'arbitrarietà e degli obiettivi delle imprese.

Se il rischio di un welfare sempre più ristretto e insufficiente ricade sull'intera collettività, esclusi dalla protezione sociale saranno proprio coloro che dovrebbero maggiormente beneficiarne, ovvero i soggetti più vulnerabili: precari, occupati e non, giovani in età scolare. Venendo meno l'universalità del welfare si mina il fondamento del diritto alla protezione sociale, che scaturisce dai bisogni di singoli e gruppi. Il bisogno di istruzione, casa, sanità sarà definito domani dall'azienda. In sintesi, si avalla la crescita di povertà e disuguaglianze, rinnegando il principio di sussidiarietà. Un effetto regressivo che si riversa sull'intera società, generalizzando l'iniquità intrinseca della detassazione dei premi di produttività. Questa tendenza al welfare privatizzato non può lasciare i sindacati indifferenti o peggio ancora essere avallata, proprio nel momento in cui sul fronte della contrattazione nel settore pubblico, al livello nazionale e territoriale, ci si batte per il rispetto di diritti minimi in un contesto già ampiamente esternalizzato, su cui è sempre più difficile rivendicare condizioni di lavoro degne, soprattutto per i lavoratori in appalto.

Basta? Alle imprese che acclamano il mercato con la miseria degli altri non basta mai.

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Fedeli alla linea: flessibilità!



Di fronte a tanta devastazione è utile ricapitolare i passaggi storici e le cause di questo processo di impoverimento generalizzato del lavoro. La condizione attuale non è il risultato di uno stato d'eccezione o di un evento naturale e irreversibile, ma è l'effetto di determinate scelte compiute da una élite portatrice di interessi antagonisti rispetto a quelli della maggioranza della popolazione, che per vivere ha ancora bisogno di lavorare e vendere la propria forza lavoro a qualcun altro.

Tra i tanti anniversari con lo zero finale del 2017 va sicuramente ricordato e celebrato il ventennale dall'introduzione del 'pacchetto Treu'. Correva l'anno 1997. Una riforma copernicana per il diritto del lavoro italiano, ma soprattutto l'apripista di una serie quasi bulimica di altre riforme, volte a stravolgere i rapporti di lavoro. Una legge ogni tre anni in media: decreto 368/2001 Sacconi, legge 30/2003 Biagi-Maroni, d.l. 5/2009, legge 148/2011 (la cosiddetta 'manovra di Ferragosto'), legge 92/2012 (la riforma Fornero), legge 78/2014 (decreto Poletti), legge 81/2015 (Jobs Act). E poi decreti, leggi di stabilità, protocolli d'intesa. Tutti ossessionati dalla riforma delle riforme, quella del lavoro. Alla ricerca della riforma perfetta. Ma pur sempre fedeli alla linea: flessibilità!

Per leggere criticamente questo processo bisogna tenere a mente alcuni dati di sintesi del mercato del lavoro italiano. A fine 2016, la forza lavoro è composta da 25.904.185 lavoratori di cui 22.826.836 occupati e 3.077.347 persone in cerca di occupazione, quelli che ufficialmente sono considerati disoccupati. Bisogna aggiungere i 13.468.000 inattivi, cioè persone che non hanno un lavoro e non lo cercano. Il numero di occupati a tempo parziale che vorrebbero lavorare più ore (part-time involontario) coinvolge 2.675.574 persone, cioè il 62% di coloro che hanno un contratto part-time. Il numero di giovani tra i 15 e i 29 anno che non studiano e non lavorano, i cosiddetti Neet, sono 3.323.000, di cui 2.285.000 inattivi. C'è un milione di famiglie in cui tutte le forze lavoro sono in cerca di un'occupazione, secondo l'Istituto nazionale di statistica. E poi ci sono i precari autonomi, la cui quantificazione è piuttosto difficile ma si aggira su qualche milione di lavoratori.

Dalla televisione alle facoltà di economia, dalle colonne dei giornali ai programmi elettorali dei maggiori partiti europei, una schiacciante minoranza al potere ha decantato gli effetti di un mercato del lavoro più flessibile: flessibile di assumere ma soprattutto di licenziare, di sfruttare manodopera gratis, di peggiorare i contratti collettivi nazionali. In nome dell'efficienza e della competitività, motori dello sviluppo e della crescita economica e quindi di un mondo senza l'affanno di tassi crescenti di disoccupazione. Flessibilità come strumento necessario ma non sufficiente per entrare a pieno titolo nella modernità, contro i vincoli imposti al mercato privato nel corso della seconda metà del Novecento. Nella sostanza, serviva una cornice legislativa e istituzionale utile a dotare le imprese di un potere sempre più vasto sulle risorse, sulle scelte produttive, sui fattori di produzione: il capitale e la forza lavoro.

Il fine ultimo è quello di aggredire i salari e tutti i costi sostenuti per i lavoratori.

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Detto altrimenti, la conseguenza politica, relativa al mutamento nei rapporti di forza tra capitale e lavoro, trova la sua rappresentazione plastica nell'andamento della distribuzione del reddito tra salari e profitti – in gergo, la distribuzione funzionale del reddito – che, proprio a partire da fine anni Settanta, registra una caduta della quota di reddito che va ai salari a beneficio della quota profitti. In Italia, la prima diminuisce di 15 punti percentuali tra il 1970 e il 2014, tra il 1990 e il 2007 la variazione è di 5 punti percentuali. Le imprese sono in grado di estrarre maggiore valore per loro stesse sottraendolo ai lavoratori, cioè a coloro che contribuiscono a crearlo. Con termini che a molti possono risultare anacronistici, ma che catturano concettualmente l'oggetto del discorso, queste dinamiche esprimono un incremento dell'estrazione di plusvalore da parte delle imprese sulle spalle dei lavoratori. Come spiegano Matteo Deleidi e Walter Paternesi Meloni, la dinamica della produttività del lavoro – il valore aggiunto per unità di lavoro – è superiore a quella delle retribuzioni reali (al netto dell'inflazione). Ne consegue che il reddito prodotto dalla forza lavoro non ritorna ai lavoratori ma viene regalato ai proprietari delle aziende, a cui i primi vendono il proprio lavoro. I processi di flessibilizzazione, come abbiamo visto, non rilevano soltanto in termini contrattuali, ma partecipano direttamente a questa trasformazione.

Come nota uno studio del Fondo Monetario Internazionale (2015), l'indebolimento del potere dei sindacati e la desindacalizzazione ha un effetto negativo sulle retribuzioni dei lavoratori a medio e basso reddito, mentre aumenta la quota di reddito di cui si appropriano gli azionisti e più in generale i proprietari d'azienda e i manager, spesso retribuiti attraverso partecipazione ai profitti d'impresa. Le riforme strutturali volte alla liberalizzazione del mercato del lavoro inducono quindi una concentrazione delle risorse in favore di coloro che detengono il capitale o le cui retribuzioni ne sono ancorate.

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